“La politica è morta, il M5S pure e anch’io non mi sento bene”

L’avvento di Draghi ha pressoché ammazzato la politica italiana. Detta così sembra una critica feroce nei confronti del presidente del Consiglio, ma il punto è un altro. Draghi ha una storia di innegabile prestigio, in termini di credibilità all’estero ne abbiamo guadagnato (a prescindere dal lavoro fatto prima di lui da Conte) e sulla vaccinazione sembra finalmente andare tutto bene.

Il problema non è Draghi, ma tutto quello che gli ruota attorno. La politica è morta, a partire da quel che resta del Movimento 5 Salme. Il Pd si è acquattato come quasi sempre fa, non appena entra in un governo (non) suo. Speranza è isolato, Bersani giganteggia in tivù ma in Parlamento può incidere come Syd Barrett in The Wall: ovvero poco o nulla. Meloni cresce in virtù della sua opposizione furbina e Salvini, sempre più pugile suonato, studia da finto moderato per fagocitare quel che resta di Forza Italia e limitare la crescita della (cosiddetta) alleata Donna Giorgia.

Il dibattito è rasoterra e non sono ammesse mezze misure: Draghi o lo ami (quasi tutti) o lo odi (non saprei chi). Se solo osi fare dei distinguo, cercando di elencare pregi e difetti, passi per disfattista. E i leccatori di professione partono subito con la mitraglia filogovernativa.

L’onestà intellettuale è sotto zero (persino più del solito) e l’italico correre in soccorso del vincitore ha raggiunto livelli di guardia. Ovviamente, a uscirne peggio, è la cosiddetta informazione italiana. O quel che ne resta. Draghi – immagino ben oltre i suoi desideri – viene adulato, mitizzato e santificato. Tutto in lui è Bellezza. Ogni cosa è illuminata e, anche se non lo fosse, ci penserebbe lui ad accenderla. Con la sola imposizione di un “Whatever it takes”.

La crisi politica più scellerata del mondo è già stata dimenticata da quasi tutti. A breve partiranno pure con gli applausi a Renzi, autore della defenestrazione di Conte e dunque in qualche modo dell’ascesa di San Draghi (e anzi qualcuno coi peana ha cominciato da un bel pezzo). Se qualcuno osa ricordare cosa è accaduto nei mesi scorsi, passa giocoforza per “vedovo di Conte”. Un giochino intellettualmente bieco, ma che viene bene per disinnescare quei tre o quattro eretici forse rimasti. In un clima di insistita poraccitudine spinta, l’unica cosa non indispensabile è la realtà dei fatti. È come se questo governo avesse finalmente messo a posto le cose per chi credeva che, con Conte al governo, fosse avvenuto un odioso rovesciamento bolscevico: finalmente è tornato il Gattopardo, finalmente è tornata la restaurazione. E pazienza se nel 2018 troppi italiani avevano “sbagliato” a votare: ora tutto è tornato al suo posto.

Il Recovery Plan è pressoché uguale a quello di prima, ma adesso va bene. Il Mes non c’è più, ma adesso è giusto così. Draghi è enormemente più accentratore di prima, ma adesso non ci sono più problemi. Eccetera. È tutto capovolto, ma se lo fai notare con garbo sei un provocatore.

Se con Monti il clima era mellifluo e insopportabile, ora siamo dentro una grande ammucchiata dove tutto è lecito. E dove è vietato disturbare il (bravo) conducente. È bellissimo tornare alla vita di prima, o anche solo avvicinarsi a essa. E certo Draghi ha in questo i suoi meriti, sebbene risulti difficile accreditare al premier persino l’avvento del caldo e dell’estate. È bellissima questa sensazione di rinascita. Ma è dannatamente claustrofobica, e insopportabilmente meschina, questa “pace terrificante” – per dirla con De André – che ci sta anestetizzando mente e cuore. Senza che neanche ce ne accorgiamo.

 

Le parole contano, ma anche le desinenze non scherzano

Ma è proprio sicura Michela Murgia che piazzare la “e” rovesciata per rendere neutre le desinenze e fare pari e patta tra maschile e femminile (termine tecnico schwa, vocale centrale media, che sarà pure italiano ma fa tanto swhaili) sia davvero un passo avanti per le magnifiche sorti e progressive della lingua? Lei ne parrebbe convinta, avendo impreziosito di schwa i suoi ultimi interventi su L’Espresso e su La Stampa. Parrebbe quasi una chiamata alle armi.

Che le lingue siano organismi vivi, sempre in movimento, non ci piove; ma bisogna vedere dove vanno, o – peggio – dove vengono accompagnate. No, perché la lingua la sa sempre più lunga di chi la parla, e con lei quando si comincia non si sa dove si va a finire; tanto per cominciare, per non far torto, dovremmo correggere questo articolo rivolgendoci alla scrittrice Michel* Murgi*; ma che dico, all* scrittor* Michel* Murg*, essendo “scrittrice” un* chiar* termin* sessist* e, per dirl* tutt*, anche antimaschilist*.

Certo, diventa dura. Come direbbero Totò e Peppino, Noio volevàn savoir quando metterlo e quando non metterlo questo temibile schwa. Car* Michel* Murgi*, la battaglia per abbattere l’impero linguistico maschile ha radici lontane, sicuramente lodevoli, ma bisogna considerare l’eterogenesi dei fini. Negli anni Settanta le commedie sexy sdoganarono per prime la dottoressa (La dottoressa nella corsia dei militari) e anche la soldatessa (La soldatessa alle grandi manovre), ma Alvaro Vitali che spia Edwige Fenech sotto la doccia non sembra questo gran campione di fluid gender.

Ma torniamo a bomb*. Direttore o direttora? Ministro o ministra? Sindaco o sindaca? Il dilemma della desinenza è un altro tema di grande attualità, tiene banco nei talk show al pari di quanti si possono sedere al ristorante; ma non potrebbe essere che, in alcuni lemmi, la desinenza sia di fatto unisex, non indichi il genere maschile ma l’unione fluida dei generi, gli esseri umani tutti, che sia dunque non solo da estirpare ma da proteggere come inclusiva con il ddl Zan?

Le parole sono importanti, ma anche le desinenze non scherzano, come ci ha insegnato Carlo Dossi. Quelli erano scrittori dell’altro secolo, direte voi, non solo maschilisti ma magari, sotto sotto, pure xenfobi e razzisti; ma è proprio questo l’aspetto più sconcertante dell* crociat* di Michel* Murgi* contro le desinenze. Il rapporto della letteratura con la lingua è per sua natura immaginifico, inventivo nel significante anche a costo di mandare il significato a quel paese. Basta pensare a Dossi ma anche a quel represso moderato di Carlo Emilio Gadda o a quel filo-nazi di Louis Ferdinand Céline. Invece adesso abbiamo Michel* Murgi*: come il suo amato general* Figluol*, anche lei vuole inoculare nella lingua il vaccino del politichese corretto, lo Schwa meglio dello Pfizer. Se a proporre una lingua in tuta mimetica non è un* general* ma un* scrittric*, vuol proprio dire che è cambiat* il mond*, che anche il pensier* unic* è superato, tanto presto sarà unic* la lingu*. Chissà se la moda lanciat* da Michel* Murgi* e da noi diligentemente sposat* in quest* articol* al di sopra di ogni sospett* si affermerà. Avanti così, e non potremo escluderlo, ma certo non ce lo auguriamo. Pier Paolo Pasolini identificava la fine della diversità, dello stupore e in ultima analisi della poesia con la scomparsa delle lucciole, oggi Michel* Murgi* suona la carica per la scomparsa delle desinenze.

 

Transizione eco-illogica del ministro Cingolani

In febbraio avevo espresso preoccupazioni per l’impostazione del nuovo ministero della Transizione ecologica. Ora le preoccupazioni si sono rivelate fondate, in tanti tra coloro che si occupano di sostenibilità ambientale assistiamo attoniti alla transizione eco-illogica. La cifra di Cingolani sembra essere l’addizione verde più che la sostenibilità ambientale. Una visione fatta esclusivamente di crescita e aggiunta di infrastrutture, siano pure grandi campi fotovoltaici ed eolici ma anche grandi investimenti su idrogeno grigio, blu e poco verde, fusioni nucleari ancora ben lontane dall’essere operative e impianti di cattura e stoccaggio del carbonio molto sperimentali e comunque ostinatamente fossili. Il problema è che manca del tutto una parte complementare e importantissima della transizione ecologica: fermare i processi che danneggiano irreversibilmente l’ambiente. Togliere e non solo aggiungere. Eliminare le cause della malattia e non solo alleviare i sintomi con medicine temporanee dai gravi effetti collaterali. Se si vuole ridurre in un colpo solo il rischio climatico e idrogeologico e la perdita di biodiversità ci sarebbe l’urgentissima necessità di una legge contro il consumo di suolo. È un’emergenza documentata da anni dagli stessi istituti di ricerca governativi (Ispra), che quantificano in circa due metri quadrati al secondo la cementificazione nazionale, con danni enormi sia ambientali, sia economici per tutto il Paese. La legge giace in Parlamento dal 2012 e nessuno la vuole approvare. I problemi ambientali sono capillari e diffusi sul territorio e crescono come le metastasi se non si arresta la causa, che sono gli immediati interessi economici individuali e corporativi privi di visione di futuro e di rispetto per i beni comuni. Ma troppo spesso ho sentito il ministro Cingolani parlare di compromessi tra ambiente ed economia, dove però pare avere sempre la meglio quest’ultima. L’emergenza climatica e ambientale è ormai attestata da migliaia di pubblicazioni scientifiche come drammaticamente grave e inedita, con rischi enormi per la sopravvivenza delle generazioni future. I tempi di reazione della politica sono lentissimi mentre si dovrebbe agire con la stessa determinazione che ha distinto le prime fasi della pandemia. Altro che compromessi! È l’economia che dovrebbe adeguarsi alle leggi fisiche che stiamo sfidando, non il contrario, e il ministro, data la sua formazione, dovrebbe saperlo. Non è possibile una crescita infinita in un pianeta finito, nemmeno la crescita verde (lo ha detto perfino l’Agenzia Europea per l’Ambiente). Avendo noi superato la capacità di carico del pianeta, ecco che non basta aggiungere qualcosa di verde, ma bisogna pure avere il coraggio di limitare, ridurre, eliminare i processi perniciosi, mettersi contro interessi predatori ed espansionistici. Puntare sulla manutenzione e l’efficienza dell’esistente invece che su nuove grandi opere. Altro che nuove linee Tav e ponte sullo Stretto, Cingolani ne parli con il collega Giovannini ministro delle Infrastrutture “sostenibili”. Altro che opposizione al bando europeo delle plastiche monouso. Quanto all’idea che la lentezza nei nuovi investimenti in energie pulite possa essere disinnescata dalla semplificazione normativa per i grandi impianti, anche passando sopra ai vincoli paesaggistici, ecco un’altra visione errata della sostenibilità: invece di puntare sui grandi impianti che spesso coprono grandi speculazioni, rilanciamo la capillare installazione sui milioni di tetti delle case, sui capannoni industriali, supermercati, parcheggi. Abbiamo in Italia 24.000 km2 di suolo costruito già compromesso, circa la metà sarebbe utilizzabile per il fotovoltaico con il vantaggio di permettere anche l’autoconsumo immediato dell’energia favorendo le comunità energetiche locali. Si tolgano gli eccessi di burocrazia e gli assurdi vincoli amministrativi per questi piccoli impianti (salvaguardando ovviamente gli edifici storici, che sono peraltro una minoranza rispetto alla orribile cementificazione post 1950) e vedrete che i cittadini italiani correranno come formiche operose a ricoprire di pannelli solari i loro tetti senza bisogno di ricorrere a grandi distese impattanti di “agrivoltaico” (quante edulcorazioni lessicali pur di nascondere la realtà…). Peccato che per fare la transizione ecologica non si interpellino gli ecologi. Fa di più papa Francesco: “La cultura ecologica non si può ridurre a una serie di risposte urgenti e parziali ai problemi che si presentano riguardo al degrado ambientale, all’esaurimento delle riserve naturali e all’inquinamento. Dovrebbe essere uno sguardo diverso, un pensiero, una politica, un programma educativo, uno stile di vita e una spiritualità che diano forma ad una resistenza di fronte all’avanzare del paradigma tecnocratico” (Laudato si’ 111).

 

Il bravo sceneggiatore, il medico e il lavoro trasformato in hobby

Negli anni 60, un celebre sceneggiatore di commedie all’italiana aveva appena completato il suo check-up annuale quando il medico della clinica convenzionata gli confessò, civettuolo: “Sa che scrivo anch’io? È un mio hobby”. “Ah sì? Articoli scientifici?” domandò l’altro, riabbottonandosi la camicia. “No, romanzi umoristici. Ne ho appena finito uno su un paziente con un’ulcera duodenale che scivola in bagno e si rompe un femore. Non sa le risate!” “Eh, immagino”. “Mi piacerebbe farglielo leggere. Potremmo ricavarne un film”. “Da dove verrà questo bisogno compulsivo dei medici di pasticciare con l’arte?” pensava lo sceneggiatore nel taxi di ritorno. “Perché così tanti medici dipingono, scrivono o suonano l’oboe nel tempo libero, come se quei campi non abbondassero di professionisti?”. Il tassista starnutì: “Mi scusi. Sono due giorni che ho il naso otturato” “È un raffreddore. Beva molta acqua, prenda due aspirine, e mi richiami domattina”, disse lo sceneggiatore, in vena di burle. Ma il tassista, avendolo caricato davanti a una clinica, equivocò, e non gli fece pagare la corsa: “Grazie, dottore”. E qui lo sceneggiatore capì che il caso gli aveva appena regalato la risposta perfetta ai medici che pasticciano con l’arte: la pratica medica come hobby. Non era del tutto impreparato, del resto. In tv aveva visto Alberto Lupo interpretare un medico, e a Carosello réclame di sciroppi che mostravano, stilizzati, lo stomaco e le cavità nasali. Dal dentista aveva letto articoli di Selezione che condensavano articoli di riviste scientifiche. E i suoi check-up annuali cos’erano stati, se non corsi serali su come si visita un paziente? Affittò dunque un piccolo studio dove ricevere i suoi malati. Dapprima si concentrò sulla sala d’aspetto: trovare settimanali vecchi di almeno 20 anni da mettere sul tavolinetto non fu facile, ma ci riuscì, e fu particolarmente orgoglioso di collocare in bella vista una Domenica del Corriere con copertina di Beltrame sull’avanzata in suolo etiopico. Attrezzata la sala d’aspetto, il primo paziente non si fece attendere. Era l’inquilino della porta accanto, il ragionier Piccioni: si era tagliato mentre sbucciava le carote e voleva un cerotto. Lo sceneggiatore lo fece accomodare e, scusandosi, si ritirò nello studio, a completare con calma un cruciverba. Poi tornò dal Piccioni. “Mi scusi se l’ho fatta aspettare. Un’emergenza”. Quindi gli osservò il tagliuzzo sulla falange: aggrottò le sopracciglia, annuì pensoso, disse “Mmmm”. Gli chiese se c’erano asmatici in famiglia, e se avesse mai sofferto di emorroidi. Poi, incerottato il dito, dimise il ragioniere con la sicumera del cerusico di lungo corso: “Torni domani. Gli daremo un’altra occhiata”. Il tempo lo affinò. Scriveva le ricette con la mano sinistra, in modo che fossero illeggibili come quelle di un primario: toccava al farmacista indovinare lo specifico, e i pazienti miglioravano. I casi dubbi li imputava a un virus, lasciando la chirurgia maggiore ai tecnici, dato che non c’erano manuali per il chirurgo cerebrale autodidatta. Peccato: avrebbe eseguito gli interventi a occhi socchiusi, tutto raccolto in se stesso, come se celebrasse un rito. La cosa più soddisfacente del suo hobby era quando in aereo la hostess domandava “C’è un medico a bordo?”; lui restava seduto in modo anonimo, ma con un sorrisetto compiaciuto; e i passeggeri intorno capivano. Il suo trionfo? Un giorno disse al suo medico che lo vedeva pallido, gli consigliò un viaggio ai Caraibi, e poco dopo ricevette una sua cartolina dalla Giamaica. Peccato che quello sceneggiatore sia morto prima della pandemia: in tv sarebbe stato un virologo perfetto.

 

Formigoni indigente e senza peccato

Per chi si fosse perso l’ultima straziante puntata di Non è l’arena, dobbiamo rendervi partecipi della terribile storia di Roberto Formigoni, un povero ex parlamentare e presidente di Regione preso di mira da decine di odiatori. Il motivo? Il Nostro si è sudato un vitalizio da circa 5mila euro lordi al mese. Gli era stato tolto perché condannato per corruzione, ma poi il Senato gliel’ha restituito. E per questo Formigoni è costretto a giustificarsi, come ha fatto l’altra sera con Peter Gomez: “Quella condanna è immeritata! Non hanno mai trovato una lira di tangenti”. E guai a smentirlo con le sentenze o ad argomentare che non dovrebbe più prendere il vitalizio: “L’autodichia ha stabilito che l’assegno mi spetta. Se non vi piace, cambiate la legge e fatemi morire di fame!”. Formigoni ne ha per tutti. Giletti dice che la decisione di 4 senatori non può essere equiparata alla Cassazione? “Vada a studiare!”. Pietro Grasso paventa che il vitalizio venga reso anche ai condannati per mafia? “Dice fregnacce”. E pensare che Formigoni era così un pezzo di pane: “Ho preso molti provvedimenti in favore delle famiglie povere”, ora invece “mi hanno portato via tutto”. O tempora o mores: non basta neanche più farsi corrompere per passare la vecchiaia santa in pace.

l’Huffington pone la fiducia su Renato

La domanda è impegnativa e se a porla è un noto giornalista va presa sul serio: “Perché dovremmo fidarci dell’Anac più che di Mario Draghi?”, si chiede Mattia Feltri sull’Huffington Post. Già, perché? Non c’è alcun motivo infatti. Il punto è se preoccuparsi o meno che l’Anticorruzione sia stata scippata delle sue competenze a favore del ministero della Funzione pubblica. Mica non si fanno più le verifiche, spiega Feltri “soltanto che le verifiche passano dall’Anac al governo (e precisamente al ministero di Renato Brunetta), per disincastrare un po’ la macchina”. Infatti in Italia non si fa nulla e gran parte del problema, com’è noto ai lettori del sito del gruppo Gedi, è l’Anac. Fortuna che ora c’è il “Nuovo Brunetta, socialista eterno”, come titola sempre Huffington: “Pacato, mediatore col sindacato. Il ministro incarna lo spirito di servizio del Recovery”. E il decreto che scippa l’Anac l’ha scritto lui e lui l’ha svelato al pubblico: “Vai, presentalo tu: nessuno può farlo meglio di te”, gli ha detto Draghi sempre secondo HP. E allora perché dovremmo fidarci dell’Anac più che dell’Huffington Post di cui si fida Brunetta di cui si fida Draghi? Con la proprietà transitiva s’arriva dappertutto…

Dhl, sequestrati 20 milioni: “Tasse evase e lavoratori sfruttati da finte cooperative”

Paghe basse, nessun controllo sui contributi previdenziali, Iva evasa per circa 20 milioni grazie a un triangolo societario dove le cooperative che forniscono lavoro sono solo “serbatoio di mano d’opera” mal pagata e i consorzi, anche se in perdita, “società filtro” che emettono fatture false al committente “dissimulando una mera somministrazione di manodopera non imponibile a fini Iva”. Ieri la Procura di Milano, grazie all’indagine della Guardia di finanza coordinata dal pm Paolo Storari, ha ottenuto il sequestro di 20 milioni a carico del committente, la Dhl Supply Chain (Dsc), società italiana direttamente riconducibile alla multinazionale tedesca della logistica. In una intercettazione agli atti, un manager di Dsc rispetto al rischio che emergano le perdite del consorzio “filtro” grazie all’intervento di un’analista evoca l’apertura “di un vaso di Pandora”. E aggiunge, confermando l’ipotesi dell’accusa, “no non è mio, mi dispiace. Quel personale è di Dhl”.

Secondo l’accusa, Dsc con i suoi vertici apicali (due indagati anche per la legge 231 sulla responsabilità amministrativa), “simulando contratti di appalto invece di contratti di somministrazione di mano d’opera, nelle dichiarazioni Iva” dal 2017 al 2020 “indicavano elementi passivi fittizi (Iva indetraibile) per un ammontare complessivo di 20,7 milioni”. “Tale sistema – si legge ancora – oltre che realizzare gravi condotte che agevolano lo sfruttamento dei lavoratori e che determinano pratiche di concorrenza sleale, comporta la emissione, prima e l’utilizzo, poi, di fatture per operazioni inesistenti”.

Il riferimento di Dsc è, per la Procura, sempre stato il Consorzio industria dei servizi con il quale ha firmato un appalto per la fornitura di lavoro solo fittizio e in realtà gestito, dalla stessa Dsc. Scrivono i pm: “Responsabili, a vario titolo, di Dsc danno specifiche disposizioni (…) rispetto alle risorse da impiegare per singolo reparto organizzativo, in violazione delle basilari disposizioni che disciplinano il contratto d’appalto, da ritenersi nel caso un mero schermo finalizzato a mascherare (…) la fornitura di manodopera non specializzata”. Dsc scrive così al presunto appaltatore: “Entro lunedì dobbiamo essere a pari. Per favore se serve lavoriamo anche domenica”. In altre email si lamenta del conteggio della pausa pranzo: “Possiamo escluderla (…)” .

Strage Stresa, tolto il caso alla gip Buonamici. Pm: “Ora il Riesame annulli le scarcerazioni”

Il provvedimento è motivato da ragioni di turni interni: il caso torna al magistrato titolare, Elena Ceriotti, sostituito al momento dei fatti perché fuori ruolo. L’esito è clamoroso: il presidente del tribunale di Verbania Luigi Montefusco ha tolto il fascicolo sulla strage della funivia Stresa-Mottarone a Donatella Banci Buonamici, il gip che aveva smontato le accuse della Procura e disposto la scarcerazione dell’imprenditore Luigi Nerini e del direttore d’esercizio Enrico Perocchio (rimandando ai domiciliari Gabriele Tadini, l’uomo che aveva confessato di aver disattivato il sistema frenante). Il procuratore Olimpia Bossi ieri ha annunciato la presentazione di un ricorso al tribunale del Riesame contro le scarcerazioni. In ballo c’è anche la decisione sull’istanza di incidente probatorio sulla rottura della fune traente dell’impianto, presentata dalle difese. Una proposta a cui la Procura si oppone perché “in questa fase pregiudicherebbe in modo grave le indagini”. Ieri, nel frattempo, è stato deciso che la cabina sarà rimossa dal luogo dell’incidente con un elicottero.

Brusca ieri in video da un luogo segreto

Giovanni Brusca, lo scannacristiani o u verru (il porco), il boss stragista poi diventato collaboratore di giustizia, da alcuni giorni è un uomo libero, ma ieri ha voluto lo stesso seguito l’udienza del processo Trattativa Stato Mafia. Da “una località segreta” si è collegato in video conferenza con l’aula bunker Pagliarelli, per seguire la requisitoria dei magistrati della corte d’appello di Palermo Giuseppe Fici e Sergio Barbiera. Anche il boss di San Giuseppe Jato era tra gli imputati, prima che la prescrizione facesse cadere l’accusa di violenza o minaccia al corpo politico, amministrativo o giudiziario dello Stato. Nelle oltre 5 mila pagine della sentenza di primo grado, i giudici scrivono che Brusca si era “dissociato dai correi mafiosi sin dal 1996, e sia pure dopo un inizio travagliato, ha intrapreso sempre più decisamente la via della collaborazione con la giustizia”. Inoltre, “ha fornito un importantissimo contributo, svelando, già nell’agosto 1996 la minaccia mafiosa e fornendo elementi decisivi per la più complessa ricostruzione dei fatti e per l’individuazione di alcuni degli autori”, “primi fra tutti Salvatore Riina, Bernardo Provenzano e Leoluca Bagarella”.

Il boia del piccolo Giuseppe Di Matteo, è stato il primo a parlare della Trattativa tra pezzi dello Stato e la mafia: “Totò Riina mi disse che aveva fatto un papello di richieste dirette a una persona che non so indicare e che si attendevano risposte. Si tratta della vicenda dei contatti con lo Stato”.

“Ci fu trattativa Stato-mafia. Condannare Dell’Utri & C.”

Ufficiali dei carabinieri e politici del calibro di Marcello Dell’Utri “hanno intavolato una illecita interlocuzione con esponenti di vertice di Cosa Nostra per interrompere la strategia stragista, e questa è una verità inconfessabile che è dentro lo Stato e che tuttavia non scrimina esecutori e mandanti istituzionali perché come ha detto il presidente della Repubblica, o si sta contro la mafia o si è complici”. Pronunciate dal procuratore generale Sergio Barbiera nell’aula bunker di Pagliarelli, le parole del capo dello Stato Sergio Mattarella arrivano a sigillo di tre udienze di requisitoria concluse dalla richiesta alla Corte di assise di appello di confermare le pesanti condanne di primo grado nell’ambito del processo sulla trattativa Stato-mafia: 28 anni per il boss Leoluca Bagarella, cognato di Totò Riina, 12 anni per l’ex senatore Marcello Dell’Utri (fondatore di Forza Italia con Silvio Berlusconi), e Nino Cinà, medico dei padrini Riina e Bernardo Provenzano. E per Mario Mori e Antonio Subranni (12 anni), e Giuseppe De Donno (8 anni), gli ufficiali dei carabinieri che rivolgendosi a Vito Ciancimino nel giugno del ’92 avviarono la trattativa dagli esiti, per i due pg, Barbiera e Giuseppe Fici, devastanti: “Le stesse menti raffinatissime che avevano sostenuto la coabitazione tra il potere criminale e le istituzioni, avviando la trattativa, consentono a Riina di dire che lo Stato si è fatto sotto – ha detto Fici – ma questo induce ulteriore violenza. Poi una volta arrestati Riina e i fratelli Graviano (le stesse menti raffinatissime, ndr) garantiscono una latitanza protetta per lo ‘zio’, Bernardo Provenzano. Nel frattempo nasce Forza Italia”. Il cui fondatore, Dell’Utri, per i due pg ha un “ruolo decisivo”: “In questa situazione di convivenza gattopardesca – ha aggiunto Fici – Dell’Utri che ha curato la tessitura dei rapporti tra Cosa Nostra e ’ndrangheta con il potere politico. E lo stesso Berlusconi chiamato a testimoniare sull’argomento quando era premier, si è avvalso della facoltà di non rispondere. Un suo diritto, ma di certo ci si aspettava un contributo diverso su questo argomento”.

Per spiegare ai giudici quella “convivenza gattopardesca” Fici parte dalle indagini sull’omicidio Impastato e dai rapporti dell’ex generale Subranni con “gli esattori mafiosi Ignazio e Nino Salvo”, “Vito Ciancimino”, “Calogero Mannino” e dal rapporto “intenso con il presidente del Consiglio Giulio Andreotti”. È stato il pentito Franco Di Carlo a dire che “Subranni era stato interessato a svolgere in una certa maniera le indagini sulla morte di Peppino Impastato su sollecitazione dei cugini Salvo”. Indagini, ha ricordato il pg, archiviate con l’ipotesi che Impastato fosse rimasto ucciso durante un atto terroristico da lui stesso compiuto. “Giusto per restituire l’onore che merita l’Arma”, il pg ricorda la nota redatta dall’ex colonnello Andrea Castellani che nel 1984 aveva chiesto di “riaprire le indagini” sulla morte di Impastato, come un “impegno d’onore che deve riscattare la serietà e professionalità portando chiarezza”. “Serietà e professionalità – ha aggiunto Fici – che era andata a farsi benedire nei giorni in cui avrebbe dovuto essere espressa al massimo livello”.

E se la vicenda “mafia e appalti” ritenuta “poco significativa” dai giudici di primo grado viene considerata “poco necessaria” anche dall’accusa in appello, i due pg sottolineano un comportamento “inspiegabile” dei giudici del processo Mannino, che quella vicenda considerarono, al contrario, determinante ai fini della doppia decisione assolutoria dell’ex ministro: al centro un’ordinanza del gip di Caltanissetta che avrebbe dovuto confutare la teoria della “doppia refertazione” del noto rapporto del Ros, consegnato il 20 febbraio 1992 a Falcone, ancora in Procura a Palermo e in procinto di trasferirsi a Roma, in via Arenula.

Quell’ordinanza “non era agli atti”, eppure, ha detto Fici, “il giudice di primo grado si è pronunciato anche sulla base di quell’atto”. E la Corte d’appello “paradossalmente ha ritenuto quell’ordinanza a tal punto rilevante che ha interrotto la requisitoria del pg, peraltro senza alcun intervento della difesa di Mannino che non aveva interesse a enfatizzare la discussione, formulando un invito alle parti a produrre l’ordinanza, sostenendo che l’atto in questione ‘inspiegabilmente’ non era agli atti. Ma non ha ritenuto inspiegabile che il giudice di primo grado si sia espresso su un atto che non era in atti”. Alla fine la Corte ha invitato le parti a produrre il documento, “e se il pg non aveva potuto adempiere alla richiesta, – ha aggiunto Fici – fortunatamente era a disposizione della difesa dell’on. Mannino. Da tale ordinanza si ha palmare contezza della doppia refertazione”. E ha concluso: “In questa vicenda più che le testimonianze contano i documenti. Nella relazione depositata da alcuni pm di Palermo alla commissione antimafia del 1998 (che riproduce una prima relazione del ’92 inviata al Csm) emerge chiaramente che nella prima informativa del Ros erano stati omessi i nomi dei politici, Rino Nicolosi, dell’allora ministro Calogero Mannino e Salvo Lima che poi sono apparsi solo un anno e mezzo dopo”.