Talarico e gli infiniti (e torbidi) conflitti generati dalla coppia

Nel 1979 Giorgio Manganelli pubblica Centuria, una raccolta di cento racconti brevi, definiti dall’autore “piccoli romanzi fiume”. Nel caso del Dizionario degli amori impossibili, che alle Centurie è ispirato, potremmo dire che sono cinquantadue piccoli romanzi pozzanghera, animati da storie d’amore torbide, stagnanti e prossime a evaporare. Vista dall’interno, ogni storia d’amore può essere infinita, delicata e dolorosa. Vista da fuori e riassunta in poche parole, ogni storia d’amore può somigliare a uno strampalato problema matematico. Il dramma diventa comico, o almeno ci prova.

Questo è il punto di partenza per Ivan Talarico, che nel suo libro crea problemi e conflitti di coppia, risolti quasi sempre in modo assurdo e paradossale. Sono storie brevissime, riassunti dell’infinito che l’autore ha scritto di mattina molto presto. Vengono dal dormiveglia, il momento in cui la logica si piega al sogno, creando mondi immaginari fatti di draghi, colori, fantasmi e segreti. Però tra le fessure di questi racconti riverbera la realtà, o meglio, si nascondono realtà possibili.

Tra i protagonisti ci sono Etio e Finomèna, che facendo il gioco del silenzio restano muti per sempre, Torso e Giamma, che sopravvivono solo perché esistono le offerte promozionali, Flauco e Duora, che vanno in Lapponia per controllare che il loro amore non sia frutto della distrazione, Anìce e Rotto, che per un capriccio creano una catastrofe planetaria e tanti altri, dai nomi inventati e irrealistici.

Dopo due libri di poesie e un disco, l’artista poliedrico Ivan Talarico si affaccia sulla narrativa in modo maturo e convincente, con un’opera sui generis divertente e intensa, figlia della letteratura postmoderna. Nelle varie storie d’amore condensate, ogni tanto c’è qualche frase che ha il sapore di un’epifania improvvisa: “Amore e morte sono ottimi presupposti per lo sviluppo di una civiltà. L’immortalità, invece, non ha mai portato a nulla” oppure “Il segreto della felicità è accettare di non comprendere il mondo”. Il sottotitolo del libro è “Sentimenti e risentimenti tascabili”, ed è un catalogo di dispiaceri, egoismi, meschinità, distrazioni, pianti e rabbie, in cui fa capolino, quasi per caso, la felicità. La bella copertina e le illustrazioni di Antonio Pronostico accompagnano felicemente il testo. Tutte le storie, o quasi – assicura l’autore –, sono opera di fantasia. Eppure, non è difficile ritrovarsi in uno o più amori impossibili. La fantasia ci guarda, l’immaginazione parla di noi.

Alla Biennale d’Architettura c’è troppa poca architettura

Gli architetti salveranno il mondo. Ne è convinto il curatore della Biennale 2021, il libanese Hashim Sarkis, che ha trasformato una rassegna di architettura in un granaio di ideali mainstream declinati con preoccupante omogeneità, e in fondo privi di bersagli polemici concreti.

La Mostra, ritardata di un anno causa pandemia, deplora l’individualismo e l’isolamento, insiste sullo “stare insieme”, sulla togetherness, sul co-housing, sul co-working, sul commoning, sulla resilienza, sulla diversità…: perché ormai – si afferma – i generi sono fluidi, le relazioni sociali non hanno più nulla a che fare con le tradizionali e asfittiche famiglie nucleari, il digitale apre nuovi mondi e le stesse gerarchie sociali che articolano gli spazi urbani mostrano la corda. Poiché però la classe politica internazionale si mostra sorda a queste novità, starebbe appunto agli illuminati architetti prendere in mano il futuro.

Ecco perché tra l’Arsenale e il Padiglione centrale dei Giardini troviamo pochi plastici e tanti vegetali, pochi materiali e tante idee, poca calce e tanta biopolitica: ci si interessa dei cambiamenti climatici, della deforestazione in Amazzonia, dei beni comuni, del problema dei rifugiati nel Mediterraneo e in Asia, dei popoli minacciati come i Mapuche del Cile (Benetton dove siete?), delle connessioni satellitari, dei robot e degli uomini cyborg (bellissime le sculture nigeriane degli “uomini-porta” in entrata all’Arsenale), del lavoro flessibile e coatto in età post-umana, di una fantomatica “assemblea del futuro” che dà voce a stakeholders come alberi, funghi, pietre e coleotteri; c’è una tavola imbandita post-apocalittica, e c’è perfino il Moon Village che in futuro ospiterà i coloni umani sulla Luna. Più reali, però, i coloni israeliani che, come mostra un’installazione poco diplomatica, vessano con quotidiane angherie una famiglia di agricoltori palestinesi sul confine della Striscia di Gaza, costringendola a inventarsi gli artifici più ingegnosi per produrre cocomeri e zucchine – nel suo Padiglione nazionale, per converso, lo Stato ebraico celebra la biblica fecondità (latte e miele) della terra del Giordano, anche se le immagini finali delle colonie di pipistrelli insediate dentro bunker bellici in disuso disegnano scenari meno rassicuranti.

Tutto molto interessante, ma chi si aspettava qualcosa di più sul piano del “costruire edifici” o dell’“organizzare città” dovrà aspettare la prossima edizione, e accontentarsi di qualche pur prezioso affondo su un modello di casa in fibra, sulla storia di un ospedale del Senegal o sugli interventi nelle periferie di Bogotà. Una certa vacuità aduggia diversi padiglioni: gli Olandesi insistono sul concetto di “diversità”, gli Spagnoli esplorano il tema dell’“incertezza” (personale e pubblica), i Nordici espongono un vastissimo open space nel quale si entra scalzi; il Padiglione Italia, più pragmatico, è un verdissimo labirinto di variegati interventi improntati alla “resilienza” dinanzi al climate change. Tuttavia, alcune partecipazioni nazionali sono redente dalla poesia dei materiali: il legno leggero che intelaia tante case degli Stati Uniti, le perle di Muharraq in Bahrein, il sale che gli Emirati Arabi provano a trasformare in elemento di costruzione. Altri tentano con coraggio un bilancio del passato prossimo: cosa fare delle architetture dell’era comunista a Budapest? in che modo la casa Takamizawa ha risentito della storia giapponese dal 1954 a oggi? qual è oggi il ruolo e l’eredità dell’utopia brasiliana tra Niemeyer, l’avanzatissima urbanistica sociale di Lina Bo Bardi (Leone d’Oro alla memoria) e i nuovi spazi comunitari autogestiti di San Paolo?

In certi ambienti, infine, si prova a rappresentare più direttamente l’architettura come luogo per eccellenza di conflitto sociale, senza adagiarsi passivamente sulle ali della tecnologia: nel Padiglione britannico s’immagina di rendere pubblici degli spazi privati, e si denunciano i rischi dei metodi di sorveglianza e di riconoscimento facciale; in quello austriaco si deplora il ruolo distorsivo delle piattaforme digitali sulla società; mentre i Portoghesi, sotto il titolo parlante In conflict, ripercorrono gli aspri dibattiti seguiti ad alcuni controversi interventi urbanistici tra Lisbona e Oporto. Forse bisognerà ripartire da queste dinamiche meno ovvie e pacificate per capire davvero quale strada imboccare per “vivere insieme” nei tempi difficili che ci aspettano.

Con Celan l’amore è… di versi

“Tu sei ovunque nelle mie poesie, Ingeborg, anche là dove sembravi non esserci. Ti ho spesso negata, Ingeborg, più spesso di quanto riesca ad ammettere a me stesso, ma io lo so: nel mio cuore ti ho portata con me così come sei veramente, e sempre le poesie dovevano giungere là dove eri presente. Anche nel secondo volumetto. Anche nelle ultime poesie”.

È mercoledì 16 ottobre 1957 quando Paul Celan (1920- 1970) scrive da Parigi a Ingeborg Bachmann (1926-1973). Parole che sono parte di una delle due lettere, inedite in Italia, che il poeta ebreo romeno, il cui vero nome è Paul Antschel, mandò alla scrittrice e poetessa carinziana il 16 e il 17 ottobre di quel ’57. Vengono pubblicate nell’ultimo numero della rivista di letteratura e filosofia nuova corrente, che è dedicato a Celan. con il titolo Celan. Incontri, voci e silenzi nello spazio della poesia (pagg. 153, euro 22, Interlinea Edizioni), nell’anniversario del centenario della nascita.

La germanista Elena Polledri, che ha tradotto e commentato le corrispondenze, rammenta che “nel 2016 sono state scoperte per caso, in una cartella contenente ritagli di giornale e quaderni di scuola, nella soffitta della famiglia Bachmann a Klagenfurt, due lettere di Paul Celan indirizzate a Ingeborg”. Si tratta “di un tassello mancante del carteggio, di cui i ricercatori avevano ipotizzato l’esistenza ma che la scrittrice aveva nascosto con cura, probabilmente a causa della esplicita dichiarazione del poeta, che in esse rivela di essere disposto a lasciare la famiglia per lei”. Dalle lettere, aggiunge la Polledri, “ci è possibile comprendere il significato della frase perentoria con cui Ingeborg, quindici giorni più tardi, esorterà Paul a restare a Parigi: ‘Tu non puoi abbandonare lei e il vostro bambino’. Si tratta di una risposta secca e senza tentennamenti alla proposta ricevuta il 16 ottobre”. Fatte conoscere in Germania dal settimanale Die Zeit nell’aprile del 2016, vengono proposte”, spiega la saggista, “per la prima volta in traduzione italiana, con testo tedesco a fronte”.

Le lettere avrebbero dovuto battezzare la ripresa del loro tormentato rapporto amoroso, cominciato nel 1948 ed entrato in crisi dopo il matrimonio di Celan con la pittrice Gisèle de Lestrange. In realtà non ne furono che l’epilogo. Di lì a poco, Ingeborg iniziò una relazione con lo scrittore svizzero Max Frisch. Si scriveranno ancora, ma quasi esclusivamente per questioni letterarie ed editoriali. Solo in una lunghissima lettera, mai spedita, del 27 settembre 1961, annota Elena Polledri, la “Bachmann darà libero sfogo al suo stato d’animo di donna e poetessa ferita e insisterà con veemenza sulla necessità per il poeta di superare lo stato di autocommiserazione in cui versava”. L’ultimo “invito che Celan le farà di scrivergli, nel luglio del 1967, rimarrà senza risposta”.

Eppure, nell’ottobre del 1957, l’amore fra i due grandi poeti sembrava rifiorito. Paul le scriveva il 16: “Mi ami davvero, Ingeborg, puoi davvero amarmi ancora dopo tutto questo? Dimmelo”. E il giorno dopo: “Gisèle ora è tranquilla e rassegnata, non lo ha solo accettato, lo ha anche capito. ‘Elle aussi est mariée avec toi’: solo una persona come Gisèle può parlare così. Vuoi che venga da te a fine novembre? Oppure prima? O dopo?”. Nella seconda, poi, accludeva una lirica, Bianco e Leggero, premettendo: “Leggi, Ingeborg, leggi: Per te, Ingeborg, per te”.

Paul si uccise. Ingeborg morì dopo un incendio nella sua casa di Roma. Avevano vissuto per la poesia. Celan, come scrive Santino Mele in uno dei saggi di nuova corrente, “visse per fare poesia, ridare al poetico una lingua, non testimoniare la sua estinzione”.

E a Theodor Adorno, che aveva negato la possibilità di scrivere poesia dopo l’orrore dei lager nazisti, replicò: “Nessuna poesia dopo Auschwitz (Adorno): cosa viene posto qui come idea di ‘poesia’? La spocchia di chi si pone a considerare o rappresentare ipotetico-speculativamente Auschwitz da una prospettiva a volo d’usignolo e di tordo”.

Uno, nessuno e centomila: Mirko Zeppellini e i suoi alias

Cosa può legare un produttore cinematografico, un malato di SLA, un organizzatore di eventi benefici, un tecnico audio, un consulente informatico, un avvocato, un esperto in diritti d’autore e in investigazioni utilizzate per risolvere intricati casi di cronaca nera? Incredibile, ma vero: il fatto che tutte queste persone siano in realtà la stessa persona. O meglio, le sue innumerevoli identità.

Quella che sto per raccontare è una storia incredibile. Una storia che somiglia alla trama di Prova a prendermi, il film con DiCaprio sulla vita di Frank Abbagnale, il truffatore americano che riuscì a spacciarsi per medico, insegnante, avvocato e pilota di aerei. Solo che in questa vicenda il protagonista si chiama Mirko Zeppellini, 45 anni, originario di Bresso (Milano) e ora residente (pare) in Michigan.

Un anno fa i primi sospetti

Finisco sulle sue tracce per la prima volta durante una puntata di Quarto Grado. Il conduttore Gianluigi Nuzzi stava decantando le lodi di un team di ingegneri americani che, grazie a una strumentazione sofisticatissima, aveva “ripulito” un audio di casa Ciontoli. Questo favoloso team, denominato Emme Team, aveva individuato parole mai ascoltate. Il tizio – un avvocato di Napoli rappresentante della società in Italia – sembrava una specie di venditore di pentole, per cui la cosa mi puzzò. Dopo qualche verifica scoprii che non esistevano società denominate Emme Team. Scoprii, anche, che Emme Team stava pubblicizzando i suoi mirabolanti servizi di consulenza sui giornali e alle Iene, e che iniziava a inserirsi in numerosi casi di cronaca offrendo consulenze capaci di far riaprire indagini. Tutti i suicidi per Emme Team diventavano omicidi, da quello di Tiziana Cantone a quello di Mario Biondo e altri.

Vengo poi a sapere che Roberta Bruzzone, Anna Maria Bernardini De Pace e Maria Rita Parsi hanno denunciato Emme Team: la società infatti aveva promesso loro (senza successo) risarcimenti per violazioni di copyright. Chiedo a Roberta Bruzzone chi fosse il loro referente. “Tale John Peschiera, lo vedevamo solo via Skype, ma si mostrava di rado. Diceva di essere in America”. Fatto sta che alla stipula del contratto con la Bernardini De Pace la Emme Team presenta il documento di identità di tale Henry Iovine, nato a Milano. Le tre, tramite controllo anagrafico, scoprono che non esistono né Iovine né Peschiera.

La bolla-balla mediatica

Quindi tutti i programmi tv e i giornali che stanno citando Emme Team come grande società di consulenza, in realtà parlano di qualcosa che non esiste. E le Procure stanno avviando indagini sulla base di consulenze non si sa di chi. La Procura di Napoli Nord decide addirittura la riesumazione della salma di Tiziana Cantone, dopo che la madre di Tiziana si affida a Emme Team per nuove (improbabili) indagini. Bobby Solo e Mogol affidano a Emme Team il compito di recuperare diritti delle loro canzoni. Numerosi familiari di vittime si rivolgono all’inesistente “John Peschiera”. Fior di avvocati dicono di essere suoi referenti italiani.

La svolta

Brancolo nel buio finché, tramite la foto presente sul documento (falso) che Emme Team ha fornito alla Bernardini De Pace, scopro, grazie alle ricerche della Bruzzone, che il volto ritratto in foto è quello di tal Mirko Zeppellini da Bresso. E qui si apre il capitolo Prova a prendermi.

Chiamo una sua vecchia amica: “Una sera mi portò a un concerto di Renato Zero dicendomi che saremmo andati a cena con lui, che era suo amico. Finimmo per rincorrere Zero in macchina, non lo conosceva”. E fin qui.

Poi, nel 2011, Mirko Zeppellini col nome d’arte John Kaylin si spaccia per un produttore cinematografico. Annuncia il colossal Foibe alla stampa così: “152 ruoli, uno dei più grandi film corali della storia”. Convince Enzo Iacchetti a fare il regista, Nicolas Vaporidis a recitare nel film. Chiamo Vaporidis: “Ero a Los Angeles, incontro Zeppellini che diceva di essere malato di SLA, aveva le stampelle. Il contratto era ben fatto, mi faceva i nomi di Giannini, Haber… Gli diedi 25.000 euro per contribuire alla produzione. Stava con una donna polacca, che era incinta. Poi scoprii che in Italia si era spacciato per qualcun altro. Lo affrontai, tremava. Era tutta una truffa, il film non esisteva. Non ho più rivisto i miei soldi”.

Già, ma per chi si era spacciato prima della fuga in America? Contatto Livio, noto musicista, che ha conosciuto bene Zeppellini: “Lo conosco nel 2003. Diceva di aver fatto un documentario con Spielberg. Si era presentato come avvocato del prestigioso Studio Legale Triberti. Mi curò la consulenza per un contratto con Warner. Lo incontravo nello studio legale ma sempre nel tardo pomeriggio quando l’ufficio si svuotava… Fatto sta che gli affido tutti i contratti e poi un giorno scopro che non era iscritto all’Ordine degli avvocati. Lui mi dice che è laureato in Fisica. Viene fatto un esposto, lo studio legale Triberti scopre che Mirko usa la carta intestata dello studio e spiega che è il loro tecnico informatico”.

Zeppellini sparisce, ma Livio lo incontra di nuovo per caso nel 2012 a Los Angeles: “Entro nel famoso locale di Pulp Fiction e lo vedo. Era tinto di biondo, vestito elegante, con una donna bellissima. Lo chiamo, ma mi ignora. Poi mi fa cenno di seguirlo. Lì mi dice che la donna con lui lo conosce con un altro nome, ora fa cinema”. Dopo un po’ su Internet digito il suo nome e scopro che lo cerca l’Fbi: ha varie identità. “Non sono stupito di nulla, posso dirti che il suo film preferito era Prova a prendermi, aveva il mito di Frank Abbagnale”. E aggiunge: “Un giorno nel 2014 arrivo a Roma e incontro il figlio di Morricone, mi dice che ha incontrato a Seattle tal Mirko Zeppellini e che gli organizzerà un concerto, mi viene un colpo”. Il concerto non ci sarà mai. Zeppellini viene arrestato a Las Vegas nel dicembre del 2016 per truffe e riciclaggio.

L’arresto a Las Vegas

Il tribunale lo giudica incapace di comprendere le accuse, trascorre due anni tra carcere e una struttura per supporti psichiatrici, gli viene diagnosticato un disturbo delirante con manie di persecuzione e grandezza. Non è dunque condannato penalmente, ma a risarcire le persone truffate per centinaia di migliaia di dollari. Nel 2018 torna a essere una persona libera. Solo che dopo qualche mese crea “Emme Team”. E in Italia, giornalisti e Procure, abboccano come pesci. Ora speriamo solo che non si metta a pilotare aerei.

Il ritorno dei profeti e l’Italia nelle mani della social-banalità

“Spariranno profeti e profezie, / Se mai ne furono”, scrisse Eugenio Montale pochi giorni dopo l’orribile attentato fascista alla Banca dell’Agricoltura di Milano del 12 dicembre 1969. Con la sensibilità dei grandi poeti, aveva capito che il tempo dei profeti era finito. Ma nella storia d’Italia ci sono stati profeti che hanno ispirato a impegnarsi per l’emancipazione sociale e politica, hanno esortato uomini e donne a non affidarsi al destino o al fato, ad assumersi la responsabilità della scelta morale; hanno criticato i contemporanei per i loro vizi e li hanno incoraggiati a liberarsi dalla servitù; hanno sofferto per le ingiustizie del loro tempo e dato un significato alla sofferenza con l’annuncio del riscatto; hanno scritto o parlato con pathos per stimolare l’immaginazione e rafforzare le passioni che sostengono la redenzione; hanno interpretato e narrato le sconfitte del loro popolo con parole idonee a combattere la tentazione di arrendersi; hanno saputo infondere negli animi la determinazione a sopportare i sacrifici che la lotta per la libertà esige.

Profeti d’emancipazione furono Dante che esaltò il valore della libertà morale e annunciò il tempo nuovo in cui “saranno saziati tutti coloro che han fame e sete di giustizia”, Francesco Petrarca che rivelò la rinascita dell’antica virtù; Girolamo Savonarola che esortò i fiorentini a fondare la Repubblica popolare che visse fino al 1512; Niccolò Machiavelli che scrisse pagine profetiche per invocare un redentore dell’Italia. Furono profeti d’emancipazione i poeti come Vittorio Alfieri e Alessandro Manzoni che preparano il Risorgimento, fu profeta Giuseppe Mazzini che annunciò il principio del dovere come fondamento di libertà. Scrisse da profeta Benedetto Croce nella Storia d’Europa nel secolo decimonono. L’ultimo profeta è stato Pierpaolo Pasolini che interpretò la strage del 12 dicembre come segno d’un futuro terribile.

I profeti ritengono di aver ricevuto da Dio una speciale ispirazione o rivelazione. La prima è una forma di elevazione o perfezionamento morale che permette di vedere negli eventi passati, presenti e futuri, significati che i loro contemporanei non sanno discernere; la seconda è l’esperienza interiore della scoperta della verità per mezzo di rappresentazioni sensibili o intellettuali. Sono consapevoli che la missione che Dio ha affidato loro è ardua, che su questa terra non riceveranno premio alcuno e li attende, spesso, una fine tragica. Questa consapevolezza li fa esitare ad accettare il comando di Dio. Preferirebbero non avere ricevuto la luce profetica. L’incertezza, il timore, la persuasione di non essere all’altezza del compito sono segni distintivi dei veri profeti. L’intima convinzione di dover parlare per assolvere una missione divina dà alla voce dei profeti una grande forza persuasiva. Poiché si sentono ispirati, ispirano: elevano le coscienze, rischiarano le menti, rafforzano gli animi. La loro autorità viene dalla fede nell’ispirazione divina e dalla vita esemplare. Sono migliori dei loro contemporanei, non perfetti. Hanno vizi e debolezze, ma non hanno una mentalità servile e non sono corrotti. Hanno salde convinzioni interiori. (…) Quando i profeti riescono a persuadere un buon numero di loro concittadini ad accogliere i princìpi che annunciano in nome di Dio, e a operare e soffrire insieme al fine di edificare ordini sociali e politici conformi a quei princìpi, abbiamo tempi profetici. Possiamo chiamare non profetici i tempi in cui i profeti tacciono o quelli in cui le loro voci non riescono a dar vita a importanti movimenti di emancipazione, a creare nuove istituzioni. I nostri sono tempi non profetici. (…) Ma nuovi leader politici profetici potrebbero ispirare movimenti di emancipazione contro le forme di dominio che pervadono il nostro tempo. Il loro primo compito sarebbe redimere dal vuoto morale. (…) I più preferiscono cercare le risposte nella televisione, nel computer, o nel telefono: risposte che non sono il risultato di una meditazione interiore, di riflessioni su libri, di dialoghi con maestri e amici. Devono essere già pronte e semplici: non rendono gli individui più consapevoli e più liberi; li rendono banali.

Mladic, il massacratore che dà la colpa al destino

Fin dal giorno della sua cattura, nel 2011, il generale serbo-bosniaco Ratko Mladic ha tentato di far ricadere sul destino la colpa dei crimini di guerra da lui commessi durante la guerra balcanica che insanguinò la regione per tre anni dal 1992. Il “macellaio” che diede l’ordine ai propri soldati di sterminare tutti gli uomini, i ragazzi e i bambini musulmani di Srebrenica ha sempre affermato di essere stato scelto dal destino per difendere il popolo serbo dagli occidentali che proteggevano, a suo dire, i musulmani bosniaci. “Il destino mi ha messo in grado di difendere il mio Paese che voi potenze occidentali avevate devastato con l’aiuto del Vaticano e della mafia occidentale”, aveva detto l’anno scorso durante l’udienza di appello. L’uomo che ancora popola gli incubi di migliaia di donne e bambini che hanno visto i propri mariti e padri morire a causa sua ha ora scoperto che il proprio destino è quello di trascorrere il resto della vita in prigione.

La Corte ad hoc dell’Onu per i crimini di guerra ha confermato in ultima istanza la condanna all’ergastolo per l’ex generale settantottenne. Dopo quasi 26 anni da quei tragici eventi, il caso si è dunque chiuso definitivamente. I giudici dell’International Residual Mechanism for Criminal Tribunals hanno pronunciato il verdetto finale in appello per l’ex comandante militare dei serbi di Bosnia Erzegovina che da questo momento passerà alla storia come un criminale di guerra che si è macchiato del reato di genocidio, il peggiore. È lui pertanto anche il responsabile dell’uccisione, nel luglio del 1995, di almeno 8.000 persone di sesso maschile nell’enclave di Srebrenica, nella Bosnia orientale, teoricamente protetta dai caschi blu delle Nazioni Unite. Colui che si definisce “un uomo semplice” è invece un genocida che ha realizzato il progetto di pulizia etnica allora in corso nel modo più spietato possibile.

Nel 2017, Mladic era stato condannato al carcere a vita in prima istanza per crimini di guerra, crimini contro l’umanità e genocidio: i capi di imputazione riguardavano, tra gli altri, anche il lungo e atroce assedio della città di Sarajevo che fece oltre 10mila morti; la persecuzione ed espulsione dei bosniaci non serbi dalla regione oltre al genocidio di Srebrenica, definito dai giudici la peggiore atrocità commessa dai tempi della seconda guerra mondiale. Questa lista degli orrori è stata ritenuta corretta dai magistrati dell’Aja. L’ex capo dei diritti umani delle Nazioni Unite Zeid Ra’ad al Hussein lo ha descritto come “l’epitome del male”. Tuttavia sono tanti i serbi che continuano a venerarlo come un santo, specialmente chi appartiene ai vari gruppi e movimenti di destra. Si tratta di persone che ancora applaudono l’operato dei cecchini che notte e giorno prendevano di mira i civili che tentavano di muoversi attraverso Sarajevo per trovare pane e acqua potabile. C’è chi invece lo ricorda quando tornò a Srebrenica qualche giorno dopo la strage affermando: “Diamo questa città in dono al popolo serbo.” Mladic fuggì dopo la fine della guerra in Bosnia, nel 1995, raggiunto da un atto di incriminazione per crimini di guerra. Riuscì a sfuggire alla cattura per 16 anni, fino al maggio del 2011, quando venne ragpreso dalla polizia nella sua abitazione a Lazarevo, vicino Belgrado. Durante gli anni della fuga potè contare sull’appoggio e la protezione dell’allora presidente serbo Slobodan Milosevic e a Belgrado fu visto frequentare con tanto di scorta ristoranti affollati, stadi e ippodromi. Anche Radovan Karadzic, presidente della Repubblica serba di Bosnia Erzegovina, lo sostenne, ma finì davanti ai giudici dell’Aja tre anni prima. Ora il triumvirato che decretò la morte di decine di migliaia di persone è definitivamente sepolto: sotto terra il defunto Milosevic, dentro una prigione Karadzic e Mladic. Ma non è colpa del destino.

Harris chiude la porta ai migranti, Ocasio: “Una vera delusione”

“Non venite negli Stati Uniti perché sarete rispediti indietro”. L’appello rivolto ai potenziali migranti guatemaltechi, è della vicepresidente degli Usa, Kamala Harris, in visita ieri nel Paese centramericano. Una prima missione, quella della donna che ha incantato il mondo con la sua storia – da figlia di migranti indoafricani alla Casa Bianca – non proprio nel solco dei proclami della campagna elettorale. “Vogliamo sottolineare – ha proseguito Harris accanto al presidente Alejandro Giammattei – che l’obiettivo del nostro lavoro è aiutare i guatemaltechi a trovare la speranza in casa”, concludendo, per maggiore chiarezza: “Voglio dire chiaramente alle persone, non venite”.

La vicepresidente, che ha prosegue il tour nei Paesi del cosiddetto Triangolo settentrionale del Centro America incontrando il presidente messicano Andrés Manuel Lopez Obrador con il quale ha firmato un memorandum in materia di cooperazione migratoria, ha ricevuto l’anno scorso da Joe Biden l’incarico di guidare il dialogare con Guatemala, Honduras, El Salvador, i Paesi da dove fugge, a causa della condizioni politiche ed economiche, la maggioranza dei migranti che affronta il pericoloso viaggio fino al confine tra Messico e Usa. Una missione, quella del dialogo che sembra non sia stata recepita da Harris, visto il messaggio secco e tutt’altro che accogliente che ha lanciato alla prima tappa. Le critiche non si sono fatte attendere: a scagliarsi contro Harris è stata la deputata dem, Alexandria Ocasio-Cortez. “È deludente assistere a tutto questo”, ha twittato allegando il video del discorso di Harris. “Primo, chiedere asilo in qualunque punto del confine Usa è un metodo di arrivo legale al 100%. Secondo, gli Usa per decenni hanno contribuito a cambi di regime e destabilizzazione in America Latina. Non possiamo aiutare a dare fuoco alla casa di qualcuno e poi accusarlo di scappare”, ha scritto la deputata. C’è da dire che Harris ha tenuto anche una tavola rotonda con i leader della comunità per discutere i problemi alle radici dell’immigrazione e ha visitato un’università per incontrare un gruppo di ingegneri donne e discutere i problemi dell’imprenditoria femminile. L’incontro con Giammattei ha riguardato l’impegno che l’Amministrazione Biden si è assunta di aiuti umanitari per 310 milioni di dollari nella regione, insieme a un più ampio piano, da 4 miliardi, per rafforzare investimenti e sviluppo. In cambio gli Usa chiedono misure anti-corruzione più stringenti, come sottolineano i giornali locali.

Tuttavia, gli Usada anni finanziano programmi di sviluppo in Guatemala senza riuscire a fermare il flusso di migranti: dal 2019 a oggi sono stati fermati al confine circa 400 mila cittadini, il 2% dell’intera popolazione. È notizia di ieri, tra l’altro, il record di rimesse inviate da questi in patria: 1,9 milioni di dollari. Così come la storia a lieto fine di una giovane madre dell’Honduras che ha riabbracciato sua figlia dopo 6 ani vedendola in tv al confine con gli Usa come altri 19 mila minori migranti non accompagnati nel solo mese di marzo.

Ad approfittare della polemica in Italia sono stati Matteo Salvini e Giorgia Meloni, che appoggiando il discorso di Harris ne hanno rivendicato la somiglianza con quello del tanto criticato Donald Trump.

Biden riporta l’America in Europa: “Fidatevi di noi”

Il baedeker, la guida che Joe Biden porta con sé in viaggio per l’Europa, è un rapporto redatto dal Consiglio per la sicurezza nazionale: una traccia che gli serve a non perdere la bussola dell’interesse nazionale degli Stati Uniti nelle diverse riunioni dei prossimi giorni, il Vertice del G7, da venerdì a domenica, in Cornovaglia; poi gli incontri a Bruxelles con Nato e Ue; e, infine, l’appuntamento di Ginevra, mercoledì 16, con Vladimir Putin. Sulla carta, il compito di Biden è semplice: marcare la differenza con Donald Trump, rimettere insieme i cocci del multilateralismo lasciati dal suo predecessore e mantenere il punto con Putin. Nella dichiarazione che fa da preambolo al testo del Consiglio di sicurezza nazionale, intitolato Renewing America’s advantages, Biden assicura: “L’America è tornata. La diplomazia è tornata. Le alleanze sono tornate. Ma non stiamo a guardare indietro. Guardiamo con decisione al futuro e a ciò che possiamo fare, insieme, per gli americani”.

Per negare le tentazioni di un neo-isolazionismo americano, il documento si apre con l’affermazione che, “oggi più che mai, il destino dell’Unione è inestricabilmente connesso con eventi al di là dei nostri confini”, la pandemia, la crisi economica, l’emergenza climatica, le ingiustizie razziali. In 23 pagine, il testo ripercorre i temi della sicurezza globale e le priorità della sicurezza nazionale. In Medio Oriente, c’è l’impegno per la sicurezza di Israele, ma senza “assegni in bianco” ai partner – il riferimento è all’Arabia Saudita –: “l’obiettivo è ridurre le tensioni regionali e creare condizioni perché i popoli mediorientali possano realizzare le loro ambizioni”. La prospettiva di un ripristino dell’intesa sul nucleare con l’Iran non è messa in risalto, forse perché divisiva sul fronte interno. “Siamo a un punto di svolta – recitano le conclusioni del documento – siamo nella nebbia di un dibattito fondamentale sul futuro del nostro mondo. Per spuntarla, dobbiamo dimostrare che le democrazie possono ancora rispondere alle necessità dei nostri popoli”, mentre, in tempi recenti, le tentazioni delle ‘democrature’ si sono fatte sentire, negli Usa di Trump, ma anche in Europa; e gli ‘uomini forti’ alla al Sisi, alla Erdogan o persino alla Putin, hanno saputo fare da magnete in contesti internazionali confusi, come la recente crisi medio-orientale. Per riuscirci, bisogna “ricostruire meglio le fondamenta delle nostre economia – Biden ci sta provando con il suo programma di rilancio basato sugli investimenti pubblici – riappropriarci del nostro posto nelle Istituzioni internazionali, mettere in risalto i nostri valori in patria e parlare per difenderli nel mondo. Ammodernare il nostro arsenale militare, ponendoci però alla guida della diplomazia. Rivitalizzare l’intreccio delle alleanze dell’America e delle partnership che hanno fatto del mondo un posto più sicuro per i nostri popoli”. Al fondo, c’è la certezza che “nessun Paese è meglio piazzato dell’America per navigare il futuro”, che va affrontato “da una posizione di fiducia e di forza. Lavorando con i nostri partner democratici, affronteremo ogni sfida e avremo la meglio su ogni contendente. Insieme, possiamo fare e faremo meglio”. In Europa, Biden trova leader meglio disposti verso gli Stati Uniti delle loro opinioni pubbliche, almeno a scorrere l’inchiesta in 11 Paesi Nato condotta da German Marshall Fund e Bertelsmann Foundation. Nonostante la politica di Biden dell’America is back, l’influenza degli Stati Uniti appare in declino nel Vecchio continente: tra un terzo e la metà degli europei non crede che gli Usa siano la più influente potenza globale, soprattutto a causa dell’immagine di sé data nella pandemia. L’Italia è il Paese in cui la percezione dell’America come principale leader globale è più bassa: lo pensa il 51% degli italiani, contro il 55% dei tedeschi e il 56% dei francesi, numeri tutti bassi, in linea con il 2020 e in calo di dieci punti sul 2019. Va meglio in Gran Bretagna 58%, Svezia 63%, Polonia 62%, e un po’ a sorpresa Spagna 85%. Dietro gli Stati Uniti, sale il peso della Cina al 20% complessivamente (ma al 32% in Italia), mentre resta modesto quello dell’Ue al 14% (il 12% in Italia). La Russia non va oltre il 4%. Tranne che in Italia, Polonia e Turchia, la percezione della Cina è, però, più negativa che positiva: Biden, insomma, ha margini per costruire un’alleanza che contenga l’‘impero del male’ del XXI secolo e ne ridimensioni l’espansionismo commerciale, economico e militare, lungo i percorsi della ‘Via della Seta’.

Virologi in tv, roba da Biscardi

Varia il virus e varia il virologo, è la dura legge dell’adattamento all’ambiente. Se vuoi restare nell’ambiente anche dopo l’emergenza che ti ha elevato dalle corsie ai salotti, è consigliabile variare. Molti luminari lo stanno facendo, ma c’è anche chi tiene duro, e forse la sa più lunga degli altri. Il professor Andrea Crisanti non varia. Lui, no. Stesso sguardo afflitto, stesso bisbiglio da confessionale, stesso invisibile cilicio. “Perché dovrei chiedere scusa?” chiede Crisantemo Crisanti a Crisantemo Formigli nell’ultima, forastica puntata di Piazzapulita. Perché? Mah, forse perché aveva criticato le prime riaperture (un anno sottochiave sebbene i contagi si sviluppino quasi solo al chiuso, valla a capire la virologia), si era scagliato contro “il sistema infernale dei colori”, aveva profetizzato una quarta ondata da paura. Peggio di così, solo il calendario Maya riletto da Roberto Giacobbo.

È andata diversamente, per fortuna. Ma il professor Crisantemo non deflette: “Perché dovrei chiedere scusa?”. In effetti va capito. Può capitare a tutti di sbagliare una previsione se vai in tv a fornire previsioni ogni giorno, diverse volte al giorno. È il calcolo delle probabilità. “Io pessimista? No, prudente. Sempre meglio prevenire”. E anche questo è vero, non c’è talk show in cui Crisanti non prevenga innanzitutto se stesso.

Quanto questi vaticini crisantemici siano attendibili sotto il profilo virologico non sapremmo; però, dal punto di vista mediatico, la strategia del tener duro è perfetta. Crearsi una maschera e restarvi fedele, non deflettere, non chiedere scusa, non ammettere di avere sbagliato fino alla lite è una regola aurea se si vuol durare in video, come intuì genialmente Aldo Biscardi quarant’anni fa, fondando Il Processo del lunedì. Oggi Il Processo al virus si fa tutti i giorni. Ci eravamo illusi che la medicina potesse cambiare la tv; invece la tv ha cambiato i medici. Chi l’avrebbe detto che dal Bar Sport al Bar Covid il passo fosse così breve.

Saman e Seid, orrido derby tra politici

Il modo più bello, e più giusto, per conservare nei nostri cuori il sorriso del ragazzo Seid e lo sguardo della ragazza Saman sarebbe quello di abbassare la voce quando parliamo di loro. Perché sarebbe davvero orribile se intorno a quelle giovanissime vite recise s’ingaggiasse il solito scontro destra-sinistra. Quello tra i no al razzismo bellicosamente schierati contro i no all’integrazione: un lugubre derby che, purtroppo, già emerge limaccioso dai bassifondi del dibattito pubblico. Seid Visin è il ventenne di origine etiope adottato da bambino da una coppia di Nocera Inferiore, calciatore promettente nelle giovanili di Milan e Benevento, che si è improvvisamente tolto la vita. Per colpa del razzismo s’indigna la sinistra indicando le parole della sua lettera: “Ovunque io vada, ovunque io sia, ovunque mi trovi sento sulle mie spalle, come un macigno, il peso degli sguardi scettici, prevenuti, schifati e impauriti delle persone”. Ma subito, a destra, ecco che cominciano a gridare sciacalli, citando il papà di Seid, che ha detto: “Il razzismo non c’entra, basta speculare sul dolore di nostro figlio”. Saman Abbas è la 18enne pachistana di Novellara, scomparsa dal primo maggio, ma che secondo gli inquirenti sarebbe stata strangolata dallo zio perché rifiutava il matrimonio combinato imposto dalla famiglia. Anche nel suo caso, sullo sgomento che lascia ammutoliti, già cresce la voglia di strillarsi qualcosa contro, accompagnato dal solito reciproco lancio di pietre. A destra, si coglie l’occasione per ribaltare l’assurdo delitto sulla sinistra cosiddetta buonista, che straparla di accoglienza incapace però di muovere un dito contro l’islamismo tribale che perpetua e impone con i suoi riti sanguinari la sottomissione femminile, e lo fa guarda un po’ proprio nel cuore dell’Emilia rossa. Mentre a sinistra si stenta a trovare le risposte più adatte come se anche girare la testa dall’altra parte facesse parte del codice auto-imposto del politicamente corretto. Vorremmo tanto che le vite maledettamente brevi dei ragazzi Samam e Seid ci sottraessero, almeno per un po’, all’uso e all’abuso politicante delle tragedie altrui. Che è poi l’altra faccia della violenza.