Sammontana&C. trovano i lavoratori: basta pagarli

Se si ascolta solo la voce dei titolari di alberghi e ristoranti, sembra che siano loro gli unici imprenditori del Paese a offrire posti di lavoro, sistematicamente rifiutati da una generazione di “fannulloni”, “amanti dei sussidi”, primo tra tutti l’esecrato reddito di cittadinanza.

In realtà, i dati diffusi ieri da Anpal e Unioncamere dicono l’esatto contrario: anche ora che le restrizioni non ci sono più, il turismo è l’unico settore della nostra economia a presentare ancora un numero di assunzioni molto più basso di quello raggiunto nella fase pre-Covid. Gli ingressi previsti a giugno 2021, infatti, sono ben 26 mila in meno rispetto a quelli di giugno 2019. A maggio erano 29 mila in meno e ad aprile – che di solito rappresenta l’avvio della stagione – addirittura 76 mila in meno. Mentre, fortunatamente crescono però le ricerche di personale dell’industria, delle costruzioni, del commercio e dei servizi, la domanda di addetti da parte di hotel, bar e pizzerie è ancora debole rispetto alla media storica.

Forse anche questo potrebbe suggerire alle aziende quale sia un altro dei reali motivi che stanno rendendo difficile il reperimento di manodopera: tanti tra quelli che di solito operavano nel turismo, in questo anno e mezzo di pandemia, si sono visti costretti a rifugiarsi non nei bonus ma negli altri mestieri. I quali, a volte, prospettano anche migliori condizioni e stipendi più decenti.

Lunedì, ad esempio, si è saputo che l’azienda di gelati Sammontana ha pubblicato un annuncio per trovare 350 stagionali nel suo stabilimento in Toscana. Le candidature ricevute sono 2.500, e ne stanno arrivando anche altre: “Perché è un’azienda seria: riconosce i diritti ai suoi lavoratori e, ogni mese, dà ai suoi dipendenti uno stipendio medio che consente loro di vivere in modo dignitoso. Non è scontato, di questi tempi”, ha detto al Tirreno Rossano Rossi della Cgil di Lucca. A meno che la Sammontana non abbia avuto la curiosa fortuna di beccare gli unici 2.500 disoccupati senza reddito di cittadinanza né bonus, la spiegazione pare semplice: gli orari improponibili, gli stipendi molto bassi, le continue irregolarità e gli abusi troppo frequenti hanno comportato una fuga dal turismo.

Già negli anni scorsi, non appena il classico panettiere di turno denunciava difficoltà a trovare gente da assumere, poi avveniva sempre uno strano fenomeno. Otteneva una pubblicità sui media tale da ribaltare il problema e far arrivare migliaia di curricula in poco tempo. A dimostrazione del fatto che, probabilmente, il problema non è la mancanza di voglia di lavorare, ma i metodi utilizzati per cercare personale.

Un altro esempio è la logistica: soprattutto dopo il primo lockdown e con le chiusure a singhiozzo dei negozi, l’e-commerce è cresciuto e ha assunto. Lavorare in quest’area non è proprio una passeggiata: i driver della galassia Amazon hanno più volte denunciato l’elevato stress dovuto ai tempi frenetici da rispettare. Eppure non risultano che il colosso di Jeff Bezos, che è pronto ad assumere altre 3 mila persone entro fine anno, o i suoi fornitori abbiano avuto problemi a trovare personale. Eppure anche qui esiste molto lavoro stagionale: pensiamo al traffico di interinali dei poli logistici che si intensifica sotto Natale o nel periodo del Black Friday.

Se esistesse la “logica del sussidio”, come l’ha chiamata Enrico Letta, anche Amazon dovrebbe fare una gran fatica a schiodare dal divano per pochi mesi di stipendio gente che riceve bonus. Invece ci riesce perché, tra le tante contestazioni, quantomeno non c’è quella di utilizzare lavoro irregolare e di ignorare gli orari. Anche il food delivery non si è mai lamentato. Anzi, visto il sistema delle retribuzioni “a cottimo”, cioè ancorate al numero di consegne effettuate, tra i rider si è scatenata una battaglia per accaparrarsi più ordini e – come ha raccontato a marzo Il Fatto – è persino nato anche un traffico di applicazioni a pagamento che permette di prenotare più turni.

C’è poi tutta la valanga di persone che si riversa nei concorsi pubblici come quelli per infermiere o operatore socio-sanitario: in Puglia si sono presentati in 10 mila per 566 posti, in Toscana 5 mila per 697, in Umbria 9 mila per 548. Il boom clamoroso è stato quello della graduatoria per il personale Ata delle scuole: oltre due milioni di richieste di iscrizioni.

Ecco la task force per semplificare le leggi: è l’ottava…

Semplificare, semplificare tutto: d’altronde arriva il Piano di ripresa e non vuoi semplificare? E siccome la prima semplificazione è quella che riguarda la qualità delle leggi non si può che salutare con enorme piacere l’istituzione – all’articolo 5 del decreto non a caso intitolato alle Semplificazioni – della Unità di missione per la razionalizzazione e il miglioramento della regolazione e Ufficio per la semplificazione che aiuterà nell’arduo compito di rendere scorrevole l’attuazione del Pnrr il Dipartimento per gli affari giuridici e legislativi di Palazzo Chigi, per gli amici Dagl.

Una splendida idea davvero, degna di un quasi premio Nobel come il ministro Renato Brunetta, di un giurista di vaglia come il sottosegretario alla presidenza Roberto Garofoli, a non dire del dante causa Mario Draghi, che non ha bisogno di presentazioni: per 400mila euro l’anno è un affare, diciamolo.

Ecco, forse l’unica pecca è che l’idea è splendida, ma non proprio originale, tanto è vero che era venuta in mente a qualcuno già sette volte, l’ultima nel 2019: questo sarà dunque l’ottavo ente che dovrà elaborare “proposte per superare le disfunzioni derivanti dalla normativa vigente e dalle relative misure attuative, al fine di garantire maggiore coerenza ed efficacia della normazione”, oltre a “curare l’elaborazione di un programma di azioni prioritarie ai fini della razionalizzazione e revisione normativa”, il che – va detto – non è un gran complimento per gli altri sette, che pure non vengono abrogati.

L’elenco è, a suo modo, istruttivo della via italiana alla semplificazione. Ad esempio al ministero della Funzione pubblica esiste, da anni, una bella direzione generale detta Ufficio per la semplificazione e la sburocratizzazione e che dunque si occupa di garantire l’efficacia e la qualità della normazione, potendo peraltro avvalersi di due servizi dirigenziali di seconda fascia: uno si occupa di “Semplificazione, misurazione e relazioni coi cittadini”, l’altro di “Rafforzamento della capacità amministrativa in materia di semplificazione, la semplificazione (sic) e la standardizzazione delle procedure”.

Se Brunetta, però, trovasse che questi tre organismi non semplificano abbastanza, potrebbe rivolgersi a un quarto ente del suo dicastero: esiste infatti una Unità per la semplificazione e la qualità della regolazione, istituita dal decreto 181/2006, costituita da ben 4 dirigenti, anche esterni alla pubblica amministrazione, da sei dipendenti di supporto tecnico-amministrativo e dotata di un Comitato dei Garanti di cinque membri, tutti semplificatori di vaglia. Com’è evidente, però, mica si può semplificare solo alla Funzione pubblica e per questo il decreto 4/2006 ha istituito il Comitato interministeriale per l’indirizzo e la guida strategica delle politiche di semplificazione e di qualità della regolazione, che viene nominato con apposito Dpcm dall’inquilino pro tempore di Palazzo Chigi e fa le stesse identiche cose che dovrà fare l’unità di missione appena creata.

Per chi si fosse perso, siamo a cinque strutture di semplificatori della legislazione, ma non è finita. A Palazzo Chigi, dove è in arrivo la nuova struttura, opera già il Dipartimento per la programmazione economica. Dirà il lettore: e che c’entra? C’entra perché, dal 2008, a supporto di quel dipartimento è operativo il Nucleo di valutazione e verifica degli investimenti pubblici, nel cui ambito – per supportare proprio il mitico Dagl – opera un Pool di esperti in materia di qualità della regolazione: ora si raddoppia perché in tema di semplificazioni, è fatto noto, è sempre meglio abbondare.

Uno potrebbe domandarsi: ma non è che il problema sarà che questi pool poi non vanno sul concreto? Niente paura, perché il penultimo arrivato, il settimo organismo, parto geniale del governo Conte-1 nel 2019, è nato proprio per risolvere questo problema: è il Nucleo delle azioni concrete di miglioramento dell’efficienza amministrativa, denominato con tipica inventiva grillina “Nucleo della Concretezza” e composto da 53 unità di personale (tra cui 1 dg e 2 dirigenti di seconda fascia). Compito: redigere un “Piano triennale delle azioni concrete per l’efficienza delle pubbliche amministrazioni” e per “garantire la corretta applicazione della normativa”. E dove sta? Ma sempre alla Funzione pubblica, ovviamente, per evitare che gli altri quattro si sentano soli.

Ora, come detto, arriva l’ottavo nucleo, il secondo a Palazzo Chigi, che di certo risolverà il problema una volta per tutte essendo diretta emanazione di Mario Draghi, il cui tocco – com’era per certi re medievali – guarisce dalla scrofola e dalla burocrazia. Se non funziona neanche stavolta, c’è comunque sempre tempo a crearne un nono, un decimo e via semplificando…

Stop ai licenziamenti: possibile la proroga per vari settori in crisi

Mario Draghi – a sentire la grande stampa – aveva trovato il “compromesso” ideale. E su questo avrebbe resistito alle pressioni di sindacati e pezzi della maggioranza. Invece, sulla fine del blocco dei licenziamenti a fine mese potrebbe arrivare già la prima modifica. A chiederla sarà il Parlamento, dove sta prendendo piede un largo fronte a favore almeno di una proroga selettiva per i settori più in crisi.

La linea l’ha fissata ieri il ministro del Lavoro Andrea Orlando, dopo giorni di giravolte di Matteo Salvini: “Se maturerà una volontà politica di costruire strumenti in più, credo sia un fatto positivo, altrimenti gestiremo questo passaggio con gli strumenti di cui disponiamo”. Di fronte a una richiesta della maggioranza, Palazzo Chigi non potrà opporsi. Magari non è un caso che ieri Draghi abbia convocato a sorpresa il leader della Cgil, Maurizio Landini. Un incontro “per esprimere a tutta l’organizzazione sindacale il proprio cordoglio per la morte di Guglielmo Epifani”, ha fatto sapere la Cigl, ma anche “per uno scambio di idee sulla situazione generale del Paese e dell’Europa”. E certamente per tastare il polso sul blocco dei licenziamenti. Di certo ne ha parlato con i leader di Cisl e Uil in un incontro che – stando a fonti sindacali – si sarebbe tenuto lunedì.

Oggi la misura generalizzata, in piedi da marzo 2020, è prevista scadere il 30 giugno per la manifattura e la grande industria, a fine ottobre per gli altri settori (turismo, servizi etc). Orlando aveva provato a far approvare una mini-proroga ad agosto, ma la norma, inserita nel Consiglio dei ministri, è stata cassata dopo le proteste di Lega, Forza Italia e Confindustria.

L’idea ora è almeno di prorogare il blocco per i settori più in crisi, a partire dal tessile e dalla moda, forse quelli più falcidiati (insieme al turismo) dalla crisi Covid. A parole sono quasi tutti d’accordo. Pd e LeU in asse con i sindacati insistono nel chiedere la proroga selettiva per i comparti in crisi; i 5Stelle sono sulla stessa linea. La Lega attende le mosse parlamentari e parla a più voci. Lunedì Salvini ha detto che il compromesso di Draghi va bene così com’è, smentendo il numero due Giancarlo Giorgetti, ministro dello Sviluppo, che però ieri è tornato a sostenere la “selettività” come possibile via d’uscita per “accompagnare la transizione in vista di ella riforma degli ammortizzatori sociali” che Orlando promette di consegnare a luglio. Tra i leghisti, però, non tutti la pensano uguale. “Rischiamo di spostarci su un dibattito ideologico senza affrontare i problemi di chi vive nel mondo dell’impresa”, ha detto ieri Massimiliano Fedriga.

Senza un accordo di maggioranza, la modifica non ci sarà. I tempi, peraltro, sono assai stretti. La norma dovrebbe arrivare via emendamento al decreto Sostegni bis ma rischiano di entrare in vigore troppo tardi, a blocco già scaduto. L’ipotesi è che la misura contenga una clausola retroattiva o, ma è complesso, che – trovata l’intesa – si decida di accelerare l’iter di conversione del decreto.

Al netto del leader leghista, che peraltro ha più volte aperto e chiuso all’ipotesi, l’unico fronte convintamente contrario resta Confindustria, forte anche dei numeri segnalati ieri dall’Ufficio parlamentare di bilancio. Secondo l’Authority dei conti pubblici – in audizione proprio sul Sostegni bis alla Camera – i settori il cui blocco scade a fine giugno hanno ormai recuperato i livelli di fatturato, vendite e ordinati di fine 2019 e i dati “lasciano in ogni caso presumere che questi datori di lavoro non dovrebbero avere né necessità né convenienza a grosse espulsioni di forze di lavoro”. Si stima, quindi, “che i lavoratori che potrebbero perdere il loro impiego siano nell’ordine di 70.000 concentrati quasi esclusivamente nell’industria”.

I dati dell’Upb mostrano che il blocco ha evitato effetti drammatici durante la pandemia e che le imprese hanno reagito tagliando le assunzioni (e non rinnovando i contratti in scadenza). A giugno 2020 il saldo netto tra attivazioni e cessazioni di rapporti di lavoro ha raggiunto il picco negativo di 760 mila contratti; che scende a 500 mila considerato l’intero 2020, rispetto al 2019.

Morandi, l’ex dirigente ai pm: “Chiedevo investimenti, Castellucci tagliava e basta”

C’è stato un momento, all’inizio degli anni Duemila, in cui Autostrade per l’Italia avrebbe potuto mettere in sicurezza il Ponte Morandi. L’allora capo del settore manutenzioni, Gabriele Camomilla, autore della grande ristrutturazione del viadotto del 1993, aveva studiato un sistema di “sensori acustici”, che “avrebbe evitato quello che poi è successo”. Ma fu mandato via. La sua “visione”, racconta, “era incompatibile” con quella dell’ex dg e ad di Aspi Giovanni Castellucci: “Ogni volta mi chiedeva se si poteva spendere di meno. Non sapeva niente di autostrade, guardava solo i bilanci. Quando la società era in mani pubbliche problemi di costi non ce n’erano. Io sostenevo che la manutenzione dovesse essere un’attività continua e che andassero costantemente ricercate tecnologie in grado di consentirci un controllo perfetto dell’opera, per prevenire le criticità anche con molto anticipo. Per Castellucci, invece, se in un dato momento storico l’opera non presentava problemi, i costi di manutenzione erano da ridurre”.

LE RIVELAZIONI sono state raccolte dalla Procura di Genova il 17 marzo del 2021 e sono allegate agli atti depositati con la fine delle indagini. Per gli inquirenti si tratta di un interrogatorio importantissimo per collegare il disastro di Genova al movente economico. “Castellucci – prosegue ancora Camomilla – me lo disse anche esplicitamente: tutto quello che hai trovato o che hai fatto va bene fino al 2038, alla fine della concessione, non ci servono ulteriori spese”. Come finisce quello scontro Camomilla lo racconta con amarezza: “Mi hanno pensionato”, ripete più volte “ero uno che diceva molti no, Castellucci non amava essere contraddetto”. Al suo posto viene nominato Michele Donferri Mitelli, oggi tra i principali indagati nell’inchiesta per il crollo. “Dal 2005 in poi non è stato più fatto alcun investimento in tecnologie di controllo. Evidentemente ha prevalso la visione di Castellucci”. Dal 2014, inoltre, Aspi taglia i contratti della TecnoEl, società che monitorava i sensori di vecchia generazione, di lì a poco tranciati durante un cantiere: “È una decisione che mi lascia sbalordito e che non so spiegare”.

I pm hanno acquisito anche le dichiarazioni che Camomilla rilasciò all’inviata del Tg1, Stefania Battistini. L’ex dirigente, a sua volta, è indagato per il periodo precedente: fra il 1997 e il 2003 non furono eseguite prove riflettometriche sul viadotto: “Ho fatto tutto ciò che potevo fare”.

Bimbo ferito all’asilo, indagata sindaca Pd. È rivolta bipartisan: “Leggi da cambiare”

L’avviso di garanzia le era stato fatto recapitare il 3 giugno, ma la sindaca Pd di Crema, Stefania Bonaldi, ne ha dato notizia ieri durante il consiglio comunale. L’accusa che le muove la Procura di Cremona è quella di lesioni colpose su un incidente avvenuto il 20 ottobre in un asilo nido di Crema: un bambino si era schiacciato due dita in una porta tagliafuoco. Nessuna lesione permanente, ma tre mesi di cura. Alla sindaca di Crema, in concorso con altre persone, viene contestata la mancata istallazione di “qualsivoglia dispositivo idoneo a evitare la chiusura automatica o da garantire la chiusura e apertura manuale in sicurezza”. Dando la notizia, Bonaldi, pur ribadendo “massima fiducia nella giustizia”, ha però chiesto una riflessione sulle responsabilità penali dei sindaci: “Servono interventi nazionali che aumentino le nostre tutele”. Poi ha spiegato all’Ansa che le responsabilità dei sindaci “sono sproporzionate, eccessive e non circostanziate”. Quello di Bonaldi però è diventato un caso politico nazionale dopo la mobilitazione dei sindaci di tutta Italia che le hanno espresso solidarietà e chiesto al governo un intervento per tutelare maggiormente i primi cittadini: nei prossimi giorni, ha annunciato il presidente dell’Anci e sindaco di Bari, Antonio De Caro, sarà organizzata una manifestazione sotto Palazzo Chigi. “Con Stefania siamo tutti indagati – ha detto De Caro – se lo Stato non cambia regole ci costituiremo parte civile”. Solidarietà è arrivata da sindaci di ogni colore politico, dai dem Matteo Ricci, Dario Nardella, Beppe Sala a Virginia Raggi e Federico Pizzarotti. La ministra per gli Affari Regionali Mariastella Gelmini ha telefonato a Bonaldi per esprimerle solidarietà e spiegando che va rivisto il Testo Unico sugli Enti Locali. Se l’Anci sta preparando una proposta di legge per modificare la legge Severino che prevede la sospensione per gli amministratori condannati in primo grado, in Parlamento si potrebbe venire a creare un inedito asse Pd-Lega sull’abolizione dell’abuso d’ufficio, già depotenziato dal governo Conte e che difficilmente porta a condanne in casi di accuse così indirette come quella di Crema. In Parlamento giacciono due proposte della Lega. “Aumentare tutele e stipendi dei sindaci è una priorità” ha detto ieri Matteo Salvini sponsorizzando i referendum sulla giustizia. “I sindaci vanno tutelati al massimo” ha aggiunto Enrico Letta annunciando una proposta del Pd.

Bose, l’ex priore Bianchi trasloca “Addio sofferto”

Alla fine l’addio si è consumato. Enzo Bianchi, ex priore di Bose, ha lasciato la comunità monastica del Biellese da lui fondata, in ossequio al provvedimento con cui oltre un anno fa la Santa Sede gli aveva intimato l’allontanamento. “Cari amici/e, per alcuni giorni sono stato silente e non vi ho inviato i pensieri emersi nel mio cuore ma un faticoso, sofferente trasloco me lo ha impedito: per noi vecchi migrare è uno strappo non pensabile anche perché ci prepariamo all’esodo finale, non a cambiar casa e terra”, il commiato di Bianchi, trasferitosi a Torino, affidato a Twitter.

Bianchi aveva lasciato la guida di Bose nel 2017. Un passo indietro scelto liberamente, ma presto i dissidi all’interno della Comunità erano cresciuti fino alla “visita apostolica”, una sorta di ispezione, da parte del Vaticano. E la conclusione, nel maggio 2020, fu quella di allontanare Bianchi. A febbraio la Comunità gli aveva ceduto in comodato d’uso il monastero di Cellole in Toscana. Ma l’ex priore aveva rifiutato perché le condizioni poste erano “disumane e offensive della dignità”.

“Capristo insabbiò anche le indagini sui morti dell’Ilva”

Anche a Taranto, l’avvocato Piero Amara otteneva incarichi, consulenze, sceglieva persino gli esperti che avrebbero dovuto affiancare la Procura nelle indagini. È quanto emerge dall’inchiesta della Procura di Potenza, che ieri ha portato in carcere l’uomo già al centro di alcune inchieste e che ora fa tremare i palazzi con le ultime rivelazioni sulla “loggia Ungheria”. Con lui in carcere è finito anche Nicola Nicoletti, in passato consulente di Eni e poi della struttura commissariare di Ilva in As. Ed è proprio intorno alle vicende giudiziarie dell’acciaieria tarantina che la Squadra Mobile di Potenza coordinata dal procuratore Francesco Curcio, è riuscita a scoperchiare un giro di affari che ruotava intorno all’ex procuratore di Taranto, Carlo Maria Capristo, per il quale è stato disposto l’obbligo di dimora. Per l’accusa Capristo avrebbe messo la sua funzione di capo della Procura ionica al servizio della sua cerchia di amici: tra i quali, oltre all’avvocato Amara, spunta anche il nome di Giacomo Ragno, già condannato a Lecce per l’inchiesta sulla giustizia svenduta a Trani insieme agli ex magistrati Michele Nardi e Antonio Savasta.

Il gip di Potenza parla di un “asservimento durevole della funzione giudiziaria” da parte di Capristo in favore di due diversi gruppi: il primo era quello composto dai suoi colleghi del “sistema Trani” con i quali aggiustava indagini e processi a favore degli amici, il secondo era quello che faceva capo proprio a Piero Amara. L’accusa ha infatti sostenuto che Capristo abbia ottenuto la nomina come capo degli inquirenti ionici anche grazie all’interessamento di Amara e di Filippo Paradiso, ex poliziotto poi diventato funzionario di diversi ministri tra i quali Matteo Salvini, del sottosegretario Carlo Sibilia e per un breve periodo anche della presidente del Senato Elisabetta Casellati. Ieri mattina, anche per Paradiso si sono aperte le porte del carcere. In cambio Capristo avrebbe offerto “collaborazione” alla linea difensiva dell’Ilva in As nella quale era riuscito a entrare come consulente lo stesso Amara. Aveva ottenuto la nomina come difensore in almeno due procedimenti e aveva partecipato alla trattativa per l’ipotesi di patteggiamento per L’Ilva in As nel maxi-processo “ambiente svenduto” che poi la Corte d’assise ha rigettato. Non solo. Capristo avrebbe anche ottenuto la nomina di Ragno come difensore di alcuni dirigenti dell’ex Ilva, imputati nello stesso procedimento. Incarichi che in soli due anni hanno fruttato a Ragno 270 mila euro.

Gli inquirenti potentini sono riusciti a dimostrare che in almeno due casi Capristo avrebbe fatto pressione sui magistrati della Procura di Taranto affinché assumessero una linea più morbida nei confronti della fabbrica. Il primo riguarda il sequestro del nastro trasportatore dove morì l’operaio Giacomo Campo: Capristo, su indicazione di Amara, nominò un consulente che svolse i rilievi a tempo di record consentendo il dissequestro dell’impianto solo 48 ore dopo l’incidente. Una rapidità che non era mai stata usata nelle altre vicende giudiziarie che hanno coinvolto la fabbrica. Il secondo riguarda invece la concessione della facoltà d’uso all’Altoforno2, l’impianto nel quale trovò la morte Alessandro Morricella. Insomma una “stabile messa a disposizione delle funzioni giudiziarie e dirigenziali” e “un diffuso e generalizzato atteggiamento del Capristo volto a favorire” l’Ilva che addirittura superava “quella con i sostituti titolari delle indagini”. Scambi di favori e interessi personali, secondo le accuse, avrebbero prevalso rispetto al diritto alla sicurezza degli operai costretti a lavorare in reparti, come l’Afo2, che non erano sicuri. E nei quali i loro colleghi avevano perso la vita.

Politici&toghe Ecco la rete del “sistema Amara”

“Per gli amici i favori, per gli altri la legge”, sintetizza il gip di Potenza, autorizzando l’arresto di Piero Amara, del suo complice Filippo Paradiso e disponendo l’obbligo di dimora per l’ex procuratore di Taranto, Carlo Capristo. E ad applicare il sistema binario dei “favori” e della “legge” era proprio Capristo per il quale, sponsorizzando la sua nomina a Taranto, Amara e Paradiso si erano spesi parecchio. Per comprendere la pervasività e la pericolosità del “sistema” Amara – e anche la capacità della magistratura di sfoderare i suoi anticorpi – la lettura dell’ordinanza d’arresto è senza dubbio illuminante. Amara, ex legale esterno dell’Eni e anche dell’Ilva, l’uomo che ha rivelato alla Procura di Milano l’esistenza di una (per ora presunta) loggia massonica coperta denominata “Ungheria”, dedita a inquinare l’attività della magistratura e condizionarne le nomine, ieri è stato arrestato con l’accusa (ancora una volta) di corruzione in atti giudiziari. Il magistrato corrotto, secondo l’accusa, è Capristo, la cui nomina a Taranto fu sponsorizzata da Amara e Paradiso, funzionario del ministero dell’Interno dedito a “curare, previa retribuzione, le relazioni pubbliche di Amara” (con il suo stipendio ministeriale ha un “conto gestione da 2 milioni di euro”).

Secondo l’accusa “Paradiso” aveva “una vasta rete di conoscenze e amicizie” in “ambito politico e istituzionale, anche di altissimo livello, che spaziavano dalla Presidenza del Senato (Elisabetta Casellati, ndr), ad appartenenti alla Carnera dei deputati, da ministri (fra cui l’onorevole Francesco Boccia) ed ex ministri, congiunti di importanti politici, imprenditori di rilievo (…) e molteplici conoscenze nel mondo della magistratura e dei servizi di sicurezza e informazione”. Un dato “neutro”, secondo il gip, ma “importante tassello del mosaico indiziario”. Nella sponsorizzazione di Capristo viene coinvolto anche Boccia (non indagato, ndr) che interrogato spiega: “…mi venne richiesto da Capristo o forse da Paradiso di avere informazioni sulla procedura di nomina da parte del Csm per il Procuratore di Taranto (…) . Chiesi informazioni a Paola Balducci” dalla quale “appresi che Capristo era uno dei papabili per la nomina. Ben mi sono guardato (…) di fare pressioni o altro (…)”. Il gip chiosa che “la richiesta di Boccia a Balducci, pur non consistita in pressioni, era essa stessa manifestazione della circostanza che Boccia potesse essere persona vicina al Capristo e quindi ne appoggiasse la nomina…”. Paradiso conosce bene anche l’ex consigliera del Csm Casellati. “Fu Gianni Letta a chiedermi se potevo accoglierlo nel mio staff”, spiega la presidente del Senato interrogata come persona informata sui fatti, che però precisa di non aver mai interloquito con il funzionario sulla nomina di Capristo e ieri ha smentito di aver mai incontrato Amara. Persino Luca Palamara, il ras delle nomine, si trova “schiacciato” nella nomina di Capristo a Taranto. Il gip menziona un suo scambio di chat con il collega del Csm Francesco Cananzi: “I due commentano (…) la figura di Capristo di cui si direbbero ‘cose pessime’ e Palamara proseguendo scrive: “Purtroppo troppe cose mi hanno schiacciato”. Il sistema “Amara – Paradiso” è in grado di “schiacciare” il sistema Palamara.

Ma c’è molto di più. Il procuratore Curcio svela in che modo Amara, collaborando a rate con le procure di mezza Italia, è riuscito sinora a ottenere patteggiamenti e, nello stesso tempo, ha potuto continuare a tutelare i propri interessi. L’indagine di Potenza riprende una vicenda che i lettori del Fatto Quotidiano conoscono bene: il fascicolo farlocco sul (falso) complotto ai danni dell’amministratore delegato dell’Eni, Claudio Descalzi, istruito a Siracusa nel 2016 dal pm Giancarlo Longo (condannato, con Amara, per corruzione in atti giudiziari). Descalzi “all’epoca – scrive la procura era implicato in un’indagine per corruzione internazionale coordinata dalla Procura di Milano” (dalla quale è stato assolto in primo grado). Il fascicolo sul finto complotto – continua l’accusa – aveva lo scopo di “depistare le indagini milanesi”. Il primo magistrato a occuparsi della vicenda non fu Longo, ma proprio Capristo, a Trani, sulla base di un esposto anonimo nato proprio da Amara. Poi Longo chiede a Capristo di inviargli gli atti. E Capristo glieli invia. Secondo Longo la trasmissione degli atti era legata a un obiettivo di Capristo. Longo, che dice di averlo saputo da Giuseppe Calafiore, avvocato e socio di Amara, spiega che Capristo era “molto interessato al posto di Procuratore Generale di Firenze. Verdini aveva un problema processuale lì. Calafiore mi dice che Capristo avrebbe fatto questa attività di trasmissione in cambio della sua nomina a Procuratore Generale di Firenze dove si sarebbe occupato dei problemi di Verdini”. E il gip aggiunge: “Si tratta di vicenda che, all’epoca, si fondava sulle sole parole di Calafiore ma che è stata puntualmente riscontrata da questo Ufficio con la acquisizione di inequivoci messaggi”.

Torniamo ad Amara: l’avvocato confessa il proprio ruolo dinanzi alla Procura di Messina. Ma Curcio scopre che ha “inquinato la ricerca della verità processuale”: non ha riferito della consegna del plico a mano, in procura di Trani, e l’ha fatto “per evitare che (…) sulla base delle sue stesse dichiarazioni, si arrivasse a illuminare i suoi rapporti con persone (…) inserite in contesti relazionali e politici, in posizioni di potere particolarmente significative…” Quali? A parte Paradiso e Capristo, il gip cita “la struttura commissariale dell’llva” con la quale Amara “aveva rapporti intensi” e altri soggetti “non indagati in questo procedimento” ma “componenti” della “rete di relazioni” utilizzata “per sponsorizzare (…) in vista di incarichi e favori (…) e per raggiungere scopi propri o dei propri clienti”. Il gip menziona “Denis Verdini, Luca Lotti, Andrea Bacci (imprenditore vicino alla famiglia Renzi), Luca Palamara e Cosimo Ferri. Dagli atti si scopre che, per un caso fortuito, riesce anche a conoscere Tiziano Renzi, papà di Matteo, che gli viene occasionalmente presentato in un bar.

C’è il Capodanno gregoriano e c’è quello cinese. E poi quello di Toti

Dopo il Capodanno gregoriano e quello cinese, lunedì sera i liguri hanno festeggiato una nuova ricorrenza: il capodanno di Toti. Una festa in grande stile per salutare la zona bianca e “tornare alla vita” per usare le parole del presidente della Regione Liguria, da sempre grande fautore della fine delle restrizioni anti-Covid. Toti l’aveva presentata così: “Una celebrazione sobria ma molto convinta”. Solo che la festa di lunedì sera in piazza de Ferrari a Genova, sotto la sede della Regione, replicata anche a Savona, Imperia e La Spezia, di sobrio aveva ben poco. Selfie, abbracci, nessun distanziamento, poche mascherine, per lo più spesso abbassate sotto al mento come si vede dalle immagini postate sui social. E poi un countdown – mancavano solo i fuochi d’artificio e i trenini – scoccato alle 23 a cui è seguita un gioco di luci che ha illuminato il palazzo della Regione: “Restart Liguria”. “Ragazzi, stasera vi riprendete un po’ della libertà che in questo anno e mezzo non c’è stata” ha detto Toti rivolgendosi ai genovesi che erano in piazza dopo essersi scattato diversi selfie con i presenti. Poi la raccomandazione che strideva con gli assembramenti e i festeggiamenti: “Dobbiamo tutti prometterci che ci prendiamo questa libertà con grande attenzione, prudenza e responsabilità”. Ma al governatore non è bastato festeggiare la fine del coprifuoco. Come ogni Capodanno che si rispetti, allo scoccar dell’ora – in questo caso le 23 – è partito il dj set all’aperto con tanto di balli di gruppo. Chissà se ha partecipato anche Toti.

Brevetti, la strategia Ue parla sempre tedesco

La strategia europea sui vaccini parla tedesco. È infatti soprattutto la Germania il Paese che sta beneficiando delle scelte di Bruxelles. “La Commissione europea si è finora assicurata 4,4 miliardi di dosi di vaccini contro Covid-19 e sono in corso negoziati per ulteriori dosi”, dice l’istituzione guidata da Ursula von der Leyen, tedesca della Cdu, lo stesso partito di Angela Merkel. Delle 4,4 miliardi di dosi già opzionate (che basterebbero a vaccinare la popolazione europea dieci volte) più della metà – 2,4 – sono state acquistate da Pfizer-BioNTech, joint venture tra il colosso americano e la società biotech di Meinz.

È dietro questa alleanza che si nascondono i benefici della Germania, capofila dei Paesi contrari alla sospensione dei brevetti. Il Fatto ha letto il primo contratto firmato tra la Commissione Ue e Pfizer-BioNTech, valido per le prime 200 milioni dosi.

Oltre che nello stabilimento di Pfizer a Puurs, in Belgio, i vaccini sono stati prodotti da BioNTech nelle sue sedi in Germania. Anche i tre subfornitori parlano tedesco. C’è Rentschler Biopharma, di Laupheim, Baden-Württemberg, azienda a gestione familiare della famiglia Rentschler. Poi Polymun Scientifc Immunbiologische Forschung, sede a Klosterneuburg, Austria, controllata dal microbiologo Hermann Katinger. Infine Dermapharm, la più grande delle tre: quartier generale fuori Monaco di Baviera, principale stabilimento vicino a Lipsia, controllata dalla famiglia Beier: l’anno scorso ha fatturato 794 milioni con un margine operativo lordo di 184,5 milioni. Da novembre, quando è diventata uno dei fornitori di BioNTech, il titolo di Dermapharm ha guadagnato il 77% alla Borsa di Francoforte.

I nomi di queste tre aziende non sono mai stati resi noti dalla Commissione, così come il prezzo pagato per i vaccini. Nel contratto che abbiamo letto Bruxelles si impegna a pagare 15,5 euro per le prime 200 milioni di dosi, prezzo che può salire fino a 17,5 euro per quelle aggiuntive. Alle domande inviate sui suoi attuali fornitori, BioNTech non ha risposto. Avevamo chiesto, tra le altre cose, se al momento ci sia qualche impresa italiana che partecipi alla produzione. Stessa domanda inviata al Mise, che ha detto di rispondere “anche per una questione di sicurezza nazionale”.

Secondo quanto annunciato nel marzo scorso dal premier Mario Draghi, “un’azienda italiana ha firmato un accordo con un’azienda americana titolare di brevetto”. Palazzo Chigi aveva poi fatto sapere che si tratta dell’americana Thermo Fisher, che ha uno stabilimento a Monza. Thermo Fisher non ha risposto alle nostre richieste di informazioni. Secondo Il Giorno, l’azienda però non ha ancora iniziato la produzione: dovrebbe partire tra fine giugno e inizio luglio, portando in dote 180 nuovi posti di lavoro. Di certo Italia e Germania sono d’accordo sulla strategia da adottare per sopperire alla carenza mondiale di vaccini. Nessuna sospensione dei brevetti, che farebbe perdere soldi alle case farmaceutiche. Meglio puntare su Covax, cioè continuare a comprare vaccini con i soldi dei cittadini europei e poi regalarli ai Paesi poveri del mondo.