“Mare of Easttown”, un giallo mediocre salvato dalla bravura di Kate Winslet e soci

Mare of Easttown, dal nome della protagonista affidata a Kate Winslet, alla seconda esperienza seriale – ancora targata HBO – dieci anni dopo Mildred Pierce, e della cittadina natale in Pennsylvania: miniserie in sette episodi è su Sky e NOW, con titolo più eloquente Omicidio a Easttown. Già stella della squadra di basket locale, Mare Sheehan s’è reinventata detective, con carattere: appesantita, grunge tardiva, la ricrescita è d’ordinanza, la birretta compagna, un divorzio (non) alle spalle, un lutto (non) alle spalle, e la navigazione a vista e perigliosa tra i flutti di questo small town mistery, abbarbicato alla periferia di Philadelphia ma domiciliabile a ogni latitudine. Le pietre non si scagliano, il più pulito della comunità c’ha la rogna, o quasi: ai preti piacciono le ragazzine, e chissà fin dove; agli ex mariti piacciono le ragazzine, e chissà come; i down vengono bullizzati; le pazienti oncologiche con figlie scomparse vengono taglieggiate; i padri non sono biologici. Scritta dallo sceneggiatore di The Way Back Brad Ingelsby, creator e showrunner cresciuto in una piccola città vicino alla vera Easttown, e diretti da Craig Zobel (The Hunt e Z for Zachariah), nel cast troviamo lo scrittore spasimante Guy Pearce, che ritrova Winslet dopo Mildred Pierce, il detective spasimante Evan Peters, l’ex marito David Denman, la madre Jean Smart, la bellissima amica Julianne Nicholson: sono gli interpreti, senza dubbio, la cosa migliore di Omicidio a Easttown, perché il canovaccio non è inedito, la detection un po’ lasca, i colpi di scena non sempre a segno. Sopra tutto, il microcosmo è così esemplare, ridondante, inzeppato di casi umani e turpitudini varie ed eventuali da mettere a dura prova la sempiterna provincia profonda: che c’azzecca tutta questa straordinarietà con la quotidianità? Troppo colore per dei sepolcri imbiancati, insomma, sebbene Kate Winslet si meriti l’onore delle armi: non è solo chiacchiere e distintivo, la sua Mare.

Su Sky e Now

Un “Terzo Reich” troppo traumatico

Bentornati a teatro. Ah no: il Nazionale di Roma è chiuso, causa sciopero del sindacato autonomo Libersind Confsal (i tecnici dipendenti dell’Argentina e dell’India). Poco male: la Capitale della prosa è Milano, il cui menu premium offre ben due giganti della regia europea, Antonio Latella e Romeo Castellucci: il primo è in scena con un Amlet* (è una donna, ndr) di sette ore al Piccolo; il secondo è in tour con un Terzo Reich di 50 minuti alla Triennale. Optiamo per il secondo, per pigrizia.

Dopo la prova della temperatura e il bancone delle mascherine e del gel igienizzante, un cartello minaccia: “Spettacolo sconsigliato alle persone fotosensibili, epilettiche e sotto i 13 anni”. Poi arriva la ragazza che distribuisce tappi per le orecchie, ma l’ansiolitico bisogna portarselo da casa. Si stava meglio all’hub vaccinale, però qui si può uscire e rientrare liberamente dalla performance, se colti da improvviso panico, tachicardia, allucinazioni, noia.

Ma in cosa consiste questa opprimente e violenta installazione di Castellucci sulla drammaturgia musicale di Scott Gibbons? In un martellamento di proiezioni di parole, a ritmo con le scariche sonore, vibrate, sparate, suonate come mitragliatrici, pistole, tuoni… Spiegazione dal foglietto di sala: “La velocità di sequenza è commisurata alla capacità retinica di trattenere una parola… Il frenetico susseguirsi delle parole fa sì che alcune di esse rimangano impresse nella corteccia visiva e altre no. Lo spettatore, esposto a questo trattamento, subisce la parola umana sotto l’aspetto della quantità. Il Terzo Reich è l’immagine di una comunicazione inculcata e obbligatoria, la cui violenza è pari alla pretesa di uguaglianza”.

L’operazione è chiara, ma non troppo: pare più un esperimento fisiopatologico à la Mengele, ma buono, uno stress test sulla pelle degli spettatori, peggio delle visite dal medico sportivo o del “trattamento” (sic) sanitario obbligatorio. Se ne esce letteralmente sconquassati: certo, la “cura Ludovico” o il lager sono molto ma molto ma molto ma molto peggio (incommensurabili), però perché maltrattare i poveri, sparuti, coraggiosi, progressisti, colti, multietnici, tolleranti, gender free, gay friendly, lettori forti, ambientalisti, eco-sostenibili, antifascisti, contribuenti, ovvero – in breve – gli spettatori teatrali italiani? Se il Terzo Reich fosse stato così traumatico – una tale tortura –, nessuno vi avrebbe aderito. O forse Castellucci vuole dirci che siamo ancora tutti vittime di una dittatura nazifascista, promossa per via cognitiva? Chi è allora il führer che ci manipola, e platealmente!, con parole, video e suoni? Boh.

Sia chiaro, è tutto perfetto in questa pièce, ma forse non tutto necessario: sicuramente straordinario è il prologo coreografico di Gloria Dorliguzzo, incappucciata come quel detenuto di Abu Ghraib, attaccato ai fili della corrente, torturato e umiliato. Sarà in corso anche lì un Terzo Reich? Boh.

In tour: Cesena, Teatro Comandini, 15-16 giugno; Festival di Santarcangelo di Romagna, 15-16 luglio; Passage Festival (Helsingor, Danimarca), 29-30 luglio

 

Franco Nero è un uomo cieco con il dono della pittura

Harrison Ford è tornato da qualche giorno a interpretare il celebre personaggio di Indiana Jones nel quinto capitolo della popolare saga creata da George Lucas diretto questa volta non da Steven Spielberg, qui solo co-produttore, ma da James Mangold, già apprezzato autore di Logan- The Wolverine e Le Mans 66 – L’ultima sfida. Il nuovo film della serie sull’avventuriero archeologo iniziata nel 1981 con I predatori dell’arca perduta sarà interpretato tra gli altri da Mads Mikkelsen (Un altro giro), Phoebe Waller-Bridge (Fleabag) e Thomas Kretschmann e verrà girato anche in Sicilia, tra Selinunte e Cefalù, oltre che in Inghilterra, tra gli studi di Pinewood e il castello di Bamburgh.

Alice Rohrwacher prepara La chimera, il suo quarto lungometraggio incentrato sul traffico clandestino di reperti archeologici, prodotto da Tempesta e Rai Cinema.

A quattro anni dalle accuse di molestie sessuali che lo hanno tenuto a lungo lontano dai set, Kevin Spacey è tornato al cinema per recitare a Torino in L’uomo che disegnò Dio, il secondo film di cui Franco Nero è anche regista oltre che protagonista, affiancato questa volta anche da Robert Davi, Stefania Rocca e Massimo Ranieri. La storia portata in scena è quella di Emanuele (Nero), un anziano e solitario non vedente che possiede il dono di ritrarre chiunque udendone appena la voce, un segreto conosciuto solo dalla sua assistente sociale, Pola, e dagli studenti della scuola in cui insegna ritrattistica a carboncino. La sua vita viene sconvolta quando Pola gli presenta due immigrate, una vedova e la figlia, che si trasferiscono da lui per occuparsi della casa: la ragazza caricherà online un video in cui l’uomo sta disegnando un suo ritratto e in breve tempo il suo potere “magico” diventerà virale.

“Mandibules”, ridere con Dupieux allunga l’esistenza

Se è vero che ridere allunga la vita, vedere i film di Quentin Dupieux ci potrebbe rendere immortali. Dunque il mondo del cinema dovrebbe andar fiero dell’esistenza di questo Dj francese che dal 2002 si divide fra house music e cinefilia, mistero buffo e geniale che ha reso la demenzialità assoluta il filtro interpretativo della nostra meschina quotidianità. Star dei remix di autori di culto (Kaminsky, Cassius…) con lo pseudonimo di Mr. Oizo, Dupieux ormai è una firma ai principali cine-festival internazionali, perché ogni sua opera è una rivelazione di follia e intelligenza capace di mandare in visibilio il pubblico ma soprattutto di spostare in avanti il limite dell’immaginazione. Nel bestiario inventato da questo barbuto parigino del 1974 tutto è plausibile, vuoi che si tratti di pneumatici assassini di turisti ignoranti (Rubber), di giacche in camoscio che creano dipendenza feticistica (Doppia pelle), di mondi o poliziotti capovolti (Wrong e Wrong Cops).

Con il recente Mandibules – Due uomini e una mosca – applaudito all’unanimità dal popolo critico della Mostra di Venezia dove troneggiava nel fuori concorso – accompagniamo il “nostro” dentro a un passaggio, se possibile, ulteriormente delirante eppure così coerente in se stesso da farcelo percepire come normale, alla stregua del necessario qualora vivere in leggerezza sia il nostro desiderio. Di scena nella Francia costiera meridionale sono due idioti col pedigree di imbecillità (Grégoire Ludig e David Marsais) che s’imbattono in una mosca gigante misteriosamente rinchiusa nel bagagliaio di un’auto rubata. Decidono che è meglio far soldi ammaestrando il super-insetto di cronenberghiana memoria che non sopravvivere di lavoretti o piccoli furti di giornata. Un malinteso li porta nel villone piscinato di alto-borghesi, che diviene teatro dell’assurdo dove il magico (e perennemente rovesciato) universo di Dupieux trova il suo apice di ilarità, il colpo geniàl che affonda intellettuali, benpensanti e contocorrentisti extralarge. Il tutto, però, nella soavità innocente di due loser gentili, tanto genuini da riuscire a dialogare con le mosche. Il circo delle meraviglie architettato in Mandibules riesce con la naturalezza di un soffio a tenere insieme la “normalità” (mai più appropriato è l’uso del virgolettato!) perfino al disturbo mentale, e lo fa disarcionando dall’impegno una delle attrici più engagé del cinema francese, quell’Adèle Exarchopoulos diventata cult con La vita di Adèle di Kechiche.

Inutile negarlo, Mandibules è un prodigio che disinnesca tutte le certezze a eccezione di una, ovvero che Quentin da Parigi è un funambolo di idee come pochi altri in circolazione, in grado di giocare con il realismo magico del non-senso e scolpirlo nei ricordi dei suoi spettatori, giacché un’opera di Dupieux resta inevitabilmente impressa.

Nelle sale dal 17 giugno per I Wonder Pictures, per una risata intelligente.

Dalle sagre al successo. Vita di Alessandro Greco

Come secondo cognome fa “Quellodifurore”.

Tutta una parola.

Per la comune anagrafe è Alessandro Greco, classe 1972 e un destino già deciso quando aveva quindici anni e “giravo Puglia, Calabria e Basilicata per presentare feste, sagre, manifestazioni e qualunque situazione che prevedeva un conduttore”.

Poi a 25 si è trovato di fronte Raffaella Carrà e Sergio Japino e dalle assi di legno e tubi Innocenti per simulare un palco, è passato alla luce del riflettore, quello “gigante”, quello di un tempo recentemente antico, quando gli spettatori si contavano a milioni e il rischio di “perdersi è stato forte”.

Oggi vive in Valdarno, insieme a sua moglie Beatrice Bocci, e tra una risata, un’imitazione, un ricordo e un progetto, si rammarica solo “che mi viene impedita quella continuità con il pubblico. Eppure, oltre a Furore, ho una carriera di soli successi”.

Allora non ha un grande agente…

Ho lo stesso da trent’anni, e va benissimo: insieme siamo partiti dalle feste di piazza, quelle itineranti; un’esperienza incredibile durata dieci anni. E lo rivendico.

Esempio di spettacolo itinerante.

Ho condotto qualunque manifestazione: dai concorsi canori, agli stage di acconciature fino alla danza o il festival delle Barbe e dei Baffi: dove c’era bisogno di un presentatore, arrivavo io.

Si sarà trovato di fronte a scene da Gialappa’s.

Una volta mentre stavo sul palco, il presidente del comitato ha iniziato con la riffa, e i premi consistevano nel pollo, la cassetta di vino o il prosciutto; quando nel 1997 mi sono presentato alle audizioni di Furore, la Carrà mi chiese: “Quanti anni hai?” E io: “Ne ho 25”. “Da dove vieni fuori tutta questa esperienza? tutto questo scilinguagnolo?”.

Risposta.

Dentro di me ho pensato: dal culo che mi sono fatto; (cambia tono) un’altra volta, mentre ero sul palco, non si sono coordinati con i tempi, è partito lo spettacolo pirotecnico con la cenere che ci finiva addosso.

Presentava ed era minorenne.

Fisicamente ero già grosso, dimostravo più anni, e come consolazione mi ripetevano: “Vuol dire che da grande sembrerai più giovane”.

Rimorchiava molto…

Partiamo da un punto: quando diventi famoso si accentua l’interesse nei tuoi confronti, ma grazie a Dio già prima non mi andava male; (sorride) alcuni appuntamenti erano diventati annuali.

Sempre in giro.

Chilometri su chilometri, come una carovana, stretti in macchina per risparmiare sul costo della benzina o sulla scelta dell’albergo

Torniamo alla Carrà.

Davanti a lei ho sentito la botta, ero improvvisamente in Serie A. Ero di fronte al mito.

Intimorito?

Anche qui: mi ha salvato la gavetta, quando ti poteva capitare qualunque imprevisto ed eri obbligato ad andare avanti.

Si è mai inceppato?

Neanche una volta.

Vuoto di memoria?

Può capitare, basta ammetterlo, coinvolgere il pubblico, e andare avanti.

Come andava a scuola?

Presentavo anche lì, le interrogazioni di italiano erano il mio show, e le recite erano l’occasione per testare il mio primo pubblico.

Ora non dica che è timido.

Sono riservato e ancora oggi, quando incontro Raffaella, non la vivo da pari a pari; (cambia tono) il successo di Furore è stata una botta clamorosa, con otto milioni di spettatori. Avevo 25 anni.

Botta clamorosa, come…

C’è stato il rischio di venir sopraffatto, per fortuna sono rimasto lucido, non mi sono fatto fagocitare: dopo la prima edizione ho messo su famiglia (con Beatrice Bocci). Per questo sono stato definito “integralista”.

Chi l’ha stupita in questi anni?

A parte Raffaella e Sergio? Lino Banfi: è circondato da una popolarità straordinaria, e ha un rispetto giusto, sano, del suo pubblico.

Rimpianti?

Mi sono stati scippati dei programmi.

Cioè?

Mi hanno chiamato dei capi progetto, degli autori e dei registi; mi hanno spiegato il format e alla fine li ho visti in onda condotti da altri.

A cosa è sfuggito?

Alla solitudine, perché provengo da un contesto familiare non idilliaco; poi ho scoperto che le mie attitudini artistiche mi permettevano di stare lontano da casa e a vent’anni ho giurato a me stesso che avrei tentato fino alla morte di riuscire in questo mestiere.

Che poster aveva in camera?

Zucchero, Pino Daniele e Clarissa Burt; un anno ero concorrente a Castrocaro, e lì c’era proprio Clarissa; una sera prende il telefono chiama Troisi e me lo passa: “Fagli la sua imitazione” (il suo Troisi è perfetto). E Massimo: “Non parlo accussì”. E io: “Invece tu parli proprio accussì”.

In questi anni chi le è stato vicino?

Nel mondo dello spettacolo? Ho buoni conoscenti, ma l’amico per me è un’altra cosa.

Lei tra dieci anni.

Non ne ho idea, vorrei lavorare, ma non dipende solo da me.

Lei chi è?

Uno che sa dire grazie sempre e comunque.

“Trump usò Apple per spiare i Dem”

La caccia alla talpa era uno degli sport più praticati dall’Amministrazione Trump, che si riteneva vittima di una caccia alle streghe sistematica da parte dei “fake news media”. Fonti del Congresso hanno ora rivelato a New York Times, Washington Post e altri che il Dipartimento della Giustizia, nel 2018, intimò in gran segreto alla Apple per via giudiziaria di fornirgli i dati di due esponenti democratici della Commissione Intelligence della Camera, oltre che di membri dei loro staff e di loro familiari, fra cui almeno un minore. L‘obiettivo era scoprire chi fosse la talpa che faceva filtrare ai media informazioni sgradite all’Amministrazione repubblicana. Adam Schiff ed Eric Swalwell, i due deputati anti-Trump, non erano i soli sotto tiro: Apple avrebbe notificato alla Commissione Intelligence di essere stata obbligata a condividere i dati di 12 deputati.

La decisione di imporre alla Apple di consegnare i dati è considerata “del tutto straordinaria” dalla stampa Usa. I leader democratici di Camera e Senato, Nancy Pelosi e Chuck Schumer, chiedono che i ministri della Giustizia di Trump, Jeff Sessions e William Barr, vengano a deporre in Congresso sulla vicenda. Sessions, un ex senatore dell’Alabama, venne “licenziato” da Trump, che non era contento della copertura datagli nel Russiagate, dopo le elezioni di midterm del novembre 2018; Barr si dimise prima della fine del mandato del presidente, per disaccordi sulle presunte frodi elettorali. Recentemente, s’era pure saputo che i ministri della Giustizia di Trump avevano cercato di ottenere comunicazioni telefoniche e mail di giornalisti accreditati alla Casa Bianca, di NYT, WP e Cnn, sempre con l’obiettivo di individuare le fonti di fughe di notizie.

Schiff, deputato californiano, era capo-gruppo democratico della Commissione Intelligence, di cui ha poi assunto la presidenza dopo le elezioni di midterm, quando i democratici conquistarono la maggioranza alla Camera. Schiff ha istruito le due procedure di impeachment avviate contro Trump: una, tra il 2019 e il ‘20, per il Kievgate; l’altra, a fine mandato, per avere sobillato il 6 gennaio i suoi sostenitori a prendere d’assalto il Campidoglio – entrambe le procedure si conclusero con l’assoluzione del magnate –. Nel 2019, Swalwell è stato brevemente in corsa per la nomination democratica, senza mai superare l’1% nei sondaggi e abbandonando la gara prima dell’inizio delle primarie. Le indagini sui due politici furono avviate – si rileva – senza indizi di loro comportamenti illeciti: “La nostra unica colpa era denunciare il presidente perché corrotto”, dice Swalwell alla Cnn. Sia repubblicani che democratici praticarono in passato la caccia alla talpa, ma un giorno Sessions disse che il suo Dipartimento aveva più che triplicato le indagini sulle fughe di notizie rispetto all’epoca di Obama. Il presidente Biden s’è impegnato a che il Dipartimento della Giustizia non indaghi sui giornalisti.

Il silenzio dopo il golpe. La giunta zittisce i cronisti

Fra le vittime collaterali del golpe militare birmano, ormai al 132° giorno, c’è la libertà di stampa, e non solo in senso simbolico. Sui 5.900 arrestati finora nella brutalissima repressione della giovane democrazia birmana dal giorno del golpe, il 1° febbraio scorso (dati dell’Assistance Association for Political Prisoners – Aapp), i giornalisti sono stati 88; 51 sono ancora in carcere, 33 in clandestinità o in fuga. Fra gli arrestati anche Danny Fenster, cittadino americano, arrivato in Birmania da Detroit per dirigere la testata indipendente Frontier Myanmar, una delle migliori fonti in inglese sul Paese, con una copertura giornalistica accurata anche durante le prime post-golpe, tuttora attiva malgrado una censura estesa e capillare. L’8 marzo, la giunta militare ha revocato la licenza a una serie di testate nazionali: Myanmar Now, Khit Thit Media, Democratic Voice of Burma (Dvb), Mizzima, e 7day, grazie a una legge che oscura canali radio-tv e piattaforme digitali.

Lo scorso 24 maggio Fenster, 37 anni, era all’aeroporto di Yangon, pronto a imbarcarsi per una visita ai genitori negli Usa, quando è stato fermato dalle forze di sicurezza. Ed è scomparso. Il suo staff al giornale non conferma se sia stato accusato di un reato specifico, ma sarebbe detenuto da allora nel carcere di Insein, noto per la brutalità del trattamento dei detenuti, dove vengono rinchiusi soprattutto i prigionieri politici.

Secondo Human Right Watch, Fenster potrebbe essere accusato sulla base di un nuovo articolo del codice penale, introdotto dalla giunta il 14 febbraio. La sezione 505A è tagliata su misura per sanzionare i commenti che mettano in forse la legittimità del colpo di Stato, e criminalizza qualsiasi osservazione che possa ‘suscitare paura’, diffonda ‘notizie false’ o sia anche indirettamente responsabile di violenza verso un impiegato del governo, comprese le forze di sicurezza e militari. Un bavaglio strettissimo, la cui violazione può costare tre anni di carcere. Fenster non è l’unico giornalista Usa finito nelle maglie della repressione birmana. C’è anche Nathan Maung, co-fondatore di Kamayut Media, arrestato il 9 marzo in una blitz militare delle sua redazione e anche lui recluso ad Insein. Delle loro condizioni non si sa nulla: il Dipartimento di Stato Usa ha fatto sapere in un comunicato “di essere profondamente preoccupato per la detenzione dei cittadini americani Fenster e Maung. Abbiamo fatto pressione sul regime militare perché li rilasci immediatamente e continueremo con le pressioni fino al loro rilascio”. E il segretario di stato Antony Blinken ha chiarito di avere un canale aperto con Maung, non con Fenster: una palese violazione della Convenzione di Vienna. Tutto intorno, la resistenza della popolazione è eroica malgrado gli arresti, la violenza della repressione e le 860 vittime finora.

Le proteste pacifiche dei mesi scorsi, represse nel sangue, hanno lasciato il posto ad azioni di gruppi di autodifesa, alcuni armati in modo grossolano, mentre altri, soprattutto al confine, si starebbero unendo alle milizie delle minoranze etniche da anni in guerra contro il governo centrale. Una escalation preoccupante, tanto che ai primi di giugno Dr Sasa, il portavoce del governo parallelo, il National Unity Government, ha segnalato il rischio di una vera e propria guerra civile. La giunta ha reagito alla guerriglia con estrema violenza, con l’impiego di artiglieria pesante e bombardamenti aerei in particolare nello stato di Kayah, dove gli sfollati sarebbero oltre 100 mila. Una situazione definita dall’Alto Commissario per i Diritti Umani delle Nazioni Unite, Michelle Bachelet, ‘catastrofe umanitaria’. E lunedì va in scena la farsa del processo alla ex leader de facto del Paese, Aung Saun Su Kyi, detenuta e in isolamento dall’1 febbraio. Se le accuse accumulate contro di lei fossero confermate, avrebbe l’ergastolo e la definitiva uscita dalla politica birmana.

Il “capo dei capi” ora parla cinese

“Per vedere se un fratello è fedele non ci si può basare sulle parole: deve essere disposto ad andare in carcere e ammazzare le persone… I fratelli mi rispettano perché sono il capo, e il capo può decidere qualsiasi cosa”. È il 6 gennaio 2013 quando gli investigatori della polizia ascoltano queste parole. Zhang Naizhong, oggi 61 anni, cittadino cinese residente da anni in Italia, sta tornando sulla sua Bmw verso Roma dopo aver partecipato alla festa di fidanzamento di uno dei suoi figli. Parla con Dong Sheng, un connazionale a cui ha affidato la gestione di un karaoke nella Capitale. Dong risponde così a Zhang: “Capo, le persone che hanno deciso di seguirti ti seguiranno per sempre, anch’io ti seguirò per sempre”. È uno dei passaggi chiave delle quasi 3mila pagine dell’informativa che giovedì hanno convinto il gup del Tribunale di Firenze, Giampaolo Boninsegna, a rinviare a giudizio per mafia un gruppo di 39 cittadini cinesi residenti in Italia: la più grande organizzazione mafiosa mai scoperta in Italia, secondo gli atti della Procura di Firenze. Un’associazione al cui vertice ci sarebbe appunto lui, Zhang Naizhong, nome in codice “Il Padrino”. Lo ha scritto nella richiesta di rinvio a giudizio il magistrato titolare dell’inchiesta, Eligio Paolini, sostituto procuratore della Direzione distrettuale antimafia che da anni indaga sulla presunta cupola cinese: “Un’associazione di tipo mafioso operante nel territorio di Prato, Firenze, Roma e anche in Stati esteri come Francia, Germania e Spagna”.

Negli scorsi decenni in Italia ci sono stati due processi a gruppi di cinesi considerati mafiosi, ma quello che inizierà il prossimo 16 febbraio sarà il più grande mai svolto finora, anche perché i tentacoli del presunto clan si estendono praticamente in tutta Europa. Il gruppo è accusato di vari reati tra cui estorsione, usura, esercizio abusivo del credito, gestione di bische clandestine e traffico di droga. Come in tutte le storie di mafia, non manca l’aspetto più cruento. L’inchiesta nasce nel 2010, come confermato da Francesco Nannucci – ex capo della Squadra Mobile di Prato, oggi capo centro Dia di Firenze – quando due ragazzi cinesi vengono letteralmente fatti a pezzi in un ristorante di Prato a colpi di machete, in seguito a una guerra fra clan. Ne è nata una scia di sangue e violenze, dettagliatamente descritta nell’informativa dello Sco della polizia di Stato, che elenca omicidi, massacri e torture da parte dei boss. Attraverso questo tipo di condotte, il sodalizio, per gli inquirenti, ha lavorato per ottenere il monopolio su una delle attività legali più redditizie nell’economia della comunità cinese d’Europa: il trasporto merci. Secondo l’accusa, il gruppo di Zhang controlla infatti, attraverso una serie di prestanome, gran parte del mercato dei camion che ogni giorno portano in giro per il Vecchio continente il “made in Europe da mani cinesi”, cioè scarpe, magliette, giubbotti e tutto quanto viene realizzato nelle migliaia di fabbriche tessili gestite da cittadini di origine cinese.

“Essendo presente a Prato e Roma, Neuss (Germania, ndr), Madrid e Parigi, il gruppo fa affari nei primi quattro mercati europei”, dice l’ispettore Marco Nencioni, che ha seguito l’inchiesta sul campo. La società principale di Zhang si chiama Anda, marchio che si è fatto largo in mezza Europa grazie a un metodo che gli investigatori riassumono in un episodio avvenuto in Germania. Nel settembre del 2007, in un centro commerciale di Neuss, alcuni sodali di Zhang sparano 22 colpi di pistola per risolvere una disputa commerciale. È la Eurotransport di Weng Deshun, imprenditore cinese residente in Francia, che dice di essere stato costretto a lasciare la sua quota di mercato a Zhang dopo la sparatoria. “Prima non sapevo come fare gli affari perché sapevo fare solo il mafioso, ora invece non faccio più il mafioso”, si legge nella trascrizione di una delle intercettazioni attribuite a Zhang.

Il clan è accusato anche di aver venduto abiti contraffatti di Gucci, Fendi, Prada e Dolce&Gabbana. Quando Zhang è stato arrestato, nel gennaio del 2018, la polizia ha sequestrato quattro società, due appartamenti, otto automobili e decine di conti correnti. Secondo il gip che ha convalidato la misura cautelare, “Il Padrino” ha investito i profitti delle sue attività anche in una miniera di carbone in Cina e in corni di rinoceronte, oggetti utilizzati nella Repubblica popolare a scopo medico. Pochi mesi dopo l’arresto, il presunto boss è stato liberato su decisione del Riesame confermata dalla Cassazione. Risultato: buona parte degli indagati è tornata in Cina. Non si è fermata però l’attività economica del gruppo. Zhang ha lasciato tutte le sue cariche societarie, ma i suoi familiari più stretti hanno compensato il suo disimpegno ufficiale. Secondo quanto verificato da Il Fatto, tre mesi dopo essere stato scarcerato, uno dei figli, Zhang Di (ora a processo per mafia) ha aperto due nuove società a Roma: la Decho Immobiliare, insieme alla madre, e la Elt Express, specializzata proprio in “trasporto merci a livello nazionale e internazionale”.

La Logistica di squadristi e picchiatori: e il governo?

Chi erano le decine di picchiatori col gilet catarifrangente usciti nel cuore della notte dal magazzino Zampieri di Tavazzano per dare la caccia ai facchini della FedEx Tnt che protestavano perché licenziati?

Li hanno inseguiti per strada lanciando assi di pallet, li hanno pestati furiosamente lasciandone nove feriti a terra, uno dei quali con la testa rotta. Da chi era composta la squadraccia? Dipendenti esasperati, come sostiene l’azienda? Guardiani reclutati per l’occasione? O tutti e due insieme, com’è più probabile?

L’unica cosa certa è che qualcuno ha dato l’ordine di partire all’assalto criminale. E che per lunghi, interminabili minuti gli agenti di polizia, benché dotati di casco e strumenti antisommossa, hanno assistito immobili alla consumazione del pestaggio. “Voi non fate qualcosa?”, si sente gridare invano, nel filmato diffuso dal Si Cobas, a disonore degli uomini in divisa.

Quella che fa paura è la divisa da lavoro dei picchiatori impuniti, ormai presenza abituale nelle vertenze che infiammano i centri nevralgici della logistica, fra Emilia-Romagna e Lombardia, dove entrano in collisione il boom dei profitti e lo sfruttamento del lavoro povero somministrato in cooperative-fantasma.

La disperazione del facchinaggio notturno, che ormai quasi solo gli immigrati sono disposti a sobbarcarsi, degenera nel far west degli appalti sregolati. 280 ne ha lasciati a casa la multinazionale Usa cui è concesso di non assumerli direttamente. Altri ne trasferisce. Li mette gli uni contro gli altri. Finge di trattare coi sindacati confederali sicché gli abbandonati trovano appoggio solo nei Cobas. Guerra fra poveri, che quando si fa dura induce il padronato locale a riesumare l’antico strumento squadristico dell’intimidazione anti-operaia.

Da che parte sta lo Stato? E il governo? La ripartenza dell’economia prevede di avvalersi delle maniere forti dei negrieri? Attendiamo risposte in merito.

Fare certi processi solo su querela

L’art. 112 della Costituzione della Repubblica stabilisce: “Il Pubblico Ministero ha l’obbligo di esercitare l’azione penale”. Ne consegue che, quando il pm ritenga di non dover esercitare l’azione penale deve chiedere al Giudice l’archiviazione del procedimento.

In concreto il numero di notizie di reato (e quindi di procedimenti instaurati) non è compatibile con le risorse umane e materiali a disposizione e quindi sono stati adottati criteri di priorità per l’esercizio dell’azione penale. Una circolare del Csm sulla organizzazione degli Uffici di Procura (delibera del 16 novembre 2017 e successive modificazioni al 18 giugno 2018), nell’art. 3 comma 2 (Ragionevole durata del processo e azione penale obbligatoria) stabilisce: “Il Procuratore della Repubblica, nel rispetto del principio di obbligatorietà dell’azione penale e dei parametri fissati dall’art. 132 bis disp. att. c.p.p. e delle altre disposizioni in materia, può elaborare criteri di priorità nella trattazione dei procedimenti. Indica i criteri prescelti al fine dell’efficace e uniforme esercizio dell’azione penale, tenendo conto della specifica realtà criminale e territoriale, nonché delle risorse tecnologiche, umane e finanziarie disponibili”.

Secondo un autorevole studioso (Paolo Ferrua) tale circolare non ha una base normativa nella legge, in quanto le norme richiamate riguardano solo il giudice. L’esistenza di tali criteri di priorità è comunque conforme all’art. 12 della Costituzione solo se si tratta di scegliere cosa trattare prima e non se viene intesa come accantonamento definitivo e non temporaneo di ciò che non è possibile trattare.

La Commissione di studio per elaborare proposte di riforma in materia di processo e sistema sanzionatorio penale, nonché in materia di prescrizione del reato del ministero della Giustizia propone una soluzione drastica: “Quanto alla necessità di inserire proprio il canone dell’art. 112 Cost. in una cornice di coerenza con il concreto carico delle notizie di reato, la proposta mira – offrendo una base normativa adeguata al fenomeno dei criteri di priorità – a garantire trasparenza nelle scelte che si rendono necessarie per dare effettività al principio di obbligatorietà. In piena coerenza con un’architettura costituzionale nella quale le valutazioni di politica criminale non possono che essere affidate al Parlamento, si prevede che sia tale organo a stabilire, periodicamente (al legislatore delegato l’onere di indicare il periodo), i criteri generali necessari a garantire efficacia e uniformità nell’esercizio dell’azione penale e nella trattazione dei processi, facendo riferimento anche ad un’apposita relazione del Consiglio Superiore della Magistratura sugli effetti prodotti dai criteri nel periodo precedente. All’interno della cornice complessiva definita dal Parlamento, gli uffici giudiziari provvederanno in modo autonomo e indipendente a stabilire criteri che tengano conto dell’effettiva realtà locale – tanto sotto il profilo criminale, quanto sotto quello organizzativo – per assicurare un’efficacia concreta alle indicazioni emanate dal Parlamento. Il meccanismo prevede inoltre uno stringente coordinamento tra i criteri fissati dagli uffici di procura e quelli definiti dagli uffici giudicanti per la trattazione dei processi, in modo da evitare fenomeni di disallineamento che si traducono in potenziali ritardi nell’esercizio dell’azione penale”.

Si tratta di una proposta probabilmente incostituzionale. Il Parlamento persegue la politica criminale con le leggi che introducono i reati, quelle processuali e con le risorse economiche che le leggi di bilancio destinano agli uffici giudiziari, non scegliendo cosa perseguire e cosa no. La proposta va persino oltre il disegno di legge costituzionale di iniziativa popolare proposto dall’Unione Camere penali, che intende introdurre nell’articolo 112 della Costituzione, dopo le parole: “Il Pubblico Ministero ha l’obbligo di esercitare l’azione penale” le seguenti: “nei casi e nei modi previsti dalla legge”.

Nella proposta della Commissione il Parlamento non sembra infatti che i criteri siano adottati dal Parlamento con legge, che comunque sarebbe incostituzionale se ciò che non è prioritario venisse accantonato definitivamente. Una discrezionalità decisa dal Parlamento è esattamente il contrario di ciò che richiede l’art. 112 della Costituzione e ciò a prescindere dall’uso che il Parlamento potrebbe fare di tale discrezionalità.

È d’altro canto inutile illudersi che aumentino le risorse mancando i mezzi sia finanziari che umani. I fondi europei sono, in larga misura, prestiti da restituire. Inoltre, non si riescono neppure a coprire i posti per magistrato messi a concorso, per lo scadimento della preparazione dei candidati. Neppure si profila l’ipotesi di una possibile ampia riduzione delle fattispecie penali essendo già stato depenalizzato molto di quello che si poteva depenalizzare.

Come uscirne allora? Una modesta proposta può essere quella di ridurre i casi di perseguibilità d’ufficio. Questa strada, che è già percorsa dalla Commissione con l’estensione della perseguibilità a querela, potrebbe essere integrata con nuove ipotesi di perseguibilità a richiesta.

Faccio un esempio: si calcola che in Italia gli evasori fiscali siano circa dodici milioni. Si può stimare che almeno metà di tali evasori commettano illeciti penali previsti dalle leggi finanziarie. Se un governo e una maggioranza parlamentare decidessero (perché pressati da uno spaventoso debito pubblico e dalle pressioni internazionali) di contrastare davvero l’evasione fiscale, consentendo di scoprire, per ipotesi, una metà degli evasori all’anno, tre milioni di procedimenti andrebbero ad aggiungersi ai quasi 2.700.000 (tra noti e ignoti) che già si abbattono ogni anno sulle Procure schiantandole. Si potrebbero rendere i reati finanziari perseguibili a richiesta del ministro dell’Economia e delle Finanze. In tal modo la Pubblica amministrazione avrebbe uno strumento di pressione per indurre gli evasori a non impugnare gli accertamenti per evitare la richiesta di procedimento penale, salvo riservare le richieste ai casi più gravi. Il ministro assumerebbe la responsabilità politica e il principio dell’azione penale obbligatoria (su cui riposa l’indipendenza del Pubblico Ministero) sarebbe salvo. La perseguibilità a richiesta potrebbe essere estesa in materia urbanistica e in altri settori (magari conferendo il relativo potere ai prefetti) evitando lo sconcio dei condoni e tentando di fare diventare l’Italia una Paese serio.