Con un provvedimento bipartisan, eccezionale nell’attuale contesto politico Usa, il Senato dota d’un bazooka anti-Cina il presidente Joe Biden, che sbarca al Vertice del G7 in Cornovaglia determinato a far sì che i leader dei Grandi mostrino a Pechino – e alla Russia di Putin – “un fronte unito”. Il Senato di Washington ha stanziato circa 250 miliardi di dollari da investire in ricerca e sviluppo per circoscrivere e contenere le ambizioni cinesi economiche e commerciali, in un momento in cui crescono i timori per l’impatto sull’Occidente della concorrenza della seconda economia mondiale. Il sì bipartisan del Senato rende quasi scontata l’approvazione del provvedimento alla Camera. Il pacchetto di provvedimenti prevede, fra l’altro, un nuovo studio sulle origini del coronavirus e l’accantonamento di 50 miliardi di dollari per aiutare l’industria dei semi-conduttori americana. New York Times e Washington Post definiscono l’Innovation and Competition Act 2021 l’insieme di misure di politica industriale più corposo da decenni in qua, al fine di rilanciare la competitività delle imprese Usa rispetto a quelle cinesi in una gamma di settori tecnologici e manifatturieri. Dal punto di vista della politica interna, il risultato è ancora più significativo perché i repubblicani in Congresso continuano ad avere atteggiamenti ostruzionistici sui piani di rilancio dell’economia presentati dal presidente, oltre che sulle misure per ridurre le disuguaglianze nell’Unione. Il varo dell’Innovation and Competition Act 2021 coincide con passi Usa verso Taiwan conflittuali con Pechino, mentre, quasi ad offrire uno zuccherino tra tante bastonate, Biden ha revocato i divieti di Donald Trump per le app cinesi TikTok e WeChat: ci sarà una revisione delle app software controllate da rivali stranieri per valutare i rischi in termini “di sicurezza nazionale degli Stati Uniti e degli americani”. Il fronte formalmente unito verso la Cina si profila come una conclusione acquisita del G7. Ma Pechino non incassa senza reagire e, dopo il voto del Senato, accusa gli Usa di “illusione paranoica” e di “ambizioni d’egemonia”. La commissione Esteri del Congresso nazionale del popolo definisce il provvedimento un tentativo di interferire negli affari interni cinesi, “con il pretesto della religione e dei diritti umani”: una legge “fatta di pregiudizi ideologici”, “piena di mentalità da Guerra fredda e pregiudizi ideologici”. La pratica di trattare Pechino come “nemico immaginario è… impopolare e destinata al fallimento”.
La “guerra delle salsicce”. Brexit nel guado d’Irlanda
Quella dei rapporti fra Unione europea e Regno Unito post Brexit è una faccenda molto seria che si coagula ciclicamente in un grumo di ridicolo. Ai primi di maggio era la guerra delle capesante, con decine di pescherecci francesi all’assedio di Jersey e gli incrociatori di Sua Maestà pronti a coprirsi di gloria a difesa di frutti di mare, occasionali aragoste e la British Flag. Ora siamo alla guerra delle salsicce. Serve un passo molto indietro.
Uno dei grandi ostacoli all’accordo su Brexit è stato questo questo: l’Irlanda del Nord è politicamente britannica ma fisicamente parte dell’isola d’Irlanda, che condivide con la Repubblica d’Irlanda. La prima è dominata dagli unionisti, cioè i fedeli alla Corona britannica, ma densamente popolata da repubblicani che mirano alla riunificazione con Dublino. Lo scontro fra queste due entità è sfociato, fra la fine degli anni Sessanta e la fine dei Novanta, in una violenta guerra civile, i Troubles, che ha fatto 3.720 morti e quasi 48 mila feriti, per non parlare delle ferite politiche, ideologiche, psicologiche ancora sanguinanti. La pace è arrivata con gli accordi di Belfast (Good Friday agreement) del 1998, e uno dei suoi capisaldi è che non ci sia un confine fisico fra le due Irlande, per il rischio che posti di blocco diventino nuovi obiettivi di violenza terroristica. Brexit ha messo in crisi questo pilastro, perché il Regno Unito uscendo dall’Ue ha trascinato con se l’Irlanda del Nord, e siccome Ue e Uk post-Brexit hanno regimi commerciali diversi, lo scambio delle merci fra territori britannici e stati membri europei non può più accadere senza controlli.
Per risolvere l’impasse ed evitare il pericoloso ritorno del confine fra le due Irlande, le due parti hanno deciso che i controlli avvenissero nel mare d’Irlanda, che separa Albione dall’Isola verde, e che ci fosse un periodo di ‘prova’, per dare all’import-export la possibilità di mettersi a regime. Ma i risultati sono disastrosi, con una quantità di adempimenti burocratici che sta mettendo in crisi gli scambi fra Gran Bretagna e Irlanda del Nord e quindi la già debole economia nord-irlandese.
In violazione del protocollo, Londra ha già esteso unilateralmente il periodo di prova e minaccia di farlo di nuovo per il commercio della carne congelata, il cui ‘periodo di grazia’ scade a fine giugno. La guerra delle salsicce, appunto. Siccome Boris Johnson, a ottobre 2019, ha quadrato il cerchio a forza, pur di sventolare la bandiera del successo nazionalista, ora i problemi riemergono tutti, e al governo britannico non resta che far pressione per cambiare l’accordo co-firmato due anni fa.
È una pressione che si serve dell’arma più utilizzata negli anni di negoziati: la propaganda, randello politico che se ne infischia di impegni, fatti e contratti. Di conseguenza, per la retorica britannica, è la Ue a creare problemi inesistenti. Il 6 giugno il Financial Times ha pubblicato un lungo articolo del capo negoziatore britannico David Frost. Titolo: la Ue deve rivedere il protocollo nord-irlandese. Sommario: tante vite quotidiane sono state sconvolte e l’equilibrio in cui speravamo non è stato trovato. Sintesi: la soluzione si può trovare, ma richiede “buon senso e un approccio aperto al rischio anche da parte europea. La Ue ha bisogno di un nuovo sistema di regole per trattare con i vicini, che contempli soluzioni pragmatiche fra amici, non ‘purismo legale” o l’imposizione di una parte sull’altra”.
Da parte sua, Bruxelles è indignata da quella che considera una cinica, opportunistica violazione di trattati internazionali, e dubita della buona fede originaria di Londra. La disputa è tecnica; la sostanza politica; il clima di crescente sfiducia.
Ieri a Londra Frost ha incontrato la delegazione europea, guidata dal Commissario europeo Maros Sefcovic. Come previsto, è andata malissimo. I disaccordi persistono su una varietà di questioni, dai controlli veterinari agli spostamenti di animali domestici. E Sefcovic ha avvertito, “la pazienza europea è molto vicina al limite”. Bruxelles ha già avviato una procedura legale contro Londra per la prima estensione unilaterale. Ora minaccia l’arma nucleare, cioè ritorsioni su altri settori, come l’introduzione di tariffe su altri beni o la sospensione di altre forme di cooperazione. “Bisogna ritrovare la fiducia” ha detto il Commissario Ue. Si continua a trattare, perché, e qui interviene la real politik, una situazione esplosiva in Irlanda del Nord non conviene a nessuno.
L’ex ceo di Volkswagen pagherà 11,2 milioni di risarcimento. I pm: “Un altro processo”
Pagherà 11,2 milioni di euro Martin Winterkorn, l’ex ceo di Volkswagen. E li pagherà proprio alla sua ex azienda come risarcimento per il Dieselgate, lo scandalo sulla manomissione dei dati sulle emissioni di gasolio che nel 2015 aveva fatto crollare la credibilità del colosso di Wolfsburg. Winterkorn però non sarà l’unico a pagare personalmente: assieme a lui, a risarcire la casa automobilistica saranno Rupert Stadler, ex capo dell’Audi e membro del consiglio di amministrazione del gruppo; Wolfgang Hatz, ex membro del cda di Porsche e Stefan Knirsch, l’ex manager dell’Audi.
Una pioggia di risarcimenti: rispettivamente dovranno versare – assicurazioni incluse – all’azienda 4,1, poi 1,5 e 1 milione di euro. Il conto totale, per il colosso, sarà di 288 milioni di euro in entrata.
Nei negoziati sono stati coinvolti gli avvocati degli ex manager e più di 30 assicuratori. Chiusa la trattativa con Volkswagen, dopo un braccio di ferro cominciato nel 2015, per Winterkorn arrivano poi altre cattive notizie: la Procura di Berlino ha chiesto il rinvio a giudizio con l’accusa di falsa testimonianza. Secondo l’accusa, l’ex amministratore delegato ha mentito rispondendo alla Commissione parlamentare in merito al momento in cui avesse appreso delle irregolarità dei motori che permettevano di alterare i dati sulle emissioni dei gas. Le dichiarazioni risalgono al 19 gennaio 2017.
In queste stesse ore, però, la Francia ha avviato un’indagine giudiziaria proprio contro Volkswagen, ancora una volta per le accuse di frode relative alle emissioni delle sue auto diesel. Secondo fonti giudiziarie citate dalle agenzie, il procedimento è stato avviato il 6 maggio. Le autorità francesi accusano la casa automobilistica di frode sulle caratteristiche essenziali di un prodotto (ovvero le sue emissioni di agenti inquinanti), che ha portato a un rischio per la salute di uomini e animali. Per questo motivo, la società è stata condannata a pagare una cauzione di 10 milioni di euro, che vanno ad aggiungersi a una garanzia bancaria di 60 milioni di euro.
Volkswagen ha contestato le accuse e in una nota ufficiale si è detta “del parere che i consumatori francesi non hanno subito alcun danno che abbia diritto a un risarcimento”.
Far decadere il mandato: una soluzione voltagabbana
La sacrosanta battaglia del Fatto contro i voltagabbana in Parlamento trae nuova linfa dalla recente pubblicazione (Corriere 31.5) sui cambi di casacca di deputati e senatori eroi del trapezio, traditori dei loro elettori, che hanno sfondato il muro dei 200 passaggi (il primato spetta al senatore Giovanni Marilotti con cinque cambi e alla senatrice Mariarosaria Rossi con tre). Di fronte a tale indecoroso spettacolo si agitano nella tomba Depretis e Giolitti, antesignani del trasformismo italiano, i quali mai avrebbero potuto prevedere che il loro esempio (comunque di ben più limitate dimensioni) avrebbe portato dopo un secolo a questa gigantesca manipolazione del mandato parlamentare per finalità che nulla hanno a che vedere con gli ideali della politica intesa come indeclinabile attaccamento ai valori della Polis. I partiti e i gruppi parlamentari sembrano smarriti e impotenti a fronteggiare questo sconfortante, immorale andirivieni (nel Senato e nella Camera si prevede il passaggio al gruppo misto di chi lascia il proprio gruppo, misura che, anziché scoraggiarlo, alimenta il fenomeno, attesi i benefici esistenziali ed economici che i transfughi traggono da tale passaggio, tanto più che dal gruppo misto il parlamentare può sempre spiccare il volo verso altri gruppi). I cittadini a tal punto si chiedono: che fare? La risposta potrebbe essere semplice e non farsi attendere, se appena i presidenti delle Camere volessero promuovere l’impegno dei presidenti dei gruppi per una riforma dei regolamenti racchiusa in poche righe: “Il deputato o il senatore che cessa di far parte del gruppo parlamentare di prima iscrizione decade dal mandato parlamentare. La decadenza è decretata dal presidente del Senato e/o della Camera su proposta della Giunta delle elezioni”.
La perversione della prescrizione
La relazione della Commissione di studio per elaborare proposte di riforma in materia di processo e sistema sanzionatorio penale, nonché in materia di prescrizione del reato del ministero della Giustizia ritorna sul problema della prescrizione affermando: “La Commissione muove dalla premessa che lentezza del processo e prescrizione del reato sono due problemi diversi, che si alimentano reciprocamente”.
“Processi lenti favoriscono la prescrizione; la prospettiva della prescrizione favorisce processi lenti. I dati statistici sono eloquenti. Un recente report della Commissione per l’efficienza della giustizia, istituita presso il Consiglio d’Europa (CEPEJ, 2020), ha evidenziato come il giudizio di primo grado abbia in Italia una durata media (cd. disposition time – DT) tre volte superiore a quella europea. Come anticipato, il giudizio di appello, addirittura, ha una durata media otto volte superiore. Secondo i dati del ministero della Giustizia, relativi al 2019 (gli ultimi non influenzati dai rallentamenti dovuti a all’emergenza pandemica), i procedimenti definiti con la prescrizione del reato rappresentano il 9% di quelli avviati a livello nazionale. L’incidenza della prescrizione è di circa il 38% durante le indagini, del 32% nel giudizio di primo grado, del 26% nel giudizio d’appello; mentre è insignificante nel giudizio di legittimità (0,8%)”.
La prescrizione maturata nella fase delle indagini dipende da tre fattori: l’impossibilità per le Procure della Repubblica di trattare tutti i procedimenti che pervengono, l’esistenza di criteri di priorità da rispettare e il fatto che la prescrizione decorre dalla consumazione del reato e non dal momento in cui perviene la notizia di reato. Se aumentasse la produttività delle Procure (aumentando gli organici o con l’Ufficio del processo), si scaricherebbero sui giudici un maggior numero di procedimenti che questi ultimi non riuscirebbero a smaltire, con la conseguenza che la prescrizione maturerebbe nelle fasi del giudizio.
La Commissione rileva ancora che quando “la prescrizione del reato matura nel corso del processo, risultano d’altra parte frustrate le aspettative di giustizia individuali e sociali. Al processo è infatti impedito di assolvere alla sua funzione fisiologica: l’accertamento dei fatti e delle eventuali responsabilità. Si tratta di aspettative giuridicamente rilevanti perché correlate non solo alla ragion d’essere della giustizia penale come funzione e come servizio pubblico, ma anche alla tutela di beni giuridici, ivi compresi quelli che hanno il rango di diritti fondamentali.”. Ricorda poi le numerose condanne dell’Italia da parte della Corte europea dei Diritti dell’Uomo per la mancata tutela delle vittime a causa della prescrizione e i rilievi critici mossi in sede internazionale al sistema di prescrizione italiano.
Ci si dovrebbe a questo punto attendere che vengano proposte riforme idonee a risolvere tali questioni e invece la Commissione, con una notazione lapalissiana rileva che se “adempiendo all’obbligo imposto dalla Costituzione, si riesce ad assicurare la ragionevole durata del processo, la prescrizione cessa dal rappresentare un problema”. Peccato che la prescrizione sia causata anche da attività e impugnazioni dilatorie volte a differire l’esecuzione della pena o proprio a conseguire la prescrizione oggi sostanziale (quella attuale) e quella processuale (in futuro).
Anziché proporre l’introduzione di meccanismi di deterrenza rispetto ad attività dilatorie o alla proposizione di impugnazioni manifestamente infondate, dopo aver dato atto che la riforma della prescrizione non è urgente (perché gli effetti di quella avvenuta si vedranno fra anni in quanto il blocco della prescrizione di diritto sostanziale si applica solo ai reati commessi dopo tale riforma), “la Commissione ha ritenuto opportuno formulare due proposte alternative: una prima (“ipotesi A”) che, prevedendo un meccanismo di sospensione nei giudizi di impugnazione, si muove nel solco delle riforme del 2017 e del 2019, come anche del cd. lodo Conte; una seconda (“ipotesi B”) che, invece, implica una radicale, diversa, scelta di fondo: l’interruzione definitiva del corso della prescrizione con l’esercizio dell’azione penale e, da quel momento, la previsione di termini di fase – per ciascun grado del giudizio – il cui superamento comporta l’improcedibilità dell’azione penale.”.
La stessa Commissione ha peraltro rilevato che, a oggi, l’arretrato della Corti d’appello è pari al doppio dei processi definiti ogni anno, sicché tali Corti impiegherebbero due anni solo a smaltire l’arretrato se non arrivasse loro più nessun processo.
La riforma delle impugnazioni proposta non sembra idonea a ridurre sensibilmente il carico di lavoro che incombe sulla fase di appello e quindi l’accorciamento dei tempi processuali rimane una flebile speranza, con la conseguenza che l’arretrato sarà falcidiato dall’improcedibilità dell’azione penale.
Basta confrontare i dati delle impugnazioni proposte ogni anno in Italia rispetto quelle proposte in altri Stati per rendersi conto dell’anomalia italiana.
Non sarebbe preferibile copiare dagli altri? In Francia (Paese che ha inventato i diritti dell’Uomo), ad esempio, non esiste il divieto di reformatio in pejus, che opera in Italia, con la conseguenza che chi propone appelli pretestuosi lo fa a suo rischio e pericolo, potendo incorrere in una pena più severa. In Italia invece chi impugna non rischia conseguenze negative, anche se l’impugnazione è manifestamente infondata e solo dilatoria. Per i ricorsi in Cassazione dichiarati inammissibili viene irrogata una sanzione pecuniaria di circa 2.000,00 euro, ma lo Stato incassa realmente solo il 4% di tali sanzioni.
L’abolizione del divieto di aumentare la pena è una soluzione semplice ed efficace, ma l’Italia è il Paese dove la regola fondamentale è quella di rendere difficile il facile attraverso l’inutile.
Temo perciò che le speranze di ridurre la durata dei procedimenti andranno ancora una volta deluse, sicché la prescrizione continuerà a falcidiare i processi.
Il burlone Buffett non prende sussidi
WarrenBuffett, detto “l’oracolo di Omaha” per la sua leggendaria capacità di fare soldi coi soldi anche quando gli altri li perdono, finisce spesso negli articoli della stampa progressista perché ama rilasciare dichiarazioni a effetto. Famosa una sua uscita del 2006: “È in corso una lotta di classe, è vero, ma è la mia classe, la classe ricca, che sta facendo la guerra. E stiamo vincendo”. Addirittura celebre una di quattro anni dopo che divenne famosa come “Buffett rule” e addirittura una proposta di legge sponsorizzata da Obama, che però non vide la luce: “Ma vi sembra giusto che io paghi il 17% di tasse sui 46 milioni che guadagnerò in questo 2010 mentre la mia segretaria dovrà pagare al fisco il 30% dei suoi 60 mila?”. Martedì, grazie al sito ProPublica, abbiamo scoperto che il nostro tra 2014 e 2018 ha pagato lo 0,1% di tasse sulla sua ricchezza grazie a scappatoie perfettamente legali: una percentuale irrisoria che lo accomuna a un’altra ventina di paperoni americani, da Jeff Bezos a Elon Musk, da Bill Gates a Mark Zuckerbeg, etc. La Buffett rule, insomma, è più una battuta da cena in piedi presto dimenticata che una posizione morale: questo, ovviamente, a voler scartare la non impossibile ipotesi della presa per il culo. La situazione dal punto di vista dell’equità della tassazione nel resto del mondo non è migliore di quella degli Usa, eppure in Italia la più profonda preoccupazione della maggior parte dei media e dei partiti politici, in questa fase, pare la mancanza di lavoratori che le imprese cercano invece disperatamente e a qualunque prezzo. Le spiegazioni agitate paiono due: fannullonismo ontologico o spiazzamento dell’offerta indotto da reddito di cittadinanza e simili (“la cultura del sussidio”, Enrico Letta). Della prima ipotesi non vale la pena occuparsi, la seconda invece ci piace assai e speriamo sia vera. Il sussidio per chi è disoccupato o comunque in difficoltà serve anche a quello: a permettergli di non vendersi come schiavo, a costringere le imprese ad aumentare i salari o a eliminare dal mercato quelle che non lo fanno. Ci sono cambiamenti positivi che iniziano anche col culo sul divano. Tanto più che in una società di arrivisti, scriveva Bufalino, buona regola è non partire.
“Le pressioni, i tempi e i soldi: la Metro C so cosa rappresenta”
Caro direttore, ho letto l’articolo di Vincenzo Bisbiglia relativo alla Metro C di Roma e all’ipotesi di episodi corruttivi e di spreco di denaro pubblico. Conosco aspetti non citati degni di interesse. La Metro C è un’opera pensata negli anni 90 per collegare la periferia est di Roma con il Vaticano. Roma è la città con il maggior numero di auto d’Europa, 740 per mille abitanti, rispetto alle 250 di Parigi e 314 di Londra. Ma Londra ha 402 km di metropolitana, Parigi 220, Roma, sino al 2013, solo 41 km, ai quali ne aggiunsi 19 durante il mio mandato. Nonostante fosse stata pensata per il Giubileo 2000, il governo la inserì tra le opere strategiche solo nel 2001. Il bando di gara fu pubblicato dopo altri quattro anni, aggiudicato nel 2006 e i cantieri avviati nel 2007. Dotata di finanziamenti che l’hanno resa l’infrastruttura pubblica più costosa in corso di realizzazione in Italia, si è trasformata in una delle opere incompiute più note. Una sfida che la mia amministrazione volle affrontare da subito. Nel contratto siglato nel 2006, il Contraente generale si impegnava a realizzare la prima tratta e consentire l’apertura entro aprile 2011. Lo stesso aveva indicato i costi dell’opera, prendendo in considerazione sia la possibilità di sorprese archeologiche, sia gli imprevisti geologici ed escludendo l’errore progettuale. Quando venni eletto, a 7 anni dalla gara, non era stata aperta neanche una fermata. Dopo il mio insediamento, l’assessore Guido Improta condusse una valutazione dell’opera. Rimasi stupito dal fatto che il mio predecessore avesse riconosciuto le ulteriori richieste monetarie avanzate dal Contraente generale, escluse dal contratto. Addirittura nel 2008 chi governava Roma aveva dilatato i tempi di consegna e introdotto il concetto di fasizzazione, indicando che la stazione San Giovanni doveva essere realizzata in “data da definirsi”. Imponemmo un programma di aperture e penali in caso di mancato rispetto dei tempi, riuscendo a inaugurare la prima tratta.
La nostra determinazione non passò inosservata e nell’estate del 2013 mi ritrovai con piazza del Campidoglio occupata dai lavoratori dei cantieri e attaccato dalla stampa che ci contestava i mancati pagamenti ulteriori che le aziende chiedevano. Perché? Poche settimane prima di Ferragosto, ero andato al cantiere della metropolitana, scoprendo che la talpa, il mezzo che scava la galleria, era ferma e smontata. Per i tecnici era necessario procedere con strumenti più lenti. I problemi non erano solo archeologici. La Corte dei Conti, nel 2011, aveva rilevato che la progettazione era stata rivista con la soppressione di alcune stazioni centrali che avrebbero menomato l’utilità dell’opera. Inoltre, i costi della commissione di collaudo superavano i 7 milioni di euro per tre persone e una decina di collaboratori. Chiesi di istituire una commissione che verificasse la fondatezza delle ulteriori pretese finanziarie. Tutto questo avveniva in un clima di interlocuzione con il governo. Il ministro Lupi affermava che avremmo dovuto sbloccare i pagamenti perché, affermava, i soldi c’erano, l’istruttoria si era conclusa con una delibera del Cipe e la Corte dei Conti aveva ratificato l’accordo. Portai la documentazione al Procuratore della Corte dei Conti e alla Procura della Repubblica. Peraltro, nel 2006 nello stipulare il contratto di appalto per l’avvio dei lavori (segue citazione dagli atti della Procura): “il Contraente aveva ottenuto in sede di stipulazione del contratto la riduzione del prefinanziamento dal 20% al 2%, ovvero al di sotto di quello previsto nel bando di gara. Nei fatti significa la mancata anticipazione di circa 200 mln di euro di cui chiaramente si è fatta carico la Stazione appaltante, ovvero gli Enti finanziatori con altro denaro pubblico, nonché la vanificazione di una delle ragioni principali che aveva indotto la commissione aggiudicatrice ad affidare l’incarico a chi poteva anticipare alcune centinaia di milioni”. Il costo dell’opera continua a lievitare, i tempi di consegna vengono spostati di anni. E la farraginosità della macchina giudiziaria ha contribuito al maturare della prescrizione, non permettendo la celebrazione del processo e l’accertamento dei fatti e di eventuali responsabilità.
Le reazioni politiche su Brusca: solo ovvietà prive di progetto
La vicenda del collaboratore Giovanni Brusca, le prese di posizione di alcuni politici oltreché di tanti altri, mi fanno pensare quanto questo Paese sia andato indietro da quando Giovanni Falcone teorizzava e poi metteva in pratica la legislazione sulla collaborazione con la necessaria protezione dei collaboratori di giustizia e la connessa attenuante della collaborazione in giudizio, la legislazione sul 41-bis nell’ordinamento penitenziario (che distingueva tra collaboratori e non collaboratori per poter fruire di determinati benefici), la legislazione che porta allo scioglimento dei comuni per infiltrazioni mafiose, etc… Tutto un corpus iuris che il mondo ci invidia e ci copia, nato dall’esperienza di chi la mafia la lottava per davvero. Nato per scardinare una associazione criminale come Cosa Nostra, segreta e impenetrabile fino ad allora.
Solo grazie ai collaboratori di giustizia siamo riusciti a capire. A capire perché tanti omicidi, di uomini giusti e anche di mafiosi. Siamo riusciti a capire che relazioni esterne aveva Cosa Nostra. Siamo riusciti a punire chi ha fatto le Stragi, in un Paese in cui fino ad allora tutte le Stragi erano rimaste impunite. Non sarà tutta la verità, ma è indubbiamente ben di più di quanto ci sia nelle stragi terroriste degli anni 70 e 80.
Le reazioni alla liberazione di Brusca – che non lascia indifferente neanche me, sia chiaro – dimostra la differenza tra una politica che riusciva a vedere in prospettiva, che parlava alla testa delle persone, che progettava il futuro, e una politica incapace di progettività, che va dietro alla “pancia” del Paese.
Allora, quella politica, pur attraversata da scandali e rivelazioni, era stata capace di progettare la fine di Cosa Nostra. Grazie alla collaborazione con Giovanni Falcone. Oggi la politica è solo in grado di dire: “Mi fa male la pancia se esce chi ha pressato il telecomando di Capaci o ucciso il povero ragazzo Di Matteo”. Tutto condivisibile.
Ma sono solo ovvietà senza progettualità. Nessuno che si chiedesse come fare a continuare nella lotta alla mafia. Solo ovvietà.
Pensate che ai magistrati faccia piacere applicare la legge e liberare mafiosi che hanno ucciso loro colleghi, persone giuste, bambini? Certo, in un Paese ideale non si dovrebbe liberare un pluriomicida. Ma il nostro è un Paese ideale? È un Paese ideale quello delle migliaia di morti per mafia? È un Paese ideale quello in cui sono stati uccisi presidenti di Regione, prefetti, tanti magistrati, giornalisti, avvocati, imprenditori etc…? È un Paese ideale quello preda di associazioni criminali mafiose prima nelle Regioni del Sud e ora anche in larga parte del Nord?
Ecco. Mi sarebbe piaciutauna politica che ragiona su come bloccare la trasmissione del contagio mafioso al Nord. E invece si discute solo di come smantellare la legislazione voluta da Falcone e Borsellino.
Siamo proprio messi male.
Anche come movimento antimafia. Ho letto molte prese di posizione che mi hanno fatto pensare che ragioniamo anche noi solo con la pancia.
Sia chiaro a tutti che la revoca della legislazione sui collaboratori anche solo in parte favorirà solo Cosa Nostra e le altre mafie.
Vogliamo involontariamente regalare questa vittoria postuma a Riina, che per anni ha cercato di ottenere la revoca o la sterilizzazione di questa legislazione?
Riformare Roma Capitale come una nuova regione
In questi giorni la Commissione Affari costituzionali della Camera dei deputati ha avviato l’esame dei progetti di legge per riconoscere “poteri speciali” a Roma Capitale.
Non sfuggirà al collega (e amico) On. Prof. Stefano Ceccanti, relatore di tali progetti, l’importanza di una riflessione volta a collocare in una dimensione nuova – e, ritengo, più consona e opportuna – la questione dello “stato giuridico” di Roma. Come è noto il Titolo V della Costituzione (che, ormai, impropriamente chiamiamo “nuovo”) si limita, al suo art. 114, comma 3, a sancire che Roma è la capitale della Repubblica e che la legge dello Stato – e non già la Costituzione come sarebbe stato auspicabile – ne disciplina il suo ordinamento.
Quello dell’ordinamento di Roma Capitale, inteso nell’accezione della “Città Metropolitana” è tema complesso a cui però il legislatore della revisione costituzionale non ha mai dato l’importanza che meritava, tanto nel testo vigente, quanto nelle numerose proposte, mai approvate, che si sono susseguite nel corso degli ultimi venti anni.
Partirei dalla ovvia dimensione quantitativa del problema: la Città Metropolitana di Roma Capitale si estende per circa 5300 Kmq, conta 121 Comuni e circa 4,2 milioni di abitanti; Roma Capitale – Città in senso stretto – ha una estensione di circa 1200 Kmq e una popolazione residente di circa 2,8 milioni di abitanti. Ovviamente la quantità di persone che popolano effettivamente la Città eterna è ben più alta, se solo si pensa ai pendolari provenienti dai Comuni limitrofi.
In termini meramente comparativi, l’Abruzzo conta circa 1,3 milioni di abitanti, il Molise circa 300mila, la Calabria circa 1,9 milioni e la Basilicata circa 550mila su un territorio di circa 10mila Kmq.
Ciò nonostante, per ragioni tecnicamente oscure, ma politicamente del tutto evidenti, in nessuno dei testi di revisione della Costituzione fin qui discussi, era presente l’idea di riconoscere a Roma Capitale (o a Roma Città Metropolitana) lo status di Regione a statuto ordinario, con ciò allineando il nostro Paese ad altre realtà continentali che hanno felicemente e opportunamente “separato” i destini delle loro Capitali dai rapporti, necessariamente gerarchici e talvolta conflittuali, con gli enti sovraordinati del territorio. Basti qui citare il caso di Berlino, Capitale della Germania dopo l’unificazione, ma soprattutto Land della Federazione tedesca, e quello di Madrid, Capitale del Regno di Spagna, ma anche Comunità Autonoma.
Non vi sono, ovviamente, solo ragioni di immagine e blasone che suggeriscono di guardare favorevolmente a una ipotesi di revisione in tal senso, ma evidenti motivi che affondano le loro radici nella disciplina della potestà legislativa concorrente di cui al terzo comma dell’art. 117 Cost. e di quella residuale di competenza regionale di cui al quarto comma del medesimo art. 117 Cost.
Appare evidente che per dimensioni, complessità e peculiarità istituzionale (Roma “include” nel suoi territorio un particolare Stato estero, è sede primaria delle rappresentanze diplomatiche di tutti i Paesi che hanno rapporti con l’Italia, è meta, come nessuna altra città, di masse enormi di turisti e, infine, circostanza unica sul territorio nazionale, è sede di tutti gli organi costituzionali della Repubblica, degli apparati ministeriali e delle Autorità indipendenti, ecc.) Roma rappresenti un vero e proprio unicum per il quale la scelta di una sorta di “autogoverno” (penso alla possibilità di adozione di un proprio piano regionale dei rifiuti) meglio garantirebbe efficacia, efficienza e, soprattutto, velocità dell’azione legislativa e amministrativa rispetto al necessario (e talvolta problematico) rapporto con la Regione Lazio.
Non vedo, poi, quali controindicazioni tecniche possano essere ragionevolmente addotte rispetto a una scelta di tal genere, salvo questioni di eventuale convenienza politica che, in quanto tali, esulano da questo ragionamento. Parrebbe, al contrario, che dopo la revisione costituzionale che ha ridotto il numero dei parlamentari (apparsa ai più come una battaglia ideologica simbolo di un nuovo – o presunto tale – che avanzava), ripartire dalla centralità del ruolo della Capitale possa essere un buon viatico per riavviare quel percorso riformatore che si appalesa come necessario, senza tuttavia esser tentati da operazioni che possano stravolgere l’impianto complessivo della nostra Costituzione.
Matteo Messina denaro, il quadro di Picasso e il Turista americano
“Il precursore della satira ‘social’ è senza dubbio Daniele Luttazzi. Alla fine del 2008, Luttazzi iniziò a tenere sul manifesto
una piccola rubrica intitolata “Ultim’ora”. Era composta da tre o quattro battute (o “one-liners”) che commentavano in maniera più o meno surreale i fatti del giorno. La rubrica fu d’ispirazione per molti dei suoi fan, all’epoca tantissimi, che iniziarono a giocare sull’idea, replicando il formato sui loro blog. Tra questi blog c’è stato Spinoza.it, che dal 2005 fino alla fine del 2008 era qualcosa di completamente diverso” (Gaspare Bitetto, Agoravox, giugno 2013)
E così, per la serie “Un’altra divertente rubrica per il programma tv che in Rai non mi fanno fare dal 2001 perché sono criminoso e invece Fabiofazio no”, Ultim’ora. Arcelor-Mittal promette di aumentare le emissioni cancerogene a Taranto del 20%. Matteo Renzi si intesta il risultato, da lui definito “un nuovo Rinascimento”.
Ufficiale il divorzio fra M5S e Rousseau. Erano finite le scatolette di tonno.
Fico: “Il nuovo M5S è un giro di boa indispensabile affinché Draghi possa continuare a fare quel cazzo che gli pare”.
Di Maio chiede scusa per la strage di Capaci.
Matteo Salvini reciterà il rosario su Radio Maria per tutto il mese di luglio. Dal Papeete.
DPCM di giugno dà a Draghi il potere assoluto: potrà decapitare i nemici, mangiare il loro cuore, impossessarsi dei loro beni, scopargli le mogli, sedere su un trono.
Nuove rivelazioni di Giovanni Brusca: Falcone ucciso da un asteroide.
Matteo Messina Denaro ha cominciato i suoi tre mesi di vacanza a Malaga.
Stellantis, a sorpresa, licenzia 40 mila operai Nissan.
I Paesi del G7 (Inghilterra, Canada, Francia, Germania, Giappone, Italia e Usa) d’accordo su una tassa del 15% per le multinazionali, che esultano. Perché un conto è fare propaganda elettorale, tutto un altro paio di maniche votare contro le multinazionali.
La Polonia venduta a Facebook.
Kim Jong-un mette al bando jeans attillati, piercing, acconciature occidentali e film stranieri. Ancora in dubbio su Massimo Giletti.
Afghanistan. I Talebani hanno vinto, le truppe Nato si ritirano. La prossima guerra civile afghana in esclusiva su Discovery +.
Dopo l’11 settembre, gli Usa invasero l’Afghanistan che non c’entrava nulla. E così Kabul non poté ospitare i Giochi Olimpici.
Gli Usa si arrendono ai Talebani, le donne americane costrette a indossare il burqa.
Poste Italiane mette in guardia i clienti da finte email di Poste Italiane che mettono in guardia i clienti da finte email di Poste Italiane.
Turista americano compra per 200 euro la Fontana di Trevi NFT.
Cina, scoperto lo scheletro di un dinosauro gigante. Sarà riportato in vita in un laboratorio di Wuhan.
Archeologi australiani trovano il fossile di una carota vecchio 7000 anni. Nel mio frigo.
La Federazione Mondiale Pallacanestro smetterà di discriminare i giocatori in base all’altezza.
Quadro di Picasso venduto a New York per 103 milioni di dollari. Il nuovo proprietario progetta di migliorarlo per rivenderlo al doppio.