Per la destra De pasquale è colpevole… di lesa maestà

Il garantismo alle vongole della destra italiana e di una bella fetta dell’informazione ha già trovato chi è il colpevole, a indagini appena iniziate, in una storia così attorcigliata da far invidia a Kafka e a Borges. È Fabio De Pasquale, il procuratore aggiunto di Milano che ha rappresentato, insieme a Sergio Spadaro, la pubblica accusa nel processo Eni-Nigeria. Ha nascosto prove favorevoli agli imputati, denuncia il collega Paolo Storari, a sua volta indagato per aver fatto uscire dalla Procura di Milano verbali segreti del testimone Piero Amara, ex avvocato esterno di Eni, regista di un oscuro “complotto” per inquinare le inchieste milanesi sulle presunte corruzioni internazionali di Eni. De Pasquale e Spadaro rispondono che non hanno sottratto alcuna prova: erano documenti, verbali, frammenti di chat ancora sotto analisi per verificarne l’attendibilità, provenienti da un’altra indagine (quella appunto sul “complotto” di cui si occupava il collega Storari) che non si potevano depositare, come spiegano De Pasquale e Spadaro in una accurata relazione mandata al procuratore della Repubblica Francesco Greco il 5 marzo 2021, dodici giorni prima della sentenza Eni-Nigeria (che ha assolto tutti gli imputati).

La nota dei due pm è stata ora mandata da Greco alla Procura di Brescia che ha iscritto De Pasquale e Spadaro nel registro degli indagati per rifiuto di atti d’ufficio e ha deciso una mossa mai vista prima: il sequestro informatico (senza realizzare copia forense), dai computer d’ufficio dei due magistrati, di un anno e mezzo di email, che prevedibilmente contengono atti segreti su decine d’inchieste.

Vedremo come andrà a finire. Intanto, però, viene il fondato dubbio che i nostri immarcescibili garantisti della politica e della stampa, a De Pasquale non perdonino non ciò che non ha fatto oggi (le “prove” non depositate), ma ciò che ha fatto ieri (le indagini che hanno portato alla condanna definitiva di Bettino Craxi prima e di Silvio Berlusconi poi).

Le Brigate Barilla per il bene del Paese

Va dettoche Guido Barilla è un uomo intelligente. Ormai ha capito, per dire, che è meglio tenersi lontano dall’amata “famiglia tradizionale” (“non faremo pubblicità con omosessuali, perché a noi piace la famiglia tradizionale”, 2013), mentre può senza problemi prendersela coi lavoratori sfaticati: “Molte persone scoprono che stare a casa col sussidio è più comodo rispetto a mettersi in gioco cercando lavori anche poco remunerati (…) Rivolgo un appello ai ragazzi: non sedetevi su facili situazioni, abbiate la forza di rinunciare ai sussidi facili e mettetevi in gioco”, s’è accorato ieri su La Stampa. Giovani, fate come Guido Barilla: lui s’è messo in gioco e a 30 anni era già vicepresidente di una multinazionale dell’alimentare, solo casualmente sua omonima, selezionato tra mille da Pietro Barilla, solo casualmente suo padre. Ci dev’essere questa incapacità di mettersi in gioco dei giovani, assuefatti al sussidio facile, dietro ai dati sul lavoro nel primo trimestre 2021 diffusi ieri da Istat: in un anno -900mila occupati (-243mila rispetto ai tre mesi precedenti), ma la situazione inizia a cambiare. E infatti se diminuiscono autonomi e dipendenti stabili, a inizio anno tornano a salire i lavoratori a termine (+0,6%), gente che si mette in gioco. Invece c’è chi non vuol capire. Per dire, questi lavoratori della Fedex-Tnt che da settimane protestano perché la multinazionale li ha licenziati per sostituirli coi subappalti sono chiaramente gente che s’è “seduta su facili situazioni”. Vogliono sì lavorare, ma non “mettersi in gioco per lavori anche poco remunerativi”: pretenderebbero il contratto nazionale e connessi diritti, persino di scegliersi il sindacato. È chiaro che poi, a vedere tanta protervia, a qualcuno salti la mosca al naso e li riempia di mazzate, mentre la polizia fischietta, come ieri nel Lodigiano fuori dalla Zampieri Holding. Come? Dicono che tra gli assalitori ci fossero guardie private dell’azienda? Noi crediamo alla versione delle forze dell’ordine: i lavoratori a fine turno, indignati dalle pretese dei manifestanti, hanno pensato di affermare coi bastoni il principio morale per cui bisogna mettersi in gioco. È tanto vero che un testimone riporta di aver distintamente sentito il grido “Viva Barilla” prima della carica.

MailBox

M5S, una rifondazione che miri alla Costituzione

Conte a Di Martedì ripropone e rilancia la questione morale sollevata da Berlinguer, che 40 anni fa dichiarava: “I partiti non fanno più politica”, “I partiti hanno degenerato e questa è l’origine dei malanni d’Italia”. L’etica pubblica, la legalità, la lotta alle mafie costituiscono i punti qualificanti del progetto politico di Conte, un progetto che si configura come una rivoluzione culturale. Il radicamento della prima, aggravato dalle devastazioni provocate dalla globalizzazione, aggiungeva l’antropologa, impedisce di fronteggiare con esiti positivi l’attuale crisi. Il progetto di Conte e del suo movimento si è inserito qui: estirpare quelle tre piaghe che affliggono da secoli il Paese diventa la condicio sine qua non per realizzare i valori universalistici della Costituzione. Il che non significa che l’interesse particolare debba venire sacrificato sull’altare di quello generale, ma bisogna evitare che prenda il sopravvento sul bene comune e sui valori universali. Il Movimento rifondato da Conte si muove quindi nella direzione di un “patriottismo della Costituzione” (Habermas).

Maurizio Burattini

 

Sono tutti contro Arcuri, ma con lui eravamo primi

Per tutti quelli inginocchiati al Furiere Figliuolo, vorrei ricordare che ha trovato tutto pronto e poi sono arrivati i vaccini. Avete la memoria corta, ma arrivata la pandemia non c’era niente: mancavano le mascherine, i respiratori, le terapie intensive, le siringhe, personale medico e infermieristico. Tutto questo grazie ai tagli alla sanità dei governi di destra e di sinistra, con in testa Berlusconi e il suo figlioccio Renzi. Dopo una corsa incredibile per attrezzarci a sconfiggere il Covid, fanno tristezza tutti coloro che sparano su Arcuri, e incensano il Furiere Figliuolo, malato di annuncite. Mentre Arcuri ha rendicontato tutte le spese, siamo in attesa della rendicontazione del Furiere. Quando Arcuri è stato sostituito eravamo i primi in Europa per vaccinazioni, adesso quando in Italia se ne fanno 500 mila al giorno, in Germania arrivano d un milione al giorno.

Ivano Possieri

 

Gli Usa lasciano Kabul, ma pagheranno le donne

Mille Saman si apprestano a morire in Afghanistan. Il contingente internazionale – voluto dagli Usa per sfogare la frustrazione all’indomani dell’11 Settembre – va via senza aver risolto nulla. Anzi, gli accordi diretti tra Trump e i talebani hanno legittimato proprio i peggiori nemici del rispetto dei diritti umani. E a pagare il prezzo più alto saranno le donne, che secondo i fanatici non devono uscire di casa, né studiare, né lavorare. Come hanno dimostrato un mese fa con l’attentato fuori da una scuola di Kabul, dove sono esplose ben tre auto bomba a breve distanza temporale, per uccidere anche i soccorritori. A terra rimangono dilaniate 79 studentesse, molte altre sono gravemente ferite e traumatizzate. A queste giovani che provano a studiare e vivere in modo dignitoso, ora noi diciamo: “Arrangiatevi”.

Massimo Marnetto

 

La Rai e l’ammirazione estetica per Super Mario

Questa mattina ero in viaggio in auto e dalle 12 alle 14 ho ascoltato alcune edizioni del giornale radio Rai. Nel servizio dedicato al G7 la giornalista incaricata, non ricordo il nome, ha riportato anche queste testuali parole riferite al presidente Draghi: “è sbarcato alle 12 circa, in abito scuro e cravatta color malva”. Nella mia lunga militanza di radio ascoltatore (ho già compiuto 70 anni), non ho mai ascoltato un servizio di devozione estetica a questo livello! Posso sbagliarmi, mi correggerà direttore, ma sono preoccupato per la Rai e per il nostro Paese. Saluti.

Claudio

 

DIRITTO DI REPLICA

Non risponde al vero quanto affermato nel Vostro articolo del 9 giugno u.s. a firma Marco Grasso dal titolo “Morandi, l’ex dirigente ai pm: ‘Chiedevo investimenti, Castellucci tagliava e basta’”, circa il subentro dell’arch. Michele Donferri Mitelli nel ruolo lasciato dall’ing. Gabriele Camomilla. Quest’ultimo, infatti, interruppe il suo rapporto con Autostrade per l’Italia s.p.a. nel 2004, quando l’arch. Donferri Mitelli si occupava d’altro. Dopo una lunga parentesi professionale in altra società del Gruppo, l’arch. Donferri Mitelli rientrò in Autostrade per l’Italia s.p.a. solo nell’aprile 2016, ben undici anni dopo l’uscita di scena dell’ing. Camomilla. Dopo una iniziale collaborazione nel biennio 1991-1993, i destini professionali dell’ing. Camomilla e dell’arch. Donferri Mitelli non si sono più incrociati. L’affermazione non vera è tanto più grave in considerazione dell’averla accostata, in modo suggestivo, alla riferita interruzione, “dal 2005”, di “investimenti in tecnologie di controllo”. Vogliate pertanto rettificare l’informazione da Voi erroneamente riportata.

 

Ci scusiamo se per eccesso di sintesi non è risultato chiaro che tra il pensionamento dell’ing. Camomilla e il subentro dell’arch. Michele Donferri Mitelli si sono avvicendati anche altri dirigenti. Pare ovvio sottolineare che le contestazioni dell’ing. Camomilla – “dal 2005 non si è più investito in tecnologie di controllo” e, in sunto, “dal 2014 non c’era più nessuno che guardava i sensori” – riguardino anche la gestione dell’architetto Donferri, capo delle manutenzioni di Autostrade per l’Italia fino alla data del crollo del Ponte Morandi.

Marco Grasso

Viaggi e Covid-19. Non tutti i Paesi europei applicano le stesse regole

 

Desidero segnalare una situazione che a me è sembrata assurda, se non peggio. Vaccinata con le due dosi richieste per Pfizer fin dal 1° maggio, credevo di poter andare in Olanda, dove risiede mia figlia. Al check-in della Transavia, pur essendo in possesso anche di un tampone antigenico negativo, non mi hanno dato il permesso di partire perché non avevo un tampone molecolare negativo, che era quello richiesto. Non solo, non ho potuto nemmeno cambiare la prenotazione col pretesto che mi ero presentata con i documenti sanitari non a posto. Chiedo: a cosa serve tutta la campagna mediatica sui vaccini e sul green pass che permetterà ai vaccinati di viaggiare in Europa, se ogni Stato decide arbitrariamente e i vaccini non li riconosce? Vi ringrazio e i miei complimenti per il bellissimo giornale.

Anna Velati

 

Gentile Anna, nella lettera lei non specifica quando ha programmato il viaggio in Olanda per raggiungere sua figlia, ma in ogni caso non mi sorprende che abbia incontrato difficoltà. Prima di tutto dobbiamo operare una distinzione tra la certificazione verde Covid-19, che è il lasciapassare valido solo sul territorio nazionale, e il Digital Green Certificate (DGC), che è il “passaporto” vaccinale europeo per muoversi tra gli Stati membri della Ue e in alcuni Paesi dell’area Schengen. Quest’ultimo è stato appena approvato dal Parlamento europeo. Dal 1° luglio sarà l’unico attestato riconosciuto per gli spostamenti dei cittadini europei e durerà nove mesi per chi ha completato il ciclo vaccinale e sei mesi per chi è guarito dal virus. Ciò non toglie, però, che i Paesi Ue siano liberi di cambiare le regole di ingresso e di circolazione in relazione alla situazione epidemiologica. È per questo che il governo suggerisce di informarsi preventivamente su eventuali limitazioni previste dai singoli Stati. È in ogni caso vero che su questo punto è stata fatta un po’ di confusione. Per la prossima volta, ricordi che il DGC è un certificato, digitale o cartaceo, che viene rilasciato a tre condizioni: avvenuta vaccinazione, con validità a partire da due settimane dopo la seconda dose, oppure la guarigione dal Covid o ancora l’esito negativo di un tampone, valido per 72 ore per il molecolare e 48 ore per quello rapido. Rammenti, in ogni caso, di verificare le regole previste dal Paese in cui vuole recarsi.

Natascia Ronchetti

Fenomeno Conte, più lo tiri giù e più lui si tira su

“Il punto dolente è la stampa mainstream, che ha condotto il gioco al massacro in maniera ostinata, ripetitiva, ininterrotta” – (dalla prefazione di Barbara Spinelli a I segreti del Conticidio di Marco Travaglio, PaperFirst, 2021, pag. IV)

 

Ormai è un fenomeno mediatico, prima ancora che politico. La popolarità e il gradimento di Giuseppe Conte, a quattro mesi dalla sua uscita da Palazzo Chigi, continuano a crescere: non solo nei sondaggi, ma anche sui social e in particolare sulle due piattaforme principali, Facebook e Instagram. E ciò nonostante il cecchinaggio sistematico della stampa padronale, o forse proprio per questo; e nonostante l’indifferenza per non dire l’avversione del servizio pubblico radiotelevisivo, spesso dissimulate dietro l’ironia a buon mercato, a cui s’aggiunge l’ostilità delle tv berlusconiane. “Adesso arriva Conte che fa ridere anche più di noi”, abbiamo sentito dire – quand’era premier – dall’ilare e giulivo conduttore di una trasmissione di infotainment sulla radio ammiraglia della Rai; oppure, più recentemente, “Conte vuole una segreteria con Di Maio e Appendino, così almeno c’è qualcuno che parla l’italiano”; o ancora, “Conte vuol cambiare nome ai 5 Stelle, li chiamerà 5 Stelle superior, magari non vince le elezioni ma 4 Hotel forse sì”.

Eppure, più lo tiri giù, più lui si tira su. Continuate così, verrebbe quasi da dire se non fosse che si tratta di un ex presidente del Consiglio, leader in pectore di quello che è tuttora il gruppo di maggioranza relativa in questo Parlamento. Conte non ha certamente bisogno di difensori d’ufficio né saremmo all’altezza di un Rocco Casalino, esaltato e glorificato dal Grande Fratello. Ma, per spirito di contraddizione, vorremmo cercare d’interpretare il fenomeno anche per valutare l’influenza residua dei giornaloni e la credibilità di quel (dis)servizio pubblico che fa (dis)informazione politica a senso unico.

È chiaro che chi deride o disprezza Conte intende attaccare i Cinquestelle, per impreparazione o incapacità, ora che sono passati da forza antisistema a forza di governo. E non c’è dubbio che la loro metamorfosi può anche suscitare legittime critiche, perplessità o riserve. Ma è proprio la figura dell’ex premier, l’uomo che ha affrontato la prima fase dell’epidemia, avviato la campagna vaccinale in carenza dei vaccini, s’è procurato i 209 miliardi del Recovery Fund europeo e ha impostato il Piano nazionale di ripresa, a rappresentare ora l’anello di congiunzione di darwiniana memoria tra il Movimento e il nuovo partito in formazione. È lui l’artefice e il protagonista di questa trasformazione, il campione degli ex grillini convertiti dal populismo alla responsabilità.

Ma Conte è anche il principale trait d’union con il Pd di Enrico Letta, l’asse della coalizione di centrosinistra che rappresenta un baluardo democratico. Senza questa alleanza, non c’è alternativa alla vittoria elettorale del centrodestra e a un eventuale governo sovranista, guidato da Salvini o Meloni. Magari con il tutor Berlusconi al Quirinale per salvaguardare il conflitto d’interessi. Uno scenario da incubo, un horror politico-istituzionale.

Non c’è tanto da stupirsi, perciò, se oggi Repubblica targata Fiat rischia di trasformarsi in un house organ berlusconiano, arrivando a pubblicare in una settimana sei interviste a esponenti di Forza Italia. C’è da sorprendersi e rammaricarsi, piuttosto, che il giornale delle “dieci domande” all’ex Cavaliere appaia ancora a qualche lettore un giornale progressista, di sinistra o centrosinistra. E soprattutto, meraviglia il fatto che il fondatore Eugenio Scalfari e il suo ventennale successore Ezio Mauro non si meraviglino a loro volta.

 

Acqua pubblica in mani private: 10 anni dal referendum buttati

Esattamente dieci anni fa, il 12 giugno del 2011, 26 milioni di italiani si recarono alle urne per chiedere senza mezzi termini che l’acqua restasse un bene di natura esclusivamente pubblica e che da essa non si traesse profitto. Quella volontà popolare è stata rispettata? Per nulla.

Oggi gli italiani si ritrovano, spesso senza saperlo, con una ridda di società per azioni (con la sola eccezione di Napoli) a partecipazione sia pubblica che privata, che dividono la maggioranza degli utili tra gli azionisti, con buona pace di quanto chiesto dai cittadini. In queste aziende si trova un po’ di tutto, comprese multinazionali e fondi di investimento stranieri. E la ragione è chiara: non esiste un investimento migliore, visto che si tratta di un regime di monopolio, in cui le tariffe sono assicurate e non esiste obbligo di investimenti nella rete. E infatti, con buona pace di chi lega libero mercato ed efficienza, a dieci anni da quel referendum il risultato è che le perdite idriche della rete sono aumentate, secondo l’Istat, del 42%, contro una media europea che si aggira tra il 15 e il 18%. Le bollette, invece, salgono, come ha mostrato una ricerca della Cgia Mestre, che ha stimato un aumento del 90% solo tra il 2007 e il 2017.

Intendiamoci: questo modello fa comodo anche ai Comuni che, incapaci di gestire il servizio idrico (anche per i tagli selvaggi), intascano i dividendi con i quali magari finanziano altri servizi, “in una logica del tutto insensata” come spiega Paolo Carsetti del Forum dei Movimenti per l’Acqua, che oggi sarà in piazza a Roma per manifestare perché la volontà del referendum venga rispettata.

Se oggi ci troviamo in questa situazione è colpa solo della politica, che in dieci anni, nonostante i governi e le maggioranze che si sono mano mano succeduti, non ha messo mano a una legge che ripubblicizzasse l’acqua. Non lo hanno fatto i governi di destra – anzi Berlusconi tentò a un mese dal referendum un colpo di mano per abrogare l’esito della consultazione, bloccato dalla Corte costituzionale – ma non sono riusciti a farlo neanche i Cinque Stelle al governo (eppure una delle stelle simboleggia proprio l’acqua pubblica), nonostante la proposta di legge della loro deputata Daga, che giace da anni in commissione Ambiente.

La situazione non può però che aggravarsi con l’attuale Recovery Plan: che sì destina alcuni fondi, comunque pochi, all’ammodernamento delle reti, ma conferma il modello di governance attuale, cioè quello della società per azioni che produce utili, che si vorrebbe espandere anche al Sud. “Una pietra tombale sul referendum”, la definisce sempre Carsetti. Eppure la ripubblicizzazione non ha nulla a che fare con una sorta di nazionalizzazione “sovietica”, temuta dai liberisti. Anzi, si tratta di “scelta riformista, che viene promossa in pieno da tutti gli organismi internazionali, le norme europee e persino la nostra stessa Costituzione, a partire dall’art. 43”, spiega il costituzionalista Gaetano Azzariti. Tant’è che molte città europee stanno tornando indietro, togliendo l’acqua ai privati e restituendola in mano pubblica.

In tutto ciò, non si può ignorare che siamo nel mezzo di una crisi climatica che diminuirà nei prossimi anni la disponibilità idrica. Dare una risorsa vitale finita e a rischio in mano a privati è un atto suicida. Unita anche alla scellerata quotazione in Borsa che oggi comincia a essere possibile in alcuni Paesi, la privatizzazione dell’acqua rischia di mettere in ginocchio anche tutte le piccole imprese, specie agricole, che in futuro non avranno abbastanza soldi per garantirsela, così come i cittadini a basso reddito che si vedranno recapitare bollette che non sono in grado di pagare. Quei cittadini che magari, dieci anni fa, avevano chiesto, democraticamente, che ciò non avvenisse.

 

Il limite dei due mandati danneggia il movimento

Premetto che non ho intenzione di ricandidarmi perché sono un professore universitario prossimo alla pensione. Mi sono candidato nel Movimento 5 Stelle perché il Paese necessita di persone competenti, appassionate e oneste e sentivo indispensabile reinstaurare un confronto democratico dopo il Patto del Nazareno. Le mie competenze sono professionali, ma in Parlamento ho compreso come fosse importante conoscere la macchina legislativa, di cui ero digiuno, e i meccanismi che governano le relazioni col governo, i viceministri e sottosegretari, i ministeri, le partecipate e le imprese. Queste ultime tre sono una “selva” difficile da penetrare, e cambiano durante la legislatura. Si devono poi conoscere i membri del proprio e degli altri gruppi.

Si impara continuamente e sono ben lontano dall’aver imparato. Sono inoltre necessarie intelligenza, astuzia, arguzia, eloquio, umiltà e flessibilità. È necessario mettere da parte l’ego e dare la priorità al collettivo anche se le decisioni cozzano contro le lotte fatte da singoli. Senza maggioranza è impossibile realizzare i programmi. Realizzarni alcune e impedire che si peggiorino altri è un grande successo. Le esigenze del proprio territorio, dal cui collegio elettorale dipende l’eventuale rielezione, devono passare in secondo piano rispetto alla necessità di risolvere problemi nazionali. In questo contesto ha senso il limite dei due mandati introdotto nello statuto da Beppe Grillo e dai primi attivisti? I Padri costituenti non lo ritenevano necessario perché deve rimanere in parlamento chi lavora bene. Il Movimento soffre di carenza cronica di organizzazione e di problemi di reclutamento come evidenziato dai molti cambi di casacca, problemi che non riguardano solamente gli “uninominali” come il sottoscritto, ma anche attivisti storici. Molti parlamentari vorrebbero continuare a ricoprire un ruolo prestigioso che permette di incidere sulla realtà del paese e garantisce un buon stipendio anche se i membri del Movimento rinunciano alle indennità e a parte dello stipendio. Ci sono portavoce di spessore e che dedicano anima e corpo al Paese, e altri che lo fanno con meno impegno. C’è chi spintona per farsi avanti e chi continua a lavorare in silenzio. Ero stato indicato da Luigi Di Maio come ministro delle Infrastrutture nella Squadra di governo costituita prima delle elezioni del 2018 ma poi, senza una larga maggioranza, era stato scelto Danilo Toninelli. L’esperienza non è acqua e Toninelli è riuscito a fare subito provvedimenti epocali pur dovendo affrontare l’immane tragedia del crollo del Ponte Morandi che ha evidenziato una carenza manutentiva nelle infrastrutture del paese. Dopo il Conte-1 ho auspicato che il ministero fosse affidato a Stefano Patuanelli, che ha esperienza e avrebbe potuto sfruttare meglio di me le sue competenze. “Siamo tutti utili, nessuno indispensabile”, ha detto ieri Patuanelli, ma credo si tratti di un errore come quello dell’“uno vale uno” per poi dover aggiungere “ma l’uno non vale l’altro”.

È evidente come ci siano persone più utili di altre e l’esperienza, utile nella vita, lo è ancor di più in politica. Con il vincolo dei due mandati il M5S rischia di perdere tante persone valide. Patuanelli continua dicendo che “decidono gli iscritti” e credo si tratti di una ennesima ingenuità. Dovrebbero decidere tutti i cittadini del Paese. Gli iscritti al Movimento vogliono cambiare il Paese, ma ci sono troppi “duri e puri” e in un sistema democratico la rigidità è un grave limite. Durante le elezioni regionali del 2020 fui l’unico parlamentare ad auspicare nelle Marche una alleanza progressista che sarebbe stata incarnata dall’ex Rettore dell’Università di Ancona, Sauro Longhi. Il Pd rischiava di perdere la regione dopo anni di pessima politica e insieme saremmo riusciti a ottenere più portavoce in consiglio regionale e alcune posizioni chiave in caso di vittoria. Presentarci da soli con un candidato debole ha significato passare dal 33% di consensi nelle Politiche a poco più del 7%. Lo stesso è accaduto in altre regioni dove si è impedito quel dialogo ora auspicato da Giuseppe Conte.

Molti attivisti scalpitano per entrare e il doppio mandato toglie la concorrenza dei vecchi, ma genera un conflitto di interessi in parte dell’elettorato. Spero dunque che “non decidano” gli iscritti, ma che Grillo e Conte cambino questa regola. Il Paese necessita che siano elette persone capaci. Se lo sei, lo rimani anche al terzo e al quarto mandato. Il Movimento deve trovare modalità di selezione più adeguate, preparate in largo anticipo da organismi regionali. La carenza di organizzazione e di una adeguata comunicazione è stata la principale causa delle perdita di consensi. Non ripetiamo l’errore perché il Paese ha bisogno del M5S.

 

 

I programmi in televisione: Da “diritto e rovescio” al “giovane montalbano”

E per la serie “Chiudi gli occhi e apri la bocca”, eccovi i migliori programmi tv della settimana:

Rai Premium, 21.20: Il giovane Montalbano, fiction. A Vigata arriva il vicecommissario Augello, donnaiolo impenitente, che corteggia subito Livia. La donna però è attratta da Catarella.

TV 2000, 21.10: Una bracciata per la vittoria, film drammatico. La vera storia del nuotatore australiano Tony Fingleton e del suo rapporto col padre, un burlone insopportabile che durante le gare se ne stava sott’acqua a sfilargli gli Speedo.

Rai 1, 10.15: La Santa Messa, fiction. Gesù manda in visibilio il pubblico con i suoi miracoli, degni di Houdini. Segue ep. 4: “Murato vivo”.

Sky Cinema Uno, 19.30: Le verità nascoste, film drammatico. Fine anni 50. Maya, sopravvissuta a un lager nazista, si è rifatta una vita in America sposando un uomo, ma dopo un po’ comincia a sospettare che il marito, in realtà, sia il suo carnefice del lager, che si è rifatto i connotati con la chirurgia plastica. Questo, oppure è veramente stronzo.

Giallo, 21.10: Vera, telefilm. Il corpo di un giovane viene ripescato in un fiume nei pressi di Thrunton Woods. Vera riesce a identificarlo. Gli chiede: “Come ti chiami?” E lui: “John Smith. Cazzo volete? Stavo nuotando!”.

Rai 4, 21.20: Dritto e rovescio, attualità con Paolo Del Debbio. Un programma talmente brutto che gli spettatori vanno nelle case dei vicini a spegnerlo.

Cine34, 21.00: Ultimo tango a Zagarolo, con Franco Franchi. Il film forse più controverso di Bernardo Bertolucci.

Sky Cinema Suspense, 21.00: Nerve, film drammatico. Un gioco online porta l’adolescente Vee a cimentarsi in sfide sempre più estreme, fino a quella potenzialmente mortale: staccarsi da TikTok per un’ora.

Premium Stories, 21.15: Girlfriends’ Guide to Divorce, telefilm. Barbara vorrebbe accettare la proposta di condurre uno show TV, ma non sa come si fa a entrare dentro un televisore.

Discovery +, streaming: la piattaforma propone programmi come Love Island, Naked Attraction, Matrimonio a prima vista, Il contadino cerca moglie, Ti spedisco in convento, e Lady Gucci: la storia di Patrizia Reggiani. Laura Carafoli, chief content officer del gruppo, in una recente intervista su Prima Comunicazione ha rivelato da quale logica originano questi show: “Non prendo più decisioni su un programma se al tavolo non ci sono esperti di marketing che suggeriscono se il prodotto ha potenzialità di vendita. Il contenuto che va più in assoluto è quello che io chiamo love & relationship: tutto quello che è amore, dating, relazioni. Un’altra scelta è stata avere Elettra Lamborghini come volto di lancio di Discovery +. Dal punto di vista del marketing uno straordinario specchietto per le allodole perché ci ha aperto al pubblico che ama i reality e i famosi del web”. Allodole: questo siete, per la tv. Almeno Laura Carafoli ve lo dice.

Fox Crime, 21.05: Private Eyes, telefilm. La signora Angie Mason ha 60 anni e il corpo di una ventenne. In cantina.

Real Time, 21.25: Fuori menu, cucina. In gara ci sono due coppie di amici che possiedono caratteristiche diametralmente opposte. Quale sarà il menu più apprezzato dei commensali? I ricciarelli di ceci e timo con brodo di carote e sgombro arrostito, o la merda impanata?

 

La tarantella di palazzo e gli abbracci di Pier Sileri

Per il rispetto dovuto alle istituzioni, abbiamo sperato ardentemente che la decisione del governo Draghi non fosse quella rilanciata per tutto il giorno, e cioè la “raccomandazione rafforzata” ai più giovani a non vaccinarsi con AstraZeneca. Non riuscivamo a capacitarci di come, trascorsa un’eternità dai primi, insistenti allarmi sui rischi connessi, il Cts si mostrasse ancora incapace di suggerire la soluzione più chiara sul tema sensibilissimo della salute degli italiani. E che, preda dei cacadubbi, anche dopo la morte di Camilla Canepa in seguito alla somministrazione di AZ, l’augusto consesso si rifugiasse in formule degne di un bugiardino. Poi, abbiamo appreso che il pilatesco Cts, fermo come roccia sulla “raccomandazione”, ha scaricato lo stop agli under 60 sul governo, “che lo tradurrà in modo perentorio”, qualunque cosa voglia dire. Domanda: in questa tarantella, c’entra qualcosa la potenza di fuoco di Big Pharma? E ora l’angolo del buonumore. Nel corso della pandemia, il sottosegretario alla Salute, Pierpaolo Sileri, ha mostrato un certo competente buon senso nelle sue frequenti apparizioni. Anche se a noi, in età avanzata, qualche volta ci ha ricordato il professor Alessandro Cutolo, conduttore di una popolare trasmissione, “Una risposta per voi”, nella Rai-tv degli albori. Così come il dotto accademico era pronto a disquisire sull’impero di Alessandro Magno, ma pure sulla ricetta dell’Amatriciana, anche Sileri ama svariare con leggerezza nel ramo di sua competenza. Fondamentale, per esempio, alla vigilia di Euro 2020, il responso sulla possibilità di urlare gol senza mascherina. “Sì che si può”, ha stabilito magnanimo spingendosi a concedere che “ci si può anche abbracciare, però se si è vaccinati” (ipotetico dialogo a un gol degli Azzurri: “Scusi, lei è vaccinato? Posso abbracciarla?”). Bene, interpellato su AZ, Sileri ha detto che “sotto i 30 anni non dovrebbe essere usato” e che “soprattutto alle donne sotto i 50 anni non lo consiglierei”. Visti i risultati non siamo tuttavia così convinti che oltre a dichiararlo a una radio il sottosegretario lo abbia anche comunicato al ministro della Salute, qualche porta più in là. Volevamo anche dire qualcosa sul Salvini di governo e di propaganda, che dopo la morte di Camilla ha sibilato: “Bimbi e ragazzi non sono cavie da laboratorio”. Poi abbiamo pensato che il vaccino contro la vergogna non è stato ancora sperimentato.

“Serve la patrimoniale o i ricchi pagheranno meno tasse degli altri”

“Ci sono almeno tre modi per risolvere il problema messo in luce dall’ultimo scoop di ProPublica”, ma “per farlo ci vuole la volontà politica”. Lo dice in questa intervista Gabriel Zucman, 35 anni, economista francese ispiratore della tassa minima globale sulle multinazionali, teorico della patrimoniale per i multimilionari, docente di Economia a Berkeley e direttore dell’Eu Tax Observatory. Partiamo dalle tasse che paga chi è molto ricco. Basandosi su dati dell’Agenzia delle entrate statunitense, ProPublica ha rivelato quanto poco versano, sfruttando metodi perfettamente legali, i 25 uomini più ricchi degli Usa. Il risultato ha fatto gridare in molti allo scandalo perché, ad esempio, il fondatore di Amazon, Jeff Bezos, tra il 2014 e il 2018 è riuscito a pagare un’aliquota effettiva (che Propublica chiama “true tax rate”) dello 0,9% sul suo patrimonio.

Professor Zucman, in un editoriale il Wall Street Journal ha scritto che non c’è alcuno scandalo perché le imposte si pagano sul reddito e non sul patrimonio. Insomma Propublica è accusata di aver mischiato reddito e patrimonio, e di aver fatto finta di non sapere che la ricchezza finanziaria di personaggi come Bezos, che nel suo caso è rappresentata soprattutto da azioni di Amazon, viene tassata nel momento in cui quelle azioni vengono vendute. Cosa ne pensa?

Quello che mostrano le rivelazioni di ProPublica è che i primi 25 miliardari degli Stati Uniti pagano una quantità di tasse insignificante: lo 0,17% della loro ricchezza, nel 2018. Indipendentemente da come la si guardi, ciò implica un’aliquota fiscale effettiva bassissima anche rispetto ai loro redditi. Sebbene fosse già chiaro dai registri pubblici che un certo numero di individui ultra ricchi non paga molte tasse, è la prima volta che possiamo effettivamente quantificare il problema in modo così preciso.

Come lo risolverebbe il problema?

Da un punto di vista politico, ci sono tre modi principali. Il primo è una patrimoniale, che è la via più diretta per tassare i miliardari. Il secondo è un’imposta sul reddito mark-to-market: in pratica i miliardari pagherebbero le tasse sull’aumento della loro ricchezza, indipendentemente dal fatto che questi guadagni siano realizzati o meno. Infine, si possono aumentare le imposte societarie. È un altro modo per tassare di più i grandi patrimoni, perché anche quando le società non distribuiscono dividendi, i loro proprietari in effetti pagano le tasse attraverso l’imposta societaria.


Lei è stato uno dei primi a teorizzare la necessità di introdurre una patrimoniale per i multimilionari: un’aliquota del 2% per chi possiede un patrimonio oltre i 50 milioni di dollari, e del 3,5% per quelli con un patrimonio che va oltre il miliardo. Perché la considera ancora una riforma indispensabile?

È il modo migliore per garantire che i super ricchi non paghino meno tasse rispetto al resto della popolazione

Ma non è facile applicarla. Molti miliardari – lo dimostra l’inchiesta Panama Papers – nascondono i loro soldi in nazioni dove vige il segreto bancario e schermano i loro beni attraverso società anonime. Come si può applicare la patrimoniale su questi beni nascosti? Il rischio non è quello di tassare solo i milionari più trasparenti con il Fisco?

Una patrimoniale può essere applicata, ma per farlo ci vuole la volontà politica. Per questi casi bisogna prevedere sanzioni per i Paesi, le istituzioni finanziarie e gli individui che aiutano a nascondere le ricchezze.

Sulla tassa minima globale proposta dagli Usa di Biden, lei ha definito l’accordo del G7 “storico, inadeguato e promettente”. Perché?

Storico, perché per la prima volta dei Paesi si sono accordati su un’aliquota minima. Inadeguato, perché l’aliquota minima ipotizzata (15%, ndr) è davvero troppo bassa. Promettente, perché non c’è alcun ostacolo che impedisca di arrivare al 25%.

Perché l’aliquota dovrebbe essere del 25%?

Perché genererebbe circa 170 miliardi di euro all’anno per la sola Unione europea: significa 3-4 volte più di quanto verrebbe raccolto con un’aliquota minima del 15%.

Prima di entrare in vigore, la tassa minima globale ha ancora molta strada da fare, compreso il voto dei parlamenti nazionali. Quali sono secondo lei i rischi principali?

Il diavolo è nei dettagli. La tassa minima sarà alla fine davvero applicata su una base “Paese per Paese”, come scritto nella dichiarazione del G7? Saranno previste deroghe, come l’esenzione sulla Gilti tax (la Global intangible low taxed income tax, introdotta dall’Amministrazione Trump per tassare gli utili spostati dalle compagnie domestiche nei paradisi fiscali, ndr)? E soprattutto: come sarà definita la base imponibile minima a cui applicare la nuova aliquota? Questi sono i temi chiave da definire. Io li seguirò con attenzione.