Il Pio Albergo Trivulzio comprò i camici del cognato di Fontana

La società Dama Spa, di proprietà di Roberta e Andrea Dini, moglie e cognato del governatore Attilio Fontana, ha ricevuto a maggio 2020 un pagamento da 48.312 euro dal Pio Albergo Trivulzio di Milano per la fornitura di 6.600 camici monouso. A dimostrarlo, la fattura numero 11.578 emessa dall’istituto in data 28 maggio 2020, a saldo di un ordine di acquisto partito il 6 maggio 2020, su proposta dell’Area Alberghiero Economale del Pat. Si tratta della prima fornitura conclusa con un pagamento da parte di un ente pubblico lombardo all’azienda di famiglia del governatore.

La fattura della quale il Fatto è in possesso è un nuovo tassello nella vicenda degli affidamenti conferiti a Dama sia dall’Agenzia di acquisti regionale Aria, sia dallo stesso Trivulzio. Si tratta infatti di un filone diverso rispetto all’appalto concesso da Aria senza gara per i famosi 75mila camici per 513mila euro (fornitura onorata solo in parte e trasformata in donazione), per il quale sono indagati il presidente Fontana, il cognato Dini e l’ex Dg di Aria Filippo Bongiovanni, accusati a vario titolo di turbata libertà nella scelta del contraente e di frode in pubbliche forniture (contestata a Fontana). Questo filone riguarda infatti rapporti commerciali tra Dama e la Baggina e gli eventuali profili di conflitto di interessi, visto che i vertici del Pat sono nominati da Pirellone e Comune.

Il Fatto aveva già svelato ad agosto scorso come il Pat il 27 aprile 2020 avesse aperto una procedura negoziata in regime di urgenza per la fornitura di 224mila camici per un valore di 1,5 milioni di euro. E aveva anche raccontato di come Dama avesse recapitato la sua offerta 4 minuti dopo la chiusura della gara e, infine, di come la procedura fosse stata revocata dal Pat il 3 giugno, ufficialmente perché era venuto meno il regime di urgenza visto che la Regione si era impegnata a fornire i camici. Già allora aveva colpito la coincidenza che si trattasse del periodo in cui i cronisti di Report avevano iniziato a fare domande a Dini e Fontana sui 75mila camici di Aria.

È in quei due mesi che si inserisce la fornitura dei 6.600 camici per 48.312 euro. Un “antipasto leggero” del piatto forte (l’appalto da 1,5 milioni): decisa in regime d’urgenza, la data di apertura della procedura è il 30 aprile, l’ordine di acquisto del 6 maggio, il saldo del 28 maggio. Tutto in velocità. E quei 50 mila euro sono stati una boccata d’ossigeno per la Dama che, come appurato dalla Procura, prevedeva di azzerare il fatturato 2020 causa Covid.

I vertici del Pat non hanno voluto commentare. Così come si sono rifiutati di fornire i documenti al consigliere M5S Marco Fumagalli che aveva presentato accesso agli atti, sostenendo che il Pat non è soggetto al controllo dei consiglieri “non essendo ente regionale ovvero partecipato dalla Regione”. Però si dicevano “a completa disposizione dell’assessorato della Giunta regionale competente per ogni necessità o elemento informativo ritenuto utile”. Tradotto: se volete informazioni sugli appalti dati alla famiglia Fontana, chiedete al suo assessore.

Ass. Coscioni: “Adesso i dati”. E su change.org “Figliuolo out”

“Accogliamo con soddisfazione la notizia che il Ministro Speranza ha dato indicazione perentoria a non effettuare il vaccino AstraZeneca sotto i 60 anni”. Così Valeria Poli, dell’Associazione Luca Coscioni e presidente Società Italiana di Biofisica e Biologia Molecolare, firmataria – insieme a numerosi scienziati e accademici – della lettera che giorni fa ha aperto il dibattito sull’opportunità di AZ per i giovani: “Ora – prosegue Poli – aspettiamo i dati sui vaccini sulle somministrazioni suddivise per fasce di età e sesso, e sul numero ed esito dei casi di trombosi indotta da vaccino registrati finora”.

Intanto, su change.org è apparsa una petizione per chiedere le dimissioni del generale Figliuolo: “Non c’è decisione – scrivono i promotori – che possa essere presa senza l’autorizzazione del Commissario Straordinario. La scelta di mettere a rischio la popolazione più giovane rivela una spregiudicatezza dovuta alla propaganda e una noncuranza dei possibili effetti nefasti della stessa, in nome di una corsa ai numeri e ai risultati a tutti i costi, nonostante – concludono – le indicazioni del Ministero della Salute, Ema e Aifa”.

Rischiamo 40-60 mila dosi in meno al giorno

Giovanni Rezza, il direttore della Prevenzione del ministero della Salute, ha firmato la circolare che ha impresso la nuova giravolta alla somministrazione AstraZeneca (agli under 60 il richiamo dovrà essere fatto con Pfizer BioNTech o con Moderna) nella notte tra venerdì e sabato. E ieri mattina in molte Regioni c’è stato il caos. In Lombardia l’assessore al Welfare Letizia Moratti ha deciso di sospendere precauzionalmente AZ in attesa di un parere scientifico di Aifa, l’agenzia nazionale del farmaco. Poi, quando il ministro alla Salute Speranza le ha spiegato che il parere era già nella relazione allegata alla circolare, ha fatto dietrofront. Nel frattempo, però, ore di grande confusione. Anche perché tanti lombardi prenotati ieri per la vaccinazione si erano già presentati e non era stato possibile avvertire nessuno. Secondo la stima che circola, in Italia circa 900 mila persone dovranno cambiare vaccino. Una situazione che rischia di costare dalle 40 alle 60 mila dosi in meno al giorno.

In Lombardia sono 185 mila quelli che hanno fatto la prima dose di Vaxzevria e che ora dovranno essere riprogrammati con i vaccini a mRna. Da lunedì si riparte, dicono dalla Regione. A Roma, nell’hub all’interno della Nuvola di Fuksas, code e proteste. Alcune persone sotto i 60 anni insistevano per fare il richiamo comunque con Vaxzevria. La Sardegna (che deve riprogrammare 118 mila richiami) ha posticipato le somministrazioni già prenotate per tutti gli under 60, comprese quelle dell’altro vaccino a vettore virale, Johnson&Johnson. In Toscana il governatore Eugenio Giani ha convocato una riunione straordinaria per domattina. Nel frattempo ha temporaneamente sospeso sul portale la funzione di modifica della prenotazione della seconda dose. Ma il problema vero ora è la disponibilità di dosi Pfizer e Moderna. E la necessità, da parte della struttura commissariale del generale Figliuolo, di assicurare una efficace rimodulazione del piano.

In Campania, dove dovranno essere garantiti 98 mila richiami, i collaboratori del presidente De Luca dicono che tutto sarà ripianificato da domani. Ma le scorte di Pfizer e Moderna basteranno per due o tre giorni e non di più. La stessa questione è sollevata dalla Sicilia di Nello Musumeci. Qui gli under 60 che devono fare la vaccinazione eterologa sono oltre 46 mila. Tutto è pronto per riprogrammare ma dipende dalle scorte di vaccini a Rna messaggero. “Il problema non si pone solo se le consegne di Pfizer e Moderna saranno regolari”, spiegano dallo staff di Musumeci.

Non dovrebbe incontrare grosse difficoltà la Puglia, che non ha molti richiami da assicurare: sono 37 mila. Anche l’Emilia-Romagna non ha grandi numeri: circa 38 mila coloro che, dopo la prima dose con Vaxzevria, dovranno fare altri vaccini.

Il Piemonte ha contato quasi 50 mila persone per le quali tutto dovrà essere rivisto. Anche qui ieri in molti hub c’è stata confusione. Nel week end erano in programma 3.700 seconde dosi. Qualcuno ha potuto ricevere subito Pfizer o Moderna. Tanti sono stati rimandati indietro: dovranno prenotare di nuovo.

Scoppia il caso J&J: mezzo Cts per lo stop. “Ora è un pasticcio”

Buona parte del Comitato tecnico scientifico, tra mercoledì e venerdì, era per limitare a chi ha almeno 60 anni anche il vaccino Janssen (Johnson & Johnson), l’altro vaccino a vettore virale, e non solo Vaxzevria (AstraZeneca). Si è espresso così anche Giorgio Palù, virologo di fama internazionale e presidente di Aifa, l’agenzia del farmaco. E sulle stesse posizioni c’erano Gianni Rezza del ministero della Salute, l’immunologo Sergio Abrignani, il direttore dello Spallanzani Giuseppe Ippolito e altri. C’è stata qualche tensione. Poi però nel parere trasmesso al ministero, che nella notte tra venerdì e sabato ha preparato la circolare che ha escluso AstraZeneca per gli under 60, è uscito un passaggio meno netto su J&J, voluto dal coordinatore Franco Locatelli che presiede anche il Consiglio superiore di Sanità e gode più di tutti della fiducia di Mario Draghi. “Un pasticcio”, convengono, dietro le quinte, diversi membri del Cts. Come spesso avviene, la politica si è nascosta dietro la scienza.

Dopo aver ricordato i dati Usa sulle trombosi rare – 7 eventi per milione nelle donne fra 18 e 49 anni e 0,9 per milione tra le donne di età pari o superiore a 50 anni – il Cts scrive: “Pur tenendo conto delle analogie esistenti tra il vaccino Vaxzevria e il vaccino Janssen, per quanto riguarda sia le piattaforme che la tipologia di eventi tromboembolici riportati nella letteratura, lo stato attuale delle conoscenze (che fanno propendere per un rischio associato all’adenovirus), il numero di poco superiore al milione di dosi a oggi somministrate nel Paese e la rarità, anche in ambito europeo, delle segnalazioni di Vitt (acronimo inglese che sta per trombosi trombocitopeniche indotte da vaccino, ndr) a oggi disponibili, non permettono di trarre valutazioni conclusive rispetto al rapporto beneficio/rischio relativo al vaccino Jansen”. Che tuttavia, ribadisce il Cts, “viene raccomandato, anche alla luce di quanto definito da Aifa, per soggetti di età superiore ai 60 anni”. Il comitato promette nuove valutazioni e intanto invita al “monitoraggio” degli eventi avversi, in particolare delle Vitt, che certamente si farà anche se in Italia – a differenza di Usa, Regno Unito e altri Paesi – è difficile ottenere i dati completi per sesso, fasce d’età e tipo di vaccino somministrato.

Così le Regioni fanno da sole, cioè prendono sul serio la “raccomandazione” su J&J. Che del resto c’era già, come per AstraZeneca, ma è stata sacrificata all’obiettivo di accelerare e di smaltire le dosi in eccesso di Az anche con gli Astra Day dai 18 anni in su che sono poi finiti nell’occhio del ciclone. Il Cts li aveva autorizzati il 12 maggio scorso e nel parere di venerdì afferma che le cose sono cambiate con la drastica riduzione nella circolazione del virus, da circa 130 a 25 nuovi casi alla settimana oltre centomila abitanti; alla Salute sottolineano che quell’autorizzazione non è mai passata da lì.

Ieri il Piemonte e la Puglia hanno fatto sapere che non vaccineranno gli under 60 neppure con J&J. Altre Regioni ci stanno riflettendo. Federfarma darà domani indicazioni alle farmacie, previo confronto con la Regione Lazio: anche i farmacisti potrebbero escludere gli under 60 dal vaccino Janssen. Un rallentamento della campagna vaccinale ci sarà senz’altro, al di là dell’ottimismo confermato in tutte le sedi dal generale Figliuolo.

La circolare di venerdì sera, firmata da Rezza quale direttore della Prevenzione, è di mezza pagina: “Il vaccino Vaxzevria viene somministrato solo a persone di età uguale o superiore ai 60 anni (ciclo completo). Per persone che hanno ricevuto la prima dose di tale vaccino e sono al di sotto dei 60 anni di età, il ciclo deve essere completato con una seconda dose di vaccino a mRna (Comirnaty e cioè Pfizer/Biontech o Moderna, ndr), da somministrare ad una distanza di 8-12 settimane dalla prima dose”. Vaccinazione “eterologa”, prima un vaccino e poi un altro. Lo stesso Cts riconosce che non ci sono studi validati dalle agenzie regolatorie di Usa e Ue, questa soluzione è stata autorizzata in Canada e in Finlandia. Alcuni scienziati, tra cui il microbiologo di Padova Andrea Crisanti, sono perplessi: “Nessuno lo può dire – ha osservato Crisanti – se il mix sia sicuro. Magari funziona, magari ha dei problemi. Dovrebbero pronunciarsi gli enti regolatori e tutti gli altri dovrebbero fare un passo indietro. Senza i dati non ci si vaccina”. Alla circolare, quasi a prendere le distanze dal pasticcio, è allegato tutto il verbale del Cts. Compresa l’ultima raccomandazione alle Regioni: “Ogniqualvolta promuovano eventi Open Day che sensibilizzano alla vaccinazione anti-Sars-CoV-2, rispettino le indicazioni per fasce d’età, rendendo quanto più possibile l’approccio alla vaccinazione omogeneo sul territorio nazionale”.

Morto un 54enne. E al centralino “eventi avversi” non sanno che dire

Il malore in casa, l’ischemia, la corsa in ospedale, l’operazione per asportare un trombo, la terapia intensiva e la morte, 12 giorni dopo la prima dose di AstraZeneca. Cronologia di un calvario su cui indaga la Procura di Brescia che vuole capire se la trombosi fatale che ha colpito il 54enne Gianluca Masserdotti sia direttamente collegata al vaccino: “Non c’è altra spiegazione. I medici che hanno visto le tac non hanno dubbi sulla correlazione tra AstraZeneca e la morte” racconta la compagna dell’uomo, padre di due figli di 20 e 26 anni. “Papà stava bene. Non riesco a crederci” è il pensiero del figlio minore. “Vogliamo sapere cosa è successo, perché ha ricevuto AstraZeneca nonostante l’età inferiore ai 60 anni e se poteva essere evitata questa fine. Credo che sia giusto chiedere spiegazioni” aggiunge la sorella. “Era uno sportivo, sano, non soffriva di alcuna patologia”, racconta la fidanzata. Dal giorno del vaccino alla mattina del malore sono trascorsi otto giorni, ma già dopo sei erano comparsi i primi sintomi. “All’inizio solo il classico dolore al braccio. Poi la febbre a 38 da venerdì”. E poi la stanchezza fino a domenica mattina quando la situazione è precipitata. “Si è svegliato a fatica, si è subito sdraiato di peso sul divano. Poi è caduto e non riuscivo nemmeno a spostarlo. Lui che pesava 60 chili sembrava un tronco” è il ricordo della compagna che di fatto non ha più avuto modo di parlargli. Al Masserdotti di Brescia è stato sottoposto a intervento chirurgico, ma il quadro è rimasto gravissimo e giovedì è deceduto, ma già da 24 ore era stata dichiarata la morte cerebrale. “Abbiamo potuto donare solamente fegato e rene, gli altri organi erano compromessi” raccontano i familiari. La Procura di Brescia acquisirà la cartella clinica e entro un mese attende le prime risposte dagli esami effettuati dopo la morte.

Gli eventi avversi, fortunatamente, non sempre causano la morte, c’è tuttavia chi supera l’evento ma si trova di fronte al dilemma se fare o meno la seconda dose. Il parere dei medici è discordante e non esistono protocolli ufficiali da seguire. Un “sopravvissuto” è Emanuele, insegnante di 40 anni, nessuna predisposizione genetica problematica. Eppure, due mesi dopo la prima dose di AstraZeneca, ha iniziato ad avvertire dolori e gonfiori alla gamba. Grazie all’aiuto di un parente medico, la diagnosi è stata tempestiva: trombosi superficiale. “Il chirurgo vascolare – racconta Emanuele – mi ha spiegato che questo è un evento raro. Solitamente ci dev’essere una certa familiarità e si manifesta intorno ai 25-30 anni”. Dopo un mese di cure, la vita di Emanuele sta lentamente tornando alla normalità. Per il richiamo, però, si è trovato di fronte a un limbo. Nel giorno fissato per la seconda dose all’Asl di Avellino si è presentato il padre con le analisi: “Per certificare il fatto che il mio sistema immunitario aveva reagito bene alla prima dose e la seconda, forse, non sarebbe stata necessaria”, spiega. Emanuele è stato comunque segnato come assente al richiamo: “Altri medici – racconta – mi hanno sconsigliato di sottopormi alla seconda dose. A me però serve un parere scientifico, non posso decidere da solo”. E, in effetti, se si chiama il numero istituito dal ministero della Salute per l’emergenza Covid, i dubbi vengono confermati. In caso di eventi avversi dovuti a una prima dose di AstraZeneca non ci sono protocolli per stabilire se fare o meno il richiamo. In generale, in caso di effetti gravi, gli esperti sconsigliano di fare la seconda dose, ma sta poi al medico valutare in che modo procedere dopo un evento avverso. Una procedura che però il Regno Unito aveva messo nero su bianco in un articolo della Public Health of England che riportava già il 7 maggio: “Tutti coloro che hanno ricevuto la prima dose del vaccino Oxford/AstraZeneca dovrebbero fare la seconda con il siero dello stesso tipo, eccetto per un numero di persone molto ridotto in cui si è verificata trombosi e piastrinopenia alla loro prima vaccinazione”.

Pronto Amerega me senti?

Uno dei fenomeni più comici del momento è il ritorno di Nando Mericoni. Solo che al posto di Sordi ci sono gli atlantisti fuori tempo massimo de noantri(“Pronto Amerega me senti?”), tutti eccitati perché Draghi incontra Biden al G7, anzi gli dà la linea nella sua nuova veste di Capo del Mondo. Repubblica: “Draghi guida il G7” (anzi, G1+6). Stampa: “Draghi indica la strada al G7” (“Maestro, ìndicaci la retta via!”, Brian di Nazareth), “Merkel si allinea alle posizioni italiane” (buona questa). Messaggero: “L’asse tra Draghi e Biden: ‘Meno sussidi, ora investire’” (infatti Biden ha appena stanziato 1.900 miliardi di sussidi e Draghi 40, più i 32 ereditati da Conte). Altri invece sono affranti perché, mentre Super Mario assume le redini del pianeta, in attesa di impadronirsi della galassia, Grillo vede l’ambasciatore cinese. Ora, basta leggere i dati dell’economia per capire che l’Italia può fare a meno più degli Usa che della Cina: le esportazioni da Roma a Pechino sono balzate in sei mesi del 75% e gli scambi commerciali del 50. Gli Usa hanno tutto da perdere dalla Cina. Noi tutto da guadagnare. La guerra fredda è finita da un pezzo, la “guerra al terrorismo” modello Usa ha moltiplicato il terrorismo e sterminato centinaia di migliaia di innocenti in Afghanistan e in Iraq, oltre ad aver causato la nascita dello Stato Islamico e gli attacchi dell’Isis in tutto il mondo, trascinando alleati e camerieri (fra cui l’Italia berlusconiana e ulivista) in una debacle senza fine, culminata nell’ingloriosa ritirata dall’Afghanistan più che mai in mano ai Talebani.

Per fortuna dal 2018 i “populisti” 5Stelle hanno imposto una visione un po’ più multilaterale del mondo, rifiutando di riconoscere – unico governo in Europa insieme al Vaticano – il golpista venezuelano Guaidó (ora disperso). L’unica cosa che dovremmo importare dagli Usa sono le politiche sociali e fiscali di Biden: invece Draghi è filoamericano in tutto tranne che in quelle (niente salario minimo e neppure la tassina di successione modello Letta). In vista dell’auspicato remake di Un americano a Roma, segnaliamo un possibile protagonista e una eventuale comparsa. Il protagonista è Maurizio Sambuca Molinari, che a Ottoemezzo esalta tra lo sconcerto generale “la convergenza tra le politiche economiche di Biden e Draghi” (ciao core). La comparsa è l’italomorente Faraone, che al Tg3 dirama la fake news di “Conte, che abbiamo mandato a casa, all’ambasciata cinese col comico Grillo, mentre Draghi sta rappresentando i valori dell’atlantismo e dell’europeismo al fianco di Biden”. Senza dimenticare il Rinascimento saudita, che lo vedrà impegnato nel remake di Totò d’Arabia nei panni dello sceicco Alì el Buzur.

Il digitale come “salto quantico”: il futuro del lavoro dopo la pandemia

Si occupa delle variabili che influenzano la vita umana il libro realizzato da Sergio Bellucci. Perché il punto che viene affrontato, con il contributo di autori diversi, alcuni con visioni differenti tra loro, è il lavoro nel vivo della trasformazione del nostro tempo, nella “Transizione”, come la chiama Bellucci, e soprattutto nel vortice delle trasformazioni digitali.

Il volume si presenta come tentativo di una “lettura critica” di quella condizione di innovazione e trasformazione che viene equiparata a un “salto quantico”. Il digitale viene offerto così non tanto e non solo come trasformazione quantitativa dell’industria, ma modificazione qualitativa della vita e del lavoro all’interno del quale occorre ormai distinguere tra “lavoro salariato”, “lavoro implicito” (1.0, 2.0 e 3.0, a seconda delle diverse fasi di evoluzione delle potenzialità digitali, ad esempio, il lavoro dei e sui “social”) fino a introdurre come paradigma alternativo all’esistente un concetto di “lavoro operoso” che dovrebbe valorizzare la socialità e, per dirla col linguaggio marxiano, “valori d’uso”.

Il ruolo della trasformazione digitale è il lascito dell’autore del Capitale sono parte rilevante del libro e sulla presunta continuità/discontinuità con la storia dell’evoluzione industriale il dibattito è aperto. Il digitale rappresenta un cambio di paradigma o piuttosto una evoluzione, per quanto significativa, del tradizionale rapporto tra macchina e “lavoro vivo”? Le risposte sono diverse, i contributi sono offerti da autori che si sono interrogati su questi aspetti da tempo. Si avverte un certo profumo di “nuovismo” nel senso migliore del termine, ma gli interrogativi sono tutti utili e interessanti. E contribuiscono ad affermare un principio dimenticato: il lavoro è al centro della vita sociale e le sue evoluzioni diranno sempre come evolve quella.

 

AI – Work Sergio Bellucci – Pagine: 312 – Prezzo: 25 – Editore: Jaca Book

 

“Sono una casa piena di stanze segrete”

“Le parole riescono a cambiare colore alle idee”. Edith Wharton fece delle parole la chiave per raccontare il suo tempo e il suo ambiente. Lo conosceva così bene da potersi permettere di criticarlo e demolirlo.

Premio Pulitzer, prima donna a riceverlo, con L’età dell’innocenza nel 1921, a 59 anni, mise il gentil sesso sempre al centro: figure dell’élite newyorchese come lei, ricchissime e alla moda, però sovente limitate da matrimoni di convenienza, “il matrimonio è un tedioso dovere”, ingabbiate in una società dorata ma rigida, ipocrita, maschilista, giudicante. L’infelicità era così sempre dietro l’angolo specie per chi faticava a ingoiare il rospo. Nobildonne, sì, ma anche protagoniste più umili. In Estate l’adolescente Charity è figlia di una reietta. Adottata da un anziano avvocato, s’imbatte in un architetto per cui perderà la testa. Lui incarna la chance di andarsene dal New England rurale verso la città, ma non funzionerà e lei la pagherà cara. In difficoltà è anche la Kate di Santuario, romanzo del 1903 finora inedito in Italia e ora pubblicato da Landscape Books, atterrita dalla scoperta che l’uomo a cui è promessa nasconde un passato di intrighi e bugie. Quando lui morirà lei non riuscirà a smettere di pensare che quel degrado morale l’abbia irreversibilmente contagiata.

Amori tormentati, spinosi, ostacolati, dolorosi, donne che vorrebbero esplodere in tutta la loro autenticità ma devono farsi piccole e incassare o pagare il prezzo della loro audacia. C’è spazio anche per temi scandalosi per l’epoca: in Estate si parla di aborto e prostituzione, ne La ricompensa di una madre dell’abbandono di un figlio, ne L’età dell’innocenza l’anticonformista contessa Olenska è guardata con sospetto perché divorziata e giunta a New York dall’Europa dove, si chiedon tutti, chissà che vita avrà condotto.

L’amore per le lettere sbocciò in Edith prestissimo. Già da bimba curiosava nella biblioteca di famiglia, destando il timore si sarebbe poi preoccupata più delle cultura che di accasarsi, e scriveva di tutto, compresa “la crescita e lo svilupparsi delle piante del mio giardino segreto, dal seme all’arboscello”. Nata nella Grande Mela in una delle famiglie più ricche dell’epoca (l’autobiografia Uno sguardo indietro merita), viaggiò moltissimo, si dice abbia attraversato l’Atlantico una sessantina di volte, e questa natura cosmopolita e curiosa risuona in tutta la sua produzione. Si trasferì con la famiglia in Europa bambina e visse tra Francia, Germania, Italia e Spagna – adorava Villa Borghese, gli aranceti di Siviglia, la Foresta Nera – e quando nel 1910 si stabilì a Parigi diventò socialite di spicco, aprì ostelli letterari per autori di varie nazionalità, le sue due dimore francesi furono luogo d’incontro dei letterati dell’epoca.

Sfortunata in amore – l’uomo con cui trascorse 28 anni, per poi divorziare, era ben più anziano, depresso e con problemi psichici –, non si lasciò abbattere e si dedicò alla scrittura e alle relazioni sociali. Frequentava gente del calibro di Roosevelt, Cocteau, Fitzgerald, Hemingway. Pare scrivesse solo a letto, circondata dai suoi cagnolini, gettando a terra i fogli che la sua segretaria era poi tenuta a battere a macchina. Definita dai critici una Henry James al femminile è a lui, carissimo amico, che chiese un parere sul suo primo romanzo, La valle delle decisioni. James criticò il soggetto suggerendole di non trascurare la realtà, “quel che è tuo afferralo tienilo stretto e poi fatti portare dove esso vorrà, dedicati a New York”. Così fece, infatti, restando sempre fedele alla forma del romanzo realistico che pescava a piene mani dalla sua esperienza personale e dal suo interesse per la natura femminile di cui scrisse: “È come una grande casa piena di stanze. C’è l’ingresso, attraversato da tutti, contraddistinto da un gran via via; il salotto, dove si accolgono le visite formali; il soggiorno, dove i membri della famiglia si alternano; ma oltre ciò, molto oltre, ci sono altre stanze, di cui forse non è mai stata toccata neanche la maniglia della porta; nessuno sa dove conducono”. Che fossero sfruttatrici come la bella e ambiziosa Undine ne L’usanza del paese o vittime come la Lily di La casa della gioia, a cui non viene risparmiata nessuna imprudenza, per Wharton le donne erano mondi misteriosi tutti da scoprire.

I conti con il passato della commissaria Battaglia: una trama dai toni scespiriani

Non si poteva immaginare una resa dei conti così straziante e tragica, dalle sfumature decisamente scespiriane per personaggi e trama. Finalmente il commissario Teresa Battaglia, anzi la commissaria come si corregge tardivamente lei stessa, affronta le ombre della sua giovinezza di indicibile dolore. Fin qui, nelle inchieste che hanno preceduto questo Figlia delle cenere, ecco che cosa si conosceva della poliziotta inventata da Ilaria Tuti: anziana e single (per certi versi assomiglia a Vera dell’omonima tv crime fiction) che da poliziotta trentenne, alla metà degli anni novanta, fu vittima del marito violento (un accademico) che quasi la uccise a pugni e calci, facendole perdere la creatura in grembo.

Nei tre romanzi della serie di Battaglia, questo passato ha sempre fatto da sfondo ai casi della commissaria. Stavolta, invece, quella tragedia terribile di ventisette anni fa diventa centrale. Anche perché nella cittadina friulana dove sono ambientati i thriller (Tuti vive a Gemona del Friuli) ritorna a colpire un serial killer che Teresa fece catturare proprio in quei suoi giorni di dolore. I due da allora non si sono mai persi – lei è andata a trovarlo regolarmente in carcere – e la storia del loro rapporto è un colossale rebus nero dell’anima, che Tuti sa indagare magistralmente, con una “padronanza” del Male che ancora una volta ammutolisce il lettore. Compaiono finanche i misteri del cristianesimo egizio di Aquileia. Teresa però è malata di Alzheimer e in questo caso in cui è doppiamente protagonista (vittima e detective) sarà tenuta in piedi dall’amore di amici e colleghi, in primis l’ispettore Marini e il medico legale Parri. Il finale è tronco, aperto: ergo non dovrebbe essere l’ultima inchiesta di Teresa Battaglia.

Figlia della cenere Ilaria Tuti – Pagine: 366 – Prezzo: 18,60 – Editore: Longanesi

 

L’Emilia rossa dei Cccp: Pci, Mao e lambrusco

La trionferà, in libreria per Einaudi, non è un romanzo perché non c’è nulla di inventato sebbene sia scritto con lingua e ritmo di un romanzo. Massimo Zamboni passa al setaccio un pezzo di storia del Novecento e distilla poco più di duecento pagine che si bevono come un “rosso, spumeggiante Lambrusco”. Sì, perché siamo a Cavriago, in provincia di Reggio Emilia, dove “l’ideologia era più forte della famiglia”, dove l’utopia comunista mescolata alla concretezza padana diede vita a un’epica irripetibile. Nella piazza centrale del paese troneggia ancora un busto di Lenin e su qualche muro resiste uno sbiadito W LA RUSSIA.

Quando Stalin morì nel 1953 il lutto fu un dramma collettivo. Nelo Risi nel 1982 girerà un documentario sul tiranno sovietico e proprio tra gli abitanti di Cavriago raccoglierà cordogli nostalgici: “Era un uomo buono e giusto”. Quando negli anni 60, nella Bassa che fiancheggia il Po, iniziarono le riprese del film su Don Camillo i comunisti reggiani insorsero con minacce di sabotaggio perché Peppone, il sindaco comunista, era rappresentato come un contadinaccio rozzo e prepotente, perennemente sconfitto dal confronto con il sacerdote. Un paese, un popolo, un destino, segnato dalla fede socialista già sul finire dell’Ottocento quando dietro alla testata del letto al posto del crocifisso facevano bella mostra di sé i ritratti di Garibaldi.

Il secolo breve macina i suoi eventi, dalla rivoluzione bolscevica del 1917 al fascismo, dalla Resistenza al boom del dopoguerra, dal ’68 agli anni di piombo, dalla morte di Berlinguer alla dissoluzione del Pci. Cavriago resta aggrappata al suo sogno di rivoluzione perché sono in tanti ad averci “messo la pelle”, cioè a non essersi mai risparmiati per la causa. Le Feste dell’Unità, con tortelli salumi e gnocco fritto, sono figlie di un tempo eroico quando i libri di Marx arrivavano clandestini stampati sulla carta per le sigarette, nascosti nei bidoni per il latte. Le percentuali bulgare del Pci alle elezioni sono figlie di un tempo eroico nel quale cinema e dancing del paese furono costruiti grazie alle collette degli abitanti. Al Caprice, il primo locale notturno al mondo gestito da un partito comunista, inaugurato nel 1963, con il ritratto di Mao che fa capolino dietro il bancone del bar, si esibiscono tutti i cantanti di successo dell’epoca, compresa la gloria locale: Orietta Berti.

Zamboni – che a metà degli anni 80 irrompe nella scena musicale come chitarrista e compositore del gruppo punk filosovietico Cccp-Fedeli alla linea (il primo 45 giri porta il titolo fatale di Ortodossia) – non è certo un narratore distaccato, il suo racconto attinge alla sua esperienza di militante. Ecco come restituisce il suo impegno di diffusore dell’Unità nelle domeniche mattina della sua giovinezza: “Bussiamo alle porte di lavoratori assonnati, di casalinghe scompigliate da una notte di eccessi alla balera, sediamo nei salotti popolari con i soprammobili da spolverare e le bottigliette mignon nelle vetrine, con le enciclopedie comprate a rate, qualche souvenir d’oltrecortina e le inevitabili matrioske”.

Poi lo schianto della disillusione. Capodanno 1991. L’Internazionale che suona in sottofondo, una bandiera rossa che sparisce nel cielo. “Il comunismo è finito, ma qualcosa inventeremo”.

 

La trionferà Massimo Zamboni – Pagine: 240 – Prezzo: 19,50 – Editore Einaudi