Roma scopre Michettone (e Sgarbi è già assessore)

“Michettone, Michettoneeee”. Vittorio Sgarbi zampetta arzillo tra il palco e il retro del Tempio di Adriano, dove la destra presenta il suo candidato sindaco di Roma. Enrico Michetti-chi è dunque già “Michettone”: il carneade che tenta la scalata al Campidoglio ora ha un nome e pure un soprannome. Merito di Sgarbi, appunto, grande protagonista dell’evento e vero frontman nella sfida per Roma. I due candidati M&M’S – il ticket Michetti-Matone – fanno già un passo di lato. Parlano poco e non dicono quasi niente, oscurati dal sindaco di Sutri e dai capi di partito, la triade Meloni-Salvini-Tajani.

Sull’avv. Michetti c’era grande curiosità. Prima che il centrodestra pescasse il suo nome per la città più difficile d’Italia, se ne sapeva poco o nulla. A parlare per lui alcune affermazioni non indimenticabili da opinionista di Radio Radio, l’emittente romana più popolare nel mondo no-vax e complottista, dove Michettone si è messo in luce con una rare perle di saggezza: ha definito il saluto romano “igienico” in tempi di pandemia, il fascismo un regime “all’acqua di rose” rispetto alla dittatura sanitaria e il vaccino anti-Covid simile al “doping in Europa dell’est”.

Nel giorno del suo battesimo da candidato, per fortuna vola più basso. E comunque lo fanno parlare pochissimo, per lui garantisce Giorgia Meloni, che se lo coccola protettiva: “Altro che Michetti-chi. È l’uomo che chiamano i sindaci quando devono risolvere i problemi, uno dei migliori amministrativisti d’Italia”.

Sul palco, in filigrana, si consuma la solita sfida con Salvini per l’egemonia a destra. Il capo della Lega si scopre ambientalista: “Vogliamo che Roma diventi la Capitale più green d’Europa”. La leader di Fratelli d’Italia gioca in casa, è più brillante: il collega fino all’altroieri faceva i cori contro i meridionali. Meloni ci gioca: “Roma è la città che io… – fa una breve pausa maliziosa – che noi amiamo”. Promette ai candidati: “Ci penso io a portarvi in tutti i quartieri”. Loro, i teorici protagonisti, restano in ombra. Il moderatore dell’incontro è Gennaro Sangiuliano, direttore del Tg2 (che officia senza imbarazzi un evento elettorale di destra), non gli cede quasi mai la parola. Quando lo fa, non brillano. La candidata pro-sindaca Simonetta Matone sembra più solida e concreta. Sventola i fogli del curriculum da mostrare ai giornalisti e graffia il segretario del Pd, Enrico Letta: “Mi sorprende che faccia polemica su di me e i magistrati in politica, proprio lui che mi nominò capo del dipartimento degli affari di giustizia, nel ruolo che un tempo fu di Giovanni Falcone”.

Michetti invece si affida alla solita, vecchia retorica imperiale, che forse a destra tira ancora. “Qualcuno mi ha definito tribuno. Che bello: non esiste termine più alto. Il tribuno della plebe rappresentava il popolo di Roma, era sacro e inviolabile. Il mio imperatore preferito, Cesare Ottaviano Augusto, pretese di rimanere tribuno a vita”. E poi lo slogan più cesarone del mondo: “La città eterna deve ritornare caput mundi”. Il programma? Non pervenuto.

Molto meglio Sgarbi, lo spettacolo è lui. Nel retropalco saluta Michetti a modo suo: “Camerata!”. Quando Sangiuliano gli cede il microfono è un altro show: “Voi lo sapete il nome dell’assessore alla Cultura di Roma? È un’amica di Raggi, esperta di burlesque. Io farò l’assessore a titolo gratuito. Non ho bisogno di poltrone: farò l’assessore in piedi. Il nostro è un tridente, Michetti-Matone-Sgarbi. Io sono qui per i miracoli”. Si concede un annuncio mirabolante: “Quando Figliuolo avrà finito con l’emergenza Covid lo chiameremo a fare il commissario all’emergenza Roma”. Infine battezza Michetti-chi: “Lo faremo conoscere, lo faremo diventare più grande”. Un Michettone.

Torino, il Pd ai gazebo Pochi iscritti: il rischio è che perdano tutti

Una questione di numeri. È questa la morale (un po’ arida) delle primarie del centrosinistra torinese che, tra oggi e domani, dovranno scegliere un candidato sindaco capace di riconquistare quella Sala Rossa persa da Piero Fassino nel 2016. La partecipazione al voto nei gazebo, innanzitutto: con solo 1176 elettori che si sono iscritti invece alla piattaforma elettronica. Condizionata da confronti non del tutto tranquillizzanti. Furono infatti 53 mila, nel 2011, i votanti che incoronarono Fassino, scesero a 50 mila (ma nell’intera provincia) nel 2019 per la scelta di Nicola Zingaretti al Nazareno: con i mezzo, nel 2018, solo 9 mila partecipanti in città per indicare la segreteria regionale.

Che accadrà allora in questo weekend di giugno, con gli effetti della pandemia, uno scarso interesse della base ancora abbacchiata per il trionfo nel 2016 di Chiara Appendino, e gli estenuanti tentennamenti del Pd cittadino alla ricerca di un candidato da contrapporre al civico Paolo Damilano, l’imprenditore incoronato tre giorni fa dal centrodestra, ma in campagna elettorale da almeno un anno? Se i votanti scenderanno sotto quota 20 mila (considerata dal Pd nazionale la soglia di guardia) il segnale per il centrosinistra non sarebbe incoraggiante: uno scollamento con la città tra i suoi stessi militanti e simpatizzanti, foriero di sentimenti negativi in vista delle elezioni “vere” di ottobre. Ma un altro numero conterà, forse ancora di più, nelle valutazioni sia locali che romane: il vincitore delle primarie riuscirà a scavalcare quel 50 per cento di preferenze, unica e vera certificazione di un minimo di leadership unitaria?

I quattro che gareggiano sono: due esponenti del Pd – il capogruppo in Comune, Stefano Lo Russo, e il vicepresidente del Consiglio comunale, Enzo Lavolta – il radicale di +Europa Igor Boni e Francesco Tresso, autoproclamatosi “civico”, in realtà eletto cinque anni fa in Comune per la lista Fassino. Qualcuno di loro è davvero in grado di dominare le primarie? Per restare nell’area Pd, il più attrezzato per farlo sembra essere Lo Russo, appoggiato dai padroni del partito, il capo della “corrente autostradale” Raffaele Gallo, il facoltoso imprenditore cooperativista Mauro Laus, tre ex sindaci (Fassino, Sergio Chiamparino e Valentino Castellani), una parte di ex dc ed ex Margherita e, a titolo quasi personale, l’ex sottosegretario e cuperliano Andrea Giorgis. Con Lavolta si è schierata invece buona parte della sinistra (la base cuperliana e Anna Rossomando, area Orlando, vicepresidente del Senato), l’altra fazione degli ex Margherita e Leu. Tresso, infine, gode dei consensi di quella che a Torino viene chiamata la “Ztl” (la buona borghesia di sinistra) e di Sinistra Italiana.

Nessuno, nel partito e nei pettegolezzi della vigilia, si sbilancia: ma il timore di un vincitore “anatra zoppa” serpeggia da giorni. Il tutto complicato poi dal vero “convitato di pietra” di queste primarie, ma soprattutto delle urne di ottobre: il no, con l’unica eccezione di Lavolta (più volte citato, per questo, dalla sindaca Appendino nelle sue ultime interviste), da parte del Pd, dei suoi “cacicchi” e – con più forza ancora – di Lo Russo, a un’alleanza organica con il M5S. Lanciata a più riprese dal primo cittadino uscente, traccia sotterranea per la trattativa avviata nell’autunno scorso da Appendino e Chiamparino per una scelta civica a favore del rettore del Politecnico, Guido Saracco, e poi naufragata dopo il ritiro del docente universitario per motivi di famiglia e il successivo disimpegno di Chiamparino.

Un mese fa, l’inviato di Letta a Torino, Francesco Boccia, aveva provato a riaprire uno spiraglio con il rettore, ottenendo una disponibilità a riflettere, ma poi il nuovo niet del partito locale e l’accelerata sulle primarie ha cancellato tutto. Solo una vittoria di Lavolta potrebbe far ripartire questo scenario, mentre quella di Lo Russo peserebbe ancora di più sul voto per il Comune: il capogruppo Pd, infatti, è l’autore della denuncia penale sul bilancio comunale finita con la condanna che ha indotto Appendino (ancora di più di quella per i “fatti di piazza San Carlo”) a non ricandidarsi. Dunque, un possibile candidato divisivo in vista di un estremo accordo per l’eventuale ballottaggio contro Damilano. Forte, quest’ultimo, di un personale prestigio negli ambienti che contano a Torino e del crescente consenso del centrodestra (soprattutto di Fratelli d’Italia) in quelle periferie della città che, cinque anni fa, decisero la vittoria dei Cinque Stelle e nelle quali il Pd, diviso tra le lacerazioni delle sue nomenclature e le “belle bandiere” della borghesia della Ztl, non pare aver mai affrontato le ragioni di una sconfitta.

Lega-FI, rivolta dei leghisti per i posti da cedere a B.

“C’è più malumore nella Lega che in Forza Italia…”. Con questa saetta verbale, un deputato del Carroccio fa capire il senso di frustrazione (quando va bene) che si è alzato nel partito da quando Matteo Salvini ha annunciato l’idea della federazione del centrodestra di governo. Già, perché se in FI sono divisi a metà, nella Lega le obiezioni superano quasi i favorevoli. Perché l’idea, secondo i parlamentari leghisti più sgamati, si porta dietro quella del partito unico coi berluscones. Cosa ammessa all’inizio dallo stesso Salvini e poi anche da Silvio Berlusconi (i due ieri si sono risentiti al telefono con l’intenzione di “andare avanti”). E questo vuol dire solo una cosa: che alcuni di loro dovranno rinunciare al seggio per lasciar posto ai berlusconiani. “Anche un solo posto ceduto sarebbe troppo…”, sussurra un altro deputato durante un crocicchio nel cortile di Montecitorio, in settimana.

Già, perché occorre sempre tener conto della decurtazione del prossimo Parlamento, composto da 400 deputati e 200 senatori. Secondo una proiezione di Nando Pagnoncelli, se si andasse a votare con il Rosatellum il partito di Salvini, con all’incirca gli attuali sondaggi, starebbe in una forbice tra i 112 e i 117 deputati rieletti. Ben meno degli attuali 132. FI, invece, tra i 31 e i 33. Seggi che, andando separati, sarebbero facile terreno di conquista per le truppe salviniane. E che invece adesso dovranno esser lasciati ai berluscones. D’altronde, è cosa nota che nel cerchio magico filo-leghista di Forza Italia si ragiona secondo cui “meno siamo e meglio stiamo”. E Berlusconi lo sa bene, tanto che al Capitano avrebbe chiesto precise garanzie per 30 seggi alla Camera e 15 al Senato. Risultato: non pochi leghisti resteranno a bocca asciutta. “Il partito unico per chi? Per cosa? Per non farsi sorpassare dalla Meloni? Gli elettori non sono stupidi, fiuteranno l’operazione di maquillage…”, interviene un altro deputato leghista.

Il malcontento, nel partito salviniano, ribolle. Qualche eco se n’è avuta pure nel consiglio federale di martedì, dove qualcuno ha osato dire: ma siamo sicuri sia una buona idea? E Salvini è stato costretto a rassicurare, senza risultare convincente. L’unico che per ora ha espresso perplessità mettendosi la faccia è il capogruppo a Montecitorio, Riccardo Molinari. “Aspetto di parlare con Matteo perché questa iniziativa non l’ho capita. Nessuno vuole dire addio alla Lega…”, ha detto in un colloquio con il Foglio. E pure in Senato i leghisti non stanno sereni. “Qui i posti saranno pochissimi. Sarà una lotta”, dicono. Si racconta, poi, che in queste ore siano raddoppiate le telefonate verso Gemonio, a casa di Umberto Bossi. “Umberto, devi dire qualcosa e fermare questa idiozia. Che c’entriamo noi con Forza Italia?”, è il tono delle chiamate. Il Senatur ascolta, dà ragione a tutti, ma per il momento non parlerà. Così come si è chiuso in un mutismo assoluto Giancarlo Giorgetti, il cui silenzio la dice lunga su come abbia accolto il “predellino salviniano”. Del quale, dicono, in Lega era a conoscenza solo del leader e pochissimi altri. “Contesta solo chi non ha capito. Non sarà un partito unico ma una federazione. Che servirà a contare di più all’interno del governo Draghi e quando si voterà per il Quirinale. E anche a mostrare che può esistere un centrodestra senza Meloni…”, spiega il “salviniano” Massimiliano Capitanio, confermando però le perplessità dei colleghi.

Il leader, intanto, infastidito dalle continue frenate (“se bisogna fare la federazione, questo è il momento, rinviarla al 2022 è inutile”, ha detto), cerca di rassicurare snocciolando sondaggi. “Oggi una federazione di Fi, Lega e centristi è al 31,6, ma ha un potenziale tra il 34 e il 37%”, ha fatto sapere. Mentre “il Salvini federatore acquista 3 punti in fiducia personale: dal 33 al 36%”, dicono dal suo entourage. Ma ieri un altro sondaggio ha avuto il sapore di una doccia gelata: secondo Emg/Adnkronos, se gli elettori di centrodestra sono per il 56% favorevoli, l’operazione regalerebbe subito il 2% alla Meloni. Inoltre, a conferma che la somma non fa il totale, FI e Lega valgono più da separati (28,5%) che insieme (23,8). E adesso chi glielo dice al Capitano?

Cina.“Grillo e Conte all’ambasciata”. Ma l’ex premier non ci va

Che il giorno scelto non fosse il più indicato lo ha capito lo stesso Giuseppe Conte quando in serata ha fatto sapere che all’Ambasciata cinese in Italia, insieme a Beppe Grillo, non ci sarebbe andato.

L’ipotesi dell’incontro ha indignato gli avversari per la concomitanza con il vertice G7 in Gran Bretagna, prima uscita mondiale del presidente Joe Biden e prova generale della nuova linea Usa: unire le “democrazie” contro l’autoritarismo. La linea, in realtà, è sempre la stessa: riunire gli “amici” sotto un’etichetta comune – “lotta a comunismo”, “lotta al terrorismo”, etc. – per delimitare lo spazio mondiale degli avversari, in questo caso la Cina.

Conte ha precisato che la sua assenza è dipesa “da impegni e motivi personali”, che le visite alle ambasciate, “come ex presidente del Consiglio e leader in pectore del Movimento 5 Stelle” ne ha fatte molte e continuerà a farle perché “il neo-Movimento avrà un respiro marcatamente internazionale” e che “le polemiche sollevate sono del tutto pretestuose”.

Nel suo entourage, in realtà, dicono che l’incontro non fosse programmato e che dunque il caso è vero solo a metà. La vicenda, in ogni caso, ha offerto l’occasione a partiti come Lega e Italia viva – ormai in sintonia quasi su tutto – per biasimare l’intempestività di Conte. Stiamo parlando, si badi bene, di partiti che amano frequentare i palazzi moscoviti di Vladimir Putin o le regge saudite di Bin Salman. Scandalizzata anche Giorgia Meloni che, tra una chiacchierata con Viktor Orbán, non smette di professare la propria fede atlantica.

Ma lo “scandalo” evidenzia un problema non risolto nella politica estera italiana. Il promotore dell’incontro, infatti, Beppe Grillo, ha varcato il cancello dell’ambasciata cinese ribadendo di non voler interrompere i legami con Pechino, in linea con quanto detto e fatto dal Movimento 5 Stelle al governo. Linea rivendicata anche da Gianluca Ferrara, capogruppo M5S in commissione Esteri al Senato: “Non possiamo prescindere dalla Cina”. Mario Draghi è fermamente filo-atlantico, ma il fondatore del Movimento vuole tenere aperta questa eccezione alla sudditanza statunitense. Nonostante la presa di distanza di Conte, la contraddizione esiste. E meno male.

“Vaccini e imposte: gli States più avanti dell’Europa divisa”

“Noi come Cinque Stelle saremo pronti a portare avanti un’Europa più inclusiva, più sostenibile, più verde, più giusta”. Fabio Massimo Castaldo, vicepresidente del Parlamento europeo, prende un impegno a nome del Movimento nella direzione di un nuovo corso europeo, dopo l’arrivo di Joe Biden alla presidenza degli Stati Uniti. Nel giorno in cui inizia il G7 in Cornovaglia, Castaldo vede un Biden più avanti della stessa Ue. Due scelte su tutte: la proposta di “sospendere i brevetti, nonostante il successivo parziale passo indietro, per facilitare l’accesso ai vaccini dei paesi più poveri”. E “la tassazione minima globale al 15% delle multinazionali”. Ma su entrambe le questioni, fa notare Castaldo, l’Europa procede divisa. “Sui brevetti ci sono Paesi molto più cauti, a partire dalla Germania. E fortissime resistenze della Commissione e del Consiglio”.

Non a caso, solo due giorni fa è passato un emendamento per la liberalizzazione al Parlamento Ue, dopo mesi di discussione. “Alcune scelte non possono essere prese all’unanimità se siamo 27, ma con la maggioranza qualificata”. Dibattito che in Europa si fa sempre più pressante. Per quel che riguarda le tasse alle multinazionali, l’Europa non è compatta, tanto che per ora l’accordo è di massima. “Gli Usa avevano proposto una tassazione al 21%. Italia, Francia, Spagna e Germania sono tra i fautori di questo approccio. Ma dall’altra parte, Olanda, Irlanda, Lussemburgo e Malta non vorrebbero questa scelta: le loro politiche fiscali aggressive hanno fatto perdere decine e decine di miliardi agli altri paesi membri. Anche Orban era per il 9%. Ma per essere un attore geopolitico dobbiamo trovare la quadra: con i veti incrociati non potremo mai essere credibili”. Tra i dossier della visita di Biden c’è pure la Difesa: “Dobbiamo puntare ad avere un’autonomia strategica, con una maggior cooperazione e uniformità di strumenti. Ma serve soprattutto un indirizzo geopolitico”. È rispetto ai rapporti con Russia e Cina che Biden si aspetta una sterzata dal Vecchio Continente. Sulla Russia le posizioni sono meno nette delle sue. La Cina, poi, chiama in causa direttamente l’Italia. E M5s. Proprio ieri Beppe Grillo era all’Ambasciata cinese. “Possiamo affrontare minacce cibernetiche e ibride solo se abbiamo la forza di imporre un quadro di regole a livello internazionale per mantenere l’accesso a internet libero, trasparente e sicuro. È vero che l’Italia in passato ha cercato di avere delle aperture con l’obiettivo di rilanciare il nostro export. D’altra parte, gli Usa di Trump procedevano in modo totalmente autonomo e conflittuale, diversamente da Biden. L’Italia ne ha preso atto, ma ora può e deve rafforzare il suo partenariato strategico con gli Usa”.

Castaldo dà ragione su tutta la linea a Draghi sull’atlantismo (“è l’approccio italiano, coerente con il nostro europeismo”). Però arriva la critica: “Lo avrei voluto più in prima linea per esempio sulla sospensione dei brevetti. A volte, è stato troppo cauto. Ma vedo che il legame con Biden è saldo”. Va per la maggiore di questi tempi una narrazione di Draghi come vero leader europeo, pronto a prendere il posto della Merkel. Ma arriva uno stop: “Lo vedremo nel tempo. Vorrei ricordare che è stato grazie alla capacità negoziale di Conte che l’Italia ha avuto i 209 miliardi del Recovery Fund”.

 

Ora Draghi fa l’americano (tranne che sull’economia)

È un rapporto complesso quello tra Joe Biden e l’Europa, come si evince anche dalla prima giornata del G7 a Carbis Bay, in Cornovaglia. Primo summit in presenza post pandemia, con foto di gruppo davanti alle scogliere. Il viaggio del presidente degli Stati Uniti nel Vecchio continente (sarà lunedì e martedì a Bruxelles, per i vertici Nato e Ue e poi mercoledì a Ginevra per l’incontro con Vladimir Putin) ha come obiettivo numero uno quello di rafforzare le alleanze in Europa, contro Cina e Russia. Di ristabilire un asse privilegiato dopo Donald Trump. Con il premier italiano Mario Draghi che si pone come interlocutore strategico privilegiato. Il successo della sua mediazione è tutto da verificare, visto che le divisioni a livello europeo rimangono. Ma ieri Draghi ha aperto la prima sessione dei lavori, insieme allo stesso Biden e alla Cancelliera tedesca, Angela Merkel. Mentre i due avranno un bilaterale. Clima, vaccini e Libia al centro del discorso.

Ma intanto proprio i dossier Cina e Russia e la liberalizzazione dei brevetti mostrano i problemi. Prima dell’inizio dei lavori si incontrano – per definire una comune posizione Ue, il presidente del Consiglio europeo, Charles Michel, la Presidente della Commissione, Ursula von der Leyen, il presidente francese Emmanuel Macron, la Merkel e Draghi. Sulla Cina, i leader europei ribadiscono un approccio articolato, ricordando che Pechino è un partner per le sfide globali, un concorrente economico e un rivale sistemico. Sulla Russia, fonti Ue si limitano a sottolineare che non vedono il paese di Putin come un mediatore nel conflitto nell’Ucraina orientale, ma come parte in causa. Mentre sui vaccini, i ragionamenti sono ancora più netti: “La revoca dei brevetti non è la bacchetta magica. La proprietà intellettuale non è e non dovrebbe essere un ostacolo a un accesso equo”. E ancora, sottolineano come la Ue abbia sempre esportato massicciamente.

Su tutte queste questioni, è la Germania a essere su posizioni più lontane rispetto agli States. Dunque, Draghi si pone come campione di atlantismo in Europa. E se il “whatever it takes” dell’allora presidente della Bce riecheggia nel modello per la crescita che Draghi illustra, è sulla Libia che il premier italiano continua a tessere la sua tela per recuperare l’influenza dell’Italia nel Paese (sia in un incontro con Macron, ieri, che nel bilaterale di oggi con Biden). Un “forte picco” di crescita prova che le politiche attuate durante la fase più acuta della pandemia sono state “corrette”, dice Draghi. È stato giusto sostenere le imprese e le persone ma ora serve “più spesa per gli investimenti e meno forme di sussidio”. Ci sono “ottimi motivi” per continuare con politiche di bilancio espansive, perché mentre l’economia attraversa una “transizione” bisogna “proteggere i lavoratori”. L’errore del passato è stato “dimenticarsi” della “coesione sociale”. Plauso da tutti, presidente degli States compreso. Va detto, però, che il discorso arriva mentre in Italia il suo governo fa fatica a trovare una mediazione sul blocco dei licenziamenti. Mentre – a proposito di atlantismo – va ricordato che Biden ha fatto una tripla manovra di ben 6.000 miliardi di dollari negli Usa. Una valanga di spesa pubblica. Ieri Draghi ha incontrato anche Boris Johnson: la Libia al centro.

“Ero lo sponsor di Palamara. Mi chiese notizie contro Ielo”

In media tra i 7 e gli 8mila euro l’anno in pranzi e cene pagati “in favore di Luca Palamara” tra il 2014 il 2108. Prassi che Fabrizio Centofanti, lobbista accusato di corruzione con Palamara, sostiene di aver interrotto nel 2018 a causa dell’arresto disposto dalla Procura di Roma su richiesta del procuratore aggiunto Paolo Ielo e del pm Stefano Fava. Alle dichiarazioni di Centofanti alla procura di Perugia, che segnano l’avvio di una collaborazione in vista di un patteggiamento, Palamara replica che si tratta di un “last minute quasi a orologeria per distrarre da fatti gravi perpetrati ai miei danni (a Firenze è stato considerato parte offesa per l’utilizzo del trojan, ndr), ribadisce che dimostrerà di “non aver mai compresso” la sua “funzione di magistrato” e conclude: “Non mi lascio intimidire da manovre “spintanee” che provano a infangarmi al solo scopo di far calare il silenzio sulla mia vicenda”.

Nei suoi verbali Centofanti parte dall’inizio: puntò su Palamara perché, oltre a essere suo amico, il suo rapporto lo aiutava a promuovere i convegni della sua società, la Cosmec,.

“Tramite Palamara ho conosciuto Riccardo Fuzio (ex procuratore generale della Cassazione, ndr) e il Giuseppe Pignatone (ex procuratore capo di Roma, ndr) con cui è nato un rapporto di stima”. Spiega di aver partecipato a molte “cene finalizzate alla promozione delle nomine (…), cene di ‘politica giudiziaria’”. Quando nel 2016 viene perquisito (per un’inchiesta dalla quale sarà archiviato) non partecipa più alle cene ma provvede “a pagare il costo (…) presso il ristorante Il San Lorenzo, o Tullio: i titolari sapevano che ogni qualvolta si presentava Palamara il conto doveva essere posto a mio carico con chiunque egli fosse. Ero uno sponsor dell’attività politico correntizia di Palamara. (…). Il mio interesse era di avere frequentazioni e organizzare convegni con sponsorizzazioni significative. In quel periodo ho organizzato meno convegni rispetto agli anni precedenti, ma più redditizi”. Su Pignatone precisa: “È stato sempre ospite a casa mia. Solo una volta abbiamo mangiato in un ristorante e ha pagato lui”. Poi parla di una cena organizzata per la nomina del presidente del tribunale di Roma Francesco Monastero: “Ho organizzato la cena su input di Palamara, all’hotel Majestic di Roma e mi è costata 850 euro. C’ero io, Palamara e il giudice Antonino La Malfa, vero sponsor di tale nomina (…) era presente anche la presidente Maria Elisabetta Casellati (oggi presidente del Senato, ndr), Luca Forteleoni (…) mi sembra che al termine della cena sopraggiunse Cosimo Ferri. L’evento servì a suggellare l’accordo tra Unicost e i laici di centrodestra per la nomina (…)”. La seconda cena con Casellati, dopo quella rivelata ieri. Quando nel 2016 subì una perquisizione, Centofanti racconta che Palamara gli disse che, “se avessi fatto qualcosa, sarei dovuto andare a patteggiare (…) mi professai innocente e Palamara mi disse che ne avrebbe parlato con Giuseppe Cascini (il pm che indagava, ndr) ma gli dissi che non doveva farlo. (…) Dopo la perquisizione i miei rapporti con Pignatone si sono interrotti ma invece non ha incrinato il mio rapporto con Palamara”.

Tutto cambia nel 2017 quando viene accusato di corruzione e frode fiscale: “Avevamo rapporti riservati, anche se lui si sentiva in dovere di aiutarmi. Non mi ha mai dato informazioni sulle indagini, ma mi dava un inquadramento politico investigativo allarmante. Diceva che ero stato coinvolto nelle indagini, in quanto Fava voleva colpire Pignatone e io ero una delle due strade per raggiungere il suo scopo (…), che Fava si lamentava che il fratello di Pignatone aveva ricevuto incarichi da Amara (…) che era inferocito, in quanto la Procura di Roma aveva fatto un coordinamento, non seguiva più in autonomia le indagini, ma aveva Ielo “sopra di lui” (…), mi disse che un’ufficiale della GdF aveva riferito a Fava che a casa mia era spesso ospite Pignatone e che a una cena aveva partecipato con il ministro della difesa Roberta Pinotti (…). Diceva di aver appreso tali informazioni durante le partite di tennis con Fava”. Dopo l’arresto del 2018 “per un periodo non ci siamo più visti” ma un giorno “Palamara attraverso Alessandro Casali disse di volermi di incontrare (…). Luca mi fece presente che lo scenario era completamente cambiato, che Fava (…) voleva fare la guerra a Ielo (…) che stava preparando “una bomba atomica” e mi chiese di reperire presso Eni delle notizie sugli incarichi dati al fratello di Ielo. Fece riferimento anche indirettamente ad Amara (…) ipotizzando che suo tramite avrei potuto recuperare tali informazioni. Rimasi sconcertato” e “mi parve paradossale, poiché Fava mi aveva arrestato”. “Di tutto questo – dice Fava al Fatto – non ho mai saputo nulla”.

Presidio FedexTnt: squadristi contro operai. Si sarebbe mosso un “servizio di sicurezza”

Bastoni e bancali lanciati. Lavoratori della Fedex-Tnt licenziati da una parte, e ancora lavoratori dall’altra. Nove feriti, uno grave. È l’1:30 di ieri mattina fuori dai cancelli dell’azienda di logistica Zampieri Holding in via Orecchia a Tavazzano con Villavesco (Lodi). Chi aggredisce chi? È una guerra tra poveri o c’è altro? Indaga il procuratore di Lodi Domenico Chiaro che ha aperto un fascicolo senza indagati ma con titoli di reato che vanno dalla violenza privata aggravata alle lesioni. Di certo il presidio di ieri non è stato il primo. In meno di un mese nella zona di Lodi ce ne sono stati altri sempre legati al mondo della logistica. In attesa della nota dei carabinieri, sul tavolo ci sono due versioni. I Si Cobas, che hanno appoggiato il presidio dei lavoratori licenziati dalla multinazionale americana e già impiegati presso l’hub di Piacenza, spiegano per bocca di Fulvio di Giorgio: “Ritengo ci siano state guardie private travestite (…) che hanno assaltato i lavoratori che stavano manifestando”. Secondo fonti sindacali, il presidio è stato aggredito “a colpi di bastoni, frammenti di bancali, sassi e bottiglie da una cinquantina di bodyguard”. Assoldati, se sì e da chi, sarà anche tema dell’indagine. Gli aggressori, è la posizione del sindacato, hanno “attaccato il presidio di circa 40 lavoratori del Si Cobas a mani nude, e per dieci minuti” sono stati lasciati “agire indisturbati dalla polizia che era a pochi passi e non ha mosso un dito”. Al momento, la ricostruzione dei carabinieri è questa: i manifestanti bloccavano l’uscita e gli scontri sarebbero legati al fatto che i dipendenti dell’azienda lodigiana volevano uscire dai cancelli liberamente. Eppure, secondo quanto ricostruito dal Fatto sentendo fonti qualificate, vi è l’ipotesi che contro i lavoratori FedEx si sia mosso in parte un servizio di “sicurezza” già allertato dagli episodi precedenti. Risultato: dei nove, un ferito grave e subito ricoverato al policlinico San Matteo di Pavia. Si tratta di A.E., 48 anni, lavoratore Si Cobas della FedEx di Piacenza, che sarebbe rimasto a terra “in una pozza di sangue”. Secondo quanto spiegato dai rappresentanti locali Si Cobas, FedEx oggi punterebbe a lasciare a casa i lavoratori facendoli poi riassumere da altre cooperative “azzerando i loro diritti già acquisiti”. Ieri il ministro della Lavoro e delle Politiche Sociali, Andrea Orlando, ha avuto un colloquio telefonico con il questore chiedendo di essere informato.

Parla Montante: “Io, strumento dei magistrati”

“Senza i magistrati non avrei potuto fare niente di quello che ho fatto con Confindustria”. A due anni di distanza, torna a parlare in aula Antonello Calogero Montante, l’ex presidente degli industriali siciliani condannato in abbreviato in primo grado a 14 anni per associazione a delinquere finalizzata alla corruzione. “Dopo le minacce di morte ricevute, ricordo che mi chiamò l’allora procuratore di Palermo Francesco Messineo, ma anche il prefetto, il questore, per dirmi che non mi dovevo dimettere”, racconta Montante ai giudici nel processo d’appello, nell’aula bunker del carcere Malaspina di Caltanissetta. L’imprenditore parla anche della politica siciliana: “Marco Venturi fu indicato da me per la nomina di assessore del governatore Raffaele Lombardo”. Nel processo d’Appello sono imputati anche l’ex capocentro della Dia Gianfranco Ardizzone, il questore Andrea Grassi, il dirigente della polizia Marco De Angelis e il responsabile della security di Confindustria, Diego Di Simone.

Prestipino ricorre in Cassazione e Consiglio di Stato

Michele Prestipino si è rivolto di nuovo al Consiglio di Stato (Cds) e per la prima volta alla Cassazione, perché vuole essere il procuratore di Roma a tutti gli effetti e non un facente funzioni, dopo l’annullamento della sua nomina deciso prima dal Tar del Lazio e poi confermato dal Cds che ha dato ragione al procuratore generale di Firenze, Marcello Viola. Prestipino ha di fatto chiesto al Cds di smentire se stesso, perché avrebbe compiuto degli errori materiali nella ricostruzione del suo curriculum. Inoltre, ha chiesto al Cds (in attesa che si pronunci nel merito della revocazione) “in via cautelare, di sospendere l’esecutività della sentenza impugnata”. Prestipino si è pure rivolto alla Cassazione perché il Cds, accogliendo il ricorso di Viola e annullando la sua nomina, avrebbe sconfinato nell’ambito “discrezionale” che spetta solo al Csm. La doppia mossa del magistrato consente di prendere tempo al Csm fino all’autunno per affrontare un nuovo voto sul procuratore di Roma che ha fatto scoppiare, nel maggio 2019, lo scandalo nomine.