AZ, Cts prende tempo. Fino al 26 maggio 328 casi letali su 32 milioni

Che fare? È probabilmente questa la domanda che per tutto il giorno si saranno fatti al Cts e al ministero della Salute. Già, perché dell’annunciato “parere tecnico” con cui il Cts stesso avrebbe dovuto bloccare le somministrazioni del vaccino AstraZeneca agli under 60 (o addirittura 50 o 40) dopo il caso della 18enne genovese morta dopo l’iniezione e le conseguenti polemiche del mondo scientifico sulla messa a disposizione dei giovani di un vaccino raccomandato per gli over 60, al momento in cui il giornale va in stampa, non c’è ancora traccia.

“Stiamo discutendo in queste ore – aveva detto in mattinata Giorgio Palù, presidente dell’Agenzia italiana del farmaco e membro del Cts – l’Aifa il suo parere l’ha dato, ieri ci siamo riuniti con il Cts, ma credo che adesso la responsabilità, sia del parere che della comunicazione, spetti al ministero della Salute. Noi abbiamo una regola di condotta e posso anticipare che su questo sarà il ministro a pieno titolo a dire quale sarà la decisione”.

Poco dopo, lo stesso ministro Roberto Speranza in Senato: “Il 7 aprile – ha detto – il ministero ha raccomandato l’uso preferenziale del vaccino AstraZeneca agli over 60 e Aifa ha ribadito che il profilo beneficio-rischio è più favorevole all’aumento dell’età. Queste valutazioni saranno sicuramente considerate nel prossimo parere del Cts”. E sul tavolo c’è anche la questione dei richiami

Nell’attesa, le Regioni si sono mosse in autonomia. La Campania ha revocato l’open day di ieri sera: “Quelli con Astrazeneca sono bloccati – ha detto il presidente Vincenzo De Luca – Non abbiamo avuto grandi problemi, ma è per ragioni di prudenza”. La Sicilia ha sospeso in via cautelativa le iniezioni di AstraZeneca sotto i 60 anni, mentre non risulta che il Lazio abbia ancora bloccato la sua open week over 18 di AstraZeneca con ticket virtuale. Altri, invece, come Friuli-Venezia Giulia, Veneto e Sardegna, ne approfittano per rivendicare la scelta di non aver mai ceduto alla tentazione di svuotare i magazzini AstraZeneca: “Metà delle dosi che ci sono arrivate sono su un binario morto”, dichiara il presidente del Veneto Luca Zaia, alludendo alle ultime consegne di Az. Argomento che tuttavia non preoccupa il sottosegretario alla Salute Andrea Costa: “L’80% dei vaccini che arriveranno nei prossimi mesi – assicura – sono a mRna (Pfizer e Moderna, ndr)”.

Ieri, intanto, l’Aifa, con qualche giorno di ritardo, ha diffuso il Quinto rapporto sulla sorveglianza dei vaccini Covid-19. Al 26 maggio risultano 204 segnalazioni di eventi o reazioni avverse ogni 100 mila somministrazioni, per la maggior parte non gravi. Il prodotto più utilizzato, Pfizer, è anche il più “segnalato”, ma il vaccino con il tasso più alto di eventi in proporzione alle dosi somministrate è AstraZeneca (236 ogni 100 mila contro i 214 di Pfizer). L’età media delle persone che hanno avuto un sospetto evento avverso è 48 anni, ma l’incidenza maggiore si registra nella fascia 20-29 anni. Tra gli eventi avversi gravi di AZ, com’è noto, rientrano le trombosi cerebrali e/o venosi in sede atipica, segnalati nell’ordine di 1 caso ogni 100 mila dosi, in linea con quanto osservato a livello europeo.

Al 26 maggio, su oltre 32 milioni di dosi somministrate, sono stati segnalati 328 casi “con esito decesso”: 213 legati a Pfizer, 58 a Moderna, 53 ad AstraZeneca, 4 J&J. Il tasso su 100 mila più alto è di gran lunga quello di Moderna (1,99), seguono Pfizer (0,96) e la coppia AZ e J&J (0,79). Insomma, il vettore virale non è più pericoloso. Può esserlo, però, se iniettato in giovane età. E nelle ultime tre settimane lo hanno ricevuto quasi 160 mila ragazzi tra i 18 e i 29 anni.

Figliuolo: 100 giorni, nessun rendiconto e una norma ad hoc

Il Commissario per l’emergenza Covid Francesco Figliuolo ha bisogno urgente di soldi. Tanti, maledetti e pure subito. E così l’altro giorno di fronte alla Commissione Bilancio della Camera, alle prese con l’esame del decreto Sostegni bis, l’ha buttata lì: gli serve che il Parlamento rimuova subito la norma che vincola alla rendicontazione delle spese della macchina dell’emergenza l’erogazione degli oltre 1,6 miliardi di euro che lo Stato gli ha assegnato per il 2021.

Allo stato, da quando a guidare la struttura è il generale, sul sito del Commissario non c’è traccia di costi, spese e contratti. Né è possibile farsi un’idea di come intenda continuare a impiegare le risorse nemmeno a compulsare il nuovo decreto all’attenzione della Camera, come fa notare il Servizio studi di Montecitorio: “La relazione tecnica non fornisce indicazioni di dettaglio circa gli interventi cui sono finalizzate le risorse previste dalla norma in esame (quella relativa ai 1,6 miliardi di spesa autorizzata per il 2021, ndr). Andrebbero quindi acquisite indicazioni riguardo le esigenze di spesa sottostanti lo stanziamento previsto”.

Se restano un mistero le spese degli ultimi 90 giorni (per esempio quelle investite sull’hub di Pratica di Mare o per la ristrutturazione di Palazzo Caprara, immobile che ha ospitato lo Stato maggiore della Difesa e oggi sede del Commissario per l’emergenza), l’intoppo contabile è però un altro: il passaggio di consegne tra Domenico Arcuri e Figliuolo. È da questo che il nuovo decreto Sostegni fa dipendere il trasferimento dei 1,6 miliardi sulla contabilità speciale della macchina dell’emergenza, un passaggio di consegne che, a distanza di tre mesi dall’avvicendamento dei due commissari, non è stato ancora fatto.

Figliuolo, a quanto apprende il Fatto, è stato sollecitato ripetutamente in questo senso, ma finora senza successo. E allora che si fa? L’altro giorno il generalissimo ha indicato la strada chiedendo la modifica del vincolo imposto dal decreto Sostegni bis alle risorse. Un sollecito così accorato da far drizzare i capelli alla commissione di Montecitorio preoccupata che la difficoltà legata alla rendicontazione possa mettere a rischio o comunque rallentare la campagna vaccinale. “Le parole di Figliuolo implicano un’incognita micidiale che riguarda la prosecuzione delle vaccinazioni” spiega il presidente della commissione Bilancio Fabio Melilli, che si riserva “di chiedere lumi alla Ragioneria dello Stato e al governo. Non so se il passaggio di consegne non sia stato ancora fatto per una obiettiva difficoltà dell’operazione, o per la qualità dei rapporti tra il nuovo Commissario e quello uscente: il fatto resta irrilevante. A me interessa capire a quale rischio ci espone questa situazione. Sennò che ci stiamo a fare?”.

Ma come si è arrivati a questo incaglio? Una domanda a cui lo staff di Figliuolo, interpellati dal Fatto, non sanno rispondere: “Non siamo aggiornati”. Certo, la procedura è complessa. Ma di mezzo c’è una questione che appare dirimente: la rendicontazione pubblica delle spese. Sul portale realizzato da Invitalia, guidata da Arcuri, i costi sostenuti dalla ex struttura commissariale sono indicati fino alla fine di gennaio: quasi 3,7 miliardi. Dalla fine di gennaio, più nulla: oltre cinque mesi di vuoto. “Il rendiconto sarà aggiornato a breve, stiamo aspettando i codici necessari da Invitalia”, assicurano i fedelissimi del generale, spiegando che comunque le procedure avviate sono poche (c’è l’acquisto di 7 milioni di mascherine con visibilità labiale destinate ai non udenti, per esempio).

L’operazione di spending review, a sentire Figliuolo, è invece partita in pompa magna. Un risparmio di 345 milioni, di cui 189 per l’annullamento delle procedure di gara per le famose Primule, i padiglioni vaccinali di Arcuri: peccato la gara in questione fosse già stata annullata, senza che le offerte ricevute fossero mai state aperte. Insomma un risparmio su una spesa che non c’è mai stata.

Camilla è morta dopo l’Open Day. Si indaga per omicidio colposo

Il mattino del 3 giugno Camilla Canepa aveva partecipato alla festa per la fine dell’anno scolastico. Si preparava alla maturità, insieme ai suoi compagni dell’Istituto tecnico in memoria dei morti per la patria di Chiavari. Quello stesso pomeriggio, però, si sente male, all’improvviso. Viene accompagnata dai genitori al pronto soccorso di Lavagna. Ha dolori alla testa e le dà fastidio la luce. Le fanno una Tac, non trovano niente di preoccupante, e la rimandano a casa. In questo passaggio c’è una parte significativa di ciò che adesso sarà approfondito dalla Procura di Genova, che sul caso ha aperto un’inchiesta per omicidio colposo. Una settimana prima, infatti, la ragazza era stata vaccinata con AstraZeneca. E la cefalea è uno dei possibili sintomi di reazioni avverse, in particolare gli ormai noti casi rarissimi di trombosi.

Camilla si è spenta ieri, dopo un nuovo ricovero, questa volta all’ospedale San Martino di Genova, dove è arrivata il 5 giugno con metà del corpo paralizzato. È stata sottoposta a due operazioni e a cure in terapia intensiva. Un paio di mesi fa, sempre nel capoluogo ligure, aveva perso la vita un’insegnante di 32 anni, Francesca Tuscano, immunizzata con lo stesso siero. Camilla però è la prima studentessa morta in Italia dopo aver aderito in modo convinto a un OpenDay, il 25 maggio, che la Regione Liguria aveva aperto ai maggiorenni. Unica scelta il vaccino italosvedese, le cui dosi, a seguito di un’ondata massiccia di sfiducia, rischiano di andare buttate. Il Comitato tecnico scientifico sta valutando di interromperne la somministrazione, soprattutto per chi ha meno di 40 anni e un rischio di morire per Covid vicino allo zero. Ecco perché questa vicenda pesa come un macigno e ora nessuno ne vuole la responsabilità: “Se il Cts deciderà che AstraZeneca non va bene, vorrei venisse fatta una comunicazione univoca – commenta il governatore ligure Giovanni Toti a tarda sera – Le indicazioni di Ema (agenzia europea del farmaco) dicono che i vaccini a vettore virale, quindi anche AstraZeneca, sono sicuri. Ma deve finire il tempo delle raccomandazioni vaghe, che lasciano la responsabilità alle Regioni: Aifa (agenzia italiana del farmaco), ministero della Salute e Cts prendano una posizione netta”.

È nella mattinata di ieri che diventa chiaro che la situazione è ormai irreversibile. Per i medici Camilla è in condizioni di morte cerebrale. Don Mauro Sapia, parroco della chiesa di San Bartolomeo di Sestri Levante, riceve indicazioni di preparare i funerali. Nel 2019 era finito sui giornali per una delle chiamate a sorpresa di Papa Francesco. Questa volta il telefono porta una notizia terribile. Scrive su Facebook un messaggio addolorato, che cancella subito dopo, su richiesta della famiglia, che ha acconsentito all’espianto degli organi. Nel tardo pomeriggio è il sindaco Valentina Ghio a rendere ufficiale il decesso: “Purtroppo Sestri Levante è stata colpita da un lutto che mai avremmo voluto vivere. Ci stringiamo intorno alla famiglia della ragazza scomparsa. Tutti gli appuntamenti del Festival Andersen di oggi sono annullati. Riposa in pace Camilla”. Raggiunta al telefono, Ghio spiega di conoscere personalmente la famiglia: “Sono persone stimate, colpite da una tragedia terribile. Da madre non riesco nemmeno a immaginarlo. Non è ancora questo il momento per affrontare il tema del vaccino AstraZeneca e degli Open day, sarebbe irrispettoso nei loro confronti”. A tarda sera i parenti sono tutti intorno al padre Carlo, geometra, alla sorella di Camilla e alla mamma. È lei a rispondere al telefono: “Preferiamo non rilasciare dichiarazioni in questo momento”.

da ieri la Procura ha convertito l’indagine conoscitiva in un fascicolo per omicidio colposo, a carico di ignoti. I pm Francesco Pinto e Stefano Puppo hanno affidato i primi accertamenti a un medico legale, Luca Tajana, e a un ematologo, Franco Piovella. Sono tre i punti attorno a cui ruotano le indagini: l’anamnesi prima del vaccino (Camilla aveva dichiarato di prendere un farmaco ormonale); la valutazione dei primi sintomi dopo il vaccino; la tempestività dei soccorsi. Di certo, per ora, c’è solo che il caso potrebbe portare a riconsiderare la scelta dei vaccini da somministrare sui più giovani e il rapporto tra rischi e benefici.

I piromani pompieri

L’altroieri il Corriere, che non fa neanche capoluogo, ha dichiarato guerra alla Germania (“Non è l’ora di prediche tedesche”) perché l’ex ministro Schäuble s’era permesso di criticare il governo italiano: ci fosse ancora Conte, benissimo; ma Draghi non si deve neppure nominarlo, se non con molta saliva. La Germania al momento non pare essersene accorta, ma vi terremo aggiornati. Ieri, poi, sono scesi in campo Massimo Franco e Stefano Folli, che viaggiano sempre in coppia come Ric e Gian, rispettivamente su Corriere e Rep. Il celebre duo, dopo aver puntellato e turibolato ogni governo che Dio mandasse in terra fino al 2018, cioè finché l’Italia finì sull’orlo della bancarotta, scoprì poi un’improvvisa vocazione guevarista e tupamara, bombardando il Conte-1 e il Conte-2 prima e dopo i pasti. Sempre sulle barricate, Max&Ste sparavano coi fuciletti a tappo sui “populisti” votati per sbaglio dagli elettori. Da fan sfegatati della “stabilità” purchessia, foss’anche per imbalsamare la mummia di B. a Palazzo Chigi, divennero scalmanati fedayyìn dell’instabilità. Non passava giorno senza che incitassero il loro piede di porco a scardinare il Conte-2 nel bel mezzo della pandemia e del Recovery. I loro mantra erano il Mes e gli inesistenti allarmi Ue per il Pnrr mal scritto, in ritardo, anti-Parlamento, senza governance, con governance ma con troppi tecnici (ben 300).

Poi arrivò Draghi, se ne fregò del Mes, copiò con qualche peggioramento il Pnrr, lo presentò in zona Cesarini, lasciò ben un’ora e un quarto al Parlamento per esaminarlo, varò una governance con 550 tecnici. E Gianni e Pinotto zitti e mosca. Riposta la kefiah nel cassetto, hanno rispolverato l’uniforme da pompieri. E la parola d’ordine pre-2018: nessuno tocchi il governo. Una vena di malinconia però increspa le loro maschere gaudenti: Conte ancora primeggia nei sondaggi e osa addirittura parlare. Folli non si dà pace: “Il ritorno in tv di Conte è stato commentato in modo negativo” (ne ha parlato col suo riportino) e non ha più “esercito” (e allora di che ti preoccupi?). Non solo “ha ripreso a parlare”, cosa già vergognosa in sé. Ma – quel che è più grave – ha “ripetuto formule ormai consunte del grillismo”: in effetti è bizzarro che il leader dei 5Stelle parli come un 5Stelle. Il pompierino Franco è, se possibile, ancor più affranto. Ha notato in Conte uno “smarcamento” da Draghi, e questo è già brutto. Poi ha scorto nel M5S una pericolosa “nostalgia di Palazzo Chigi”: in democrazia, nulla è più riprovevole del partito di maggioranza relativa che pretende financo di guidare il governo. Se chi prende il 33% dei voti s’illude di governare al posto di chi non ne ha mai preso uno, dove andremo a finire.

Da 40 anni il cinema è preda del dottor “Indiana Jones”

Il 12 giugno 1981 nelle sale americane arrivava I predatori dell’arca perduta, l’esordio della tetralogia di Indiana Jones. La creatura tenuta a battesimo da Steven Spielberg s’è imposta come poche altre nell’immaginario collettivo, ma a quarant’anni dall’esordio forse è il caso di rispolverare corredi, aneddoti, suggestioni – e previsioni – dell’archeologo cinematografico per eccellenza, capace di calare un poker mitico quanto munifico: dopo I predatori, Indiana Jones e il tempio maledetto (1984); Indiana Jones e l’ultima crociata (1989); Indiana Jones e il regno del teschio di cristallo (2008). In attesa del quinto film, ancora senza titolo, la cui uscita è prevista per il 29 luglio del 2022.

Lucas & Spielberg. In principio, e il principio, era George Lucas. L’idea seminale di Indiana Jones fu del papà di Guerre stellari, che però decise di ritagliarsi solo il ruolo di produttore, affidando la regia all’amico Spielberg. Ma il lascito di George è indelebile, perché onomastico: all’anagrafe Henry Walton Jones, Jr., il nostro eroe nella finzione – scopriremo ne L’ultima crociata – mutua il nome dal cane di famiglia (il papà era incarnato da Sean Connery), nella realtà dall’alaskan malamute posseduto ai tempi da Lucas. Cinefilia e cinofilia. Oggi anche per Steven è pronto il passaggio di mano: Indiana Jones 5 lo annovera unicamente alla produzione, per la prima volta non è lui a dirigere, bensì James Mangold (Ragazze interrotte, Ford v. Ferrari).

Indiana Jones 5. Primi ciak ai Pinewood studio e in altre location britanniche, nel cast oltre al sempiterno Harrison Ford (78 anni) troveremo Mads Mikkelsen (Un altro giro) e Phoebe Waller-Bridge (Fleabag), presumibilmente ingaggiata – dopo la cura ad hoc prestata da sceneggiatrice a 007 nel prossimo No Time to Die – per piegare a più femministi consigli il tombarolo tombeur. Trama secretata, la corsa allo Spazio degli anni Sessanta per papabile ambientazione, certe sono le riprese in Sicilia e le musiche affidate per la quinta volta a John Williams.

Zio Paperone. Non solo per i 2 miliardi di dollari – non aggiornati con l’inflazione – rastrellati fin qua dal franchise, il cittadino più danaroso di Paperopoli ha davvero qualcosa a che fare con Indiana: Zio Paperone e le sette città di Cibola (Carl Barks, 1954) ha ispirato esplicitamente la scena iniziale dei Predatori, altri fumetti hanno catalizzato in senso avventuroso ed esotico le gesta del Nostro.

Wonder Woman. Nella cultura pop, ascendenze e discendenze sono all’ordine del giorno. Prendiamo quel che è, con il cappello fedora, il più iconico corredo di Indiana, la frusta. Potrà nel terzo decennio del Terzo millennio un maschio bianco, cis, etero, anziano, privilegiato, addirittura dal passato colonialista e predatorio, farla schioccare ancora? Ha confessato Harrison, “dovrò imparare nuovamente a usare la frusta, perché non è qualcosa con cui mi sono tenuto al passo”, ma il passaggio di consegne, ossia di genere, è già avvenuto: Wonder Woman, alias l’attrice Gal Gadot del dittico di Patty Jenkins (2017, 2020) e non solo, s’è appropriata della frusta dell’archeologo, ancorché spacciandola per Lazo della Verità. E Indiana muto? Nel caso, alla frustrazione ci è abituato: “È il destino dell’archeologo – esclamava nei Predatori – quello di vedere frustrati anni e anni di lavoro e ricerche”.

Cogito ergo faccio. Con Indiana Jones – scrive Gianluca Arnone sulla Rivista del Cinematografo – “il pensiero diventa azione, cogliendo il motivo profondo non solo dell’avventura, che è sempre percorso di conoscenza, ma del magistero hollywoodiano, quel mix di strapotenza muscolare, finanziaria e tecnologica abbinata alla formidabile capacità di acculturazione e ricombinazione di elementi spuri dentro sistemi ideologici coerenti e riconfigurazioni visive”.

Bottini. L’Arca dell’Alleanza, le pietre di Shankara, il Sacro Graal e il teschio di cristallo di Akator. Il prossimo?

Antifa. Ne L’ultima crociata papà Henry Jones (Connery) prima lo provoca, “Junior”, poi trasecola, allorché il pargolo uccide a colpi di mitra quattro nazisti sotto i suoi occhi. Del resto, Indy ha le idee chiare: “Nazisti… Io la odio questa gente”.

 

Liberatore, lo scultore sfrattato dal Vaticano (che gli ha pure danneggiato le opere)

La vicenda inizia nel 2019, quando i Pii Stabilimenti della Francia a Roma e a Loreto hanno dato avvio a un’opera di ristrutturazione di uno stabile in via del Vantaggio 7, dove dal 2009 sono esposte le opere dello scultore Bruno Liberatore, che – da affittuario – consegna le chiavi per i lavori senza entrare, anche causa sopravvenuto Covid.

Nel corso dei lavori, ben cinque grandi sculture realizzate da Liberatore subiscono ingenti danni, di cui ci si è accorti solo a lavori terminati. I danni si stimano superare il milione di euro. Perché hanno rovinato le matrici di gesso originarie, da cui poi si cola il bronzo e si crea l’opera d’arte.

Nello stabile ci sono altre tre studi, tutti affittati alla famiglia Liberatore: uno (da 52 anni) allo scultore, uno alla moglie (fotografa, da 12 anni) e un altro alla figlia (stilista, sempre da 12 anni). Tutti con contratti 6+6, rinnovati senza problemi. Gli affitti in scadenza sono due: lo studio della moglie e quello espositivo. I contratti erano sempre stati rinnovati per una consuetudine. Adesso, dopo che Liberatore ha chiesto conto – numerose prima lettere e poi diffide all’ambasciata di Francia presso la Santa Sede o alla reggenza dei Pii Stabilimenti – questi contratti non sono stati più rinnovati ed è stato intimato lo sfratto. Dall’Ambasciata, le lettere spedite sono addirittura state rinviate al mittente senza essere aperte. Alle agenzie, i Pii Stabilimenti hanno così risposto: “Il danneggiamento delle opere citato nell’articolo, ove rispondente al vero, non è in alcun modo ascrivibile alla proprietà degli immobili, né in tal senso v’è prova alcuna”. E ha aggiunto di non essere “a conoscenza di alcun pregio – penalmente rilevante – delle opere citate nell’articolo”. Insomma, anche la beffa, se pensiamo che Liberatore è il primo italiano vivente ad aver esposto all’Hermitage di San Pietroburgo. “Giocano a scaricabarile con la ditta” dice lui. “È una ripicca”. La sua causa adesso l’ha presa in carico il Codacons, che ha inviato una lettera al Papa e un esposto alla Soprintendenza che ha 30 giorni per rispondere.

Luogo di esposizioni, vernissage, presentazioni, insomma uno snodo culturale di Roma ben noto, da dove sono passati anche grandi artisti contemporanei, lo studio espositivo è uno spazio che ha una tradizione artistica: in passato era appartenuto a Jean Baptiste Wicar, al russo Ivanov e al pittore e scrittore Carlo Levi. Quando, presso la direzione dei Pii stabilimenti, Liberatore ha rivendicato questa tradizione, gli è stato risposto “E adesso non sarà più così”.

Tra l’anima e il mare Cervo

Certi pellegrinaggi sono irresistibili e rischiosi. Il perché è presto spiegato: tornare nei luoghi dell’infanzia rivela sempre più di quanto ci aspettiamo, al di là degli agguati della nostalgia. È quel che accade leggendo Cervo, ultimo (bellissimo) volume della collana di libri fotografici “I luoghi dei sentimenti”. L’editore è Minerva e la nottola che vola al crepuscolo per illuminare l’alba dell’infanzia tra i vicoli dello splendido paese sulla costa ligure è Pietro Citati.

Tra cielo e mare ci sono le pietre medievali di ininterrotti saliscendi, come sono quelli della Liguria: impervia, scostante e difficile da conquistare, passo dopo passo, scalino dopo scalino. Ma, si sa, gli amori più sconvolgenti, duraturi e caparbi sono sempre faticosi. Cervo dunque è una scalata verso l’età adulta e una discesa affannata verso il mare. La cosa migliore è l’acqua, e qui naturalmente il mare c’è. Ed è un rito di passaggio, un’iniziazione trasparente perché la spiaggia rocciosa regala al mare colori che la sabbia non può mai. Nelle foto di Lorenzo Capellini, l’altro cicerone, si vedono fondali così chiari che sembra di percepirne la freschezza, e pini marittimi di cui si avverte il profumo intenso di quando il sole scalda gli aghi nei mesi più caldi. Per molti è un odore che somiglia alla felicità, all’esatto momento in cui, uscendo dal casello, dell’autostrada si svolta verso la spensieratezza delle vacanze. Tempo senza tempo, luogo senza luogo dove la vita è sospesa: che il nome sia Cervo oppure Ospedaletti non è importante. Quelle estati lunghissime in Liguria – interminabili, da giugno a settembre, poi divenute impossibili – avevano l’incantevole sapore del pesto, della focaccia o della sardenaira. E il rumore dei cavalloni, perché quando il mare era agitato per i ragazzini il bagno era una festa doppiamente allegra. “Le onde rivelavano la natura giocosa dell’universo: un fluire e rifluire, respirare e inspirare, un improvviso infuriarsi, incollerire, scatenarsi e poi la beatitudine immacolata della bonaccia”. Se chiudete gli occhi, potete sentire la spuma dell’acqua salata nel naso. Ci sono, nel viaggio di Citati, tutti i sensi (la memoria dei sensi è la più preziosa perché ha a che vedere con i sentimenti, dunque con la vita), ma anche sorprendenti riflessioni. Sulla natura per esempio, quando accenna alla furia distruttrice che ha conosciuto la costa ligure (cui la Cervo medievale è per fortuna scampata): “Arrivò all’improvviso la grande epoca turistica. Intere regioni furono immolate alla divinità delle vacanze. Passarono molti anni. Le leggi italiane vennero migliorate, poi peggiorate, poi di nuovo migliorate; e ora a quanto pare definitivamente peggiorate, con la riforma regionale. Ma da dieci o quindici anni gli italiani (o vaste minoranze di italiani) stanno riscoprendo i nomi della natura e delle cose”. Le cose non sono sostituibili, la natura ha una sua anima che è il respiro del mondo. Ed è così che tutto torna a essere sempre infinito: alberi, spiagge, fiumi, colline, isole. Perfino le pietre.

E poi ci sono i ricordi personali, le case del giovane Pietro che a Cervo sono una in alto e una in basso. I maestri della pittura, e ovviamente i libri, in particolare il più bel libro sul mare che sia mai stato scritto, l’Odissea. “Tutto nell’Odissea sa di mare: il mare ora biancastro, ora schiumoso, ora grigio, ora scuro come il vino”. Tutto, in questi Luoghi di sentimenti, sa di quella bellezza indicibile che si chiama Italia.

Quando c’era lui, a Roma le linee di tram si toglievano

“Fra cinque anni, Roma deve apparire meravigliosa a tutte le genti del mondo come fu ai tempi di Augusto: vasta, ordinata, potente. (…) Voi toglierete dalle strade monumentali di Roma la stolta contaminazione tranviaria”. Stoltezze, non c’è che dire, che il Duce consegna perentorio al nuovo sindaco fascista di Roma, Filippo Cremonesi, che se ne andrà col Governatorato divenendo prima presidente dell’Istituto Luce e poi della Croce Rossa Italiana.

Non ci crederete, eppure Roma, fino all’avvento di Mussolini, era una delle città più “tranviarie” d’Europa, con 400 chilometri di rotaie in esercizio, 50 linee regolari, integrate col trenino dei Castelli e con altre linee. Ha quindi del clamoroso la notizia che il governo abbia portato in Consiglio dei ministri un pacchetto da 1 miliardo di euro per la Capitale puntando di nuovo sulla “cura del ferro” e quindi su nuove linee tranviarie per il Giubileo del 2025. In attesa di questa Linea C della metropolitana che, arrivata a piazza Venezia fra mille triboli, ritardi e scandali, si dovrà capire come e verso dove proseguirà.

La “cura del ferro” fu un punto forte della prima sindacatura di Francesco Rutelli con un grande promotore vicesindaco, Walter Tocci. Si deve a quella stagione amministrativamente felice il tram veloce da piazza Mancini al Flaminio e quello, pure molto utilizzato, dal Casaletto a Botteghe Oscure. Fermato prima del Teatro Argentina (orrore) dove c’era sempre stato, come davanti alla Scala del resto. Secondo un successivo progetto, per via del Plebiscito, piazza Venezia, esso avrebbe raggiunto la Stazione Termini. Come un tempo. Progetto bloccato dalla Soprintendenza. Pare per tutelare via del Plebiscito.

Nel bel volume di qualche anno fa Avanti c’è posto di Walter Tocci, Italo Insolera e Domitilla Morandi (Donzelli, 2008), Insolera spiega bene che via Nazionale fino al 1925 “era una strada alberata con i tram al centro. Tolti alberi e tram fu per qualche tempo una strada con grandi marciapiedi; poi questi furono ridotti e la lotta fra auto in sosta, auto in transito, autobus, ha costretto i pedoni su ciò che resta dei marciapiedi (…)”. Via Nazionale non solo collegava la stazione e il centro, ma l’asse e il centro della parte più occidentale del rione, luogo di passeggio, di incontro, di spese di Monticiani vecchi e nuovi. “Oggi, da una parte c’è un pezzo della Roma ministeriale, dall’altra un pezzo del quartiere della Stazione…”. Bel risultato.

Il Duce era stato tranciante: “Voi toglierete dalle strade monumentali di Roma la stolta contaminazione tranviaria”. Un ordine inequivocabile. Lui voleva dar vita, fra l’altro, a quella Via dell’Impero che gli consentiva la vista dalla finestra del suo studio a Palazzo Venezia sino al Colosseo e avrebbe inaugurato Via dell’Impero caracollando sul cavallo bianco. E a partire dai secondi anni 20, ha così inizio il demenziale smantellamento della rete tranviaria. Via libera alle auto, velocità, per pochi ancora, ma modernità. Dietro quell’editto perentorio c’erano gli interessi corposi della nascente industria del senatore Giovanni Agnelli.

Tutta l’Europa è stata affascinata dall’automobile, ma altre capitali come Londra e Parigi si dotano di una rete di ferrovie sotterranee sempre più ampie, mentre Mussolini si ferma al tardivo progetto, legato all’E42, di quel troncone all’aperto della Linea B, bloccato dalla guerra e inaugurato nel 1953 dal presidente Luigi Einaudi. Fra la fine del secolo scorso e il Terzo millennio, ben 16 città francesi, a partire da Nantes (progettista l’italiano Rota) rilanciano i tram. Veloci, silenziosi, col pianale a livello di strada. A Strasburgo si riprogetta l’intero centro storico e il suo rapporto con le periferie. Da quel che si sa, il piano governativo prevede di portare alla Stazione Tiburtina la linea che ora si ferma al Verano, di trasformare in moderna tranvia la vecchia ferrovia per Giardinetti prolungandola fino a Tor Vergata. Altri binari correranno lungo viale Palmiro Togliatti raggiungendo la stazione Subaugusta della linea A e la fermata Ponte Mammolo della linea B incrociando a Centocelle la linea C. Ancora allo studio la linea “giubilare” Termini-Vaticano-Aurelio. Ogni linea prevista avrà un proprio Commissario a vigilare su tempi e avanzamento dei lavori. Il ministro alle Infrastrutture Giovannini ha fatto mettere in bilancio 83 milioni per la riqualificazione dello snodo ferroviario del Pigneto, con nuove fermate della Fl1 e Fl3 e sottopasso per collegarle alla Metro C e 150 milioni per il raddoppio dei binari fra Lunghezza (Ponte di Nona, oggi disservita) e Guidonia. Sarebbero pronti pure 62 milioni per quadruplicare la tratta Ciampino-Capannelle. Infine sono preventivati 250 milioni per la Roma-Viterbo, parecchi anni fa raddoppiata solo fino a Cesano, riqualificando pure il passaggio fra quest’ultima località e Bracciano, riaprendo la stazione di Vigna di Valle e modernizzando la linea fra Bracciano e Anguillara. Finalmente torna la “cura del ferro”! Però manca sempre il completamento dell’anello ferroviario…

A Ginevra debutta la figlia di Navalny il “fuorilegge”

Tale padre, tale figlia. Daria Navalnaya, ventenne figlia dell’oppositore russo ha debuttato ieri al posto del padre al 13° “Summit for Human Rights and Democracy” di Ginevra, evento che precede il Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite. “Non toppare il tuo primo appuntamento internazionale, mi ha detto papà in una lettera”, ha scherzato Daria nel suo intervento mentre ritirava il “Moral Courage Award” 2021 assegnato a suo padre. “Sono fiera di mio padre, oggi ci dovrebbe essere lui qui. Ma è in galera perché lotta per una Russia libera”. Il tempismo è perfetto. Mosca sta facendo piazza pulita di ogni oppositore in vista delle elezioni parlamentari di settembre e a finire nel mirino non sono solo i fedelissimi di Navalny che possono dire addio a qualsiasi tipo di carriera politica. Vladimir Putin venerdì scorso ha infatti firmato la legge che vieterà a chi ha militato o sostenuto un’organizzazione estremista-terrorista l’accesso alle elezioni per cinque anni. E proprio in queste ore il tribunale di Mosca sta decidendo se il movimento di Navalny sia un’organizzazione terroristica. Ma le “purghe” non finiscono qui. Andrei Pivovarov, ex direttore di Open Russia, il movimento fondato dall’ex oligarca Mikhail Khodorkovsky, è stato incriminato ieri. Intanto a lasciare la Russia, negli ultimi 14 anni sono stati 120 mila esuli politici. Per chi resta, ci sono le purghe, se non l’avvelenamento, come nel caso del poeta e giornalista Dmitry Bykov che secondo Bellingcat sarebbe stato vittima di un tentativo di avvelenamento stile Navalny da parte degli agenti dell’Fsb. Fra i pochi russi a opporsi all’annessione della Crimea nel 2014, Bykov si era sentito male all’aeroporto di Ekaterinburg, da dove era atterrato da Novosibirsk, nell’aprile del 2019. Al suo arrivo era stato ricoverato in ospedale dove era stato cinque giorni in coma farmacologico e curato per cause imprecisate.

Attanasio, “scorta non sicura” Indagato funzionario dell’Onu

Il viceresponsabile del Programma Alimentare Mondiale, agenzia dell’Onu, nel Congo orientale, Rocco Leone, ha ricevuto un avviso di garanzia assieme al suo security officer congolese, di cui si conosce solo il nome, Mansour. I due sono indagati in relazione all’omicidio dell’ambasciatore italiano Luca Attanasio e della sua guardia del corpo, il carabiniere Vittorio Iacovacci. L’iscrizione nel registro degli indagati è avvenuta nelle scorse settimane dopo che gli inquirenti hanno sentito il funzionario italiano. Coordinano le indagini il procuratore di Roma, Michele Prestipino, e il pm, Sergio Colaiocco.

I due italiani, assieme all’autista del Pam, Mustapha Milambo, sono stati uccisi il 22 febbraio scorso in un agguato a pochi chilometri da Goma, dove c’è la più importante base militare della Monusco, la missione dell’Onu incaricata di stabilizzare la vecchia colonia belga. Stavano percorrendo una strada che da Goma porta a Rutshuru, lambendo i margini del Parco del Virunga, un’oasi naturale dove imperversano bande armate di tagliagole e formazioni di guerriglieri congolesi e ruandesi. Il gruppo partito in convoglio da Goma, verso le 10, è stato bloccato da sette uomini che hanno sparato in aria. I colpi hanno allertato un gruppo di ranger incaricati di proteggere i contadini. Gli aggressori, catturati i viaggiatori, si sono allontanati nel bosco ma fatti pochi metri sono stati intercettati dalle guardie del parco.

Alla vista dei ranger, noti per essere ben addestrati, gli aggressori sono fuggiti, ma prima hanno sparato deliberatamente all’ambasciatore Attanasio, ferendolo (sarebbe morto poche ore dopo all’ospedale di Goma) e alla sua guardia del corpo, ammazzandolo sul colpo. Questa è la ricostruzione dell’agguato contenuta in un rapporto dei ranger di cui il Fatto ha potuto leggere le parti più rilevanti e che racconta come l’agguato sia stato pianificato in modo approssimativo e eseguito in maniera abborracciata smentendo la teoria secondo cui Attanasio sarebbe stato l’obiettivo di un’operazione accuratamente studiata. Inoltre, secondo un’indagine di due giornalisti della Reuters, Hereward Holland e Djaffar Al Katanty, gli aggressori non hanno mai mostrato di essere consapevoli dell’identità di Attanasio. Il Congo orientale è in preda alla violenza almeno da decenni. Le milizie rivali combattono le truppe governative e si combattono tra loro per il controllo delle risorse. Tuttavia, gli attacchi ai convogli di aiuti sono stati relativamente rari. Secondo altre informazioni raccolte dal Fatto, l’ambasciatore italiano e la sua guardia del corpo sono arrivati da Kinshasa a Goma con un aereo dell’Onu intorno alle 11 del mattino. Lì hanno trovato Rocco Leone e poi assieme sono partiti su due fuoristrada del Pam e verso Bukavu. Hanno passato la notte a Minova e la mattina dopo hanno ripreso il viaggio per Bukavu dove sono arrivati la sera.

Il viaggio è un incubo. Il gruppo a Bukavu è stato ospitato dal missionario Giovanni Magnaguagno, che è anche rappresentante consolare italiano nel sud Kivu. Domenica mattina sono rientrati a Goma, questa volta con il motoscafo messo a disposizione dell’ambasciatore Attanasio dal console belga a Goma, Robert Levy. Poche ore di navigazione e poi sono andati prima al ristorante italiano Mediterraneo e poi a dormire al Kivu Lodge, hotel sulle rive del lago. Lunedì mattina l’agguato.