Nasce l’agenzia cyber: cosa cambia

Un organismo che stia al di sopra di tutto (con 300 dipendenti e 50 esperti) e che abbia l’ultima parola in materia di sicurezza cibernetica quando è in ballo la sicurezza nazionale. E che comunque faccia capo a Palazzo Chigi e all’autorità delegata, quindi oggi a Franco Gabrielli.

Ieri il Consiglio dei ministri ha dato il via libera al decreto con cui si istituisce l’Agenzia per la cybersicurezza nazionale che, di fatto, sarà il punto di coordinamento dei fondi del Recovery fund sul tema. Di qui, passeranno in pratica, tutte le questioni che riguarderanno la sicurezza delle infrastrutture critiche italiane e anche tutte le iniziative per rafforzarla. Vigilerà sull’efficienza dei sistemi informativi della P.A. e delle imprese, si occuperà di tutto ciò che riguarda la “difesa” lasciando la parte di intelligence d’attacco ai servizi; Dis, Aisi e Aise.

Gabrielli, nella mattinata di ieri, ha illustrato il decreto della nuova agenzia al Copasir, che lo esaminerà. Poi, toccherà il passaggio per la conversione in legge in Parlamento. Solo dopo, presumibilmente tra agosto e settembre, si identificherà chi andrà a dirigere l’agenzia (ad oggi, secondo testate di settore, il nome in pole è del vicedirettore del Dis, Roberto Baldoni). La nuova agenzia, proprio come l’Istituto italiano di cybersicurezza (Iic) pensato ai tempi del governo Conte, resta sotto la sorveglianza di Palazzo Chigi, ma vengono meno due elementi: la contiguità con i servizi, che avrebbe potuto generare zone d’ombra nella sua gestione, e la forma di fondazione privata, che in quella posizione era necessaria per velocizzare i processi. Ora l’agenzia diventa entità “autonoma”, di diritto pubblico e dotata di maggiore libertà.

Nel decreto sono contenute tutte le funzioni dell’agenzia: dalla stesura annuale della “strategia nazionale di cybersicurezza” all’accentramento dell’iter sulla certificazione di sicurezza cyber che sarà quindi tolto dal ministero dello Sviluppo Economico insieme al Centro di valutazione e certificazione nazionale (Cvcn). Avrà poi la responsabilità del cosiddetto perimetro cyber (semplificando molto, l’insieme delle regole di sicurezza che i diversi attori italiani devono rispettare). Proprio come l’Iic, sarà il punto di coordinamento della rete di centri comunitari da cui si dovrebbero muovere i fondi dei programmi Ue che valgono 5 miliardi di euro in totale.

Nascono poi due nuovi organismi. A Palazzo Chigi ci sarà il Cics (Comitato interministeriale per la cyber-sicurezza) che coinvolgerà nove ministeri (Esteri, Interno, Giustizia, Difesa, Economia, Sviluppo economico, Transizione ecologica, Università, igitale) e sarà presieduto dal premier con compiti di “alta sorveglianza”. Accanto, il “Nucleo per la cybersicurezza” che avrà funzioni di supporto dell’agenzia e di cui faranno parte anche funzionari di Dis, Aise, Aisi, il consigliere militare del premier e un esponente del Dipartimento della Protezione civile.

Pro inceneritori e industria: Cingolani premia la vice leghista

Che l’azione del ministro della Transizione ecologica non fosse esattamente quella sperata dal M5S, lo si è capito nei primi tre mesi di governo. Come il lettori del Fatto hanno potuto leggere in queste settimane, quella pensata da Roberto Cingolani è una transizione più a misura delle grandi imprese che non delle aspettative degli ambientalisti. L’ultima prova in questa direzione il ministro – consigliato a Draghi da Beppe Grillo (“è uno di noi”, disse il Garante dei 5Stelle) – lo ha fatto mercoledì assegnando le deleghe alle due sottosegretarie: la leghista Vannia Gava e la grillina Ilaria Fontana.

Premessa: al M5S vanno alcune deleghe pesanti come le attività connesse ai siti inquinanti di interesse nazionale (Sin), le bonifiche, il dissesto idrogeologico, la rigenerazione urbana, il mare e i parchi. Quelle destinate alla Gava – friulana, molto vicina a Matteo Salvini e al mondo delle imprese, che ricopriva la stessa carica nel governo Conte-1 dove ha fatto spesso dannare il ministro Sergio Costa – restituiscono un quadro a suo modo indicativo. A lei vanno deleghe che maggiormente coinvolgono i grandi interessi industriali: oltre al Cipess – l’erede in chiave sostenibile del Cipe (il comitato interministeriale per le grandi opere) – e la ricerca aerospaziale, le sono state assegnate il trattamento dei rifiuti, l’economia circolare e l’efficientamento energetico degli edifici. Deleghe che hanno un collegamento con gli ultimi provvedimenti del decreto legati al Piano nazionale di ripresa (Pnrr).

Sui rifiuti, Cingolani fa una scelta indicativa: Gava è da sempre favorevole agli inceneritori tant’è che proprio nell’aprile del 2019 fu lei ad aprire uno dei primi fronti nella maggioranza Lega-M5S con un’intervista all’Huffington Post in cui spiegava che i termovalorizzatori “si devono fare” e i 5Stelle “non possono dire di no”.

Ora, grazie al decreto Semplificazioni appena approvato, questo tipo di impianti (come altri considerati “strategici”, dai gasdotti alle raffinerie da riconvertire) potranno beneficiare di corsie preferenziali accelerate per gli iter autorizzativi (la cosiddetta “fast track”). La seconda delega di peso è quella all’economia circolare, dentro il quale rientra il grosso capitolo del riuso dei rifiuti industriali (l’end of waste). Anche qui, il dl Semplificazioni ha accolto le richieste della Lega (e dei suoi governatori del Nord) che hanno sempre chiesto autonomia sulla scelta dei rifiuti sui quali consentire il riciclo industriale: con il decreto, la competenza, prima centrale, passerà ai presidenti di Regione. Con le deleghe alla Gava potranno contare anche su un guardiano al ministero che non si metta di traverso. L’ultima delega che ha fatto innervosire diversi 5 Stelle è quella all’efficientamento energetico degli edifici. Quello degli edifici pubblici è un capitolo che nel Pnrr si è assai ridotto, resta però quello in chiave privata: il Superbonus del 110%, una misura sventolata come una bandiera dal M5S e che adesso, dopo l’impegno del governo di prorogarla al 2023, non avrà la delega a vigilare dal ministero.

Il maxi-yacht e la strana vendita tra due uomini vicini a Salvini

Un mega yacht a motore di 27 metri acquistato da Marzio Carrara, imprenditore bergamasco molto vicino alla Lega di Matteo Salvini e ad Alberto Di Rubba, uno dei due commercialisti (l’altro è Andrea Manzoni, pena: 4 anni e 4 mesi) recentemente condannato a cinque anni nel filone milanese sul caso della fondazione regionale Lombardia Film Commission. Valore dell’operazione ben oltre il mezzo milione di euro. Operazione che però ora è finita sotto la lente dell’Unità di informazione finanziaria di Banca d’Italia, che ha inviato alla Procura di Milano l’analisi su una segnalazione per operazione sospetta.

Il documento è contenuto nei nuovi atti depositati dal procuratore aggiunto Eugenio Fusco e dal pm Stefano Civardi per il processo con rito immediato che si sta celebrando a Milano. Il nome di Carrara (nella terza foto in basso a sinistra), pur non indagato, compare più volte negli atti dell’indagine milanese sulla Lega. Da un lato per i suoi rapporti economici con il partito e dall’altro per due operazioni milionarie segnalata da Banca d’Italia: la prima da 29 milioni per l’acquisto e poi la vendita di società attive nel settore tipografico, dove lo stesso Carrara è leader nazionale. Denaro che finirà sui conti della Cafin, società riferibile a Carrara, già amministrata da Di Rubba e acquirente dello yacht. E una seconda segnalazione sull’acquisito della Leideberg, società che produce agende e dove, segna la Uif, “chi vende e chi compra sono sempre le stesse persone”, ovvero Carrara e Di Rubba.

Schema simile si osserva nella Sos che riguarda l’acquisto dello yacht, marca Leopard Arno Doha 27, perfezionato nel 2018 e di proprietà fino ad allora dalla Sardinia Green Yachts srl controllata dalla Sardegna Finanziaria di Partecipazione srl. Entrambe le società al momento dell’operazione risultavano amministrate da Alberto Scanu, già presidente di Confindustria Sardegna e amministratore delegato della Sogaer, società che controlla l’aeroporto di Cagliari. Scanu da lì a pochi mesi, nel 2019, finirà coinvolto in un’inchiesta sul suo gruppo imprenditoriale per una bancarotta da circa 60 milioni di euro.

Il 1º giugno 2018, gli atti della compravendita vengono eseguiti presso lo studio del notaio Tucci di Bergamo. Chi compra è Carrara con la società Cafin spa, allora holding del gruppo, chi vende è la società di Scanu. A rappresentare il venditore però non c’è il noto manager pubblico sardo, ma il commercialista della Lega, Alberto Di Rubba. Di nuovo, si osserva, chi compra e chi vende sono soggetti collegati tra loro. Di Rubba, del resto, secondo gli esperti di Banca d’Italia, dall’operazione di acquisto e vendita delle società tipografiche otterrà un bonifico da Cafin per 1,1 milioni “a titolo di acquisto quote Dirfin”, altra società della galassia di Marzio Carrara.

Torniamo, però, al mega yacht sul quale Carrara e Di Rubba vengono ritratti in una foto messa agli atti dell’inchiesta e trovata nel cellulare del commercialista bergamasco durante le perquisizioni del 10 dicembre 2018 disposte dalla Procura di Genova che indaga sul presunto riciclaggio dei 49 milioni. Il 1º giugno, le parti si siedono al tavolo. Poche ore prima, Di Rubba è diventato amministratore unico della società venditrice, annota l’antiriciclaggio, grazie a una procura speciale firmata da un notaio di Cagliari. Scanu, dunque, si legge in un verbale di assemblea della società risulterà assente giustificato e si dimetterà completamente dalla carica. Incassata la nuova nomina da parte di Di Rubba, la società Sardinia Green Yacht srl viene trasferita a Bergamo in Angelo Maj 24, indirizzo dove hanno sede diverse società (alcune coinvolte nell’inchiesta) riconducibili a Di Rubba, ad Andrea Manzoni e in parte anche al tesoriere della Lega Giulio Centemero.

Così nel giugno 2018 a questo indirizzo approda anche l’ex società di Scanu che sarà rinominata Almar srl e la cui gestione , pochi giorni dopo, passerà direttamente in capo a Marzio Carrara, mentre Di Rubba continuerà ad avere l’operatività sul conto. Il valore dell’operazione sarà di 590mila euro con 570 bonificati da un conto riferibile a Carrara e sul quale, spiega la Uif, nel biennio 2017-2018 sono arrivati 78 milioni e ne sono usciti 75. A ridosso, infine, dell’operazione, il 10 maggio 2018 sul conto vengono accreditati 20 milioni di euro con la causale “finanziamento infruttifero” da parte di Arti Group Holding, riferibile anche a Carrara, che in quel periodo è impegnata nell’operazione per l’acquisto di alcune società tipografiche rilevate per circa 5 milioni e rivendute a un gruppo industriale veronese per 29 milioni che saranno dirottati nel giro di tre mesi con 4 bonifici sui conti della stessa Cafin, poi fusa nella Cpz spa sempre riferibile a Marzio Carrara. Rispetto all’imprenditore vicino alla Lega c’è una seconda Sos relativa a lavori effettuati da Francesco Barachetti, imputato a Milano per concorso in peculato nel caso Lfc, negli uffici di una società di persona vicina a Carrara. Un legame quello tra Carrara e Barachetti già noto e testimoniato negli atti milanesi dall’acquisto da parte del secondo di una società proprietaria di una villa in Sardegna.

“In segreteria servono ruoli chiari: con Conte si sappia chi sbaglia”

Sul tavolo del M5S che cerca un centro di gravità permanente c’è anche quel tema, quello delle donne. E l’ex ministra all’Istruzione, Lucia Azzolina, non si sottrae: “Certo, mi aspetto che ci sia un buon numero di donne nella segreteria, o meglio negli organi collegiali”.

Lei si aspetta di avere un ruolo?

Premettiamo una cosa: le donne non vanno nominate per puri calcoli di genere, ma perché competenti. Però non vanno ostacolate e neppure temute.

Sì, ma lei?

Io lavoro sui provvedimenti in Parlamento e giro l’Italia. Mi piace farlo, anche perché la gente è molto positiva verso di me, Conte e il Movimento. Ho letto sui giornali che hanno fatto anche il mio nome, ma non so nulla. Comunque vada, darò il massimo in qualsiasi ruolo.

Come dovrebbe essere scelto il nuovo assetto del M5S? Molti eletti vorrebbero che ci si potesse candidare, e non solo una ratifica delle nomine sul web.

Conosco Conte e so che è un ottimo mediatore, abituato a coinvolgere tutti, tanto che qualcuno se ne è anche approfittato. Mi auguro che si costruisca una segreteria tematica, con ruoli assegnati in base alle rispettive competenze. E poi serve una cinghia di trasmissione forte con i territori. che finora non abbiamo avuto.

Basta per strutturarsi?

Sarà fondamentale capire chi fa cosa. Anche perché ognuno deve assumersi le proprie responsabilità. Se qualcuno sbaglia deve essere chiaro come e perché. E deve essere premiata la competenza.

Siamo ormai all’abiura dell’uno vale uno.

Non penso che vada fatta tabula rasa di ciò che è stato il M5S. Dobbiamo difendere i temi che ci caratterizzano, dalla legalità alla cittadinanza digitale, fino alla difesa dei più deboli. Ci vuole coraggio a fare certe critiche al reddito di cittadinanza. Si può migliorare, certo, ma è fondamentale.

Critiche, e forti, arrivano anche dal Pd. E sarebbe il vostro alleato.

Ci si allea sui programmi. Chi crede a una scuola pubblica di qualità? Chi vuole difendere i più deboli e l’ambiente? Dobbiamo confrontarci sui temi, da forza di governo.

Di errori ne avrete commessi in questi anni, no?

Avremmo dovuto essere un po’ più coraggiosi al governo, facendo valere con maggiore decisione le nostre idee. Sull’importanza della scuola e dell’istruzione pubblica ho tenuto una linea chiara e determinata.

Per molti lei resterà la ministra dei banchi a rotelle.

È un’immagine figlia dell’ignoranza, nel senso di mancata conoscenza. Denigrando quei banchi si offendono le migliaia di dirigenti scolastici che hanno acquistato e utilizzato uno strumento innovativo. D’altronde sono stati il tic dei due Matteo, compreso quel Renzi che in Senato mi disse che stavo facendo un ottimo lavoro.

Per Alessandro Di Battista “è avvilente leggere le dichiarazioni di molti parlamentari del M5S che parlano del vincolo del doppio mandato per toglierlo”.

Credo che ora il Movimento debba occuparsi dei posti di lavoro degli italiani. Ci sarà tempo di parlare dei due mandati. Detto questo, mi auguro che Alessandro rientri nel M5S.

La condizione è che voi usciate dal governo Draghi.

Le distanze in politica si possono superare. Dopodiché non dico che tutto va bene come fa Renzi. Sulla Scuola ad esempio avevano promesso tamponi per tutti gli studenti, ma la macchina non è andata a regime. Mentre l’anno scolastico è stato chiuso in anticipo rispetto alle promesse. E poi il ministro Bianchi non ha fatto svolgere i concorsi ordinari per 500mila giovani”.

Ma?

Presenterò un emendamento al dl Sostegni Bis per aumentare i fondi per il sostegno psicologico agli studenti. Stando al governo, avremo più possibilità di farlo passare.

Conte in soccorso di Sala: “Questo è il nostro campo”

Parlare di “federazione” sembra andare di gran moda anche nel centrosinistra. Problema: ciascuno sembra avere un’idea diversa sul perimetro dell’unità.

Ieri, per esempio, Giuseppe Conte e il sindaco di Milano Beppe Sala hanno partecipato all’evento “Verde e giusta – L’Italia del futuro” organizzato dai tre parlamentari di Leu Loredana De Petris, Luca Pastorino e Francesco Laforgia. Il tenore del dibattito è chiaro: bisogna costruire un fronte comune tra Pd, M5S e “una terza gamba”, per dirla con la De Petris, costituita dalle forze di sinistra e ecologiste.

E Conte sembra entusiasta, lui che conferma che nel nuovo simbolo del M5S ci sarà un riferimento all’anno 2050 proprio a indicare l’orizzonte temporale degli obiettivi ambientali e sociali, da perseguire senza dubbi ideologici: “Vi assicuro che avrete un Movimento collocato in questo campo, che sarà più riformatore che mai e pronto a un dialogo strutturato con le forze di quest’area”.

Il progetto piace anche a Beppe Sala, che ringrazia “l’amico Giuseppe” augurandosi “che traghetti i 5 Stelle verso il centrosinistra senza esitazioni e ambiguità”. Anche perché c’è da battere la destra: “Sono ottimista perché vedo qualità all’interno di un alveo politico largo che possono assumersi l’onere di guidare il Paese”.

Prima delle politiche, però, ci sono le Comunali a Milano, anche se a questo proposito ieri il segretario dem Enrico Letta ha messo le mani avanti: “Si tratta di elezioni amministrative e non trarrò scelte politiche se andranno in un verso o nell’altro”. Resta il fatto che Sala e il M5S non sono stati capaci di accordarsi al primo turno, complici le resistenze degli alleati centristi del sindaco. Un segnale però Sala lo lancia parlando del futuro giallorosa: “Quello che offro è un terreno di sperimentazione straordinario come Milano”. Come a dire: se non al primo turno, l’intesa ci sarà al ballottaggio (e magari in giunta).

Resta però una contraddizione esplicitata da Arturo Scotto: “Non credo ci sia bisogno di federazioni riformiste che allargano la faglia col M5S”. Già, perché da giorni il Pd cavalca il progetto federativo di Azione, Iv e altri “riformisti”, che lunedì si sono trovati a Milano insieme proprio al sindaco Sala. Andrea Marcucci, per esempio, vede “con favore” un’intesa tra i dem e i centristi. Dario Nardella sul Foglio esagera: “Immagino un’alleanza larga da Forza Italia a Leu”. Quale “campo progressista”, allora? De Petris considera “un pilastro” l’alleanza del Conte-2. Ma sarà il Pd, prima o poi, a dover scegliere dove guardare.

“Il messaggio è per i boss. Ma pentimento sia leale”

“Ciò che mi ha colpito ascoltando Giovanni Brusca è la lucidità e la freddezza con la quale parlava del suo passato, delle stragi e degli omicidi commessi”. Luca Tescaroli, procuratore aggiunto a Firenze, ha interrogato decine di volte Giovanni Brusca, il mafioso che da poco ha lasciato il carcere dopo aver finito di scontare la propria pena.

Procuratore lei ha interrogato Brusca sin dall’inizio della sua collaborazione (estate 1996): il boss era stato arrestato due mesi prima. Come si svolse il primo incontro?

L’ho interrogato molteplici volte, dal 1996 fino agli anni 2000, sia in fase di indagine che in dibattimento. Nella fase iniziale della sua collaborazione è stato escusso congiuntamente da tre procure: Caltanissetta, Palermo e Firenze. Io ero sostituto procuratore di Caltanissetta. Gli interrogatori sono iniziati il 27 luglio 1996. Le sue indicazioni hanno consentito di arrestare Carlo Greco, uomo fidato di Bernardo Provenzano, co-reggente del mandamento della Guadagna. Ha fornito anche elementi utili a rinvenire armi conservate in un bunker di Giuseppe Monticciolo e di un immobile nella disponibilità di Vincenzo Chiodo (uomo della famiglia di San Giuseppe Jato, quella alla quale apparteneva lo stesso Brusca) sul quale si sarebbe dovuto costruire un deposito di armi.

Ci sono stati momenti di criticità durante le sue testimonianze?

Sì, la fase iniziale della sua collaborazione è stata travagliata: cercò di attuare dapprima un depistaggio, poi il 14 ottobre 1996 gli venne contestato il delitto di calunnia. Il 7 novembre 1996 Brusca ammise di aver detto il falso sull’omicidio di Girolamo La Barbera, padre del boss divenuto collaboratore Gioacchino La Barbera, trovato impiccato in una stalla: prima parlò di un suicidio, poi dichiarò che era stato lui il mandante di quell’omicidio, in quanto non aveva fornito le informazioni su dove si trovava il figlio.

C’è anche la vicenda ai danni di Luciano Violante.

Sfruttando il fatto che avevano viaggiato sullo stesso aereo, Brusca indicò Violante, ex magistrato ed ex parlamentare, come punto centrale di una trattativa Stato-mafia. Un diabolico progetto che Brusca poi abbandonò, ammettendo di avere mentito al riguardo. E ancora, agli inizi dei suoi interrogatori e nel processo di I grado per la strage di Capaci aveva cercato di circoscrivere la responsabilità nella deliberazione della strage di Capaci e, più in generale dei cosiddetti omicidi eccellenti, solo ad alcuni membri della “commissione provinciale” dei fedelissimi di Salvatore Riina. Non era così.

Quando avviene il punto di svolta del suo pentitismo?

Quando l’ho interrogato, con alcuni colleghi di Caltanissetta, nel settembre 1998. Spiegò nel dettaglio il meccanismo decisionale operante in seno a Cosa Nostra nella deliberazione dei cosiddetti delitti eccellenti e fornì preziose indicazioni per individuare le ragioni della strage di Capaci. Elementi che contribuirono alla condanna in appello di 4 imputati assolti in primo grado. Da quel momento in poi il suo rapporto con lo Stato è stato di assoluta collaborazione. Fui io a predisporre, per il mio ufficio, i contenuti della richiesta di applicazione del programma di protezione nei suoi confronti il 28 gennaio del 1999.

Ora, dopo 25 anni di detenzione, è libero.

Questo aspetto rappresenta uno stimolo per ulteriori collaborazioni di uomini che rivestono posizioni di comando nei sodalizi mafiosi. La premialità è determinante per incentivare le collaborazioni, soprattutto di uomini di vertice, che rappresentano uno strumento fondamentale per indagini e processi. Lo aveva ben compreso Falcone e la sua intuizione venne regolamentata per la prima volta con il decreto legge n. 8 del 1991. E non c’è solo la mafia. I collaboratori sono fondamentali anche nel contrasto al terrorismo. È comprensibile l’indignazione dei familiari delle vittime, ma il contributo dei collaboratori di giustizia, severamente controllato e verificato, è irrinunciabile e fondamentale. Con Brusca lo Stato ha vinto più volte: ha vinto perché è riuscito ad arrestarlo quel 20 maggio del ’96, ma anche perché ha ottenuto la sua collaborazione e il suo ravvedimento. Il suo ritorno in libertà lancia ai mafiosi un messaggio importante: se la loro collaborazione è reale, leale e significativa, vi è la possibilità di cambiare vita.

 

L’ultima relazione su Brusca: ecco perché è libero

Lo strazio dei familiari delle vittime della mafia, per cui non esiste il fine pena, va sempre ricordato. Ma la scarcerazione dell’ex boss stragista di Cosa Nostra, Giovanni Brusca, è il frutto dell’applicazione rigorosa della legge, che garantisce uno sconto di pena anche a carnefici come lui, che preme il telecomando a Capaci o scioglie nell’acido un bambino, perché ha collaborato con la Giustizia. La relazione comportamentale finale e riservata del carcere di Rebibbia, che Il Fatto ha potuto leggere, sostiene che Brusca, in 25 anni di carcere, dopo il noto inizio di finto pentito, ha fatto un percorso da vero collaboratore. La relazione è stata inviata il 31 marzo scorso, un paio di mesi prima della scarcerazione, al tribunale di Sorveglianza di Roma: “Il Brusca ha più volte rappresentato il suo distacco dalla sua vita precedente cercando di dare concretezza a questo distacco non solo attraverso la collaborazione con la Giustizia, ma anche mettendosi in contatto con quei soggetti che hanno fatto della lotta alla criminalità organizzata una battaglia civile e culturale, al fine di dare il proprio contributo”. In che modo? “Brusca da molto tempo ha manifestato la volontà di chiedere il perdono alle famiglie delle vittime dei suoi reati: per comprensibili motivi di sicurezza e riservatezza, ci sono stati mediatori in questo processo, come con una nota familiare di una vittima”. Il riferimento è all’incontro di oltre 10 anni fa tra Brusca e Rita Borsellino, la sorella di Paolo Borsellino, scomparsa nel 2018 e in prima linea, dopo la strage di via D’Amelio, nell’impegno civile antimafia. Sempre dalla relazione comportamentale, riservata, apprendiamo che Brusca “non si sottrae alla rivisitazione di quanto commesso, evidenziando”. Si legge addirittura nella relazione, “una sorta di dolore, ma anche di pudore… Sa analizzare il suo vissuto senza letture giustificazioniste, esplicitando una severa critica alla cultura del suo passato deviante”.

Una descrizione di Brusca detenuto che fa a pugni, per usare un eufemismo, con Brusca macellaio della mafia fino al suo arresto. “Sente molto la necessità di risarcire la società civile”, aveva chiesto di fare volontariato ma gli è stato negato. Di Brusca detenuto ne parlano bene anche gli uomini del Gom, il gruppo specializzato della polizia penitenziaria, sempre vigili nel denunciare le le violazioni dei boss al 41-bis. Nella relazione si legge che “gli agenti hanno sempre riferito che il Brusca con loro parla con rispetto e disponibilità al dialogo e nessuno di loro ha mai avanzato il dubbio che il suo comportamento potesse essere strumentale”. Una psicologa del carcere citata nella relazione, parla di “autenticità del suo ravvedimento”. Tanto che, durante i colloqui che aveva fatto negli ultimi 10 anni, per ottenere i domiciliari, mai concessi dal Tribunale di Sorveglianza, “appare consapevole della difficoltà che gli venga concessa la misura alternativa richiesta, ma ha ribadito che continuerà nel suo percorso di revisione critica e di ravvedimento in modo riservato, ricorrendo a ‘mediatori’ che possano consentirgli di chiedere perdono e attivarsi per risarcire le famiglie delle vittime di mafia e la società civile”. Nove giorni prima di questa relazione, il 22 marzo 2021, Brusca, in una lettera firmata di suo pugno alla direzione di Rebibbia, vuole ribadire che il suo percorso di “ravvedimento” è cominciato oltre 20 anni fa, documentato, sostiene, nel suo libro autobiografico del 1999, i cui proventi sono andati in beneficenza, dopo diversi rifiuti perché “soldi sporchi di sangue”. Respinge, ex post, la tesi del Tribunale di Sorveglianza di Roma di non avergli dato i domiciliari nel 2010, nel 2017 e nel 2019 anche per non aver compiuto “gesti concreti di ravvedimento”. Accenna a Rita Borsellino, e “all’importanza che tale incontro ha avuto per me e per i miei familiari e gli orizzonti di consapevolezza che ne sono derivati”. Racconta, inoltre, della sua richiesta di “perdono” a familiari di “vittime innocenti” grazie a preti antimafia, non avendo avuto il permesso di incontri diretti. L’ultima richiesta a un prete è stata di oltre un anno fa: “Mi rispose che l’avrebbe fatto quanto prima, ma non conosco l’esito, non avendo avuto colloqui recenti a causa del Covid”.

Proprio della scarcerazione di Brusca ha parlato la ministra della Giustizia, Marta Cartabia, ieri, alla commissione Antimafia: “Il contributo dei collaboratori di giustizia si è storicamente rivelato assai rilevante, non sono insensibile al dolore dei familiari delle vittime provocato dalla scarcerazione di Giovanni Brusca, mi addolora, ma è la legge che va rispettata, ed è una legge che ha voluto lo stesso Giovanni Falcone”. Adesso, però, si rischia che di collaboratori non ce ne siano più per mancanza di “incentivi”. La Corte costituzionale ha dapprima, nel 2019, con Cartabia ancora alla Consulta, dichiarato incostituzionale l’ergastolo ostativo ai permessi premio per i mafiosi non collaboratori, detenuti da 26 anni, e un paio di mesi fa ha dato al Parlamento un anno di tempo per rivedere la legge dell’ergastolo ostativo alla libertà condizionata, altrimenti proclamerà l’incostituzionalità della norma. Ieri, la ministra ha dichiarato che “il Parlamento non dovrebbe mancare l’occasione di raccogliere l’invito della Corte costituzionale a rimuovere i profili di incostituzionalità per scrivere nuove norme che tengano in considerazione le peculiarità del fenomeno mafioso e della criminalità organizzata”, attuando condizioni “più rigorose rispetto a quelle applicabili ad altri detenuti”. Ma se la politica non riscrive la norma in maniera “blindata” potremo assistere alla scarcerazione di stragisti irriducibili. Al netto del comprensibile dolore dei familiari delle vittime per la scarcerazione di Brusca, il resto sono polemiche strumentali.

Centofanti canta: “Ecco gli accordi con Palamara…”

È il classico gol nei minuti di recupero. Una doppietta, anzi, considerato il numero degli interrogatori – due, appunto – che Fabrizio Centofanti ha reso in procura, di sua spontanea volontà, il 1º e il 9 giugno. Ed è l’ennesimo colpo di scena nel “caso Palamara”. Centofanti è l’imprenditore che ha pagato viaggi a Luca Palamara e finanziato la ristrutturazione della casa di una donna alla quale l’ormai ex magistrato era parecchio legato. Con le sue dichiarazioni ha deciso – e a quanto pare dimostrato – di voler collaborare con la Procura di Perugia, guidata da Raffaele Cantone, nell’inchiesta che lo vede indagato per corruzione con lo stesso Palamara, per il quale la strada adesso rischia di farsi davvero in salita. La tesi di Centofanti è in sostanza la seguente: non ha pagato soltanto i viaggi e la ristrutturazione, ma anche cene e pranzi, sovvenzionando così – come una sorta di bancomat – l’attività di “politica giudiziaria” svolta da Palamara. Se c’era da discutere con altri magistrati di questioni correntizie, o risolvere una questione legata alla nomina di Tizio o Caio, questo avveniva in pranzi o cene pagati da Centofanti. E per lui – di professione lobbista, specializzato per un periodo della sua vita in organizzazione di convegni sulla giustizia, con parecchi magistrati nella veste di ospiti – questa era un’utilità non da poco: sedeva al tavolo con loro, ampliava la sua rete di conoscenze forte della posizione di Palamara, che lo introduceva in questo intreccio di relazioni.

È in questo senso, quindi, che Palamara avrebbe messo a disposizione di Centofanti la sua “funzione” di magistrato. E non – va chiarito – per pilotare fascicoli o processi. Per dimostrare la sua attendibilità e la sua reale volontà di collaborare – in questo modo potrebbe ottenere un trattamento sanzionatorio migliore – Centofanti ha messo sul tavolo nomi, date, luoghi e cifre. La Procura di Perugia ha delegato per gli accertamenti il Gico della Guardia di Finanza di Roma. E alcuni riscontri sono già stati effettuati. C’è stata, per esempio, una cena alla quale ha partecipato, con Centofanti, Palamara e altri magistrati, il presidente del Tribunale di Roma, Francesco Monastero. Cena pagata da Centofanti che ha fornito agli inquirenti tutti gli elementi affinché potessero verificare la veridicità delle sue parole. Sentito come persona informata sui fatti, Monastero nei giorni scorsi ha confermato. Ma c’è di più. Centofanti ha anche ammesso di aver pagato, su input di Filippo Paradiso, una cena per la nomina di Carlo Maria Capristo alla guida della Procura di Taranto. E non si tratta di un dettaglio da poco perché Paradiso è stato arrestato nei giorni scorsi, con l’ex avvocato esterno dell’Eni Piero Amara, con l’accusa di corruzione nei confronti dello stesso Capristo. E al centro della corruzione dell’ex procuratore di Taranto, secondo la Procura di Potenza guidata da Francesco Curcio, c’è proprio l’interessamento di Amara e Paradiso per la sua nomina. Una testimonianza utile, quindi, anche per l’inchiesta potentina senza contare che, proprio a Perugia, si indaga sulla presunta “Loggia Ungheria” rivelata da Amara – socio di Centofanti e con lui imputato a Roma per fatture false – alla Procura di Milano. I verbali di Centofanti saranno depositati oggi nel corso dell’udienza preliminare per il fascicolo che vede Palamara indagato con il pm Stefano Fava per rivelazione del segreto d’ufficio.

Il teste anti-Eni e quelle prove mai depositate: indagati i pm

Prima sconfitti nel processo che ha mandato assolti tutti gli imputati Eni e Shell per l’affare nigeriano Opl 245; ora anche indagati dalla Procura di Brescia, con addirittura i computer dei loro uffici in Procura perquisiti per acquisire tutte le loro email: il procuratore aggiunto Fabio De Pasquale e il sostituto Sergio Spadaro, che rappresentavano la pubblica accusa nel processo Eni-Nigeria, sono accusati di aver nascosto prove a discarico degli imputati. Un video depositato in ritardo, ma soprattutto chat artefatte di Vincenzo Armanna, uno degli imputati di Eni-Nigeria diventato grande accusatore di Eni. Con quelle chat “aggiustate”, Armanna avrebbe voluto confermare le sue dichiarazioni contro Eni, il suo amministratore delegato, Claudio Descalzi, e il numero tre della compagnia petrolifera, Claudio Granata. Avrebbe anche promesso 50 mila dollari a un poliziotto nigeriano, Isaak Eke, per indurlo a testimoniare al processo dicendosi “Victor”, l’addetto alla sicurezza della residenza del presidente nigeriano Goodluck Jonathan che gli avrebbe riferito che 50 milioni di dollari di supertangente Eni erano stati consegnati in contanti nel 2011 a Roberto Casula, responsabile Eni in Nigeria.

Il procuratore della Repubblica Francesco Greco risponde con un comunicato in cui garantisce “rispetto istituzionale” tanto all’“atto dovuto” del “procedimento aperto dalla Procura di Brescia”, quanto all’“assoluta professionalità dei due colleghi”.

A innescare l’iscrizione nel registro degli indagati di De Pasquale e Spadaro è stato un loro collega, il sostituto procuratore Paolo Storari. Indagato a Brescia per aver fatto uscire dalla Procura gli interrogatori segreti in cui l’avvocato esterno di Eni Piero Amara rivelava l’esistenza di una (per ora presunta) loggia segreta denominata “Ungheria”, Storari è stato su questo interrogato a Brescia una decina di giorni fa. In quella occasione, avrebbe allineato i motivi dei suoi contrasti con gli altri magistrati (De Pasquale, Spadaro e Laura Pedio) impegnati in indagini su Eni e sul “complotto” che l’avvocato Amara avrebbe messo in atto fra Trani, Siracusa e Milano, per intorbidare le inchieste milanesi sulla compagnia petrolifera. Storari avrebbe dunque segnalato anche alcune chat consegnate da Armanna ai magistrati milanesi: conversazioni elettroniche modificate per validare le sue tesi. Questi elementi si aggiungono al video che le motivazioni della sentenza Eni-Nigeria sostengono sia stato nascosto ai giudici perché non sosteneva le ragioni dell’accusa.

Quanto alle chat falsificate, i due pm ora messi sotto inchiesta a Brescia potranno sostenere che queste non sono mai state usate, né fatte entrare tra gli elementi di prova nel processo milanese. Il video, invece, è la lunga registrazione di un incontro a cui partecipavano Amara, Armanna, l’imprenditore Ezio Bigotti e altri. A realizzarlo, all’insaputa di Armanna, è Amara, quando ancora non era diventato un teste anti-Eni, ma voleva anzi dimostrare che Armanna complottava contro Eni. È il 28 luglio 2014, due giorni prima che Armanna si presentasse in Procura a Milano dicendo di voler collaborare. Nel video, il manager preannuncia di voler far arrivare “una valanga di merda” e “un avviso di garanzia” ai dirigenti di Eni. Per Eni – e per i giudici nella sentenza Opl 245 – è la prova dell’intenzione di “ricattare i vertici della società petrolifera preannunciando l’intenzione di rivolgersi ai pm milanesi”. Del video si era ampiamente parlato in aula nell’udienza del 23 luglio 2020. De Pasquale aveva spiegato che l’accusa non lo aveva depositato perché lo riteneva irrilevante: “Amara dice che aveva avuto l’incarico di registrarlo qualora Armanna dicesse qualcosa di utile per incastrarlo… Detto questo, non ho nessuna difficoltà al deposito, però non posso giuridicamente farlo senza avere il consenso dei colleghi che stanno gestendo quell’indagine”. Ossia i colleghi Pedio e Storari. Poi il video fu depositato. Gli unici manager Eni evocati per nome da Armanna in quella registrazione erano Donatella Ranco e Ciro Pagano, che non sono mai stati oggetto di accuse da parte di Armanna e comunque non sono mai stati indagati (Ranco) o lo sono stati solo molto tempo dopo (Pagano).

Green pass. App Io, stop del garante (e scontro con Colao)

Via libera del Garante per la privacy all’utilizzo del green pass in Italia, così come richiesto dall’Ue. Ma in merito alle app per recuperare il “lasciapassare” che consentirà agli italiani di spostarsi senza limitazioni in Europa dal 1º luglio, il Garante ha autorizzato solo l’uso di Immuni – utilizzata per il tracciamento dei contagi, ma ferma a poco più di 10 milioni di download – e ha rinviato l’impiego dell’app IO (quasi 11 milioni di download grazie al cashback). La causa sono alcune criticità riscontrate nell’app che “prevedono l’interazione con i servizi di Google e Mixpanel, e che comportano quindi un trasferimento di dati verso Paesi terzi”. Una posizione che ha innescato la smentita di PagoPA (che gestisce l’app) e del ministro all’innovazione, Vittorio Colao, secondo cui l’applicazione è “sicura e affidabile”.