Il ministro della Transizione ecologica, Roberto Cingolani, è uomo aduso ai laboratori e ai centri di ricerca e ignora probabilmente alcune sottigliezze della retorica, un tempo somma tra le scienze e oggi ahinoi negletta. Ieri il nostro, audito in Parlamento, ha ad esempio sostenuto: “Mi chiedo se sia giusto impedire persino di parlare di inceneritori. C’è un po’ di stampa che fa questo atteggiamento leggermente terrorista che fa sì che tu questa parola non la puoi pronunciare” (sic). Ora, siccome – se non ci siamo persi qualcosa – siamo stati i primi e gli unici a scriverne i leggermente terroristi saremmo noi del Fatto. E qui al ministro gioverà un riassunto della questione: è lui che, pur avendo parlato di tutto, persino della fusione nucleare, non ha mai usato la parola “inceneritori” finché Il Fatto non ha rivelato che tra gli impianti a cui verrà concessa la fast track autorizzativa per gli obiettivi di decarbonizzazione indicati dal Pniec (il piano per il clima) ci sono proprio loro, gli inceneritori. Magari Cingolani pensa che sia cosa buona e giusta: ma allora perché ha infilato quella norma alla chetichella in un allegato senza parlarne mai prima? Il dibattito vuole farlo solo con la lobby dei monnezzari?
La stampa guardona danneggia anche le battaglie più giuste
Seid Visin si è tolto la vita a vent’anni. Era arrivato in Italia da piccolo, quando era stato adottato da una famiglia dove era cresciuto circondato da amore e attenzioni. Della sua scomparsa hanno parlato tutti i giornali per molti giorni e non solo perché era una ex promessa del calcio. Tre anni fa aveva scritto su Facebook un post di denuncia, che è stato giustamente riportato perché le sue parole sono davvero un potentissimo atto d’accusa a una società che ha ancora, nell’inconscio collettivo, un tragico problema di accettazione della diversità. Seid l’ha detto benissimo, con una sincerità disarmante: “Sono stato adottato da piccolo. Ricordo che tutti mi amavano. Ovunque fossi, ovunque andassi, tutti si rivolgevano a me con gioia, rispetto e curiosità. Adesso sembra che si sia capovolto tutto. Ero riuscito a trovare un lavoro che ho dovuto lasciare perché troppe persone, specie anziane, si rifiutavano di farsi servire da me e, come se non mi sentissi già a disagio, mi additavano anche come responsabile perché molti giovani italiani (bianchi) non trovassero lavoro. Dentro di me è cambiato qualcosa. Come se mi vergognassi di essere nero, come se avessi paura di essere scambiato per un immigrato, come se dovessi dimostrare alle persone, che non mi conoscevano, che ero come loro, che ero italiano, bianco. Ma era paura. La paura per l’odio che vedevo negli occhi della gente verso gli immigrati”.
Non c’è molto da aggiungere. E chissà se i seminatori di odio hanno riflettuto leggendo quel post. Tutto ciò premesso, resta nella vicenda di Seid da chiarire una questione per nulla secondaria, che riguarda la maturità e l’onestà del nostro sistema dell’informazione. Perché i suoi genitori sono stati costretti a più riprese, dal solito circo guardone, a ribadire che quel post non c’entra nulla con le motivazioni che hanno portato il loro figlio a uccidersi? Possibile che i giornali non siano riusciti a gestire questa tristissima vicenda senza guardarla dal buco della serratura? Alcune interviste al papà e alla mamma di Seid hanno dell’incredibile. “Walter Visin è appena tornato dalla chiesa dove si sono celebrati i funerali del figlio e parla di lui ancora al presente. ‘Il mio dolore e quello della mamma – dice – non è spiegabile. E non è giusto sia strumentalizzato dalla politica italiana. No! Il nostro dolore merita rispetto”. Posizione più che condivisibile. Però sentite cosa dice subito dopo l’intervistatore a quel padre che ha appena seppellito un figlio di vent’anni: “Ma è lui ad aver espresso disagio per la condizione di emarginazione subita …”. Risposta: “Abbiamo trovato nostro figlio impiccato e nessun messaggio vicino il suo corpo. Nessuna ultima lettera. Quello era un post Facebook scritto quasi tre anni fa. Nostro figlio, come la sua famiglia, era a favore di qualsiasi essere vivente. In quel periodo c’era il blocco da parte del governo italiano degli immigrati in mezzo al mare. Questo provocava sofferenza in tutti noi”. L’intervista si conclude così: “Seid era iscritto all’Università di Milano. Si era fidanzato con Sara, una bella ragazza finlandese. Insieme avevano deciso di vivere nella sua nazione dove il Covid non era così minaccioso come da noi. Poi da qualche mese era tornato a casa. Era tornato diverso. Ma queste sono storie private della nostra famiglia, dove nessuno in questo momento deve entrare. Perché stiamo soffrendo molto. E il nostro dolore non deve essere strumentalizzato, da nessuno”. Quello che ha scritto Seid nel 2019 è un monito per tutti. Lo sarebbe stato anche se la politica prima e l’informazione poi non lo avessero trasformato nel suo testamento, passando sopra il suo cadavere e all’indicibile sofferenza dei suoi genitori.
Lacrime da ministro. Dalla Fornero alla Bellanova: sono loro a far piangere
Delle poche cose che abbiamo capito della politica italiana, una è questa: quando vedi un ministro piangere, vuol dire che si mette male (non per il ministro, ovvio). Lacrime famose: quelle di Elsa Fornero (novembre 2011) mentre sforbiciava le pensioni e creava un esercito di esodati, e quelle di Teresa Bellanova (maggio 2020), che annunciava commossa la sua legge-sanatoria per far emergere lo sfruttamento schiavistico e combattere il caporalato nei campi, e non solo.
Commozione. Storia personale. Emozione: “Quelli che sono stati brutalmente sfruttati nelle campagne o anche nelle così fatte cooperative dove venivano date persone in prestito per lavorare nelle famiglie, come badanti o come colf, non saranno più invisibili…”. La chiosa era da proclama epocale: “Gli invisibili non saranno più invisibili”. Wow! Bingo!
A risentire quelle parole, a vedere quel video dove l’allora ministra si commuoveva, a leggere le cronache politiche che si commuovevano anche loro in omaggio alla ministra commossa, il bacio della pantofola alla ministra italovivaista così vicina agli sfruttati, bisogna dirlo, sale la carogna. La legge (era l’articolo 110 bis del cosiddetto decreto rilancio) fu preceduta da un intenso tam tam giornalistico, per cui l’allarme sociale era il rischio di non trovare arance e mandarini al supermercato perché “non si trovano raccoglitori”. Insomma, nemmeno gli schiavisti trovavano più schiavi, toccava correre ai ripari.
Bene, a vedere quelle cifre un anno dopo, tremano i polsi. Non solo dall’articolo si tennero fuori due settori ad altissimo tasso di irregolarità (logistica ed edilizia), ma delle 207 mila domande presentate, ad oggi, solo il 12 per cento sono state evase. Insomma, ci sono parecchi invisibili – quasi tutti, quasi il 90 per cento delle domande – che pur chiedendo, bolli e pratiche alla mano, di diventare visibili, stanno ancora lì. Le baracche delle piane degli agrumi stanno ancora lì. Gli irregolari che non riescono a ottenere un permesso di soggiorno nonostante le code, i documenti, le richieste, le domande, stanno ancora lì. Le badanti ricattate stanno ancora lì. Il flop era annunciato: poche domande, 207 mila, data la difficoltà di convincere chi usa manodopera illegale a farla emergere. Ora che è passato un anno e i termini per le domande sono scaduti, 180 mila invisibili di quei 207 mila che hanno fatto domanda per diventare visibili sono ancora invisibili.
Non solo. Ogni giorno emergono casi grandi e piccoli di “somministrazione” (sic) di lavoro illegale, di cooperative che fungono da serbatoio di braccia, di fornitori costretti dai committenti (anche di gran nome, come Dhl, come spiega l’inchiesta della Procura di Milano) a evadere contributi e Iva oppure a morire, ma chissenefrega, me arriveranno altri. Il tutto mentre si ricamano trine e merletti sulla fine del blocco dei licenziamenti, perché Confindustria – dice – vuole assumere (con nuovi contratti) e per farlo deve licenziare (i vecchi contratti, più onerosi), e si diffonde sempre più rumoroso il tam tam ideologico contro il Reddito di Cittadinanza, che rende più difficile pagare un barista per dodici ore meno di 700 euro al mese (dove andremo a finire, non si trovano gli stagionali, eccetera, eccetera).
Date retta, quando vedete un ministro piangere, resistete alla commozione e all’empatia, di solito significa che tra poco piangerà qualcun altro, ma sul serio, e non a uso di telecamera, ma in solitudine, in disperazione. E soprattutto, sempre invisibile.
Ex Ilva, a Taranto pure lo Stato si è liquefatto
Anche lo Stato si è liquefatto al calor bianco dell’acciaieria di Taranto. È perfino umiliante sapere che i ministri dello Sviluppo economico e della Transizione ecologica, Giorgetti e Cingolani, in queste ore non possano fare altro che dichiarare: “Aspettiamo la sentenza del Consiglio di Stato”.
Proprio così. Sarà la giustizia amministrativa, nei prossimi giorni, a decidere la sorte dell’area di lavorazione a caldo la cui micidiale nocività è ormai comprovata da anni. Nelle mani dei suoi alti burocrati – dalle carriere intrecciate col potere politico – è affidata una decisione cruciale per il futuro dell’economia italiana e per il destino di oltre mezzo milione di tarantini. Spegnere gli altiforni, dando seguito all’ordinanza del sindaco Melucci, convalidata dal Tar?
Qui lo Stato si divide e si lacera fino all’impotenza. I rappresentanti delle comunità locali, Comune e Regione, mettono al primo posto la salute dei cittadini e chiedono si ponga fine ai rinvii, ottemperando alle disposizioni della magistratura. Il governo invece confida nel “realismo” dei consiglieri di Palazzo Spada affinché boccino definitivamente la sentenza del Tar, dopo averne sospeso a marzo l’applicazione.
Altrimenti? Altrimenti verranno meno i presupposti della nuova società mista (pubblico-privato) Acciaierie d’Italia, della quale Franco Bernabè è in attesa di diventare presidente. Rendendo concreta l’eventualità di chiusura dell’acciaieria più grande d’Europa. Non era questa la promessa disattesa del M5S tre anni fa, quando vinse le elezioni? Resta una prospettiva considerata desiderabile da una parte significativa della popolazione. Probabilmente è anche l’obiettivo non dichiarabile della multinazionale ArcelorMittal.
La situazione, già drammatica di per sé, è resa oltraggiosa, di fronte al lutto di tante famiglie e al destino incerto di 8200 lavoratori, dalle pratiche di corruttela in cui sembrano impastoiati esponenti delle istituzioni e dei gruppi economici interessati. Neanche dieci giorni sono passati dalla sentenza di primo grado della Corte d’Assise di Taranto che ha condannato i Riva per disastro ambientale e disposto la confisca degli impianti, ed ecco emergere nella fase successiva, quella dell’amministrazione controllata, un’impressionante continuità di pratiche illegali finalizzate ad ammorbidire l’azione della magistratura.
Sotto accusa, insieme all’avvocato di dubbia fama e al top manager della consulenza aziendale, ecco comparire anche gli uomini dello Stato: il Procuratore capo, l’alto funzionario di polizia, il carabiniere. In uno scambio redditizio di favori miranti a neutralizzare quella che fin dal 2005 viene indicata come “eccessiva severità” della magistratura tarantina.
Sottovoce lo sentivi ripetere trasversalmente negli ambienti politici, nelle sedi confindustriali e pure tra non pochi sindacalisti: quei giudici esagerano, vanno dietro alle richieste irresponsabili di ambientalisti e comitati popolari, sconfinano dalle loro prerogative, pretendono l’applicazione di normative impossibili da rispettare, ignorano le necessità del sistema manifatturiero.
Come dimenticare il titolo dedicato da Libero alla gip Patrizia Todisco nel 2012? “La zitella rossa che licenzia 11 mila operai”. E così, oltrepassata l’epoca delle autorizzazioni integrate ambientali cucite su misura nei ministeri romani e delle generose elargizioni per oliare il consenso locale, s’è messo in azione il sodalizio degli Amara e dei Caprisco.
Parliamoci chiaro. Che fin dal tempo lontano dell’Italsider la grande fabbrica funzionasse anche da centro di potere clientelare, e che già allora la tutela dell’ambiente nonché l’antinfortunistica venissero subordinate agli imperativi della produzione, è cosa nota. In Italia, ahimè, quasi inevitabile, tanto più al Sud, dove c’è fame di lavoro. Ma quando l’avvelenamento da polveri si è sommato alle perdite economiche, e perfino la sinistra pugliese si è illusa di trovare nell’industriale privato del Nord un potenziale alleato contro il degrado politico e culturale del territorio, ebbene, allora le contrapposizioni nella società e nelle istituzioni si sono fatte esplosive. Le regole del gioco sono saltate. Abbiamo visto manager incitare gli operai allo sciopero contro i magistrati, con tanto di distribuzione di cestini alimentari ai picchetti. Solo a parole si è riconosciuto il principio costituzionale secondo cui la salute è un diritto “fondamentale” (articolo 32), sempre affiancato ipocritamente al diritto al lavoro. Costringendo le famiglie degli operai a un’alternativa esistenziale inaccettabile che ha avvelenato gli animi oltre che i corpi e la vita dei quartieri.
Ora tocca al Consiglio di Stato decidere di non decidere. Ma i soldi del Recovery Plan non potrebbero servire a risarcire Taranto, dandole un futuro pulito?
Razzismo “Sara l’hanno spogliata e umiliata solo perché islamica”
Egregio direttore, questa lettera vuole esprimere tutto lo sdegno per l’umiliazione che Sara Qasmi, studentessa di origini marocchine, nata e cresciuta in Italia, ha subito nel bagno della motorizzazione civile di Trento a opera di un membro delle forze dell’ordine (vedi articolo sul Corriere del Trentino di domenica 6 giugno).
Dopo essersi sorbita le storture del suo (pronunciabilissimo) cognome alla consegna del documento d’identità; dopo aver patito una pressante sorveglianza durante il tutto il test d’esame per il conseguimento della patente (a lei solamente riservata); dopo aver subito il fermo di un poliziotto senza spiegazioni al termine del test, bene, dopo tutto questo viene invitata da una poliziotta a seguirla in bagno, dove, in malo modo, le si chiede di spogliarsi. Sara pensa di doversi togliere il velo, per fugare il sospetto di nascondere degli auricolari. Ma no, in modo ruvido e con la grettezza di chi crede che la divisa autorizzi l’arroganza, le si rifiuta una spiegazione e le si intima di togliersi TUTTO, incluse mutande e reggiseno. Nel frattempo, la poliziotta controlla ripetutamente che Sara non stia registrando la squallida scenetta. Sara ha un blocco, è spiazzata, intimorita e non riesce a opporsi, a chiedere alla poliziotta di qualificarsi, e così subisce il sopruso che si protrae ben oltre la constatazione che nulla si cela sotto i suoi indumenti. E nemmeno nella sua borsa, svuotata e scandagliata.
Come se non bastasse, l’agente incalza con altre domande improprie sul presunto esito del test, sorprendendosi quando l’esaminatore finalmente dichiara Sara idonea. Ma ora a Sara non importa più molto, è così sconvolta che non richiede nemmeno un verbale di perquisizione con l’esplicita motivazione della stessa (che i poliziotti sarebbero tenuti a rilasciare).
E così finisce il triste racconto di una giornata che doveva coronare un piccolo sogno di indipendenza; invece, niente prove della squallida operazione (tutti i candidati allontanati prima di procedere) e tanta amarezza. A Sara resta il supporto delle persone perbene e di tanti amici e amiche, la determinazione e il coraggio che l’hanno spinta a denunciare e rendere pubblica la vicenda. La speranza nella giustizia, quella, purtroppo vacilla…
Nino Apolloni
Mail Box
A Roma si dice pioggia, si legge bomba d’acqua
Buonasera Marco, l’altroieri dalle 13.30 al 14 a Milano c’è stato un violento nubifragio: le strade erano allagate, alberi caduti e alcune vie erano ricoperte da acque rossastre come se la città fosse stata edificata su un terreno marziano. La copertura mediatica è stata minima (nonostante i danni causati anche dalla pulizia dei tombini), come al solito, soprattutto se paragonata alla bomba d’acqua che ha colpitoRoma e che ha costretto Gualtieri a invocare il Mose di Venezia. Noi, invece, a Milano ci saremmo accontentati dell’intervento del biblico Mosè… che almeno, separando le acque, ci avrebbe aiutato ad attraversare. Con stima.
Asli
Riforma della Giustizia? Semmai controriforma
Se le indiscrezioni sui principali cardini della “riforma” della Giustizia che stanno preparando dovessero essere vere saremmo dinnanzi a provvedimenti gravissimi: separazione delle carriere, priorità dell’azione penale decisa dal Parlamento, divieto per il pm di fare appello a sentenza di assoluzione… ora io mi chiedo, cosa è tutto questo? Una specie di contro-riforma? Una atrocità? Un incubo?
Marco Scarponi
Tra il Reddito e i vitalizi, meglio attaccare il primo
Alessandro Sallusti, direttore di Libero, ritiene che più del Covid in Italia sia nocivo “il virus economico e sociale dell’assistenzialismo”. È un pensiero in auge nella destra del Belpaese. Da Salvini a Meloni, da Tajani a Gasparri, da Feltri a Senaldi. Illustri politici e pensatori affermano che il Reddito di cittadinanza sia una misura pressoché parassitaria. Da parte di certuni è in atto una costante denigrazione della sinistra e dei grillini, che vedono lo Stato “come una mamma”. Sallusti lancia il suo urlo potente contro lo “Stato padrone che dispensa prebende”. Ma come definirebbe i lauti e “meritati” vitalizi, concessi dalla sua parte politica, ampiamente sponsorizzati dal suo giornale, a Formigoni e agli altri condannati in via definitiva dalla Giustizia?
Marcello Buttazzo
A Damilano non tornano i conti su Zaki e Brusca
Il 4 giugno in televisione ho ascoltato un sermone del direttore dell’Espresso nel quale venivano elencati (con una serie di punti/fatti), tutti i conti che secondo lui non tornano. Tra i tanti, uno non può frenare la mia domanda. Damilano ha detto: “Non tornano i conti se Brusca è fuori e Zaki è ancora dentro”. La mia domanda è: ma se Brusca fosse dentro e Zaki (come purtroppo ancora è) fosse anche lui dentro, i conti per Damilano tornerebbero?
Francesco Facciolo
Soprattutto andrebbe ricordato che Zaki è in carcere in Egitto, dove non risulta che operi la magistratura italiana.
M. Trav.
Gentile dott. Montanari, nel mio ruolo di Sindaco di Ventotene, sento il dovere di replicare a quanto da lei affermato nell’articolo del 7 giugno. Il titolo “cemento e affari” porta molto lontano da quello che in realtà il progetto di recupero e rifunzionalizzazione dell’ex carcere rappresenta per l’amministrazione comunale, per la cittadinanza tutta e per il Consiglio che ha approvato all’unanimità il masterplan che è alla base dello studio di fattibilità. Per anni abbiamo sentito soltanto parole, slegate da qualunque impegno concreto e nessun giornale si interessava all’isola di Ventotene o al recupero dell’ex Carcere di Santo Stefano. Un isolamento che ha coinciso con l’allontanarsi delle giovani generazioni e l’impoverimento della nostra bellissima isola. Fin dall’inizio del suo mandato, la Commissaria Costa ha avviato un processo partecipato, in cui tutte le opzioni per il recupero dell’ex Carcere sono state proposte, condivise e approvate. Chiunque conosca l’ex Carcere sa che è esposto agli agenti atmosferici e meteomarini e che questo lo rende inaccessibile per molti mesi dell’anno e, quindi, un approdo che abbia la possibilità di resistere è fondamentale. Non voglio però entrare in discorsi tecnici, che lascio ad altri, quanto piuttosto negare, in tutti i modi, anche la sola ipotesi di una qualsiasi commistione di tipo affaristico relativamente ad un progetto in cui, oltre alla comunità, sono coinvolti, in tutte le fasi, le istituzioni che hanno voce in materia. La invito ad astenersi, pertanto, da qualunque illazione che possa infangare il nostro operato e in particolare quello della Commissaria, a cui dobbiamo moltissimo, perché, senza l’impulso, la tenacia e la capacità di Silvia Costa, anche questo progetto sarebbe rimasto uno dei tanti chiusi nel cassetto, di cui ci saremmo ricordati dopo anni, pensando all’ennesima occasione sprecata, mentre nel frattempo le risorse sarebbero finite in rivoli nascosti, magari quegli stessi rivoli che alimentano chi lo vuole infangare.
Gerardo Santomauro (sindaco di Ventotene)
Nel mio articolo la parola ‘affari’ non ricorre nemmeno una volta. Il problema è assai peggiore, e riguarda tutta l’Italia. Il vostro stesso progetto riconosce che si sarebbe potuta praticare un’opzione ‘zero cemento’ se fosse stato possibile investire sul lavoro. Ma il fondo di finanziamento era legato a un intervento una tantum: come sempre, tutto si risolve in infrastrutture. È così che distruggiamo insieme l’ambiente e il futuro dei giovani italiani: continuando a scrivere progetti per il cemento, non per le persone. Capirlo sarebbe già qualcosa.
Tomaso Montanari
La strategia di Colao, Spielberg e il dinosauro, e gli apericena a Milano
E per la serie “Interrompiamo questo programma per trasmettere questo programma”, ecco il monologo del talk-show settimanale che potrei fare in Rai se i dirigenti Rai non fossero dirigenti Rai.
Il ministro della Transizione digitale Vittorio Colao ha annunciato la creazione di un Polo Strategico Nazionale, un cloud che metta in sicurezza i dati dei cittadini (come se quelli utili non li avesse già Facebook) e le applicazioni dei 180 enti pubblici più importanti (che di certo non sono stati ancora bucati dai servizi segreti di mezzo mondo). Sono in gara Tim con Google, Fincantieri con Amazon, e Leonardo con Microsoft. Vorrebbero essere della partita anche Fastweb e Oracle. Alla bisogna, il PSN fornirà 35 data-center, che useranno i software statunitensi perché più avanzati. “L’importante è fare presto”, dicono gli hacker. “Non vediamo l’ora di bloccare tutto e chiedere riscatti milionari”. Ehi, sarebbe un fantastico spin-off! Grand Theft Auto: PSN.
Lavoro. I sindacati chiedono al governo di prorogare il blocco dei licenziamenti al 31 ottobre, per evitare ricadute sociali pesanti. Sono d’accordo M5S e LeU. Confindustria invece è per sbloccare i licenziamenti. Sono d’accordo Forza Italia e Lega. Adesso sapete chi sta con chi. E il Pd? Cercava una mediazione con Forza Italia e Lega, ma la riunione è stata sospesa da un’abile mossa di Guglielmo Epifani.
La posizione di Confindustria non cambia. Il presidente Carlo Bonomi ha detto: “Non ci sono motivi per proseguire il blocco dei licenziamenti. Le imprese hanno bisogno di assumere, non di licenziare”. Traduzione: “Vogliamo licenziare chi cazzo vogliamo quando cazzo ci pare, ma pensiamo che siate così tonti da potervi confondere usando un sillogismo del cazzo”.
Vaccini. Non puoi ricevere la seconda dose in un’altra regione. Tanti over 60 sfuggono ancora alla vaccinazione perché, abitando in Italia da anni, l’avevano previsto, e volevano fare le vacanze in santa pace. Figliuolo rivolga dunque un sentito grazie alla Sanità regionalizzata dalla riforma del titolo V approvato nel 2001, con riscrittura dell’articolo 117 fortemente voluta dalla Lega, che affidava alle regioni la potestà legislativa esclusiva su assistenza e organizzazione sanitaria, e che tanto è servita a contenere la pandemia, specialmente in Lombardia, e ora a rendere un percorso a ostacoli il piano vaccinale. L’alternativa è vaccinarsi con AstraZeneca, che ha un richiamo a 84 giorni, ma non tutti sono fan della trombosi cerebrale. I giovani invece corrono a vaccinarsi perché vogliono vedere se è vero che dopo ti si attacca una calamita sul braccio. La bufala impazza sui social, il luogo affidabile dove certi animalisti definirono “assassino” Steven Spielberg perché in una foto era seduto accanto a un dinosauro morto di Jurassic Park. Uno commentò: “Per favore, condividete la foto, così che il mondo possa svergognare questo uomo spregevole”. Tutto questo prova che non moriremo mai di noia.
Con la ripresa della socialità dopo mesi di lockdown e coprifuoco, nelle città i tavolini all’aperto stanno invadendo tutto: marciapiedi, piazzette, strade, pensiline d’attesa autobus, parchi, giardini, fontane, isole ecologiche, cestini porta-rifiuti, rastrelliere, gazebo, pergolati e fioriere. A Roma la situazione è talmente euforica che, senza aspettare il rimbalzo del Pil, sono stati presi d’assalto non solo gli angoli pittoreschi di San Lorenzo e quelli pisciati dell’Esquilino, ma in zona Termini pure gli scatoloni incustoditi dei barboni, che sono il cuore simbolico della città. Milano, poi, è tutta movida. È lì, del resto, che hanno inventato l’apericena, aperitivo con ricco buffet, perché a Milano usa fare due cose in una non solo a letto. Ma adesso basta, parlare di Efe Bal.
Sponsor al Csm: peggio del caso Palamara
Lo scenario emerso dall’inchiesta di Potenza è persino peggiore di quello rivelato dall’indagine perugina su Luca Palamara. E ancora una volta è necessario far luce sul rapporto distorto tra politica e magistratura. La notte tra l’8 e il 9 maggio 2019 Palamara viene sorpreso a discutere del futuro della procura di Roma con Luca Lotti e Cosimo Ferri. Entrambi erano all’epoca parlamentari del Pd (il primo imputato di favoreggiamento e rivelazione del segreto, proprio a Roma, nel processo Consip) e non avevano titolo (peraltro neanche Palamara era più al Csm) per discutere della nomina di Marcello Viola, procuratore generale di Firenze, alla guida di piazzale Clodio. Le indagini hanno dimostrato che Viola nulla sapeva delle strategie di Palamara, Lotti e Ferri, e ne fu addirittura danneggiato. L’inchiesta condotta dal procuratore di Potenza Francesco Curcio sulla nomina a Taranto di Carlo Maria Capristo dimostra cosa può accadere – secondo l’accusa: corruzione e favori nella conduzione stessa delle indagini, condotte in nome di Piero Amara, invece che del popolo italiano – quando un procuratore deve la sua nomina a qualcuno (e non al rispetto delle norme). Anche nel caso di Capristo c’è un politico che si interessa alla sua nomina. Si chiama Francesco Boccia (Pd, ex ministro degli Affari Regionali fino al febbraio scorso). Lo ha fatto – spiega Boccia interrogato – su invito del funzionario del Viminale Filippo Paradiso oppure (non ricorda bene) dello stesso Capristo. Ma non fece pressioni, puntualizza. E ci mancherebbe. S’informò soltanto, attraverso la consigliera del Csm Paola Balducci, che gli rispose: Capristo è tra i papabili. Il gip negli atti spiega l’ovvio: lo stesso interessamento dimostra che Boccia era vicino a Capristo e che, quindi, “ne appoggiasse la nomina”. Aggiungiamo che Boccia non aveva alcun titolo né interesse a informarsi sulla nomina di Capristo. A maggior ragione, possiamo dirlo oggi, a giudicare dal risultato.
Carelli&C.: la truppa 5S a destra
Il Movimento 5 Stelle è “un sogno finito”, Silvio Berlusconi “un innovatore”, la Lega “una seconda opportunità”.
Tre anni dopo l’inizio della legislatura, il M5S vive un paradosso: mentre si sposta nel centrosinistra, ogni mese qualche eletto si scopre leghista, forzista, meloniano, totiano, insomma di centrodestra. Come per un’attrazione fatale, B. e soci continuano ad accogliere esponenti grillini poco convinti dalla svolta giallorosa o magari ammaliati dalle promesse degli altri partiti.
Gli ultimi a mollare il M5S sono stati il consigliere romano Marcello De Vito, passato a Forza Italia (suo il copyright sul Silvio innovatore) ed Emilio Carelli, che per la verità era già uscito tempo fa dal Movimento ma che ora, dopo una pausa di riflessione nel Misto, ha abbracciato Coraggio Italia: “Stavo portando avanti una mia iniziativa, una casa per i moderati di centro, ma ho visto grande affinità sui contenuti. Il M5S è un sogno finito”.
Nel nuovo partito di Giovanni Toti e Luigi Brugnaro, Carelli troverà ben 7 ex deputati grillini. E chissà invece come si muoveranno, al Senato, due eletti rimasti nel guado centrista dopo la crisi del Conte-2: Gregorio De Falco e Saverio De Bonis erano entrati in quel Centro Democratico di Bruno Tabacci che doveva riunire i “responsabili”; progetto fallito ancor prima di nascere, coi due ex M5S rimasti a metà.
Fa però impressione come, al netto di pochissime migrazioni verso Pd e Leu – i casi più noti sono le “ribelli” Paola Nugnes ed Elena Fattori, cui si aggiungono una manciata di parlamentari – tanti abbiano scelto la destra. Alla Camera, Davide Galantino, Rachele Silvestri e Massimiliano De Toma sono entrati in FdI, come al Senato ha fatto Tiziana Drago. E se la deputata Veronica Giannone oggi siede tra i banchi di FI, la vera diaspora è stata verso la Lega, con Salvini che nell’ultimo paio d’anni ha visto arrivare gli onorevoli Antonio Zennaro e Felice Mariani e cinque senatori. Non pochi, ma soprattutto quasi tutti in ruoli strategici. Qualche esempio? Alessandra Riccardi e Francesco Urraro fanno parte della Giunta per le elezioni, quella che si è espressa – per esempio – sui guai giudiziari di Salvini e di Armando Siri. La Riccardi fa anche parte della commissione Contenziosa, il “primo grado” che ha deciso sui ricorsi riguardo ai vitalizi, mentre Ugo Grassi, altro ex 5 Stelle, siede nel Consiglio di garanzia, “secondo grado” della Contenziosa. Segno che il M5S sta già pagando cara la conversione destrorsa dei suoi.
“Con Rousseau è stata dura. Non delegheremo più nulla”
La guerra è appena finita, e i segni non si cancellano. “Gli ultimi giorni sono stati molto pesanti, ma tutto il periodo di reggenza non è stato leggero”, ammette Vito Crimi, reggente dei 5Stelle ancora per un pugno di giorni. Nel suo ufficio in Senato racconta l’ultimo miglio della trattativa con Davide Casaleggio e ciò che arriverà a breve per il nuovo Movimento.
Non se l’aspettava così dura quando subentrò a Luigi Di Maio, lo ammetta…
È stata una reggenza non cercata, in cui è successo di tutto. Dopo poco più di un mese è arrivata la pandemia ed è cambiato il mondo. Poi lo scorso gennaio è caduto il governo Conte. Momenti difficilissimi.
Per Casaleggio lei era un capo illegittimo, prorogato in modo irregolare.
Esiste il regime della prorogatio, sancito dalla Corte di Cassazione anche per le associazioni non riconosciute, come siamo noi. Un capo resta in carica finché non arriva quello nuovo. Sono stato usato come capro espiatorio, o come “innesco cognitivo”. Hanno voluto creare un nemico.
Come si è concluso l’accordo con Rousseau?
Sabato sono stato a Milano con due periti forensi. E come da indicazione del Garante della privacy, Rousseau ha cominciato la consegna dei dati degli iscritti.
Quanto ci vorrà per completare il trasferimento?
Tutti i dati personali sono stati trasmessi. Già domani (oggi, ndr) saremo in grado di fornire gli elenchi degli iscritti a chi dovrà gestire il sistema di voto.
È vero che avete garantito a Rousseau 200mila euro e in cambio Casaleggio si è impegnato a non farvi causa?
Premetto che il Garante ha preso atto dell’ovvio, ovvero che la restituzione dei dati era un diritto degli iscritti, perché potessero esercitare le loro prerogative. Detto questo, noi e Rousseau abbiamo trovato le modalità per dirimere le pretese reciproche.
Per Casaleggio “questo non è più il M5S”.
Il Movimento per sua stessa definizione è qualcosa di fluido, che si adatta al mondo che cambia. Quando siamo nati era necessario catalizzare le energie anti-casta. Ora possiamo lavorare su un cambiamento del Paese concentrato su temi come la transizione ecologica.
Ormai siete un’altra cosa.
Non abbiamo cambiato le nostre idee, ma i modi di esprimerle.
La nuova piattaforma è pronta?
Non ci saranno più un soggetto unico a cui verrà delegato tutto e una singola piattaforma. ma alcune società che ci forniranno dei servizi. Anche Rousseau aveva aziende di supporto.
Spieghi meglio.
Avremo un software per la gestione dei dati e consentire agli iscritti di accedere e di iscriversi, un Crm, uno tra i più usati al mondo. Per ora avremo tre società che seguiranno i vari aspetti. Di fatto, compreremo un prodotto-voto (al Fatto risulta che il M5S potrebbe adoperare il sistema di voto online Sky Vote, ndr).
Ma i dati…
Tutta la gestione sarà in capo al M5S. E per accedere ai vari servizi gli iscritti dovranno andare sul sito del Movimento.
Quanto vi costerà?
Fatto salvo forse il primo anno, contiamo di avere costi inferiori a quelli di Rousseau, che erano pari a 1,3 milioni all’anno.
Quando e come voterete Conte capo e lo Statuto?
Nei prossimi giorni avremo due votazioni. La prima per approvare le modifiche allo Statuto, di cui andrà dato un preavviso di 15 giorni agli iscritti. Uno o due giorni dopo, si voterà il nuovo assetto. Ogni iscritto riceverà un link per votare.
Ci sarà una segreteria?
Non proprio una segreteria, ma vari organi collegiali, con ampia rappresentanza anche di genere. E saranno sempre approvati in Rete.
È vero che i poteri del Garante, cioè di Beppe Grillo, verranno ridotti?
Assolutamente no.
Cambierete simbolo?
Non è una domanda che deve rivolgere a me.
E la sede a Roma?
Sì, è necessario averla. Ma non sarà proprio quella di cui si è scritto (sorride, ndr).
Diversi eletti le hanno detto che, senza garanzie sulla cancellazione del vincolo dei due mandati, non verseranno più soldi al M5S. Conferma?
Qualcuno lo ha fatto, sì. E questo attiene alla sua coscienza.
Conte ha rinviato la decisione sul punto.
La decisione sui due mandati arriverà a tempo debito. Ma io penso che il vincolo ci abbia consentito di essere liberi. L’esperienza non va dispersa, ma non ci si può incollare alle poltrone. Magari ci si potrà indirizzare verso altri ruoli e altre assemblee elettive.
Diversi grillini uscirebbero dal governo Draghi. Lei?
Se non fossimo al governo non potremmo difendere i nostri temi e le nostre battaglie e combattere certe derive. Se uscissimo cosa faremmo, dei sit-in?