“Trombosi nei giovani correlati a uso AZ: scienziati omertosi”

Valeria Poli, docente di Biologia molecolare all’Università di Torino e presidente della Sibbm (Società italiana di biofisica e biologia molecolare), è tra i firmatari dell’appello diffuso dall’associazione Luca Coscioni che chiede di non somministrare ai giovani i vaccini a vettore adenovirale AstraZeneca e Johnson & Johnson. L’hanno sottoscritto, tra gli altri, Anna Rubartelli che insegna Biologia Cellulare al San Raffaele di Milano, Gennaro Ciliberto dell’Istituto tumori di Roma che guida la Fisv (Federazione Italiana Scienze della Vita), le immunologhe Anna Mondino e Giulia Casorati.

Avete avuto reazioni?

Direttamente a noi no. Ho visto che Matteo Bassetti ha reso due dichiarazioni non supportate dai dati, ovvero che le uniche controindicazioni riguarderebbero chi ha avuto trombosi e le donne che assumono la pillola anticoncezionale (AdnKronos), ma non è vero. Lo esclude la Siset, la Società Italiana per lo studio dell’Emostasi e della Trombosi. Al Secolo XIX ha parlato di una frequenza di sei casi su un milione di vaccinati mentre dall’ultimo recentissimo report britannico con i dati disaggregati per fasce d’età siamo a 18 casi di trombosi trombocitopenica indotta da vaccino, Vitt nell’acronimo inglese, per milione di vaccinati tra i 18 e i 49 anni, cioè quasi uno su 50 mila.

Ecco: i dati sulle vaccinazioni per prodotto e fascia d’età. Qui non riusciamo ad averli dall’ufficio del Commissario straordinario.

Se non si sa quante somministrazioni e a quali fasce di età i dati si annacquano. Ssi tratta di patologie rare, ma non è eticamente giustificabile esporre le persone a un rischio che comporta, in caso di evento avverso, un 20/30 per cento di letalità.

Questa discussione c’è da marzo. Il vaccino AstraZeneca fu sospeso in tutta Europa, poi consigliato solo sopra i 60 anni in Italia come altrove. Perché l’appello solo adesso?

Abbiamo provato a intervenire a marzo come scienziate per la società sull’Huffington Post. Il Corriere della Sera ci disse che non avrebbe pubblicato niente che potesse alimentare l’esitanza vaccinale. C’è omertà, un muro di gomma anche da parte di scienziati che possono capire perfettamente la questione. Prima di uscire pubblicamente abbiamo scritto al Comitato tecnico scientifico e a Nicola Magrini, il direttore dell’agenzia del farmaco Aifa. Nessuno di noi intende fomentare l’esitanza vaccinale, sappiamo bene che il risultato può essere questo e tutti concordiamo che si debbano vaccinare i giovani. Ma quando vedi qualcuno che va a schiantarsi devi intervenire.

Ma il nesso tra le vaccinazioni e queste rare trombosi è accertato?

Sull’esatto meccanismo di come si instauri c’è dibattito, ma è molto chiara la connessione tra la vaccinazione con vettore adenovirale producente la proteina Spike e questi eventi trombotici a fronte di una riduzione delle piastrine. Trombocitopenia, appunto. È dovuta alla formazione di autoanticorpi contro il fattore piastrinico 4 (Fp4), in grado di attivare le piastrine. E non è sufficiente dosare gli anticorpi anti-Fp4, l’esame di laboratorio da eseguire è verificare se attivino le piastrine. Esiste una patologia simile, la trombocitopenia indotta da eparina (Hit), sempre basata sulla produzione di autoanticorpi. È inconfondibile ma sembra quasi che non si voglia diagnosticare, dei tre casi recenti per uno solo è stata fatta la diagnosi di laboratorio.

La Fimmg, la federazione dei medici di famiglia, dice che gli Open day con AstraZeneca sono pericolosi, ma che ai giovani possono somministrarlo loro, che conoscono i pazienti. La predisposizione a questi eventi avversi è riconoscibile?

Per ora no, non siamo in grado di prevederla. L’unica cosa da fare è riservare AstraZeneca e Johnson & Johnson alle persone sopra i 60 anni, come è raccomandato da Ema e Aifa. Ce ne sono ancora tante non vaccinate e rischiano di più dal Covid e meno per la Vitt. Ma, ripeto, gli Open Days sono fantastici per vaccinare i maturandi e in generale i giovani, che girano di più e possono trasformarsi in un serbatoio di infezione. Bisogna però farlo con Pfizer, che sta arrivando in grandi quantità. Vedo che cominciano a farlo anche a 40/41enni regolarmente prenotati per fascia di età.

“Se il virus circola poco più rischi che benefici”. Così scrisse l’Ema

La tabella parla chiaro e l’ha fatta Ema, l’agenzia europea del farmaco che ha autorizzato il vaccino AstraZeneca senza limiti d’età. È del 23 aprile. Dice che con una bassa circolazione del virus, come nel settembre 2020 quando c’erano 55 contagiati ogni 100 mila abitanti alla settimana (ieri in Italia erano 26), fino a 49 anni il rischio di trombosi trombocitopenica indotta dal vaccino anglo-svedese supera quello di morire di Covid-19. È stato Nino Cartabellotta, presidente della Fondazione Gimbe che monitora la pandemia, a ripubblicare la tabella su Twitter. Anche lui ha qualche dubbio sugli Open Day AstraZeneca da 18 anni in su, come i 24 medici vaccinatori di Genova e gli scienziati che hanno scritto all’Associazione Luca Coscioni.

Come sappiamo AstraZeneca è autorizzato per tutti ma consigliato dall’Agenzia del farmaco italiano Aifa solo sopra i 60 anni. Lo fanno solo i “volontari”. Si sono accumulate scorte inutilizzate, dall’ufficio del Commissario straordinario non è possibile sapere quante siano e quante se ne prevedono. Almeno non era possibile ieri. Non ci dicono neanche quanti under 60 sono stati vaccinati con AstraZeneca e l’altro vaccino a vettore virale, Johnson & Johnson. Così quando arriverà il Quinto rapporto di farmacovigilanza dell’Aifa avremo sempre l’incidenza generale, mentre la scienza dice che il problema riguarda i giovani e in particolare le giovani donne. Attualmente sono ricoverate due di loro: una diciottenne al San Martino di Genova da due giorni stabile dopo due interventi chirurgici, una 42enne lucchese a Pisa. C’è poi un agente di polizia locale, 45 anni, in ospedale a Catanzaro.

Nell’ultimo report di Aifa, che arrivava al 26 aprile, erano 34 casi di trombosi rare di cui 18 associati al deficit di piastrine, dette Vitt nell’acronimo inglese (vaccine-induced thrombosis and thrombocytopenia: 0,45 ogni 100 mila vaccinati. In Gran Bretagna l’incidenza è cresciuta: da un caso ogni 100 mila siamo arrivati a 1,8 nell’ultimo report relativo alla popolazione tra i 18 e i 49 anni, mentre da 50 anni in su se ne conta uno. Sempre in maggioranza donne. “I rischi superano i benefici per la maggior parte della popolazione”, scrive l’agenzia regolatoria britannica Mhra. Non per tutti, dunque. Sulle istruzioni del vaccino AstraZeneca il rischio arriva a 1 su 10 mila. “I maturandi italiani sono quest’anno circa 500.000: se anche solo metà di loro fossero vaccinati con AZ, secondo la nota informativa di questo vaccino in 25 potrebbero essere colpiti da Vitt. Ma se anche uno solo di loro morisse, come potremmo giustificarlo?”, si legge nell’appello pubblicato dall’associazione Luca Coscioni.

Il presidente della Federazione degli Ordini dei Medici, Filippo Anelli, ieri ha risposto ai suoi colleghi genovesi che scrivono di non aver avuto informazioni precise sui rischi. “Generalizzare sui rischi del vaccino, AstraZeneca o altro, fa male a tutti ­– ha detto Anelli ­–. È giusto che i medici abbiano informazioni precise perché possano svolgere la delicatissima parte del consenso informato, che è compito esclusivo del medico”.

All’ufficio del Commissario dicono che i vaccini li autorizza Aifa, al ministero della Salute dicono che gli Open Day li organizzano le Regioni. Di fronte alla tabella di Ema il professor Sergio Abrignani, immunologo del Comitato tecnico scientifico, dice: “Non l’ho vista. Ma se per Ema i rischi superano i benefici, almeno per alcune fasce d’età, non l’avrebbero autorizzato. Non dobbiamo concentrarci solo sul caso singolo, che può essere gravissimo come succedeva anche ai tempi dell’antipolio orale. Occorre valutare in termini di medicina di comunità. Ma a questo punto, con una più bassa circolazione del virus, le agenzie regolatorie potrebbero rivedere le cose. Se necessario lo auspichiamo tutti”.

Il pirlicidio

Avere un libro nella top ten dopo 10 giorni con zero recensioni è già una bella soddisfazione (le recensioni sono come i premi che, diceva Longanesi, “non basta rifiutarli: bisogna non meritarli”). Ma vederlo evocare un po’ da tutti senza mai citarne il titolo (un po’ come la Mercegaglia imputata per evasione) è proprio da sballo. Il bello è che chi lo evoca non l’ha letto. O ha letto l’unica recensione: quella del miglior leccapiedi del Foglio, datata però 14 aprile, quando il libro non solo non era stato pubblicato, ma neppure scritto. Però il noto linguista già sapeva che riguardava “il complotto internazionale contro Conte”. Invece riguarda quattro congiure nazionali, tutte alla luce del sole per chi ha occhi per guardare anziché lingue per leccare. E quella andata a segno si fondava proprio sulla maxiballa delle cancellerie europee allarmatissime per il Pnrr di Conte (che poi era di Gualtieri, Amendola e gli altri ministri), per la governance con 300 tecnici (molto più numerosi dei 550 di Draghi) e per il no al Mes (che, da quando c’è Draghi, è una ciofeca). E chi la raccontava la panzana sesquipedale sull’intera Ue schierata contro Conte, per far dimenticare che il Recovery Fund l’aveva ottenuto lui? Gli stessi giornali che ora la attribuiscono al mio libro (che sostiene l’opposto).

Basti pensare che, mentre Repubblica, Stampa, Corriere, Messaggero, Sole 24 Ore, Giornale, Foglio&C. la sparavano a edicole unificate, il capogruppo del Ppe Martin Weber, merkeliano di ferro, chiamava Lorenzo Cesa per spingerlo ad aiutare il Conte-2 con “responsabili” dell’Udc. La congiura fu tutta italiana (a parte qualche ammiccamento all’ambasciata Usa, allergica alla politica un po’ più multilaterale e un po’ meno servile di quel governo rispetto ai precedenti). Vi parteciparono festosamente i padroni del vapore tramite i loro house organ che chiamiamo “giornali”. I quali ora fanno il giro delle sette chiese in cerca di smentite alla tesi opposta a quella del mio libro che non possono citare. Il Corriere domanda a Conte: “Lei crede al Conticidio per mano (sic, nda) di un complotto internazionale?”. Conte risponde: “Nessuno ha mai pensato a un complotto internazionale. Il mio governo ha sempre ricevuto forte sostegno dalle cancellerie europee”, vedi “l’affidamento per i 209 miliardi del Recovery”. Allora Riformatorio e Foglio se la ridono: “Conte sbugiarda Travaglio” (che dice la stessa cosa). La Stampa ci riprova con Bonafede: “Il famoso Conticidio: crede anche lei (sic, nda) al complotto internazionale?”. Risposta: “Il Conticidio è sotto gli occhi di tutti, ma non fu un complotto internazionale”. Poveretti: farebbero quasi tenerezza, se qualcuno non li scambiasse ancora per giornalisti.

Come sta il calcio? Malagò e Moratti, diretta sul Fatto.it

Gli Europei al via, la farsa della Superlega, i problemi del calcio italiano, ma soprattutto lo stato di salute di un movimento in profonda crisi economica e di credibilità. Sono i temi, tra sport e politica, della diretta speciale de ilfattoquotidiano.it, oggi pomeriggio a partire dalle 16 sul sito e sulle nostre pagine Facebook e YouTube. Tre gli appuntamenti: le “riflessioni sullo stato dello Sport, dall’Italia di Mancini ai Giochi di Tokyo”, sono affidate al fondatore del Fatto Quotidiano Antonio Padellaro, che dialogherà con il presidente del Coni Giovanni Malagò insieme a Pierluigi Giordano Cardone de ilfattoquotidiano.it. Alle 17, l’intervista di Peter Gomez a Massimo Moratti, il presidente dell’Inter del triplete: si parlerà del futuro della società nerazzurra, tra ridimensionamento e svolta etica. Alle 17.45, per finire, la “controcopertina” dedicata al ritorno del Venezia in Serie A, con l’intervista a Paolo Poggi, responsabile dell’area tecnica: un esempio di come per vincere non sempre tutto dipenda dai soldi. Aspettando la Nazionale.

Al Roland Garros Musetti è un gigante per due set. Poi crolla davanti a Djokovic

Non saranno certo i due set e mezzo finali di ieri, nei quali in campo c’era solo Djokovic, a togliere qualcosa a Musetti. Il carrarino è uscito ieri agli ottavi di finale del Roland Garros, ma la sensazione è che il ragazzo sia già molto avanti nel suo processo di maturazione. Musetti è giocatore di rara bellezza, atipico, originalissimo. Anacronistico (è un complimento). Mirabile e imprevedibile, con una propensione naturale a dar spettacolo e un rovescio a una mano che canta. Con Djokovic non aveva chance: non ancora, almeno. Men che meno tre set su cinque. Musetti avrebbe potuto giocarsela a Roma o Montecarlo, non certo al Roland Garros. E Lorenzo, a Parigi, era al suo primo Slam da “adulto”: un debutto straordinario. Il primo set, vinto al tie-break recuperando da 1-3, poteva essere figlio di un exploit. Al contrario, la seconda frazione – conquistata ancora al tie – ha dimostrato come Musetti sia già molto avanti nella sua evoluzione. Livelli di gioco celestiali. Dal terzo set in poi Nole è salito e Musetti crollato (di testa, di fisico: di tutto). Infatti, sul 6-1 6-0 4-0, si è ritirato. Un po’ infortunato (inguine, schiena) e un po’ frustrato. Quello di ieri è il classico match che, giocato tra un anno, potrebbe avere esito invertito. Musetti è in qualche modo alternativo in tutto a Sinner (più “vecchio” di un anno): fantasioso il primo, metodico il secondo. Talento puro il primo, completezza e solidità mentale il secondo. Così, a occhio, Sinner vincerà di più (incendiando meno) e Musetti divertirà di più (facendo incazzare di più). Lorenzo appartiene alla genia dei Canè & Fognini, anche se è più forte (e meno “pazzo”) del primo e meno spigoloso (per quanto umorale) del secondo. Quest’anno, dopo Acapulco, è sbocciato. Nella classifica della Race, che tiene conto solo dei risultati del 2021, è numero 20. E ha solo 19 anni. Musetti non è solo una delle tre grandi stelle italiche con Berrettini e Sinner, ma può assurgere a “Bello” del tennis del futuro. Con Tsitsipas e Shapovalov è uno dei pochi ad essere gioia per gli occhi, con un tennis che ricorda McEnroe (!), Edberg (!!) e Leconte (!!!). Se poi si pensa che, oltre a quei tre lì, ci sono Fognini (qualche colpo in canna lo ha ancora), Sonego, non pochi giocatori da fascia 40-100 (tipo Mager) e qualche bella speranza (Nardi, Zeppieri, Cobolli e Gigante), si capisce bene come il tennis italiano maschile sia dentro una grandeur storica. Qualcosa che ci fa tornare ai tempi di Panatta. E forse, oggi, c’è addirittura più abbondanza.

(Ieri è uscito anche Sinner, battuto da Nadal in tre set: 7-5; 6-3; 6-0)

Tornano i “Comedians” e la comicità “serissima”

“Il politicamente corretto può essere rischioso, basti vedere il #MeToo, un’istanza giusta che sta diventando ridicola: dall’America arrivano notizie impressionanti”. La riflessione sul senso stesso della comicità non può prescindere oggi dal politically correct, e Gabriele Salvatores lo sa: il 10 giugno porta al cinema (250 schermi con 01 Distribution) Comedians, tratto dalla pièce di Trevor Griffiths che già mise in scena all’Elfo di Milano nel 1985 e che due anni più tardi gli avrebbe ispirato il lungometraggio Kamikazen. Protagonisti sei comici (Ale e Franz, Marco Bonadei, Walter Leonardi, Giulio Pranno e Vincenzo Zampa) chiamati a finalizzare sul palco un corso serale di stand- up e dibattuti tra la lezione morale del maestro (Natalino Balasso) e la vocazione commerciale dell’esaminatore (Christina De Sica): tradimento e successo, intelligibilità e originalità, orrore e risata, la tensione sale, l’inquietudine divampa, e lo scioglimento invero scioglierà ben poco.

L’adattamento, con l’imprimatur di Griffiths, “scopre il dark side della commedia teatrale, la parte più ponderosa, riflessiva e malinconica”, rileva il regista premio Oscar, e le sue considerazioni si spingono all’agone politico: “Mancano i padri di cui avremmo bisogno, i nostri politici preferiscono fare i simpatici o gli hater, laddove dovrebbero prendere posizione e assumersi responsabilità. Sì, vorrei una classe politica a misura di papà”. Film sul comico più che film comico, butta in sala il cuore oltre l’ostacolo: piovoso nel meteo e temporalesco nel mood, inquieto e amaro, è – osserva condivisibilmente De Sica – “artisticamente severo, e arriva a giugno, dopo il Covid”, giacché Salvatores ha voluto “accettare questa sfida, restituire qualcosa: le sale sono aperte, non chiuderanno mai, sono l’unico luogo in cui passare due ore senza essere interattivi”. Sebbene tra arte e parte De Sica predichi “che al pubblico non gliene frega niente delle tue crisi esistenziali, fagli fare due risate”, la vis comica di Comedians è centripeta, e chiama in causa gli stessi interpreti, soprattutto sul politicamente corretto: per Salvatores “la comicità è una cosa molto seria, serve equilibrio”; per Franz “il limite è la propria sensibilità”; per Balasso, “è un problema culturale, sempre meno gente capisce l’ironia, ma il dibattito su Pio e Amedeo è falso, una gran stronzata: i loro esempi sono davvero offensivi, le intenzioni sbagliate, ché non si ride alle spalle”. Due “fondamentali” settimane di prove e quattro di riprese, l’anarchismo dell’85 tradotto nella dolenza attuale, Comedians rinnova l’antidoto di Salvatores al virus del successo: “Fare ogni volta qualcosa che non sapevo fare, altrimenti ci si avvicina alla fine”.

Magris, Microcosmi e Meridiani. “Scrivo per difendermi”

“Non appena presa in mano la penna”, disse Walter Benjamin dello scrittore Robert Walser, “entra in uno stato di disperazione. Tutto gli sembra perduto”. A Claudio Magris – scrittore, saggista, giornalista, traduttore, viaggiatore e mitografo – succede esattamente il contrario. Ogni riga scritta di suo pugno è un tentativo di non cedere alla disperazione, di impedire all’amarezza di stabilire il suo dominio sulla vita.

Si legga, lentamente come meritano queste pagine incise col bulino, il secondo volume dei Meridiani appena edito da Mondadori, a cura di Ernesta Pellegrini, che raccoglie gli scritti magrisiani dal 1997 al 2020.

L’atmosfera delle opere meno recenti, a cominciare da quel Microcosmi che è insieme etnografia, cartografia, genealogia e biografia in controluce, è il pulviscolo. Il loro respiro è una patina fotografica: il colore oro-rosa-fango-viola che si infila dentro le pasticcerie e invade le vie di Trieste perpendicolari al lungomare, nelle sere estive; il giallo-verde eziolato delle canne che si piegano all’alito di vento secco che viene dai monti dietro Malnisio, dove vige il biancore del caglio; l’aria opalina della palude, tra isole, canneti e centrali idroelettriche dove la Tecnica “è un angelo scolpito su un sarcofago”.

La laguna, frontiera liquida e antonomastica, offre a Magris una riserva di referenti che stimolano la sua inesausta ricerca e necessitano di un linguaggio a parte: “velma” è il fondale fangoso su cui sorge il fiore di tapo, una specie di lavanda lagunare, e nel regno del salmastro le verdure cianotiche, le iridescenze di certe conchiglie suscitano uno stile che è oramai inconfondibile: la scrittura insieme euclidea e fantasiosa di Magris si precisa ad alta definizione, per farsi poi ariosa, nel voltarsi verso Oriente, tra Venezia e Istanbul, sopra i cimiteri sloveni dove la morte è “elementare, essenziale, quasi fraterna nell’anonimato”.

Il dettaglio fotografico, però, non è mai pacifico, affrancante. Le pagine che Magris dedica al Mito sono esemplarmente abitate dalla dialettica. Giasone (è un suo tema ricorrente, poi anche di Alla cieca) porta nella Colchide selvaggia l’astuzia e il cinismo: è un distruttore. In ciò Magris è virtuosamente anti-eroico. La passione di Medea, il suo amore e la sua vendetta, nulla possono contro il calcolo greco (qui è un’eco del disagio della civiltà di Freud, figura quanto mai mitteleuropea e moderna).

Ammutinarsi, resistere al cinismo: questo è il progetto che Magris affida ai suoi personaggi, anche ai vinti. Il narratore può essere sé stesso come altri, generali cosacchi, scrittori collaborazionisti, eremiti dei canneti. In ciò Magris è scrittore etico, polemico, civico sebbene “impolitico”, uno che “si appassiona più per una giornata al mare che per un’assemblea o per la cronaca politica” (ma è stato senatore nel 1994). L’atto di scrivere è in sé resistenziale: “Scrivo per difesa, per fermare la vita fuggitiva, per fare ordine”. Così Danubio, il libro che scorre e lambisce, ma anche penetra e rovina (risalendolo arrivarono gli Argonauti all’Adriatico), è volto al tentativo di far vincere il logos, l’intelligenza ordinatrice, sulla vita, col rischio di distruggerla.

Magris è viaggiatore, s’è detto: di geografie fisiche e interiori e di libri: “Dalle pianure di Cervantes ai corridoi di Kafka, il viaggiatore si sente, nello stesso momento, nell’ignoto e a casa” (è, ancora, il “perturbante” di Freud). Libri ed elementi vivi suscitano una fusione generativa: “Il mare fisico che amo tanto finisce per essere (soggettivamente) la stessa cosa del mare di Melville”.

Se “vivere è navigare”, hybris, tracotanza, il mare è il mezzo di questa pretesa di vita e di conquista, cioè della morte; così “casa” può essere anche il luogo dell’orrore: la Risiera di San Sabba, unico campo di sterminio italiano, è il buco nero di Non luogo a procedere.

Trieste non è solo sfondo della Storia, ma persona, porto, ospedale mentale. Nella “coltre soffice e opaca” del Caffè San Marco, un “Eden surrettizio” in cui i camerieri sono “una gerarchia angelica minore ma affidabile”, Magris ha scritto a mano i suoi libri; qui vita ed epos si intrecciano al punto che Magris del luogo è ormai antenna e insieme genius loci, eponimo di fatto e voyeur-veggente. Al Caffè è in viaggio verso identità plurali, si sbarazza dell’io “come di una buccia”; è il suo cerchio magico, ciò che la Biliothèque nationale era per Benjamin, dove può succedere che gli avventori riescano a emendare il passato, a ricomporre l’infranto.

Come la sua faccia stampata sulla custodia del Meridiano ricorda metà quella di un rabbino di Isaac B. Singer e metà quella di Corto Maltese, e del primo ha l’ironia stancata mentre del marinaio dei fumetti ha l’eleganza laconica, tutta l’opera di Magris è il prodotto della tensione tra speranza e vittoria del negativo, dove però la scrittura, contando il male, si mette dalla parte della speranza.

Addio Epifani: socialista elegante che guidò il Pd

Il termine più utilizzato per definire Guglielmo Epifani, scomparso ieri a 71 anni, è “elegante”. Nei modi, nel ragionamento, nel rapporto con gli avversari e con i compagni di partito e sindacato. L’eleganza è generalmente innata, ma nel suo caso può aver contribuito la radice politica del suo impegno, socialista nella Cgil quando tra socialisti e comunisti e altre sigle ancora, ci si confrontava seriamente, anche duramente. La Cgil l’ha diretta in un periodo complicato, tra il 1994 e il 2002, subito dopo “le gesta” di Sergio Cofferati, quel mare di popolo al Circo Massimo contro Berlusconi, ma comunque in un decennio di forti arretramenti. La cultura riformista, che spiccava certamente dentro una Cgil già moderata di suo e che i socialisti avrebbero voluto ancora più piatta, non gli mancava e ha caratterizzato una gestione poco più che scialba, se non per un piccolo, importante, guizzo. Nel 2003 appoggia il referendum per l’estensione dell’articolo 18 voluto solo da Rifondazione comunista e su cui il Pds, diretto da Piero Fassino, si asterrà per boicottarlo. Finirà senza quorum e quell’episodio è rivelatore del riformismo tenue di Epifani, che da socialista, anche da normalizzatore della vita interna – non sostiene certamente la stagione della Fiom a guida Maurizio Landini ed è il supporto più deciso alla segreteria di Susanna Camusso, la prima donna a dirigere la Cgil – si è però collocato dalla parte dei lavoratori. Lo ha fatto sempre e lo ha fatto anche politicamente quando, lui che del Pd è stato segretario di transizione dopo le dimissioni di Pier Luigi Bersani, ha abbandonato quel partito per formare Articolo 1, la micro-formazione bersaniana con cui è stato eletto alla Camera nelle liste di LeU. Una coerenza che gli va riconosciuta, un socialista che alla fine lascia un buon ricordo di sé.

Quell’inferiorità violenta dell’uomo qualunque

“Io che avevo ormai perduto / tutte quante le speranze / non credevo nei miei occhi / quando sei venuta tu / hai saputo dar la mano a chi / non credeva più a nessuno / tutto hai dato senza chiedere / per un uomo come me” (Vita mia, Tony Del Monaco).

Tony Del Monaco, oggi dimenticato, è stato, con la sua voce dal timbro molto potente, un notevole cantante nei Sessanta. Vita mia, che presentò nello spettacolo televisivo Campioni a Campione, lo consacrò al grande successo. Ma non intendo qui fare una biografia di Del Monaco, semplicemente estrapolare da questa canzone un breve verso, quando dice: tu hai dato tutto “per un uomo come me” cioè lui si sente una nullità, inferiore a lei. Nelle canzoni al femminile, parlando ovviamente in linea generale, un atteggiamento del genere non c’è, lei si dispera per un amore finito, diventa una furia per un tradimento, ha nostalgia di un uomo del suo passato che l’ha lasciata e pensa che lasciandola ha perso l’occasione della sua vita. Non si sente affatto di “essere da meno”, per dirla con Jannacci.

La verità è che, non solo nelle canzoni ma nella vita reale, l’uomo si sente inferiore alla donna anche se non è disposto ad ammetterlo a nessun costo. Lo scrittore D. H. Lawrence, finissimo conoscitore dei rapporti fra i sessi (Donne innamorate, L’arcobaleno, Figli e amanti oltre al celeberrimo L’amante di Lady Chatterley) lo dice nel modo più esemplare e chiaro: “Quasi tutti gli uomini, nel momento stesso in cui impongono i loro egoistici diritti di maschi padroni, tacitamente accettano il fatto della superiorità della donna come apportatrice di vita. Tacitamente credono nel culto di ciò che è femminile. E per quanto possano reagire contro questa credenza, detestando le loro donne, ricorrendo alle prostitute, all’alcol e a qualsiasi altra cosa, in ribellione contro questo grande dogma ignominioso della sacra superiorità della donna, pure non fanno ancor sempre che profanare il dio della loro vera fede. Profanando la donna essi continuano, per quanto negativamente, a concederle il loro culto” (La verga d’Aronne).

Nella grande storia antropologica del genere umano la protagonista è la femmina, perché è lei che dà la vita, il maschio è solo un fuco transeunte (l’invidia del pene è una sciocchezza freudiana). Nella tradizione kabbalistica, e peraltro anche in Platone, l’Essere primigenio è androgino. Con la Caduta si scinde in due: la donna, che viene definita “la vita” o “la vivente”, e l’uomo che è colui che “è escluso dall’Albero della Vita”.

Ciò che in definitiva, e nonostante tutto, spinge l’uomo verso la donna è la nostalgia della vita. Nel linguaggio degli innamorati lui le dice “tu sei la mia vita” (come nella canzone di Del Monaco), lei invece lo chiama amore, tesoro, gioia, cucciolo e con ogni altra sorta di vezzeggiativi, ma quasi mai gli dice “Tu sei la mia vita”. Perché la vita è lei.

Ad aggravare la situazione c’è che, per ragioni antropologiche poi divenute culturali, è l’uomo a essere dalla parte della domanda. Per quanto facciano i bulli i maschi non sono sempre pronti al rapporto sessuale. Nemmeno lei lo è, ovviamente. Ma la défaillance di lui è decisiva. Per questo l’uomo può fare la sua ‘avance’ solo quando si sente veramente pronto, ponendosi così, per la gioia di quelle del #MeToo, nella posizione debole della domanda.

La reazione a questo inconfessato inferiority complex è la violenza. Esemplare, in questo senso, è lo stupro. Con la facilità, almeno apparente, che c’è oggi nei rapporti fra uomini e donne non c’è alcun bisogno di ricorrere allo stupro per soddisfare il proprio bisogno sessuale. La ragione dello stupro non è sessuale, è psicologica: si vuole umiliare, dominare, distruggere l’odiato nemico di sempre (“L’amore? L’eterno odio tra i sessi”, scrive Nietzsche).

Sulla parità dei diritti tra uomo e donna non si discute. Ma a me pare che oggi, raggiunta bene o male questa parità, la donna approfitti un po’ troppo di questa sua posizione di forza mascherata da fragilità “Lacrime (femminili) Irresistibili. Disarmanti. Eterno e impareggiabile strumento di seduzione, d’inganno e di ricatto che la donna utilizza a piene mani, se si può dir così, sfruttando la propria emotività che con fragilità fa solo rima. Insincere anche quando sono autentiche. Invece ci si arrende senza condizioni” (Di[zion]ario erotico, 2000).

Lima si sveglia col rebus governo

I risultati delle Presidenziali di domenica restituiscono la fotografia di un Paese spaccato tra cambiamento e restaurazione.

L’aveva detto e ribadito a ogni incontro in campagna elettorale: “Vengo dal profondo Perù”. Ed è proprio da lì che per il maestro di campagna Pedro Castillo sono arrivati i voti che potrebbero incoronarlo presidente con poco più di 40 mila consensi in più della sua rivale, Keiko Fujimori, la figlia del dittatore, che nel 2016 aveva perso contro Kuczynski con la stesso margine. Un pugno di schede in un Paese diviso in due tra Castillo, il comunista appoggiato dal partito marxista Perù Libre che ha ottenuto il 50,2% dei voti contro il 49,8% di Fujimori. Risultato in bilico fin nelle ultime ore, dopo che per l’intera giornata seguita alle Presidenziali di domenica, Fujimori gli aveva tenuto testa. Ad arrivare per ultimi sono stati proprio i conteggi delle schede del “Perù profondo”, dalle campagne alla foresta. Quello in cui Castillo era destinato a vincere, nonostante la fedeltà dimostrata alla leader del Fuerza Popular dai peruviani all’estero, anche loro conteggiati a chiusura di giornata. Doveva essere lei, candidata per la terza volta dopo le sconfitte del 2011 e il 2016 a spuntarla fin dall’inizio, secondo i sondaggi. Lei, la “donna del Perù”, che nell’ultimo mese aveva recuperato 20 punti percentuale, grazie all’ammenda fatta sulla dittatura paterna. Ma recuperare i voti dei conservatori ex anti-fujimoristi come lo scrittore Vario Vargas Llosa non le è bastato a fare lo scatto in avanti. Le élite non sono riuscite ad assicurarle una vittoria piena. Anche se fin dal primo sondaggio in chiusura di seggi sembrava chiaro il vantaggio di Keiko Fujimori, motivo per cui Pedro Castillo aveva mostrato inquietudine e in una lettera alle autorità elettorali aveva richiesto una revisione delle urne per timore di brogli da parte dell’avversaria. In difesa del voto Castillo ha chiamato a raccolta su Twitter “il popolo peruviano in ogni angolo del Paese affinché vigili in difesa della democrazia”, hashtag #ADefenderelvoto”. Per poi cambiare umore già alla seconda proiezione che invece dava il maestro per vincitore. Nella piazza di Tocabamba, dove seguiva i risultati, i suoi elettori hanno iniziato a urlare “Si, se puede”, lo slogan di Castillo. Mentre a Lima, a scendere in piazza sono stati i militanti dei due schieramenti che, nonostante l’ordine della polizia di rispettare il coprifuoco alle 23, si sono scontrati fino a tarda notte dando luogo ad incidenti. Nient’altro che la fotografia di un Paese spaccato in due, con la tensione politica e sociale pronta a esplodere in una campagna elettorale basata sulla paura. Laddove la figlia del dittatore agitava lo spauracchio del comunismo, se non del marxismo per togliere voti al maestro di campagna, e Castillo agitava quello della dittatura per dissuadere le élite di Lima dal votare per Keiko Fujimori. C’è da capire dove finirà ora la tensione.