Il pianto disperato delle imprese italiane ha ormai trasformato la retorica dei “posti che ci sono” e dei “lavoratori che mancano” nell’ossessione (interessata) della nostra stampa. Aderente per fede al racconto per cui il Reddito di cittadinanza e gli altri sussidi avrebbero spinto sul divano milioni di persone, ma pure alla tesi che vedrebbe il sistema di istruzione incapace di fornire competenze alle imprese che cercano addetti specializzati e vogliono pagarli bene.
Dati e ricerche, tuttavia, dicono altro. “Il difficile incontro domanda-offerta non è il principale problema del mercato del lavoro italiano – spiega Dario Guarascio, economista a La Sapienza di Roma –. I tassi di disoccupazione anche al Nord, soprattutto per le coorti di età più giovani, arrivano al 15%: difficile credere che il problema sia di carattere frizionale”.
Vediamo i numeri. L’Anpal e l’Unioncamere stimano finalmente una ripartenza (o meglio, un recupero del crollo degli scorsi mesi). Gli ingressi tra giugno e agosto saranno 1,283 milioni, il tasso di difficoltà di reperimento è al 30%. Un dato normale: le assunzioni continuano a esserci anche durante le peggiori crisi e non sempre le ricerche di personale sono agevoli. Ciò che determina un aumento (o un calo) di occupazione è il saldo con licenziamenti e pensionamenti. Il dato sulle sole assunzioni, da solo, è irrilevante. In ogni caso, in Italia abbiamo oggi 2,7 milioni di disoccupati, più gli inattivi e i part time involontari. La domanda era e resta troppo debole per assorbire questo esercito di forza-lavoro, anche se combaciasse perfettamente con l’offerta.
Ma davvero i lavoratori sono poco preparati per le esigenze delle imprese? “Se si guarda ai dati sugli investimenti in formazione, ricerca e innovazione – e si confrontano con quelli tedeschi o francesi – il gap è molto alto, sovrapponibile a quello delle retribuzioni. Difficile, quindi, pensare che non vi sia un sistema di formazione capace di trasferire competenze”, aggiunge Guarascio. Sono le imprese a richiedere basse qualifiche e chi cerca profili specializzati fa fatica perché i salari all’estero sono ben più appetibili.
Da noi, poi, si tende a usare strumenti molto flessibili per essere più competitivi abbattendo i costi. Negli ultimi anni, per esempio, sono cresciuti i tirocini, che permettono di retribuire i neo-assunti con poche centinaia di euro al mese. Tra 2014-2017 abbiamo avuto 1,263 milioni di stage extra-curricolari, mentre i contratti di apprendistato – ben più remunerati e tutelanti – sono stati solo 697.366.
Il grosso della domanda di lavoro resta concentrato nei mestieri a scarse qualifiche e bassi salari. Quelli del turismo, per esempio, che presentano una precarietà esasperata e alti livelli di irregolarità. Anche qui viene denunciata una carenza di manodopera e in questo caso gli imputati sono il Reddito di cittadinanza e i bonus Covid. “Tutto il contrario – fa notare Guarascio – La commissione che ha elaborato la proposta di riforma degli ammortizzatori sociali ha analizzato gli attuali sostegni al reddito di chi ha perso il lavoro e osservato che proprio la parte più fragile ha accesso a strumenti insufficienti a soddisfare bisogni primari. Non c’è alcun disincentivo al lavoro per chi li percepisce. Al massimo potrebbe esserci quello virtuoso, che porta a rifiutare salari troppo bassi. Se così fosse, bisognerebbe rallegrarsene”.
Il Reddito di cittadinanza medio per un single è di 450 euro. Gli attuali sussidi (anche l’assegno di disoccupazione Naspi) sono troppo bassi proprio per la parte più vulnerabile: impossibile che li porti a rifiutare il lavoro (vero).