“Stando sempre in tv, il 20% è poco”

“La federazione di centrodestra è un arrocco di Salvini. Un segnale di grande difficoltà da parte sua e Berlusconi ci sta cascando con tutte le scarpe”. Filippo Rossi è stato uno dei protagonisti della stagione finiana di Futuro e Libertà. Oggi, con altri, sta lanciando il suo nuovo partito, Buona Destra, che farà il suo debutto, con un’assemblea costituente, il prossimo 21 novembre.

Lei da sempre sogna in Italia una destra liberale, moderata, europeista. Chi sta facendo il boom, però, è Giorgia Meloni. La sorprende?

No. È un successo drogato dalla visibilità garantita dal fatto di essere l’unico partito all’opposizione. Stando sempre in tv, il 20% è pure poco.

Salvini vuole la federazione per evitare il sorpasso?

Non si capisce se ha in mente una federazione o il partito unico, comunque l’intento è quello di non farsi superare ma non solo. Inglobando FI, Salvini vuol dare una mano di vernice europeista alla Lega, che fino a ieri era in piazza coi leader del sovranismo estremista di cui Orban è il più moderato.

A lei Salvini e Meloni non piacciono.

Sono convinto che in Italia si debba superare l’anomalia che vuole la destra riformatrice e liberale alleata con quella sovranista. In tutta Europa non è così. Qui invece, anche a sinistra, si rincorrono a tutti i costi le alleanze strategiche: stare tutti insieme per sconfiggere gli altri.

Se lei fosse in Parlamento, sosterrebbe Draghi?

Certo. Trovo dirimente il fatto che il centrodestra, di fronte alla scelta di sostenere il governo più importante degli ultimi 50 anni, si sia diviso.

Lei avrebbe preferito una maggioranza Ursula?

Sì, ma non è questo il punto. Trovo sbalorditivo che FI, il partito più vicino alle posizioni liberali di Draghi, non rivendichi la sua azione di governo e insegua il carro salviniano.

Berlusconi pensa al Quirinale.

Ma per carità.

Difficile anche trovare candidati sindaci.

Non mi sorprende: quale personalità della società civile si candiderebbe per i populisti?

Enrico Michetti.

Michetti chi?

A Roma chi sosterrà?

Carlo Calenda.

Che effetto le ha fatto la foto del pranzo tra Fini e Storace?

Tenerezza. Hanno fatto la storia della destra italiana e per anni sono stati un duo inseparabile.

La destra delle “Bestie” social: Giorgia azzanna più di Matteo

Non ci sono solo i sondaggi che fotografano un imminente aggancio di Giorgia Meloni su Matteo Salvini. A preoccupare il leader della Lega e la sua “Bestia”, 30 persone che comunicano ogni suo singolo movimento, c’è un’altra competizione in cui il sorpasso della giovane leader di Fratelli d’Italia è già avvenuto, ormai da due mesi: la sfida sui social network. È una guerra sotterranea che non si combatte a colpi di comizi o di voti, ma di mi piace, commenti e di follower. Ma, come spiega Tommaso Longobardi, il giovane trentenne social media manager di Meloni, “il social è un media, e come tutti i media, se usato come si deve genera consenso”.

E allora partiamo dai numeri. Se Salvini continua ad essere il leader con più seguito su Facebook con 5,2 milioni di follower contro i 2,3 di Meloni, negli ultimi tre mesi, che coincidono con la nascita del governo Draghi che ha separato le strade della Lega (al governo) e di Fratelli d’Italia (all’opposizione), si registra una netta inversione di tendenza a favore di Meloni. È lei la leader politica italiana che aumenta di più i propri seguaci: +91.192 (media di 911 al giorno) contro i 53.497 (534) di Salvini. Quasi il doppio. Inoltre, in base ai dati della piattaforma Fanpage Karma, l’engagement, cioè il numero medio di interazioni sui post indipendente dal numero di seguaci, vede la Meloni in vantaggio: 12% contro il 7,3% di Salvini. Stesso discorso per le interazioni per post: 1,5% contro lo 0,7% di Salvini e per l’indice di performance delle due pagine con la leader di Fratelli d’Italia che doppia il segretario del Carroccio 64 a 27%. Tutto questo, nonostante la spesa della struttura comunicativa di Meloni sia inferiore rispetto alla “Bestia” di Salvini: negli ultimi 90 giorni, secondo i dati della Libreria Inserzioni di Facebook, la leader di Fd’I ha speso poco più di 6 mila euro per post sponsorizzati mentre il leghista 7,6 mila.

Questo successo dipende da una strategia comunicativa molto studiata. In primo luogo, Meloni oggi può sfruttare quella che il politologo Fabio Bordignon chiama la “rendita di opposizione”. In un governo con tutti dentro e Fd’I unico partito di opposizione, quasi tutto lo spazio politico che resta fuori dall’esecutivo viene occupato da Meloni. Che infatti sui suoi social non manca di pubblicare post, tweet o foto in cui veicola messaggi contro il governo. Dall’immigrazione al coprifuoco, dai diritti civili ai “pochi” sostegni alle attività economiche, sono questi i temi chiave della comunicazione anti-governativa di Meloni: “La maggioranza è molto litigiosa e riusciamo a sfruttare le fratture per volgerle a nostro vantaggio” spiega Mauro Rotelli, responsabile comunicazione del partito. Inoltre, seppure il modello comunicativo di Meloni sia simile alla “Bestia” salviniana, sfruttando temi di cronaca nera per veicolare la retorica anti-immigrazione, il patriottismo e la difesa del politicamente scorretto, negli ultimi mesi la strategia comunicativa si è basata molto su contenuti nuovi, più “istituzionali”: Meloni pubblica soprattutto i suoi discorsi, le proposte di Fd’I e comizi ben riusciti di esponenti del partito. “Questa strategia ci serve per unire il pop alle proposte di Fd’I e farle conoscere al maggior numero di persone: sono potenziali elettori” conclude Rotelli. Insomma, non più solo pizze tricolori, ciliegie made in Italy o gatti sovrappeso. Quella di Meloni è una “Bestia” gentile con vista su Palazzo Chigi. Ma chi c’è dietro questo successo comunicativo? Rispetto all’agguerrita macchina leghista – la squadra di Luca Morisi che maneggia algoritmi e dati dei motori di ricerca – quella di Meloni è più scarna. I dipendenti sono 7: Longobardi, che gestisce i profili di Meloni e supervisiona il lavoro degli altri, Rotelli, un responsabile per ogni pagina di Fd’I tra Camera, Senato e del partito, e altri due ragazzi che lavorano alla grafica. Tra questi c’è Andrea Moi che è l’esperto delle “card” – le schede che Meloni usa per riprendere a suo vantaggio le dichiarazioni di giornalisti, esperti e intellettuali di destra – e il trentaduenne Alberto Danese.

Il loro lavoro funziona come quello di una piccola redazione: hanno una chat dove si coordinano, seguono le ospitate televisive e gli eventi di Meloni e decidono cosa e come pubblicare dei suoi messaggi sui social. Ognuno avanza delle proposte che vengono accolte o bocciate da Longobardi. Tutto quello che viene pubblicato però passa dal “sì” o dal “no” di Meloni. Il vero guru è Longobardi, laureato in Psicologia nel 2015 quando decise di bruciare la sua tesi di laurea per denunciare “la corruzione, il nepotismo e le raccomandazioni” del sistema italiano e l’assenza di una prospettiva per i giovani. Un grillino ante litteram tant’è che si è formato due anni alla corte di Gianroberto Casaleggio. Poi, nel 2018, Meloni gli chiese di gestire i social durante la campagna elettorale. Oggi è lui a coordinare la piccola “Bestia” di Fd’I conoscendo gli algoritmi fondamentali per una efficace comunicazione sul web: “La chiave che più ha premiato è stata la coerenza politica e di messaggi” dice Longobardi al Fatto. Poi spiega perché è importante dare un volto “pop” anche ai leader politici, ma senza esagerare: “Serve mostrare anche l’aspetto umano della persona – conclude – io credo in un equilibrio tra l’aspetto personale e quello politico, ma quello personale è una piccola percentuale a margine dell’attività politica”. Non ditelo a Salvini.

Biden: “Gli Usa sono tornati” Giallo sul bilaterale con Draghi

Mostrare al mondo che “gli Usa sono tornati” alleati e affidabili: è questo il risultato che Joe Biden a Carbis Bay, in Cornovaglia, al Vertice del G7, voleva ottenere e ha ottenuto. Come dimostrano non solo gli incontri, ma anche la loro presentazione. Nel punto stampa degli americani di ieri, si parla di un unico bilaterale: quello di mercoledì con Vladimir Putin. Mentre c’è già stato quello con il padrone di casa, Boris Johnson, e si staglia all’orizzonte, a luglio, una visita della Cancelliera, Angela Merkel alla Casa Bianca. Privilegia gli incontri più spinosi, Biden. Tanto è vero che nell’agenda dello staff della delegazione americana di ieri si parla di un “bilaterale” con Emmanuel Macron e di un “pull aside” con Mario Draghi. Quest’ultimo, nel linguaggio diplomatico, un incontro meno strutturato. Secondo fonti europee anche con Draghi risultava un “bilaterale”, almeno fino a qualche giorno fa. Come noto, le agende dei vertici sono in movimento, tanto che ieri Biden incontra Macron, al mattino, la Merkel, a metà giornata, e Draghi, in serata. Visto l’atlantismo addirittura sfacciato del premier italiano, il colloquio con Draghi è meno funzionale per la Casa Bianca di quello con Macron: la Francia è un dossier più complesso. E con la Germania le divergenze sono svariate.

L’incontro con Draghi, che avviene in una sorta di gazebo sulla spiaggia, dura mezz’ora: non serve più tempo, per un rapporto tanto liscio da far commentare a Draghi “piena sintonia”. Al centro il Mediterraneo, dal Nord Africa al Medio Oriente. Gli Usa chiedono all’Italia di avere una presenza maggiore in tutta l’area, che però non è accompagnata da un loro disimpegno, come in passato, ma da una rinnovata consapevolezza dell’importanza della zona. Draghi a Biden chiede una sorta di “delega”. Per l’Italia il primato in quella parte di mondo è essenziale, ed è proprio la Francia pronta a contenderlo.

La seconda giornata del G7, all’insegna della ‘ricostruzione post Covid’, si articola in tre sessioni: flessibilità, politica estera, sanità e vaccini. I Grandi lanciano un piano globale di contrasto alle pandemie, che prevede, fra l’altro, la riduzione da 300 a 100 giorni dei tempi di ricerca e sviluppo d’un vaccino, oltre alla donazione di un miliardo di vaccini. Johnson dà enfasi storica a questo programma, che coinvolge Onu, Oms, Australia, Corea del Sud, India e Sud Africa. Il tema che divide è la Cina. Biden, cui il Congresso sta dando un bazooka di misure anti-Pechino, fa squadra con Johnson e il premier canadese Justin Trudeau, per arginare l’espansionismo cinese, commerciale ed economico, ma anche militare e politico. L’Ue è più cauta e valorizza potenziali aree di cooperazione. Gli europei non sono coesi. Il nodo non riguarda tanto la minaccia cinese, percepita da tutti, con toni diversi, ma come farvi fronte. Fra le ipotesi, c’è la creazione di una task force che la Merkel vorrebbe centrata sulle questioni commerciali e sulla cooperazione nella lotta al cambiamento climatico.

BOris sfida l’Ue sui confini nordirlandesi

La Brexit non finisce mai. Nella seconda giornata del summit in Cornovaglia, il premier inglese Boris Johnson sottolinea la distanza con l’Europa sulla questione del confine nordirlandese. In un’intervista ha detto di essere pronto a tutto (“whatever it takes”) per mantenere “la sovranità e l’integrità terrioriale del Regno Unito”. Anche a sospendere il protocollo sull’Irlanda del Nord

Briatore frigna e dimentica le accuse al suo fiscalista

Dopo una vicenda lunga undici anni la Corte di Cassazione ha annullato per la seconda volta la confisca del “Force Blue”, lo yacht di Flavio Briatore, al centro di un’inchiesta giudiziaria per un’evasione fiscale milionaria. Ma lo Stato, nel frattempo, ha già venduto la barca. Un’asta che per la Suprema Corte non andava effettuata prima della pronuncia definitiva.

In un’intervista al Corriere della Sera, Briatore nell’ordine: “cita Bertold Brecht” (“c’è un giudice a Berlino”); dà addosso a chi lo aveva condannato, cioè i magistrati di Genova, “i miei avvocati nella loro lunga esperienza hanno rara memoria” di due condanne d’appello annullate (lo assiste un plotone di sei legali, tra i migliori in Italia); infine lamenta “un danno enorme per me o per lo Stato” (perché lo yacht varrebbe 20 milioni ed è stato comprato dal suo amico Bernie Ecclestone a 7 milioni; incasso che, in caso, di conferma della decisione della Cassazione, finirebbe in tasca a Briatore); a questo si aggiungono danni inquantificabili (per ora) dovuti allo stigma “dell’evasore fiscale”, e al fatto che a seguito di questa storia “nessuno mi ha più dato un mutuo”. Immancabile finale: “C’è bisogno di una riforma della giustizia in Italia”, evitata dagli investitori perché “terrorizzati dalla lentezza e dall’incertezza della giustizia”. Briatore si descrive insomma come una vittima del sistema, ma sembra avere un’amnesia (lui dimentica, nell’intervista non gli viene ricordato). Nel racconto del calvario manca infatti un colpo di scena eclatante: nel 2018, cioè poco prima della seconda sentenza d’appello sul caso “Force Blue”, il suo commercialista Andrea Parolini viene arrestato per aver provato a corrompere il direttore provinciale dell’Agenzia delle Entrate di Genova, Walter Pardini, funzionario pubblico che si dilettava investendo in resort in Kenya, già condannato per corruzione in un’altra vicenda. L’obiettivo della mazzetta, “l’offerta indecente”, sarebbe stato un parere con cui l’Agenzia delle Entrate aderiva sostanzialmente all’interpretazione dei difensori di Briatore, un pronunciamento “finalizzato a fuorviare il giudice penale”. In parallelo Briatore restituisce al Fisco 3,6 milioni di euro.

il sequestro del “Force Blue” risale al 2010. Tutta la vicenda ruota intorno alla natura della Autumn Sailing, società offshore proprietaria dell’imbarcazione, riconducibile a trust esteri dello stesso Briatore. Per la Guardia di Finanza si tratta di una finta società di chartering, che in realtà serve al vero utilizzatore per aggirare 4 milioni di euro di accise sul carburante. La difesa sostiene il contrario. Ma perché lo yacht è stato venduto prima della decisione definitiva? Flavio nell’intervista non se lo sa spiegare. Una ragione, forse discutibile ma legale, i giudici la danno nel provvedimento: la sua gestione era diventata così cara da provocare un danno allo Stato che non sarebbe stato compensato dalla vendita.

“Sottratti file al Parlamento”. Indagato l’ex br Persichetti

Associazione sovversiva finalizzata al terrorismo e favoreggiamento. Tornano a manifestarsi i fantasmi del passato per Paolo Persichetti (sopra in una immagine del 2002), ex brigatista, oggi storico e ricercatore. La Procura di Roma, infatti, ha deciso di aprire un fascicolo d’indagine a suo carico in relazione al sequestro e all’omicidio di Aldo Moro, nel 1978. Per l’accusa, infatti, Persichetti si sarebbe impossessato di documenti definiti “riservati”, parte di un dossier in capo alla Commissione parlamentare d’inchiesta che lavora sul caso dell’omicidio dell’ex presidente del Consiglio. L’ex terrorista è stato oggetto di una perquisizione domiciliare l’8 giugno scorso da parte degli agenti della Digos di Roma, cui sono state delegate le indagini. Al momento, non risultano esserci altri indagati. “La ricerca storica in uno Stato democratico e repubblicano non deve e non può essere un affare di polizia”, ha detto l’avvocato Francesco Romeo, legale di Persichetti. All’AdnKronos, inoltre, Persichetti ha spiegato che il materiale da lui esaminato sarebbe pubblico e prima del sequestro stava lavorando a un articolo da proporre ai quotidiani e alle riviste con cui collabora. Negli anni 80 l’indagato ha militato nelle Brigate Rosse-Unione dei Comunisti combattenti. Per anni ha vissuto in Francia da dove è stato estradato nel 2002. Nei suoi confronti è stata emessa sentenza di condanna a 22 anni per l’accusa di concorso morale nell’omicidio del generale Licio Giorgieri. È stato scarcerato definitivamente nel 2014. Secondo le nuove accuse l’ex brigatista farebbe parte di una associazione sovversiva attiva dal 2015. “Mi sono state sottratte le tonnellate di appunti, schemi, note e materiali con i quali stavo preparando diversi libri e progetti – ha detto ancora Persichetti – Quel che è avvenuto è dunque una intimidazione gravissima che deve allertare tutti in questo Paese, in modo particolare chi lavora nella ricerca, chi si occupa e ama la storia”.

Gli alloggi delle donne di ‘Lucha Y Siesta’ già in vendita: le foto sui siti immobiliari

Lavandini in marmo, parquet nuovissimo, addirittura un camino: sono le foto che lo Studio Arch. Progetti propone su due noti siti immobiliari e che riguardano immobili di lusso siti in Via Lucio Sestio 10 a Roma. Gli appartamenti sono nove, di diverse metrature, si possono visionare le planimetrie e il prezzo è già stabilito: 2.700 euro al metro quadro. Ci sono anche le foto degli esterni, ad esempio quella di un cancello di entrata accanto a cui, probabilmente con un tocco di photoshop, compare il logo dello studio. Peccato che in moltissimi hanno riconosciuto quel villino circondato da alberi: è la Casa della Donne “Lucha Y Siesta”, ancora operativa e al cui interno non ci sono né marmi né camini. Il motivo è presto spiegato e ha dell’incredibile: lo Studio Arch. Progetti è specializzato in immobili messi in vendita in aste pubbliche. Mentre gli annunci su “Idealista” (portale immobiliare che ha rimosso temporaneamente l’annuncio, salvo poi rimetterlo) e su “Immobiliare.it” restavano piuttosto confusi – si parlava di una presunta “Costituenda Cooperativa Edilizia Roma Sette” a cui unirsi – nella brochure mandata agli interessati le cose si fanno più chiare: lo studio raccoglie adesioni per acquistare l’immobile, messo in vendita dal comune di Roma con la procedura esecutiva 89/2017. Le operatrici della Casa delle Donne parlano di “foto ingannevoli” che non specificano che l’edificio è da tredici anni un bene comune. “Sono mera speculazione su un immobile che produce valore sociale, culturale ed economico, che contrasta in ogni modo la violenza di genere”, spiega Simona Ammerata della Casa delle Donne. “E per questo abbiamo chiesto alla comunità che ci sostiene di segnalare questi annunci come incompleti perché in via Lucio Sestio 10 c’è una Casa delle Donne”. Di proprietà dell’Atac, la Casa è stata messa all’asta dal Comune di Roma, nonostante le proteste delle associazioni impegnate contro la violenza di genere e l’appoggio del mondo della cultura. In seguito alle polemiche, la Regione Lazio si è offerta di acquistarlo, ma l’asta non è ancora conclusa. Troppo basso il prezzo dell’offerta? Di sicuro, nessuna agevolazione sembra concessa a questo centro che in tanti anni ha accolto e assistito donne in fuga dalla violenza e messo in campo innumerevoli iniziative culturali e sociali. Centro che rischia di diventare uno slot di appartamenti con tanto di marmi e camino, cancellando la storia di una comunità. Comunità che, tuttavia, non sembra disposta a perdere un bene così prezioso, tanto meno per lasciare spazio al lusso di pochi.

Migliaia di No Tav marciano in Val di Susa: “Basta cantieri per drenare fondi pubblici”

Hanno marciato in migliaia di persone, tra cui sindaci della Val di Susa e attivisti storici del movimento No Tav come Alberto Perino e Nicoletta Dosio, al corteo da Bussoleno fino a San Didero, per protestare contro il nuovo autoporto dell’A32, che sorgerà a margine dei lavori della Torino-Lione. Tanti anche i giovani provenienti da altre zone d’Italia. Nel corso degli interventi è stata ricordata più volte la portavoce del Movimento, Dana Lauriola, agli arresti domiciliari per una condanna definitiva a due anni. “È assurdo che nel bel mezzo di una crisi epocale – accusa il movimento No Tav – con una sanità al collasso, si sia voluto aprire l’ennesimo cantiere (quello di San Didero) per drenare fondi pubblici a fronte degli 0 km costruiti ad oggi della linea Tav Torino – Lione. È ora di tornare a far sentire la nostra voce, quella di un popolo contrario alla distruzione di un’intera Valle, del suo ecosistema, della natura e delle nostre scarse finanze, è importante portare di nuovo al centro dell’attenzione le vere necessità della popolazione e dei territori: sanità, istruzione, reddito, cura dei territori”.

Il “comportamento anti-sindacale” di Edizioni Paoline

Un tratto di penna e per i magazzinieri della casa editrice cattolica Diffusione San Paolo è scomparso il contratto collettivo della Confcommercio, firmato con Cgil, Cisl e Uil, ed è apparso quello sottoscritto dalla Cisal, sindacato senza rappresentatività in azienda: un testo con condizioni peggiorative sul piano delle retribuzioni orarie e altri aspetti come ferie e malattia. Contestualmente la società delle famose Edizioni paoline, per “convincere” i dipendenti ad accettare il cambio, propone un accordo che evita il trasferimento da Roma a Cinisello Balsamo (Milano). Succede questo nel Paese che, 73 anni dopo l’arrivo della Costituzione, non ha ancora approvato una legge che misuri il livello di rappresentanza dei sindacati. Il Tribunale di Asti però, pochi giorni fa, ha condannato per “condotta antisindacale” la Diffusione San Paolo obbligandola a ripristinare il contratto di Confcommercio: accolto il ricorso presentato, per la Filcams Cgil, dai legali Bidetti, Conti e De Marchis.

A marzo del 2019, l’impresa aveva comunicato ai lavoratori il passaggio al contratto Cisal, tradendo l’impegno assunto al ministero del Lavoro nel 2018, durante le trattative per la cassa integrazione: in quell’occasione Diffusione San Paolo assicurò l’applicazione del contratto Confcommercio. Dopo aver scritto ai dipendenti, la società ha anche spinto alcuni addetti ad approvare la modifica di contratto per ottenere, in cambio, la revoca del trasferimento in Lombardia, disposto poco prima. L’impresa ha spiegato di aver assunto la decisione “per migliorare l’organizzazione aziendale” e di aver “mantenuto le stesse retribuzioni lorde annue”. Quando si parla di leggi sul salario minimo o la rappresentatività sindacale lo si fa proprio per contrastare questo tipo di pratiche di dumping contrattuale. In Parlamento sono varie le proposte su questi due temi, ma il governo non sembra disposto a sostenerle.

Il sindaco indagato toglie il permesso al suo denunciante

A Portigliola, un comune in provincia di Reggio Calabria, gli avvisi di garanzia emessi dalla Procura della Repubblica di Locri sono carta straccia davanti agli atti firmati dai dirigenti indagati. Non si spiega in altro modo l’ultimo bando sull’assegnazione delle concessioni demaniali marittime pubblicato sull’albo pretorio del Comune travolto appena 10 giorni fa da un’inchiesta dei carabinieri in cui sono indagati per abuso d’ufficio il sindaco Rocco Luglio, il responsabile dell’area tecnico-manutentiva del Comune Domenico Antonio Principato, il responsabile dell’area amministrativa Antonio Marra e il segretario generale del Comune Mario Ientile. Tutti quanti, infatti, secondo gli investigatori hanno posto in essere reiterati comportamenti illeciti finalizzati a far decadere la concessione demaniale assegnata al lido “Loa Beach” gestito da Giuseppe Longo, un ragazzo di 36 anni che ha deciso a fatica di restare in Calabria. In sostanza, dall’estate 2020 il sindaco e i suoi collaboratori avrebbero preso di mira l’unico lido di Portigliola, procurando a Giuseppe Longo e alla sua famiglia “un danno ingiusto, – scrive il pm Marzia Currao – consistito dapprima nella sospensione delle attività commerciali dello stabilimento e successivamente nell’interruzione di ogni attività fino alla perdita di validità delle concessioni demaniali che venivano rimesse a bando con delibera alla quale non veniva data la dovuta pubblicità”. Il tutto “in assenza dei presupposti” e, secondo la Procura, in barba alle procedure del Testo unico degli enti locali. Disperato, Giuseppe Longo ha presentato una denuncia. Le indagini si sono chiuse il 28 maggio gli avvisi di garanzia sono stati notificati al sindaco Luglio e agli altri indagati. Dopo 13 giorni, sul sito del Comune compare una determina, firmata dagli indagati, per il rilascio delle concessioni demaniali marittime tra cui quella già assegnata al lido “Loa Beach”. Con buona pace della Procura di Locri.

E il presidente gira ai lombardi il buco dell’autostrada Cremona-Mantova

La nuova autostrada Cremona-Mantova ancora non c’è ma pare già valere oro. Mercoledì scorso il presidente lombardo Attilio Fontana ha annunciato l’intenzione della Regione di revocare l’affidamento alla concessionaria Stradivaria “compensandola per le spese sostenute”. La società mista, incaricata il 3 dicembre 2007 con un contratto di 46 anni, dovrebbe completare l’opera nel 2026 ma sinora non ha realizzato un solo metro. Le stime sul traffico sono state presentate solo a luglio 2019, il progetto con il piano finanziario appena il 28 agosto scorso.

Già a marzo si vociferava che il Pirellone volesse “indennizzare” Stradivaria con 20 milioni. Ma ora il presidente della concessionaria Carlo Vezzini afferma che i costi sostenuti sono pari a 25 milioni. Nessun operatore pare voler subentrare, ma la Cremona-Mantova è sostenuta da un fronte di interessi composito e giudicata “prioritaria” da Aria, l’Azienda regionale per l’innovazione. Così la giunta lombarda, che ha già stanziato 109,8 milioni, potrebbe accollarsi tutti gli oneri di realizzazione stimati in 883 milioni per 66,3 chilometri.

Nonostante il tracciato abbia un “buco” di 8 chilometri che dovrebbero essere realizzati da Tibre, il collegamento Tirreno-Brennero tra Parma e Verona che però il ministero dei Trasporti non ha inserito nell’elenco delle opere fondamentali, iniziano a fioccare i cambi di destinazione dei terreni prossimi al percorso. Alcuni Comuni hanno già concesso la trasformazione di 30 ettari di aree agricole in una mega concentrazione di logistiche e capannoni. Ma comitati e alcune associazioni di categoria, come la Confagricoltura di Mantova, sono contrarie.

In tre lettere inviate a Stradivaria, Maria Grazia Bonfante, consigliere comunale ed ex sindaco di Vescovato (Cremona), chiede informazioni e sottolinea il rischio di bissare i disastri della Brebemi, la nuova autostrada Brescia-Bergamo-Milano costruita per l’Expo, che secondo il sostituto procuratore antimafia Roberto Pennisi fu realizzata con “l’unico scopo di interrare rifiuti”. Il 30 novembre 2011 proprio la scoperta di scorie di fonderia sotto la BreBeMi portò ad alcuni arresti, tra i quali quello dell’allora vicepresidente della Lombardia Franco Nicoli Cristiani (Pdl), che nel 2014 patteggiò 2 anni per una tangente da 100 mila euro. Nell’azionariato di Stradivaria, insieme ad Autostrade Centro Padane (che ha oltre il 59%) e a CoopSette, finita in liquidazione nell’ottobre 2015, con il 12% c’è Profacta, spa del gruppo bresciano Faustini attivo nelle cave, discariche e costruzioni stradali. Profacta era titolare di una discarica da 80mila metri cubi di amianto autorizzata nel 2009, sequestrata nel 2012 e oggetto di rinuncia nel 2015.

Sull’opera, da anni i consiglieri regionali M5S Andrea Fiasconaro e Marco Degli Angeli presentano interrogazioni alla giunta lombarda. Secondo Fiasconaro “Fontana fa di tutto per tenere in vita un progetto insostenibile, in modo da liquidare con fondi pubblici Stradivaria e accollare alla Lombardia la realizzazione dell’autostrada. Perché piuttosto non riqualifica la statale Mantova-Cremona?”. Gli fa eco Degli Angeli: “È surreale che il governatore annunci liquidazioni milionarie a chi non è in grado di realizzare gli impegni su un progetto di autostrada con 8 chilometri di buco in mezzo. Perché non fa scattare la decadenza gratuita prevista dalla convenzione?”.

Nel bilancio 2019 di Stradivaria, a fronte di 20 milioni di capitale e perdite per 3,5, le immobilizzazioni valevano 15,2 milioni, 4 dei quali per i terreni e il “campo base” e 9,5 per il progetto e i piani finanziari. Insomma, i soci potrebbero guadagnare grazie al rimborso di 25 milioni.

È ciò che è riuscito a Sarc, società di Vito Bonsignore e altri soci fondata nel 2014 che ad agosto 2020 ha venduto per 36 milioni all’Anas il progetto dell’autostrada Ragusa-Catania. Ora Ilia Or-Me, altra società dei Bonsignore, chiede 180 milioni per vendere al concessionario pubblico il progetto della Orte–Mestre. Il nuovo business delle autostrade, più che costruirle e gestirle, pare dunque quello di vendere a peso d’oro progetti faraonici.