Brevetti, l’Ue propone ciò che già c’è e non va

La proposta Ue per agevolare le licenze obbligatorie per i vaccini Covid-19, che sarà discussa oggi e domani al WTO, è retorica politica che non risolve le carenze di approvvigionamento nel Sud del mondo. Questa almeno è l’opinione di numerosi esperti di diritto e commercio internazionale: ” La mossa della Commissione europea non è altro che una tattica diversiva per bloccare i negoziati sulla richiesta di Sudafrica e India volta a sospendere i brevetti sulle tecnologie sanitarie per combattere il virus ”, accusa Brook K. Baker, Professore al Northeastern di Boston. U. School of Law and Health GAP (Global Access Project) Senior Policy Analyst.

L’Ue, insieme a Regno Unito e Svizzera, si oppone a una deroga generalizzata alle regole del Trattato che tutelano la proprietà intellettuale (TRIPs). L’iniziativa, prevista dall’art. 9 dell’Accordo di Marrakesh che nel 1994 ha istituito il WTO, sta guadagnato terreno grazie al supporto recentemente annunciato da Stati Uniti e Cina. E ora l’esecutivo di Bruxelles, insieme ai 27 Stati membri che con esso concordano la posizioni comuni da presentare in sede WTO, cerca di correre ai ripari.

Il testo di compromesso, reso noto venerdì scorso, ha scavalcato lo stesso Parlamento europeo, che voterà alla Plenaria di mercoledì sul controverso tema dei brevetti, pur avendo in tema commerciale solo un ruolo consultivo. Sfuma così l’appello degli eurodeputati – in particolare quello di Tiziana Beghin, capo delegazione del Movimento 5 Stelle – che chiedevano alla Commissione di tenere conto del parere dell’Europarlamento nella sua posizione ufficiale.

“Tutto ciò che offre il piano Ue è già chiaramente autorizzato dall’Accordo TRIPs e dall’annessa Dichiarazione di Doha”, spiega Brook. Già secondo le disposizioni vigenti, i Paesi che hanno bisogno di importare medicinali da terzi possono definire cosa costituisca un’emergenza (e il Covid-19 certamente lo è), non devono tentare di negoziare accordi volontari con i titolari dei brevetti prima di ricorrere alle licenze obbligatorie in caso di emergenze sanitarie e devono in ogni caso pagare royalties adeguate.

Insomma, l’Ue si limita a suggerire chiarimenti interpretativi che, peraltro, potrebbero risultare controproducenti: “Vi è il rischio che durante le trattative le flessibilità previste attualmente dal TRIPs possano essere ulteriormente ridotte perché, di fatto, l’Ue propone agli altri membri del WTO di discutere questioni precedentemente concordate, il che rischia di riaprirle”, dichiara Ellen ‘t Hoen, Direttrice del centro studi Medicines Law & Policy. Altra raccomandazione ridondante nel documento della Commissione è che, nelle circostanze di una pandemia, un produttore terzo possa elencare in un’unica notifica al WTO tutti i Paesi dove intende esportare le dosi da produrre tramite licenze obbligatorie. “Non c’è nulla nella formulazione dell’articolo 31 bis del TRIPs (che regolamenta le licenze obbligatorie per l’esportazione) che impedisca notifiche per conto di più Paesi importatori ”, commenta Brook.

Inoltre, le misure indicate dall’Ue non sarebbero automaticamente attuabili. A oggi, molti Paesi non hanno recepito le norme dell’articolo 31 bis e dovrebbero farlo ora. C’è di peggio. A causa del numero di componenti brevettati utilizzati nei vaccini (in particolare quelli basati sull’avanzata tecnologia mRNA) e delle forniture limitate, potrebbe essere necessario richiedere innumerevoli licenze in diversi Paesi solo per accumulare i pezzi necessari per fabbricare le dosi vaccino destinate ai paesi bisognosi.

Infine, a differenza dell’esenzione generale respinta dall’Ue, le licenze obbligatorie non comportano il rilascio di informazioni riservate, segreti commerciali, dati normativi e materiali biologici. Questi elementi sono fondamentali affinché i produttori terzi abbiano accesso al know-how necessario per avviare le loro attività produttive. Senza contare che ciascuna notifica di export deve specificare le quantità esatte, pertanto sarebbero necessarie ulteriori notifiche per ogni consegna. Inoltre, i Paesi importatori dovrebbero coordinarsi per garantire una domanda sufficiente per incentivare un produttore terzo ad avviare la pratica per ottenere il rilascio delle diverse licenze necessarie.

“L’Ue pretende che questi problemi di notifica e cooperazione non esistano e che le flessibilità TRIPs esistenti siano sufficienti, quando invece non lo sono”, puntualizza Brook. Oltre a non presentare elementi di novità, la semplificazione proposta dall’Ue risulta insufficiente a far fronte in tempi rapidi a una sfida globale come l’attuale pandemia, perché il ricorso alle licenze obbligatorie implica ritardi e complesse procedure amministrative che dipendono da ciascuna legislazione nazionale”, conclude Sara Albiani, consulente internazionale sulla salute della Ong Oxfam.

Consigliato per over 60, dato ai giovani. Perché?

Non sono bastati due interventi chirurgici, uno per rimuovere il trombo cerebrale e l’altro per ridurre la pressione cranica provocata dall’emorragia. La diciottenne ricoverata al San Martino di Genova, colpita da trombosi del seno cavernoso dopo la prima dose di AstraZeneca, ieri mattina era in condizioni “stabili nella loro gravità”. È in rianimazione, prognosi riservata.

Aveva assunto un farmaco ormonale che non si esclude possa aver contribuito alla reazione avversa, la quale, però, somiglia a quelle verificatesi in centinaia di persone in Europa, 34 in Italia al 26 aprile scorso secondo il Quarto rapporto sui vaccini anti-Covid 19. Oggi o domani uscirà il Quinto con i dati al 26 maggio. Un’altra donna, lucchese, 42 anni, è in rianimazione all’ospedale Cisanello di Pisa dopo un ictus: vaccinata con AstraZeneca il 26 maggio. Anche lei operata due volte. Come la diciottenne, era “volontaria” all’Open Day.

La protesta: mancano indicazioni sui rischi

Come è noto, dopo le prime trombosi, a marzo, l’Agenzia del farmaco Aifa e il ministero della Salute hanno raccomandato AstraZeneca agli over 60, benché sia autorizzato dall’Agenzia europea Ema dai 18 anni in su. Hanno fatto scelte simili Francia e Germania mentre Austria, Danimarca e altri Paesi hanno eliminato il vaccino anglo-svedese e gli Usa non l’hanno mai autorizzato. Le fiale di AstraZeneca rimanevano inutilizzate e così, dal Lazio all’Alto Adige e alla Liguria, si sono organizzati Open Day per smaltirle, anche su giovanissimi, purché “su base volontaria”. Chi preferisce aspetta Pfizer/Biontech o Moderna.

“Siamo contrari agli Open Days AstraZeneca perché la somministrazione di questo vaccino ai soggetti minori di 40 anni, in particolare di sesso femminile, potrebbe comportare più rischi che benefici”, scrivono in una lettera durissima 24 medici vaccinatori volontari di Genova. Tra loro Anna Rubartelli che insegna Ematologia al San Raffaele di Milano, l’endocrinologo Marcello Bagnasco dell’Università di Genova, Paola Minale ex direttrice di Allergologia del San Martino, Enrico Haupt già direttore della medicina generale all’ospedale di Lavagna (Genova). Si muove anche Alessandro Bonsignore, presidente dell’Ordine dei medici di Genova: “Senza una voce scientifica unica, la vaccinazione con AstraZeneca è diventata una scelta politica che rischia di creare panico”.

Il vaccino anglo-svedese a vettore virale, spiegano i 24 medici genovesi, “ha un punto debole, assente nei vaccini a Rna: può causare una trombosi venosa associata a diminuzione delle piastrine, che si presenta a distanza di 5-15 giorni e può avere esito fatale. Questa complicanza è stata descritta in soggetti dai 20 ai 55 anni, ma le persone di gran lunga più colpite sono le giovani donne”. Per questo, “disapproviamo con forza il tipo di campagna intrapresa dagli organi governativi delle Regioni, perché non mette correttamente in guardia i giovani dai rischi, per bassi che siano, e approfitta del loro lecito desiderio di riprendere una vita ‘normale’, e avere un pass che permetta loro di muoversi per lavoro o per studio, o di andare in vacanza (…) forse per utilizzare le dosi di AZ conservate nei frigoriferi perché rifiutate dagli ultrasessantenni, che correrebbero rischi trascurabili. Siamo sconcertati perché i medici vaccinatori non hanno ricevuto indicazioni di spiegare correttamente ai giovani vaccinandi il possibile rischio”. I 24 medici chiedono di “aspettare ancora poco tempo e i giovani potrebbero avere accesso ad altri vaccini. Il governo centrale dovrebbe però bloccare i prossimi Open day che rischiano di attirare altri giovani”. Un tavolo tecnico regionale doveva elaborare linee guida sul rischio trombi, ma il documento non è mai stato definito.

La lettera è stata inviata ai gruppi di opposizione liguri, si preparano interrogazioni al presidente Giovanni Toti. Iniziative simili, anche per i ragazzi che attendono la maturità, sono state avviate in altre Regioni. All’ufficio del commissario straordinario, generale Francesco Paolo Figliuolo, spiegano che le decisioni spettano all’Aifa e al ministero della Salute, dove per il momento non cambia nulla sugli Open Day.

A Genova il procuratore aggiunto Francesco Pinto e il pm Stefano Puppo hanno aperto un fascicolo, al momento senza ipotesi di reato, sul caso della diciottenne. Aveva fatto la prima dose il 25 maggio. Il 3 giugno è andata al Pronto soccorso del San Martino: ha detto di avere mal di testa, la Tac era negativa e l’hanno rimandata a casa. Il 5 giugno è tornata con un’emiparesi. I magistrati valuteranno anche questo. A Lucca c’è un esposto dei familiari della 42enne.

I pm aprono un fascicolo in Uk i casi aumentano

La trombosi cerebrale, associata o meno al calo delle piastrine che si osserva in 18 dei 34 casi italiani al 26 aprile, va presa in tempo. Una nota condivisa da Aifa con le agenzie europee invita a “consultare immediatamente un medico” all’insorgere di una serie di sintomi, tra cui “cefalea severa e persistente”. Alla ragazza ligure non è bastato, vedremo perché.

I casi di “trombosi venose in sedi atipiche” con “trombocitopenia” sono rarissimi. “Però in una vaccinazione di massa – scrivono i 24 medici genovesi – può causare un numero significativo di morti, anche in soggetti che, per sesso ed età, hanno un rischio praticamente nullo di morire per Covid”. Peraltro, “se nei primi studi la frequenza era stimata 1:100.000, l’analisi dei dati forntiti dall’Agenzia del Farmaco e dal Servizio sanitario inglesi suggerisce una maggiore incidenza”. L’ultimo report britannico dice 309 su 23,9 milioni di prime dosi, quasi 1,3 su 100 mila. Da noi i 34 al 26 aprile equivalevano a 0,45, “dato che potrebbe risentire della minor rappresentatività del campione italiano”, come osservava il Gruppo di lavoro Emostasi e Trombosi coordinato da Valerio De Stefano, professore di Ematologia al Gemelli di Roma.

Mafia, toghe e condannati: Salvini si è berlusconizzato

Aguardarli bene, i nuovi referendum anti-pm sono un mostro a tre teste, non due. Cioè: i capoccioni di Matteo Salvini e Pannella buonanima. E poi quello di Silvio Berlusconi. Ché adesso che tra l’uomo del Papeete e il Pregiudicato azzurro è di nuovo esploso l’amore sotto forma di federazione o di che cavolo sarà (l’incontro è previsto domani, sempre che sia decisivo), il risorgente forzaleghismo si fonda sull’antico obiettivo di B. al momento della fatidica discesa in campo: l’impunità e quindi la lotta feroce ai magistrati.

Ed è per questo che le affinità elettive della destra di governo vanno in una direzione non basata sulla forza dei numeri: la berlusconizzazione di Salvini e non viceversa, la salvinizzazione di Berlusconi. La maschera del Caimano, in fondo, è quella che aderisce meglio al volto cangiante del leader leghista, passato dal comunismo padano al sovranismo clericale nella sua lunga parabola di professionista della politica. Da quelle parti, a destra, non è una novità: prima o poi il Berlusconi che è dentro ogni capo e capetto viene gaberianamente fuori.

I referendum, dunque. Salvini li ha presentati insieme agli eredi pannelliani e il quesito più dirompente tra i sei illustrati ha un’evidente matrice gelliana. Dal Piano di Rinascita democratica della Loggia P2: “Riforma dell’ordinamento giudiziario per ristabilire criteri di selezione per merito delle promozioni dei magistrati, imporre limiti di età per le funzioni di accusa, separare le carriere requirente e giudicante, ridurre a giudicante la funzione pretorile”. Adesso anche Salvini vuole separare le carriere dei magistrati (oltre ad abolire la legge Severino sui politici condannati) e questo era, appunto, un pallino del Venerabile Licio Gelli poi ripreso Bettino Craxi e lo stesso Berlusconi.

Tutto torna. Andiamo avanti.

Dopo la controversa liberazione di Giovanni Brusca, in base alle norme volute da Giovanni Falcone sui collaboratori di giustizia, il condottiero del Carroccio in crisi di consensi ha detto che “è ora di cambiare la legge sui pentiti”. Oggettivamente un chiaro segnale a certi ambienti. Basta ricordare quello che andava dicendo Marcello Dell’Utri, l’ambasciatore azzurro presso le cosche: “Io ho un evidente conflitto d’interesse, ma si dovrebbe modificare la legge sui pentiti” (novembre 2009). Del resto la Lega in Sicilia sta attingendo all’esperienza gattopardesca dell’universo di Totò Cuffaro, l’ex presidente della Regione condannato pure lui per mafia. L’ultimo caso è recente e lo ha rivelato il Fatto il 30 maggio scorso: Benedetto Mineo, già capo di gabinetto di Cuffaro e proveniente da una storica famiglia democristiana, è stato nominato nuovo segretario generale dello Sviluppo Eeconomico. A intestarsi Mineo è stato il ministro Giancarlo Giorgetti, di fatto il numero due della Lega nonché il fautore di un consociativismo eterno alla Gianni Letta.

Piemme e mafia. Ma anche condannati. La normalizzazione berlusconiana di Salvini riguarda il crescente numero di condannati e inquisiti della Lega. Non è una novità, senza contare che il suocero in pectore del bevitore di mojito è Denis Verdini, già regista del renzusconismo e oggi agli arresti domiciliari per la bancarotta della sua banca toscana. E la recente sentenza milanese di primo grado sui contabili della Lega, Alberto Di Rubba e Andrea Manzoni, investe le radici del nuovo partito di Salvini, che ha mollato giuridicamente la vecchia struttura bossiana per il noto mistero dei 49 milioni spariti e truffati allo Stato, secondo le varie inchieste in corso.

Di Rubba e Manzoni sono stati condannati, rispettivamente, a 5 anni a 4 anni e 4 mesi per il caso della fondazione regionale Lombardia Film Commission e i due avrebbero preso soldi come “ricompensa per rischiosi servizi”. Salvini ha incassato la sentenza facendo finta di nulla e approfittando della rinnovata gazzarra trasversale su garantismo e gogne mediatiche. Il clima ideale, peraltro, per coltivare silenzi inciucisti e crociate contro la magistratura. Enrico Letta, per esempio, ha smentito chiamarsi di “Salvetta” per i punti di contatto tra la riforma della giustizia che vuole il Pd e le rivendicazioni leghiste. Oggi a dividerli è il referendum, ma domani chissà. Il draghismo è un fenomeno indecifrabile e quello che succederà nel febbraio del prossimo anno, per la successione a Mattarella, non è prevedibile. Nel frattempo Silvio Berlusconi e Matteo Salvini si tornano ad amare ed è il secondo ad assomigliare sempre più al primo.

Big e tante donne nella segreteria 5S (Di Maio ci entrerà)

L’avvocato che è l’ultima speranza di un Movimento ha doppiato lo scoglio chiamato Casaleggio, un cognome che era la storia e soprattutto la legge per i 5Stelle. Però adesso che è in mare aperto, Giuseppe Conte dovrà cambiare andatura, dovrà correre: ma senza lasciare indietro nessuno. Per questo pensa a una segreteria larga dove raggrumare tutte le anime del M5S, e nella quale pare scontata l’entrata di Luigi Di Maio, l’ex capo da ascoltare (e marcare). E anche per questo l’avvocato si manifesterà “nei territori”, per dirla alla grillina vecchia maniera. Cioè nelle città e nelle regioni dove il M5S pare lontanissimo, un’entità che gli eletti locali non capiscono più da tempo. Sono queste le coordinate della rotta per il rifondatore Conte, che ora lavora a un’assemblea generale a Roma, probabilmente in una piazza, per lanciare e spiegare il suo progetto. “Ma prima bisogna attendere il trasferimento dei dati degli iscritti da Rousseau”, spiegano dal Movimento. Una volta verificato che tutti i dati saranno arrivati, si potrà stabilire il giorno dell’assemblea. Ma bisogna fare in fretta, perché Conte ha promesso le votazioni online per la sua investitura e per approvare Statuto e Carta dei valori entro fine mese. Però, per votare, gli iscritti devono avere un preavviso di due settimane. Ergo, l’evento andrebbe tenuto entro una decina di giorni. Archiviata, pare, l’originaria location di Cinecittà, si cerca una piazza romana. Tra le ipotesi, vagliato anche il Circo Massimo, teatro di due edizioni di Italia5Stelle: ma sembra un’opzione scartata. Quanto alla data, “non sarà necessariamente un fine settimana”.

Nell’attesa però Conte ragiona anche sul nuovo organigramma. Ossia innanzitutto su una segreteria. Secondo le indiscrezioni, con molte donne. Si fanno i nomi dell’ex ministra Lucia Azzolina e dell’attuale viceministra al Mise, Alessandra Todde. Ma anche la viceministra all’Economia Laura Castelli, dimaiana di ferro, è una possibilità. Come è un’opzione anche l’attuale reggente, Vito Crimi. Nel post di sabato sull’accordo con Casaleggio, Conte lo ha ringraziato con un calore che è stato notato nel M5S. E anche se le fasi finali della trattativa con il manager sono state seguite dall’ex premier in persona, il fatto che il reggente non si sia “mai risparmiato” potrebbe avere un peso nella nuova squadra, dove ci saranno anche nomi non noti, per rappresentare tutte le anime dei grillini. Continua a far discutere, nei gruppi parlamentari, l’annosa questione del finanziamento: il nuovo sistema di restituzioni prevede una quota fissa (circa 1.000 euro) da destinare al partito che – almeno nella fase iniziale – verrà destinata anche al ripianamento dei debiti da saldare con Casaleggio. Di fatto, chi è sempre stato in regola con il versamento dei 300 euro a Rousseau si troverà a pagare due volte. Resta aperto anche il tema degli espulsi, ovvero della pattuglia cacciata per non aver votato la fiducia al governo Draghi. Un sostegno, quello all’esecutivo, che per il futuro leader M5S non è in discussione, pur con dei paletti da ripiantare – di cui ha discusso ieri una riunione da remoto con parlamentari e ministri – , a cominciare dai temi del lavoro e dell’ambiente, che sarebbero centrali per i giallorosa. Non a caso ieri il deputato di Leu Stefano Fassina ha rilanciato l’idea dell’intergruppo parlamentare tra Pd, M5S e sinistra. Ci provarono (invano) a governo appena insediato. Ora potrebbero ritentare.

“Con Conte faremo sentire di più la nostra voce dentro al governo”

La veterana che è anche ministra riemerge dalla milionesima call. E ostenta sollievo: “Per fortuna ora potremo dedicarci ai temi. Compresi i giovani, di cui finalmente la politica è tornata a occuparsi”. Una buona notizia per la 5Stelle Fabiana Dadone, ministra delle Politiche giovanili. Ma adesso la prima urgenza per i grillini è la rifondazione di Giuseppe Conte.

La guerra con Casaleggio si è finalmente conclusa, e ora Conte potrà partire con il nuovo M5S. Ma scorie e cicatrici sono evidenti: lei cosa prova?

Sono un po’ dispiaciuta, perché abbiamo vissuto momenti sicuramente non belli. Ma ora Conte potrà partire, e questo è positivo non solo per il Movimento ma per il Paese.

L’ex premier rappresenta l’ultima speranza per voi Cinque Stelle, o no?

No, è una prima e ottima scelta. È lui ad avere traghettato il Paese fuori della pandemia nella fase più difficile. E adesso potrà mettere ordine nel M5S.

In concreto, cosa dovrebbe fare?

Il primo punto è ristabilire un rapporto con la base e con gli attivisti, che in questi anni di governo si è un po’ allentato. E poi ci sono i temi del Movimento da portare avanti. Stando al governo abbiamo realizzato molti punti di programma, dal reddito di cittadinanza alla legge anti-corrotti, ma bisogna proseguire.

Difficile, nel governo Draghi. State molto stretti, non crede?

Noi avevamo faticato anche nel primo governo Conte, con la Lega, e nel Conte II con il Pd. Siamo nati con l’idea di stare da soli, e ci siamo dovuti adattare.

Con Draghi i partiti non toccano palla, non crede?

Noi dovevamo entrare in questo governo, per monitorare e imporre i nostri temi.

Così hanno deciso i nostri iscritti. Dopodiché ora con Conte alla guida potremo far sentire più forte la nostra voce sulle nostre battaglie, dentro e fuori il governo. Prima lui doveva dedicarsi molto ai dati degli iscritti e a vicende del genere.

Su temi come la transizione ecologica e la giustizia dovrà faticare parecchio, a naso.

Siamo stati noi del Movimento a chiedere e ottenere un ministero apposito. Ma è chiaro che su temi come la giustizia, e penso in particolare alla riforma della prescrizione, la nostra linea è mantenere quei provvedimenti.

Rimarrete nel governo Draghi?

Sì, dobbiamo lavorare per far sì che l’occasione delle risorse del Recovery Plan venga sfruttata. E per difendere i nostri provvedimenti.

Intanto l’asse del Movimento si è spostato verso il centrosinistra. Che ne pensa?

Questo è un ragionamento che vale per le Amministrative, dove per competere è necessario allearsi. Ma noi siamo nati post-ideologici, e queste scelte vanno valutate territorio per territorio.

Bisognerà allearsi anche in vista delle Politiche.

(Sorride, ndr) Valuteremo quando sarà necessario.

Nell’attesa Conte ha rinviato la decisione sul vincolo dei due mandati, un nodo centrale per molti eletti del Movimento. Lei che opinione ha al riguardo?

Per me il ricambio in politica serve, anche come segnale verso i cittadini. Ma come ha detto Conte se ne discuterà con gli attivisti, e mi atterrò a quanto verrà deciso.

Che tipo di segreteria si aspetta? Con molte donne?

È un fatto che do per scontato, perché noi Cinque Stelle siamo sempre attenti a dare piena rappresentanza a tutti.

Lei entrerebbe?

Mi sento già gratificata dal ruolo di ministro, non ho desideri da realizzare. Se si ponesse il tema valuterei. Ma ci sono tante donne meno conosciute di me che farebbero molto bene.

 

Nel tessile rischiano in 140mila. Ma Bonomi parla di “miracolo”

Malgrado la Confindustria tenti di sterilizzare il dibattito con previsioni ottimistiche sugli effetti dello sblocco dei licenziamenti, il 30 giugno si avvicina e il primo settore a subire il colpo di martello sarà il tessile. Il settore moda, infatti, non conta di tornare a vedere la luce prima del 2022, per questo i sindacati temono la perdita di 140 mila posti di lavoro solo tra abbigliamento, pelli, calzature e occhialeria. La posizione della Lega è ancora difficile da decifrare, perciò non è chiaro quante possibilità di successo abbia l’ipotesi di proroga selettiva. Che comunque sarebbe ancora troppo poco per alcuni pezzi della maggioranza. Dopo aver visto in mattinata i sindacati, i parlamentari M5S hanno rilanciato sull’estensione del blocco per altri mesi: “Necessario prima riformare gli ammortizzatori sociali e le politiche attive”, hanno spiegato preannunciando emendamenti al decreto Sostegni bis. Anche il Pd sentirà i sindacati: le consultazioni sono state interrotte per la notizia della morte di Guglielmo Epifani. “Ho visto che si sta facendo strada un ragionamento sulla selettività rispetto ad alcune filiere. Se questo ragionamento c’è io sono pronto”, ha detto il ministro Andrea Orlando.

La Confindustria non ne vuole sapere. Il presidente Carlo Bonomi si è scagliato contro le stime pervenute dagli ambienti sindacali: “Vengono fatte solo per diffondere paura”, ha tuonato. “Io credo che ci siano le condizioni per un piccolo miracolo economico, sfonderemo un aumento di Pil del 5%”, ha aggiunto. Per Confindustria, a rischiare il posto dal primo luglio sarebbero massimo 100 mila dei 4,5 milioni di addetti di industria ed edilizia, che diventeranno “licenziabili” tra 22 giorni. Ma si potranno gestire accompagnandoli al pensionamento, è sicuro Bonomi che pare eccedere nell’ottimismo. Solo il sistema moda, infatti, occupa oggi 700 mila persone nella parte industriale. Nel tessile, appena il 21% delle aziende ha detto di avere fatturati in crescita rispetto al 2020. “Noi pensiamo che rischi il 20% della forza lavoro”, fa i conti Sonia Paoloni della Filctem Cgil. In questi giorni, per esempio, Valentino ha deciso di chiudere le linee Polar e Red: quasi 200 esuberi. Il 22 giugno, tra l’altro, i 450 mila del tessile saranno in sciopero perché le trattative sul rinnovo del contratto sono ferme. Le aziende non vogliono concedere aumenti perché la situazione è ancora grave.

Allargando all’intera economia, il blocco dei licenziamenti ne ha evitati finora 360 mila “fisiologici”, cioè quelli che contiamo ogni anno, ai quali andrebbero aggiunti quelli indotti dalla crisi sanitaria, almeno 200 mila secondo la Banca d’Italia. Attualmente le norme stabiliscono questo: dal primo luglio potranno licenziare le imprese di industria e costruzioni, a meno che non chiedano la cassa integrazione gratuita; in tal caso, potranno tagliare organico solo quando finiscono di utilizzarla. Nel Consiglio dei ministri sul decreto Sostegni bis, Orlando era riuscito a inserire un’altra mini proroga al 28 agosto per quelle che avessero usato la cassa Covid entro giugno. La reazione della Confindustria ha costretto il governo a un imbarazzante passo indietro. Per le aziende che non hanno a disposizione la cassa integrazione ordinaria, commercio, servizi, turismo e piccole imprese, il termine è il 31 ottobre. Allora, si spera, dovrebbe essere arrivata la riforma degli ammortizzatori sociali. Ma la discussione non è a buon punto, lo scontro è su quanto generosi potranno essere la cig universale e l’assegno di disoccupazione e soprattutto su chi dovrà pagare gli aumenti contributivi per finanziarli, con le imprese che si smarcano. Il pericolo è arrivare al liberi tutti dei licenziamenti senza adeguati paracadute i lavoratori. Una bomba sociale per i più giovani: a meno che non si riesca a risolverle tutte tramite pre-pensionamenti, nelle ristrutturazioni aziendali la legge impone di tagliare prima i neoassunti, con meno anzianità e senza carichi famigliari. Dato che gli attuali sussidi di disoccupazione hanno durata legata alla carriera contributiva, molti degli espulsi dalle aziende si potrebbero trovare senza reddito nel giro di pochi mesi.

Battaglia sulla norma che dimezza l’Anac: si studia il dietrofront

Il verdetto lo si conoscerà soltanto oggi, quando il testo del decreto sul reclutamento nella Pubblica amministrazione in vista del Pnrr sarà pubblicato in Gazzetta Ufficiale. Palazzo Chigi assicura che “non saranno e non sono mai stati intaccati i poteri di indirizzo e vigilanza dell’Anac”. Fatto sta che gli allarmi del presidente dell’Anticorruzione hanno quantomeno rimesso in discussione la norma che rischiava di esautorare l’Authority dal monitoraggio dei piani anti-corruzione delle amministrazioni pubbliche per consegnarlo al governo.

Ieri si è lavorato fino a sera a Palazzo Chigi per cercare un compromesso onorevole. La resistenza del ministro Renato Brunetta, autore del blitz che ha fatto infuriare il presidente dell’Anac, Giuseppe Busia, ha complicato il quadro. Anche Giuseppe Conte, dalle pagine del Corsera, ha citato “l’emarginazione dell’Autorità anticorruzione” tra i temi di malcontento dei 5Stelle, chiedendo un passo indietro. Mario Draghi, forse anche solo per evitare l’imbarazzo, sembra aver dato input di trovare una soluzione.

Breve riepilogo. Nel decreto – approvato venerdì dal Consiglio dei ministri, ma di cui manca ancora un testo definitivo – il ministero della Funzione pubblica ha inserito una norma che crea un doppione assai curioso. Impone alle amministrazioni pubbliche di consegnargli entro dicembre un “piano integrato” triennale in cui dettagliano praticamente tutto, dagli obiettivi di performance e reclutamento alle norme da semplificare. Dentro devono finirci anche “gli strumenti e le fasi per giungere alla piena trasparenza dell’attività e dell’organizzazione amministrativa nonché per raggiungere gli obiettivi in materia anticorruzione”. Vigila il ministero di Brunetta, a cui spettano le sanzioni (cioè togliere il salario di risultato ai dirigenti inadempienti). Problema: oggi le amministrazioni devono inviare i piani anti-corruzione all’Anac, che fissa le linee guida e monitora l’attuazione. Secondo Busia, la norma così crea un doppione, ma nei fatti toglie la materia dalla competenza di “un’Autorità indipendente per consegnarla a dei funzionari nominati dal ministro subordinando il controllore al controllato: un errore grave e un segnale preoccupante”.

L’allarme di Busia ha messo in imbarazzo Palazzo Chigi. Come detto, ieri si sono susseguite per tutta la giornata una serie di interlocuzioni tecniche per cercare una soluzione. Fonti vicine al premier assicurano che non c’è mai stata intenzione di colpire le prerogative dell’Anac, e tutto sarà chiarito nel testo definitivo, che dovrebbe uscire oggi. Come se fosse un problema di interpretazione della norma o di bozze del testo ancora incomplete.

Il cavillo che ha fatto infuriare Busia era nella bozza uscita dal pre-Consiglio e dal Cdm di venerdì. Difficile che il presidente Anac – un giurista rinomato e con una lunga esperienza nelle istituzioni e nelle autorità amministrative – possa aver confuso la portata della norma. Tanto più che al suo allarme, lanciato pubblicamente sabato, il governo ha scelto di non replicare ufficialmente, affidando a “fonti” anonime lo stesso messaggio (“la norma non pregiudica alcuna competenza dell’Anac su indirizzo, gestione e controllo anti-corruzione”). Come se l’ex segretario generale del Garante della privacy e dell’Autorità di vigilanza sui contratti pubblici non capisse le norme o gli fossero arrivati testi sbagliati. Dal decreto, peraltro, sono sparite pure le assunzioni (32, per concorso) chieste proprio dall’Autorità per rafforzare i controlli in vista dell’arrivo dei fondi Ue.

L’impegno a venire incontro all’Anac è stato fatto filtrare e oggi si conoscerà l’epilogo. Ieri sera una soluzione ancora c’era: non un buon segno.

Salvini, ennesima giravolta. “Licenziamenti, bene così”

“Sui licenziamenti siamo in piena sintonia”. Quando esce da Palazzo Chigi dopo un’ora e mezzo di confronto, Matteo Salvini ci tiene a fare la parte di quello che il governo Draghi lo appoggia senza se e senza ma. Anche sul delicato nodo del blocco dei licenziamenti. Anche a costo di sconfessare il proprio numero due, il ministro dello Sviluppo economico, Giancarlo Giorgetti.

D’altra parte, l’incontro nasce su richiesta del leader della Lega. Che cerca indefessamente un ruolo più incisivo di quello che effettivamente riesce a ricoprire. Tanto è vero che a Palazzo Chigi ci va pochi giorni dopo Giorgia Meloni. E che in un primo momento annuncia che si parlerà anche della Federazione di centrodestra con FI. A Palazzo Chigi reagiscono con irritazione: Draghi non vuol essere trascinato nelle dinamiche politiche. Infatti, alla fine non ne parlano.

Solo 24 ore prima dell’appoggio di Salvini a Draghi sui licenziamenti, dunque, Giorgetti aveva aperto a una modifica della misura “settore per settore”, soprattutto per quelli, a partire dal tessile, che “avranno un’uscita più lenta dalla crisi”. La mediazione introdotta nel decreto Sostegni-bis, dopo le polemiche agitate da Confindustria (col sostegno della Lega), prevede la fine del blocco dei licenziamenti generalizzato il 30 giugno e lo sblocco dall’1 luglio per industria ed edilizia mentre la moratoria è stata estesa al 31 ottobre per i settori con la Cassa integrazione in deroga, come il terziario. Giorgetti quindi propone una proroga selettiva per alcuni settori più colpiti. Ma di fronte alle aperture del ministro del Lavoro Andrea Orlando (“Io sono pronto ma dobbiamo farlo subito”), alla pressione di Enrico Letta che ieri ha incontrato i sindacati e ai 5Stelle che lavorano ai fianchi del governo presentando emendamenti parlamentari in questa direzione, si arriva al paradosso che l’unico che si allinea alla mediazione di Draghi sul blocco dei licenziamenti è proprio Salvini. Secondo il leader della Lega la misura va bene così: “Ci sono settori che corrono e hanno bisogno di assumere e non di licenziare – dice Salvini dopo l’incontro con Draghi – penso all’industria, penso all’edilizia. Altri settori, come il turismo, avranno il tempo di riorganizzarsi fino a ottobre”. Da via Bellerio confermano l’intenzione di non voler riaprire anche questo dossier che per il Carroccio è molto delicato: “Questo è uno di quei temi politici pericolosi – dice una fonte di peso leghista – perché come ti muovi rischi di perdere voti: tra i lavoratori o tra gli imprenditori. Perciò ci vuole prudenza e la mediazione di Draghi ci va bene”. I vertici leghisti non vogliono sporcarsi le mani con una questione che sta molto a cuore agli imprenditori del Nord. Quella di ieri però è l’ennesima giravolta del Carroccio sul blocco dei licenziamenti. Mentre infuriava la polemica sulla proroga fino ad agosto uscita in 24 ore dal decreto, era stata la sottosegretaria al Lavoro leghista Tiziana Nisini a sostenere Confindustria accusando Orlando di aver “rotto il patto con le aziende”. Poi però, il 31 maggio, in un’intervista al Corriere, Salvini aveva aperto a possibili revisioni della norma: “Ne parlerò con Letta, si può fare”. Passate 24 ore, dopo un incontro con il presidente di Confindustria Carlo Bonomi, ha ricambiato idea chiudendo la porta a una modifica della misura. Questo fino all’ennesimo voltafaccia di domenica di Giorgetti, smentito ieri da Salvini.

Da Palazzo Chigi arriva solo uno scarno comunicato: si è parlato anche di “riforme” e della “situazione economica”. Il premier evita accuratamente di entrare nella diatriba politica, ma il dossier giustizia qualche problema lo crea. Tanto è vero che nell’incontro entra l’appoggio di Salvini ai referendum, che a Palazzo Chigi è stato visto come un atto di disturbo. Salvini si giustifica, ma è pronto a sfruttare questa occasione per differenziarsi. Sul tavolo, anche il dossier fisco: non tanto quota 100, battaglia tutta in salita, quanto la rottamazione delle cartelle. E poi gli immigrati: Draghi sta cercando di indurre l’Europa a farsi carico della ricollocazione, il leader leghista in questo campo ha problemi di consenso.

Il grillino buono

La scena di Marcello De Vito, grillino della prima ora, presidente del Consiglio comunale di Roma prima, durante e dopo l’arresto per corruzione, che passa a Forza Italia in una solenne cerimonia officiata da Tajani e Gasparri e confessa di sentirsi finalmente a casa perché “Berlusconi è decisamente meglio di Grillo”, conferma due cose. 1) I 5Stelle sbagliano classe dirigente almeno una volta su due. 2) I forzisti non la sbagliano mai. Se non sei imputato o almeno indagato per tangenti, non ti calcolano proprio. Se poi addirittura ti arrestano e ti processano, fai proprio al caso loro. Noi abbiamo sempre nutrito seri dubbi sull’arresto di De Vito su richiesta della Procura di Roma, che sui 5Stelle capitolini non ne ha mai azzeccata una. Gli incarichi professionali affidati a De Vito dal costruttore Parnasi che trattava col Campidoglio per lo stadio della Roma, configurano un plateale conflitto d’interessi che avrebbe dovuto provocarne l’espulsione dal M5S per opportunità politica, non penale. Ma che siano tangenti, in mancanza di contropartite, è piuttosto opinabile, infatti la Cassazione bocciò i suoi tre mesi e più di custodia cautelare. De Vito notoriamente è un avversario interno della Raggi e non ha alcuna influenza sulla giunta, che anzi fa regolarmente l’opposto di quel che dice lui.

Ma queste sottigliezze ai forzisti interessano poco: sono uomini di principio. Un principio semplice ed elementare: ogni grillino è, per definizione, un incompetente populista giustizialista manettaro pauperista e pure comunista, insomma feccia umana (“li manderei tutti a pulire i cessi di Mediaset”, disse B. a corto di stallieri); ma, se lo arrestano e/o lo processano, diventa un tipo interessante. Infatti i talent scout berlusconiani avevano adocchiato Marcello fin dal giorno delle manette. Vuoi vedere – si dicevano – che non è onesto come gli altri grillini? Vedi che, scava scava, può esserci del buono anche in quel covo di pericolosi incensurati? Figurarsi la delusione quando la Cassazione definì il suo arresto “immotivato” e frutto di “congetture”: fu un duro colpo, che frenò per un bel po’ le loro avance. Con tutti i problemi che ha FI, manca solo quello di mettersi in casa un innocente. Creando, fra l’altro, un pericoloso precedente. Poi arrivò la richiesta di rinvio a giudizio e i contatti ripresero festosi, sino al lieto fine di ieri: se qualcuno protesta, si risponde che il nuovo acquisto è imputato, quindi ha tutte le carte in regola. Almeno come soldato semplice. Se poi arriva la condanna (che sarebbe proprio l’ideale), ma anche la prescrizione (che fa comunque punteggio), scatta la promozione. Se invece lo assolvono, il codice etico forzista non perdona: espulsione immediata.

Pinar Selek, la figlia che resiste

Dicono che il tempo aiuti a dimenticare, ma a volte è il contrario: ti concede la memoria. Se mentre ricordi scrivi, puoi tornare alla casa da cui ti hanno costretto a fuggire, anche solo con le parole. Quelle audaci di Pinar Selek, sociologa e femminista turca, attivista e icona di lotta per i diritti umani, arrivano da Parigi, dove vive in esilio da ormai molti anni, per evitare la persecuzione delle autorità di Ankara. La scrittrice, venerdì al festival We Women, organizzato a Milano dalla Fondazione Feltrinelli (con il Fatto media partner), dice di essere una “fille de la resistence”, una ragazza della resistenza: “Sono nata in uno Stato dal regime autoritario, figlio di un governo di repressione e violenza, ma anche in un Paese di persone che si oppongono e io sono una figlia di questo resistere”.

Pinar, lo testimonia la sua vita intera, una lotta senza interruzione.

Quando cominci ad agire e diventi una militante, incontri persone che stanno facendo la stessa cosa e condividono con te la resistenza. Questo ti rafforza. Io riesco a vedere la violenza personale che ho subito come un tassello di quella più grande, subita da tutti, e questo la rende meno greve.

Ha dedicato la sua vita alla documentazione e difesa delle donne, del popolo curdo, degli armeni, che non hanno mai visto riconosciuto il loro genocidio dal governo turco.

Se non riconosci un genocidio, quel crimine diventa perpetuo e continua su altri popoli, come su quello curdo. C’è chi dice che si tratti di passato, ma non lo è. Il negazionismo diventa più esteso e potente, è pericoloso non solo per la popolazione turca, ma per tutta la regione. Il nazionalismo, il militarismo e il sessismo si rafforzano l’un l’altro.

In patria è stata perseguitata per oltre 15 anni per un crimine mai commesso: complicità nell’esplosione del bazar delle spezie di Istanbul nel 1998.

Il mio processo dura da 23 anni, ma è la dimostrazione della continuità di un regime repressivo, che purtroppo tutti pensano sia nato negli ultimi anni, ma è molto più antico. Perseguita minoranze e militanti di sinistra, è un meccanismo che ha radicalizzato la contestazione, è per questo che i curdi sono andati sulle montagne da tempo. Il governo ha paura di tutti, la crisi politica è profonda, la violenza totale e costringe tutti a vivere in un’inquietudine permanente.

Alcune lotte, come quelle femministe, vengono represse: non solo il Turchia, in tutto il mondo.

Il neo-conservatorismo e il neoliberalismo rivitalizzano l’ordine patriarcale. C’è un tipo di pensiero neo-fascista che è quello che reprime al pari, per esempio, donne e migranti. È lo stesso modo di pensare che opprime diversi gruppi sociali, da quel fronte arriva la minaccia. Per questo ho organizzato la manifestazione trasnazionale, femminista e antimilitartista “Toute aux frontiere”. La nostra resistenza continua.

Ma il coraggio per compierla può esaurirsi?

Non si nasce coraggiosi: si diventa coraggiosi. Il coraggio ha delle fonti: il mio sono les autres, gli altri, la mia coscienza, i miei amici, gli esempi di resistenza nel mio Paese. Mi rinforza la letteratura, la sociologia mi nutre. E poi scrivo romanzi. E non è innato: il coraggio si apprende e si coltiva. Io ho avuto l’opportunità di farlo in famiglia: mio padre era un difensore dei diritti umani, è stato 5 anni in carcere quando ero piccola. Mio nonno ha fondato negli anni ’50 il partito di sinistra turco. La nostra casa era uno spazio di incontro di tout le monde e tutti erano “famiglia”. Da allora, vedo il mondo come “una grande famiglia”.

La casa privata di ognuno, la casa collettiva della patria e quella ancora più estesa della famiglia umana. La parola casa è il nucleo del suo ultimo libro: “Lontano da casa” (Fandango).

È un romanzo un po’ surrealista dove si incontrano personaggi erranti, che questionano l’essenza dello spazio, che interagiscono con il concetto di casa come rifugio, che subiscono il peso delle frontiere che possono diventare prigioni per le persone. E quando parlo di frontiere, non intendo solo quelle geografiche, ma anche sociali, culturali. Scrivo di come ho cominciato a interrogarmi su cosa sia l’esilio e cosa sia la casa: se la perdi, diventi nomade, come diceva Virginia Wolf.

La frase della scrittrice britannica è “Come donna non ho paese, come donna il mio paese è il mondo intero”. Un aforisma cui fa eco una frase del suo libro: “Avete rubato le nostre montagne, ma siamo noi le montagne!”.

Diventiamo montagne che viaggiano, si muovono e danzano quando cominciamo a comprendere ed esprimerci, a resistere. Solide e attaccate alla terra, ma mai immobili. E se resistiamo, diventiamo ancora più grandi.