Le anime di Istanbul, una città in equilibrio sull’orlo del precipizio

La foto è nitida, vigorosa, ma non smette di essere onirica nemmeno quando finisci di guardarla: un giovane turco si butta dal ponte Galata e spezza col suo volo la geometria simmetrica di Istanbul. Fuori dalla cornice dell’immagine, sotto di lui, c’è il mare del Corno d’Oro. Alle sue spalle la malinconia è quella struggente e rumorosa dei gabbiani e delle memorie rarefatte dello stretto del Bosforo, che forse, presto, non saranno più lì. Quegli adolescenti dalle vite al limite, dai destini che si esauriscono in fretta e miseria, ad Istanbul li chiamano tinerci, sniffatori di colla. Di atti estremi ne compiono tanti ogni giorno: per dimostrare ai loro amici di aver coraggio, perché usano sostanze a basso costo per sballo e adrenalina, perché appartengono all’umanità che la megalopoli ha dimenticato.

Quella curda, quella siriana, quella gay: tutte le Istanbul nascoste, una dopo l’altra, si svelano e si confessano a Jean-Marc Caimi e Valentina Piccinni, fotografi che hanno già raccontato conseguenze e contrasti di altre città in transizione. (Prima della città turca, il duo che lavora insieme dal 2013 ha documentato Roma e Napoli). Megalopoli tra le più popolose d’Europa, unica città al mondo ad appartenere a due continenti – quello europeo ed asiatico -, Istanbul è narrata con tratto immediato, raro coinvolgimento personale, vicinanza incondizionata ai soggetti “per penetrare la complessità della città in un drammatico momento di mutazione sociale e politica”. Gli scatti sono raccolti nel loro ultimo libro fotografico: Gule Gule, che in turco vuol dire “arrivederci”.

Al centro di un enorme progetto di riqualificazione urbanistica iniziato da più di un decennio, la mappa di Istanbul è plasmata da ambizioni politiche, gentrificazione brutale e nuova pianificazione urbana volta a svuotare i quartieri dalle comunità tradizionali e marginalizzare le classi più povere. Ma nelle sue stanze più nascoste, nei buchi e nei suoi vicoli ciechi, la città continua ad ospitare in grembo i suoi microcosmi, che sopravvivono a stento e male, ma resistono a tutto e, anche nello strazio, rivendicano con dignità la loro sopravvivenza. Povertà e disuguaglianze le subiscono anche i rifugiati scappati dal conflitto di Damasco. Orfana di entrambi i genitori morti durante la guerra in Siria, per le strade della città e le pagine di Gule Gule, c’è una bambina dagli occhi di colore diverso: uno è nero, l’altro è blu ed “è per questo che Allah l’ha salvata dalle bombe”. Lo hanno raccontato ai due fotografi gli amici di famiglia che adesso si prendono cura di lei a Tarablasi, quartiere trafitto da gru e demolizioni dal 2005, fotografato nel suo processo di metamorfosi con molti dettagli, quelli spesso necessari a ristabilire la verità dei fatti.

Onnipresente ed ubiquo, sovraesposto dalla sua propaganda e dalla luce al neon sotto la saracinesca di una delle sedi dell’Akp, Partito giustizia e sviluppo che ha fondato nel 2001, c’è il volto protervo dell’ex sindaco della città ed ora presidente del Paese: Recep Erdogan. Primo ministro dal 2003 e presidente dal 2014, Erdogan ha deformato prima la megalopoli in cui è nato nel 1954, poi la Turchia intera. Ha trasformato le case dei cittadini in celle e il Paese in un’enorme prigione per chi si oppone al suo potere: le carceri turche sono sature di chi ha provato a ribellarsi al suo modello di società omologata, islamica, conservatrice. Nonostante il colpo di Stato, rimane a capo di una nazione dove l’ultima grande battaglia, nel 2013, è scoppiata proprio per evitare che un centro commerciale sorgesse al posto di Gezi Park in pieno centro cittadino. Per frenare quelle dinamiche di cementificazione sfrenata che, pezzo dopo pezzo, smantellano interi rioni e cancellano le tracce di quanti li abitano, scesero in strada attivisti, kemalisti, studenti, sindacalisti e durante gli scontri con le forze dell’ordine furono 11 i morti, migliaia i feriti.

Da allora Istanbul, alla disperata ricerca di un equilibrio tra tutte le sue anime, sbircia il precipizio su cui si è spinta tra acqua e pietra, passato e futuro, aspirazioni democratiche e repressione della libertà, proprio come quel giovane turco che plana nella foto dal ponte Galata. E come lui è in attesa di capire se si tratti di una caduta. O un volo.

Egitto-Sudan. Esercitazioni congiunte contro la diga etiope

Le forze di terra, navali e aeree dell’Egitto e del Sudan hanno appena completato u’esercitazione militare congiunta tra le crescenti tensioni dei due Paesi con l’Etiopia per il progetto della diga sul fiume Nilo Azzurro.

I giochi di guerra denominati “Guardiani del Nilo”, secondo il Cairo hanno rafforzato la preparazione al combattimento delle forze partecipanti, con l’impegno di caccia in volo, paracadutisti e forze speciali di entrambi i Paesi. “Questa esercitazione militare non ha nulla a che fare con la Grand Ethiopian Renaissance Dam (Gerd)”, ha detto in un’intervista alla televisione Al-Arabiya Abdallah al-Bashir, vice capo di stato maggiore dell’esercito sudanese. L’addestramento – secondo Khartoum – fa parte di una serie di esercitazioni militari tra i due eserciti e non ha come obiettivo nessun Paese. Sta di fatto che però Egitto e Sudan sono ai ferri corti con l’Etiopia per la costruzione della Gerd sul Nilo Azzurro, uno dei principali affluenti del fiume Nilo. Entrambi i paesi temono che il piano dell’Etiopia – di aggiungere 13,5 miliardi di metri cubi di acqua durante la stagione delle piogge dell’Africa orientale in luglio al serbatoio Gerd – farà sensibilmente scendere la portanza del Nilo.

Mentre l’Etiopia vede il Gerd come una chiave per lo sviluppo economico, l’Egitto teme che riempire la diga senza un accordo danneggerà la sua quota di prelevamento di acqua dal Nilo, unica fonte di acqua dolce del Paese. Il Sudan, nel frattempo, vuole che l’Etiopia coordini l’operazione della diga per proteggere le proprie dighe che generano energia sul Nilo Azzurro.

L’Etiopia ha respinto un accordo vincolante sul riempimento e il funzionamento del Gerd basato sul diritto internazionale e sulle norme che disciplinano i fiumi transfrontalieri. Anni di negoziati tra i tre Paesi non hanno portato a nessuna svolta, la questione non finisce qui. Con più del doppio della capacità di potenza della diga egiziana di Assuan da 2,1 Gw, la Gerd è destinata a diventare il più grande progetto idroelettrico in Africa.

 

L’inquinamento che resiste a tutto: anche alla verità

Joop Keesmaat vive sulle rive del Merwede, uno dei numerosi fiumi che sfociano nel delta della Mosa e del Reno, e su cui navigano delle lunghe chiatte, che sembrano schiacciate dal peso dei container. Attraversando la viuzza che dall’appartamento di Joop raggiunge le rive del fiume, si vedono le slanciate ciminiere dell’imponente complesso industriale dell’azienda statunitense Chemours di Dordrecht. Un caos di strutture a forma di sfera e di cubo, come un tetris gigante, metallico e tossico. Per diversi mesi, tutti i sabato mattina, Joop, insieme a altri abitanti della sua città e delle città vicine, ha raggiunto la fabbrica in bici per andare a riversare terra e bottiglie d’acqua inquinata in segno di protesta. Joop, che ha l’età della pensione, è uno dei pochi abitanti di Sliedrecht, nel sud dell’Olanda, a mobilitarsi contro le emissioni di Gen-X: l’inquinamento invisibile della fabbrica Chemours.

Il Gen-X è un composto chimico ampiamente usato nell’industria per la solidità del legame carbonio-fluoro che blocca la penetrazione di acqua e grasso. Chemours lo utilizza nel processo di produzione del teflon, presente per esempio nelle padelle. Il Gen-X appartiene alla famiglia dei Pfas, dei veleni resi celebri dal film Cattive acque (2019) che raccontava la lotta di un avvocato contro gli scarichi della fabbrica Dupont in Virginia-Western che avevano causato diverse malattie tra gli abitanti della zona. Queste sostanze sono considerate “eterne”: così persistenti che la loro biodegradazione è praticamente impossibile. La fabbrica olandese apparteneva a Dupont fino al 2015. Chemours è nato da una scissione di questo gigante della chimica. Dagli anni 70, prima Dupont, poi Chemours hanno rilasciato veleni nell’aria e nell’acqua di Dordrecht, con effetti potenzialmente disastrosi sulla salute degli abitanti. Prima il Pfoa, di cui si parla nel film, ormai vietato. Dal 2012 il Gen-X, presentato dall’azienda come un’alternativa sicura.

In mancanza di dati ufficiali, Joop Keesmat ha elaborato delle statistiche sue, partendo dai registri sulle cause di mortalità in Olanda. Secondo lui, il tasso di mortalità per cancro a Sliedrecht tra il 2007 e il 2018 è stato del 16%, superiore a quello registrato nel resto del paese. “Scientificamente, è molto difficile dimostrare il legame diretto tra un input e una malattia, anche se è accertato che gli abitanti che vivono nei pressi dello stabilimento presentano delle tracce di Pfas nel sangue”, spiega Jacob De Boer, docente di tossicologia e chimica ambientale alla Libera Università di Amsterdam. Gli effetti del Gen-X sulla salute umana sono ancora poco noti. Le autorità olandesi considerano che abbia un impatto ‘probabile’ sul fegato, sui reni e sul sistema immunitario. A livello europeo, è considerato una ‘sostanza estremamente preoccupante’”. Gli olandesi cominciano a muoversi sul fronte giudiziario: 500 abitanti della regione hanno sporto denuncia contro Chemours. Il 24 aprile, i quattro comuni della zona intorno all’impianto hanno inoltre citato in giudizio Dupont e Chemours, accusati di avere nascosto i rischi dei Pfas e del Gen-X. “Sono in corso degli studi per valutare gli effetti potenzialmente cancerogeni del Gen-X”, ha spiegato Charmaine Ajao dell’Agenzia europea per le sostanze chimiche (Echa). Martijn Beekman, dell’Istituto nazionale per la salute pubblica e l’ambiente (Rivm), riconosce che esistono “preoccupazioni serie” sulla pericolosità della sostanza e sul legame tra tumori e Pfas. Questo vale “in particolare per le persone che coltivano l’orto e usano l’acqua dei rubinetti”. Le tensioni locali si concentrano proprio intorno all’acqua dei rubinetti.

A Papendrecht, poco lontano dalla fabbrica Chemours, Karel Thieme si è unito al gruppo di manifestanti del sabato: “Sono trent’anni che le persone bevono acqua e Pfas”, dice. Nella sua cucina, sta mettendo a punto un sistema di filtraggio per garantire un’acqua cristallina “senza Gen-X né Pfas”. Le ricerche di Jabob De Boer hanno dimostrato la presenza significativa di Gen-X nell’acqua e nei campi intorno alla fabbrica. Quando piove, i depositi sul terreno confluiscono nei fiumi. Tracce di Gen-X sono state trovate nell’acqua dei rubinetti. Il fornitore di acqua locale, Oasen, precisa che le quantità rilevate sono al di sotto della soglia ufficiale di 150 nanogrammi per litro. Ma le soglie stanno cambiando. Mano a mano che le conoscenze scientifiche sui Pfas avanzano, i quantitativi considerati “accettabili” per il corpo umano diminuiscono. Di recente, l’Autorità europea per la sicurezza alimentare ha ricalcolato la “dose settimanale tollerabile” di Pfas a 4 nanogrammi settimanali per chilo di massa corporea.

Nel 2008, la soglia era fissata a 150 nanogrammi al giorno. Oggi Chemours è autorizzato dalle autorità locali a versare nelle fognature un massimo di due chili all’anno di Gen-X. Fino al 2017, ne versava 6.400. L’azienda sostiene di aver ridotto le emissioni nell’acqua e nell’aria del “99%”, anche grazie a sistemi di filtraggio e ai carboni attivi. Si dice “soddisfatta” di aver speso 75 milioni di euro in nuove tecnologie.

Malgrado l’impegno manifestato da Chemours, Oasen, il fornitore di acqua potabile, sta sviluppando un suo proprio sistema di filtraggio dell’acqua. Uguale a quelle che sta realizzando Karel Thieme, ma su vasta scala. Negli Stati Uniti, il 31 marzo scorso, l’azienda è stata condannata dal Dipartimento della qualità ambientale della Carolina del Nord a pagare una multa di 200 mila dollari per aver violato i suoi impegni sul filtraggio del Gen-X. L’azienda ricorda che il Gen-X è stato sviluppato come “alternativa” al Pfoa e che questa sostanza “non si accumula nell’organismo. Non vi resta abbastanza a lungo da raggiungere una quantità potenzialmente nociva”, sostiene Marc Reijmers, responsabile Salute e sicurezza di Chemours. Se è vero che è meno “bioaccumulabile” rispetto ad altri Pfas, il Gen-X è invece molto mobile. Non si attacca a nulla, circola nell’acqua e diventa quasi impossibile estrarlo dall’ambiente. La sostanza è tossica e persistente. Eppure Chemours contesta davanti alla Corte di giustizia europea la decisione dell’Agenzia europea per le sostanze chimiche di inscrivere il Gen-X nella lista delle “sostanze estremamente preoccupanti”, approvata all’unanimità dagli stati membri il 27 giugno 2019.

Di per sé, l’inscrizione nella lista implica per l’azienda soltanto l’obbligo di informare sulla catena di approvvigionamento. “Ma è un messaggio importante che viene dato all’industria: significa che bisogna trovare delle alternative”, spiega Alice Bernard dell’Ong Client Earth. Una prima tappa verso l’introduzione del divieto. Per l’Echa, il Gen-X è la storia sfortunata di un’industria che ha voluto ritirare una sostanza pericolosa, e in procinto di essere vietata, ma che ha finito col sostituirla con una sostanza simile e altrettanto pericolosa. “L’alternativa che è stata scelta presenta una serie di proprietà altrettanto dannose della sostanza che avrebbe dovuto sostituire”, riassume Charmaine Ajao dell’Echa. Per evitare che la cosa si ripeta, l’Agenzia europea sta promuovendo un approccio per gruppi di sostanze. Olanda, Germania, Norvegia, Svezia e Danimarca stanno preparando un rapporto sui Pfas al fine di farli vietare tutti: ma i Pfas sono 4.300 e ci vorranno anni per completarlo. Nel frattempo, Joop Keesmaat è preoccupato. Ci indica un vasto prato dove pascolano le pecore, dei giardini e degli appezzamenti di terreno dove gli abitanti coltivano gli ortaggi. Ci spiega che “i cumuli di terreno che circondano quei campi sono composti da terra contaminata portata sul posto dopo la costruzione di case nuove in città”. Joop ha raccolto dei campioni di terreno e li ha fatti analizzare dal professor Jacob De Boer. Queste terre, come tutte quelle dei dintorni, contengono tutte dosi non indifferenti di Pfas. Impossibile sbarazzarsene. E perché depositarle dove le persone coltivano l’orto? Joop risponde laconico: “È vero che vivere vicino a una fabbrica come questa, ci complica la vita”.

Traduzione di Luana De Micco

Amazon. Al via le vaccinazioni dei dipendenti, ma senza aver di nuovo consultato i sindacati

Giovedì 3 giugno Amazon ha avviato le vaccinazioni dei suoi dipendenti italiani, partendo con i centri piemontesi di Torrazza e Brandizzo. Sarebbe una buona notizia se non fosse che anche questo evento ha mostrato in controluce quanta fatica faccia il colosso di Jeff Bezos nel riconoscere un ruolo ai sindacati. Filt Cgil, Fit Cisl e UilTrasporti, pur avendo sollecitato oltre un mese fa l’avvio di un piano di immunizzazione, sono state tenute all’oscuro dell’iniziativa.

“Quando lo abbiamo proposto – spiega Danilo Morini della Filt – ci hanno liquidati dicendo che lo stavano ancora abbozzando; poi, pochi giorni dopo, hanno fatto l’annuncio ufficiale”. Spia di come le sigle continuino a non essere considerate interlocutori da Amazon, nonostante le buone intenzioni riportante al ministro Andrea Orlando nel primo incontro del 15 aprile.

Dopo quella riunione, che riaprì il negoziato interrotto a fine gennaio, si era previsto di riconvocare il tavolo dopo due mesi per una verifica. Questi sessanta giorni scadranno la prossima settimana, ma nel frattempo non si è mosso nulla. Solo per il primo incontro con Amazon Logisitca e Amazon Transport ci è voluto più di un mese, poi l’azienda ha provato a dilatare ancora i tempi fissando un calendario di appuntamenti tra metà giugno e inizio a luglio, quando saranno passati i Prime Day di fine mese. “Noi andremo agli incontri del 15 e del 16 – ha spiegato Morini – poi ci sembra giusto un nuovo passaggio al ministero, non la si può tirare per le lunghe”. “In assenza di un ravvedimento – ha aggiunto Maurizio Diamante della Fit Cisl – ci vedremo costretti a dichiarare un’ulteriore azione protesta, chiedendo il sostegno dei sindacati degli altri Paesi europei”.

Un nuovo sciopero in vista, insomma, dopo quello di fine marzo che per la prima volta ha mosso tutta la filiera: non solo chi lavora direttamente per Amazon, ma anche e soprattutto gli addetti delle imprese che svolgono le consegne. Il punto è proprio quello: i sindacati vogliono che Amazon si faccia garante anche delle condizioni dei driver, quelli che portano i pacchi in mano al cliente finale. I tempi che i corrieri sono costretti a rispettare dipendono di fatto dalle disposizioni di Amazon e queste – stando al racconto di chi svolge questo mestiere – sono martellanti: a volte 150 pacchi al giorno, con una pressione costante in caso di mancato adeguamento alla tabella di marcia. Per la verità, Amazon non ha mai assunto questo impegno, nemmeno durante il tavolo ministeriale. Il negoziato per le condizioni di lavoro dei driver, quindi, prosegue ma separatamente, senza la presenza del colosso.

“Il numero di pacchi da consegnare – ha spiegato più volte Amazon – è assegnato ai fornitori in maniera appropriata e si basa sulla densità delle aree di consegna, sulle ore di lavoro, sulla distanza da percorrere”. Il gigante e-commerce difende il suo metodo, non lasciando spiragli alla possibilità di farne oggetto di negoziato con i sindacati. Se lo facesse, rischierebbe di mettere in discussione la velocità delle sue consegne. In pratica, buona parte della sua fortuna.

 

Comprare Aspi dai Benetton è davvero un pessimo affare

La Cassa Depositi e Prestiti (Cdp) ha concordato di acquistare da Atlantia l’88% di Autostrade per l’Italia (Aspi), valutandola circa 9,3 miliardi. Dalla privatizzazione di Autostrade ad oggi sono passati circa 20 anni. Escono i soci privati e il controllo torna pubblico (della Cdp). Merita quindi fare un consuntivo per considerare chi abbia guadagnato e chi abbia perso.

L’Iri vendette la Autostrade valutando 7,7 miliardi il 100% della società. Vent’anni dopo lo Stato, tramite la Cdp, si ricompra il 51% valutando 9,3 miliardi il 100% della società. Lo Stato paga di più per una società che ha oggi molti più debiti di allora e, soprattutto, ha 16 anni residui di concessione, mentre nel 2000 ne aveva 38. Davvero un pessimo “affare”.

Ricostruiamo i conti dei soci privati, i Benetton e gli altri soci della Schemaventotto che acquistarono dall’Iri il 30% della Autostrade (senza considerare le successive transazioni tra investitori privati). L’esborso nel 2000 fu di 2,5 miliardi. I ricavi sono stati: 1,16 miliardi da cessione di quote nel 2004/2005; 1,77 miliardi da cessione di quote nel 2017; 9,8 miliardi di dividendi, più una plusvalenza potenziale di almeno 1 miliardo sulla Telepass. Quindi, a fronte di un investimento di 2,5 miliardi recuperato nel giro di pochi anni, i Benetton e soci hanno già incassato ben 13,7 miliardi. Ora si prevede che ne incasseranno altri 8,2 miliardi circa da Cdp e soci: in totale circa 22 miliardi a fronte di un investimento di 2,5! E questo nonostante il disastro del ponte Morandi. Un profitto stupefacente, conseguito senza rischi, senza aver introdotto alcuna innovazione e con investimenti minimali.

Lo Stato ha imposto agli utenti delle autostrade il pagamento di una elevata rendita per decenni, senza un corrispondente beneficio. Un clamoroso fallimento dello Stato sia come azionista della società che come regolatore. La responsabilità va ricercata negli errori, inettitudini e quant’altro di chi ha gestito il potere pubblico in questi due decenni, dalla scellerata privatizzazione ai tanti “regali” tariffari a partire dal IV Atto aggiuntivo, sino alla Convenzione del 2007 che ha elargito gratuitamente il diritto ad indennizzi astronomici in caso di revoca della concessione (vedasi il mio libro La svendita di Autostrade, PaperFirst). Per giustificare di fronte all’opinione pubblica il mancato coraggio di revocare la concessione dopo il disastro del Morandi il governo di allora dichiarò l’intenzione di “punire” i Benetton costringendoli a vendere, ma il prezzo offerto da Cdp (e le limitazioni sui rischi legali) sembra invece una generosa buonuscita, che gli azionisti di Atlantia riuniti in assemblea sono stati contenti di accettare.

Se fosse stata revocata la concessione per gli azionisti di Atlantia sarebbe stato molto peggio. Per l’indennizzo dovuto sono circolate ipotesi assai varie da 14 sino a 22 miliardi. Forse si sarebbe giunti ad un compromesso tra questi due estremi. Ma anche ipotizzando il pagamento di 22 miliardi dallo Stato, la società Autostrade sarebbe restata una scatola vuota, con una posizione finanziarie netta negativa per oltre 10 miliardi, impegni per opere da eseguire per circa 3 miliardi e tutti gli indennizzi da pagare per il crollo del ponte Morandi. Pagate anche le imposte ad Atlantia sarebbe rimasto ben meno dei 9,3 miliardi che incasserà dalla Cdp e soci. A dissuadere il governo dalla revoca della concessione non è stata la minaccia di dover pagare un elevato indennizzo, come amano rappresentare i fondi esteri azionisti di Atlantia, ma piuttosto la preoccupazione per lo sconquasso che il probabile fallimento di Aspi avrebbe causato sul mercato finanziario. Paghiamo caro anche per questo.

L’acquisizione del controllo di Aspi potrà generare buoni profitti per la Cdp e per i fondi esteri che partecipano all’acquisto, ma è tutt’altro che chiaro se ne derivino benefici per gli utenti dell’autostrada. Anzi, l’accordo sul prezzo è stato agevolato dall’accettazione di un Piano finanziario che prevede continui aumenti tariffari sino alla scadenza della concessione: a pagare sono sempre gli utenti, ignari e senza rappresentanza. C’è poi il rischio che il governo decida di dare ai concessionari un “ristoro”, forse di 400 milioni, per compensarli dal calo di traffico dovuto al Covid. Sarebbe un ristoro del tutto ingiustificato, perché nelle convenzioni il rischio traffico è a carico dei concessionari, per questo lautamente ricompensati.

Qualcuno pensa che l’aspettativa di questo “ristoro” abbia agevolato l’accordo sul prezzo. Sarebbe davvero l’ultima beffa ai danni degli utenti, che dovrebbero pagare anche questo ristoro con aumenti dei pedaggi.

La corsa di Big Tech per avere un pezzo del cloud pubblico

Si parla di “modello francese”, di “cloud sovrano”: ma i progetti per la nuvola che dovrà accogliere i dati della Pubblica amministrazione e favorire la rivoluzione digitale prevista anche dal Pnrr è nella sua ideazione molto italiana, con radici nei tempi di Diego Piacentini a Palazzo Chigi e primi sviluppi sotto l’ex dicastero della Pisano. Al ministero per la Transizione digitale, guidato oggi dall’ex manager di Vodafone Vittorio Colao, però, sono ora di fronte a un bel dilemma: devono fare in modo che tutto vada nella direzione immaginata, ovvero trovare un operatore italiano o europeo (ma meglio italiano) che possa gestire, in licenza, la tecnologia degli Over the top (Google, Microsoft, Amazon) di cui proprio non possiamo fare a meno. E al tempo stesso assicurarsi che le informazioni siano inaccessibili ad altri, che siano quindi “sovrane” così come l’infrastruttura che le ospiterà. L’esito ideale, nella mente dei tecnici, è che nel giro di pochi anni gli operatori e le aziende italiani abbiano imparato abbastanza dalle multinazionali per poter proseguire da soli. Intanto, però, non c’è alternativa se non allearsi.

La presenzadi un partner italiano diventa così in parte una garanzia e il puzzle delle alleanze è già iniziato. In poco meno di un mese, a maggio, sono state annunciate tre diverse intese italo-americane per lo sviluppo di tecnologie sul cloud. Tim con Google (anche attraverso Noovle, di recente acquisizione, che è uno dei principali partner di Google Cloud in Italia), Fincantieri con Amazon Web Service, Leonardo con Microsoft (Azure). La partita è grande e vale almeno 2 miliardi di euro. Sarà però fondamentale stabilire le regole del gioco e conoscere, di queste alleanze, i dettagli dei contratti e i vincoli.

Sintetizzando molto, possiamo dire che la Pa italiana avrà un nucleo strategico (il Polo strategico nazionale) a cui faranno capo i dati più sensibili dei cittadini e un altro in cui andranno i dati che possiamo definire “secondari”. In entrambi i casi, sono richieste tecnologie avanzate e sicurezza: esattamente ciò che gli Over the top possono garantire. Più critici sono l’aspetto geopolitico e i diritti che sulle informazioni potrebbero pretendere di avere altri Paesi, oltre alle leggi a cui potrebbero essere sottoposte le stesse multinazionali.

Il Cloud Act, ad esempio, prevede la possibilità per le autorità americane – mediante accordi – di chiedere e ottenere informazioni dai cloud provider anche se questi sono fuori dai confini americani. Sarà quindi fondamentale che le intese non lo includano e che i bandi di gara siano elaborati di conseguenza. “Fino a quando il Cloud act è scritto come è scritto – spiega Guido Scorza, membro del garante della Privacy – c’è poco che si può fare per sottrarsi al rischio che le agenzie di intelligence accedano ai dati custoditi nei silos delle multinazionali americane, che quei silos siano in Europa o negli Usa. Il problema può essere risolto solo ed esclusivamente operando a livello legislativo”. Il resto è un palliativo. “Certo, bisogna essere realisti e accettare l’idea che né l’Europa, né l’Italia, domani, sarebbero pronte a fare a meno dei giganti del web Usa – aggiunge – quindi facciamo bene a porci il problema, ma guai a cercare soluzioni di breve periodo e troppo radicali”.

Il cloud, ci spiega una fonte, funziona in modo scalabile. In sostanza, non è che i tuoi dati se ne stanno fermi in un server ma si spostano secondo necessità. Se oggi salvi delle informazioni a Pomezia, il provider le conserva là dove ha spazio disponibile quel giorno, che può essere tanto a Pomezia quanto in Svizzera o in Tennessee. E si muovono in base al bisogno, assicurando comunque che siano disponibili in qualsiasi momento. “Questa è la tecnologia, che serve all’Italia e che bisogna creare quanto prima, perché adesso siamo indietro”. La soluzione, ci conferma chi è vicino al dossier, potrebbe essere utilizzare le tecnologie di Big Tech su licenza, ma su infrastrutture italiane. “È come se ti fornissero i pezzi di una Ferrari (la tecnologia) – ci spiega un’altra fonte – ma poi tutto il resto, dal montaggio alla pista dovessi farlo tu”. In questo modo, è il punto, si potrebbero anche superare i limiti del Cloud act, lasciando la “custodia delle informazioni solo sotto la giurisdizione italiana”. I tempi sono stretti: la rivoluzione dovrebbe essere pronta per il 2022, ma al momento oltre agli annunci sembra esserci poco altro. Il timore è che gli operatori non si facciano trovare pronti o che non siano abbastanza furbi, ad esempio, da consorziarsi.

Nelle scorse settimane, il capo di gabinetto del ministero, Stefano Firpo, ha annunciato l’avvio già a luglio delle procedure per la gara. Da quel punto si dovrebbe proseguire per gradi. Ci spiegano fonti del dipartimento per la transizione digitale: “In prospettiva, a valle di una classificazione complessiva dei dati in modo da distinguerne la sensibilità e la riservatezza, i sistemi saranno ricollocati in infrastrutture pubbliche sicure, in infrastrutture cloud ‘sovrane’ (sul modello francese) o in public cloud dotati delle necessarie caratteristiche in termini di sicurezza e titolarità dei dati”.

Le infrastrutture della Pa centrale e locale sono state, in parallelo, classificate da Agid (l’Agenzia per l’Italia digitale), in categorie di affidabilità A e B “in modo da determinare per quali ‘sale macchina’ realizzare il consolidamento ai fini della sicurezza e dell’affidabilità dei sistemi ancor prima di aver avviato la classificazione dei dati e la riscrittura della applicazioni”. La prima cosa che farà quindi il polo strategico nazionale sarà mettere in sicurezza le situazioni più critiche. Il soggetto che se ne occuperà “sarà selezionato all’esito di una procedura di evidenza pubblica e sarà collocato sul territorio nazionale. La procedura sarà attivata a luglio”. Se tutto va bene, dunque, l’esito potrebbe arrivare in autunno per partire entro fine anno.

A guardare comunque i recenti movimenti, Tim sembra la più agguerrita nel trovar euna soluzione. Nelle scorse settimane, la Banca europea per gli investimenti (Bei) ha concesso un secondo finanziamento di 230 milioni (per 430 totali) nel triennio 2021-2023 per sostenere gli investimenti nel nuovo piano “Beyond Connectivity” ma anche per la costruzione dei nuovi data center a Milano e a Torino di Noovle, l’azienda che, si legge in una nota, “è destinata a diventare polo di eccellenza italiano (…) anche per la pubblica amministrazione, accelerando la trasformazione digitale del Paese”.

Per 12 milioni anche l’Italia avrà un pezzo del torneo

Venerdì 11 giugno, stadio Olimpico, Italia-Turchia: inizia Euro 2021, che sarà un po’ anche il nostro Europeo. In questa strana edizione itinerante, subito dopo Londra con la finale, per importanza c’è Roma con l’inaugurazione. A 30 anni di distanza dalle promesse non mantenute e gli enormi sprechi di Italia 90, ci saranno ancora “notti magiche”, ma solo qualcuna, quattro per la precisione: le tre gare del girone degli azzurri, che così avranno la possibilità di giocare in casa la prima fase, e un quarto di finale. Un sogno tutto sommato a buon mercato: circa 12 milioni di euro.

L’Olimpico addobbato a festa, tutto turchese, il colore degli Europei. La Fan Zone a Piazza del Popolo, gli hot spot per i tifosi lungo via del Corso, il maxi-schermo ai Fori Imperiali. Il filo di Euro 2021 si snoda nel centro della Capitale, pronta ad accogliere i tifosi: non troppi, ci sono pur sempre le misure anti-Covid, pochi stranieri (specie dai Paesi extra Ue come Svizzera, Galles e Turchia, le altre nazionali del girone). È l’Europeo dell’Italia, l’Europeo del quasi ritorno alla normalità. L’ultima eredità del regno Uefa di Michel Platini, spazzato via dagli scandali: un torneo in giro per il continente, che avrebbe dovuto rinsaldare lo spirito europeo, accontentare tante Federazioni, spalmare i costi organizzativi. Col senno di poi, e una pandemia di mezzo, non è stata una grande idea, tanto che a un certo punto si è discusso di tornare indietro. Ma la formula itinerante ha resistito.

In passato (e in futuro, dal 2024 in Germania si torna all’antico) il torneo si è sempre giocato in un solo Paese. Grande onore ma pure un discreto onere: per Euro 2016 la Francia spese 200 milioni di costi organizzativi, più un miliardo circa di investimenti in stadi e infrastrutture (per perdere in finale col Portogallo). Stavolta è diverso. Non è stata nemmeno costituita la società di scopo – 95% della Uefa e al 5% dal Paese ospitante – per l’organizzazione. Ad ogni città spettano minimo 4 e massimo 8 partite, in un solo stadio. Niente investimenti faraonici, pur volendo c’è poco da sprecare. Così chiunque può permettersi un pezzo di Europeo, l’impegno è contenuto.

Figc e Comune hanno lavorato per ottenere la prestigiosa inaugurazione (ma senza concertone iniziale, causa Covid). Tutto a 12 milioni di euro: 10 del governo, 2 del Comune, sotto la supervisione di Daniele Frongia, Commissario straordinario per Euro 2020. La spesa maggiore è stata per la Fan Zone in piazza del Popolo e gli altri allestimenti: una gara da circa 4 milioni, vinta dalla società Filmmaster Events. Oltre 2 milioni se ne andranno solo per gli straordinari della Polizia di Roma Capitale; 1,8 milioni erano previsti per la mobilità, ma qui qualcosa si risparmierà visto che la Uefa non ha più preteso i mezzi pubblici gratis per i tifosi (che saranno pure meno). Al conto vanno aggiunti 5 milioni per il restyling dell’Olimpico da parte della società pubblica “Sport e salute” che ne è proprietaria: ampliamento dell’hospitality e innalzamento della tribuna stampa, rifacimento dell’illuminazione e dell’impianto energetico, lettori di controllo agli ingressi, cablaggio completo. Ma questi sono investimenti e Sport e salute incasserà il canone pagato dall’Uefa per l’affitto, circa 600mila a gara.

La vera impresa è stata superare le resistenze della Soprintendenza, che dal 2018 pone paletti alla presenza dei tifosi nel salotto della Capitale. Per non parlare delle restrizioni anti-Covid: la Fan Zone sarà divisa in due emicicli non comunicanti da mille persone l’uno. Stessa capienza per il maxi-schermo ai Fori. Nessun tampone per l’ingresso, ma prenotazione online obbligatoria e autodichiarazione. Sembra quasi un miracolo avercela fatta. Allo stadio, invece, solo vaccinati, guariti o tamponati: senza la app Mitiga (come rivelato dal Fatto il Garante della privacy ha aperto un’istruttoria sul trattamento dei dati degli spettatori), bisognerà presentarsi ai tornelli certificato alla mano.

Ricadute economiche difficili da quantificare: sicuramente inferiori al previsto. E non per i biglietti venduti, ridotti al 25%, quelli spettano alla Uefa. Ma ci sarà meno gente, e uno studio di Pitchinvasion ha stimato una perdita di indotto da 15 a 4 milioni delle potenziali spese dei tifosi in città.

Resta comunque la festa, il prestigio internazionale e pure la prova generale in vista dell’edizione 2028, che l’Italia punta ad ospitare per intero. Facendo i conti della serva, ogni gara di Euro 2021 ci costa 3-4 milioni. Se tutto filerà liscio, probabilmente ne sarà valsa la pena: se gli azzurri arriveranno in fondo con la spinta iniziale del loro pubblico, ancora di più.

Euro 2021, l’affare da 2 miliardi che salva il “baraccone” Uefa

I gol di Cristiano Ronaldo e Mbappé, le giocate dei campioni, inno nazionale e mano sul cuore, le notti magiche degli azzurri. Emozioni da romantici. Voi vedete gli Europei, la più importante manifestazione calcistica dopo i Mondiali, festa e passione, gioco e divertimento, quasi una liberazione dopo un anno di attesa per il Covid. Loro, solo una straordinaria macchina da soldi, un business da 2 miliardi di euro che manda avanti tutto il carrozzone. Benvenuti a Euro 2020, pardon 2021, la “Superlega” della Uefa.

Dal fallito golpe dei top club che hanno provato a portarsi via il pallone e creare il loro campionato dei ricchi, non si parla d’altro. Ancora non è chiusa la questione, tra ricorsi alla Corte di giustizia e processo sommario ai ribelli. La reazione del numero uno del pallone europeo Aleksander Ceferin è stata durissima e non solo per difesa dello spirito del gioco: guai a toccargli la Champions League, da cui dipende il prestigio e la sovranità dell’associazione. Ma c’è un torneo ancora più prezioso per la Uefa. Perché i ricavi della Champions spettano ai club, quasi tutti, evidentemente non abbastanza visto che i patron ne vorrebbero ancora di più e per questo hanno scatenato la guerra di secessione del pallone. Ma sui ricavi degli Europei non c’è discussione: quasi la metà finisce nelle casse della Uefa, che delle nazionali si nutre, e prolifera.

Euro 2021 prometteva e promette ancora di essere il torneo più ricco di sempre, nonostante il Covid che ha rinviato di un’estate la manifestazione. Le cifre ufficiali ancora non sono note, il consuntivo sarà pubblicato solo dopo l’evento. Ma c’è un numero, da tenere a mente come base di partenza: 331 milioni di euro. È il montepremi per le partecipanti: avrebbe dovuto essere di 371 in realtà, è stato ridotto a causa della crisi ma segna comunque un +10% rispetto all’edizione precedente. Ognuna delle 24 squadre prenderà 9,25 milioni, la vincitrice può arrivare fino a 28. Sembra tantissimo ma in realtà sono briciole della grande torta della manifestazione.

Cinque anni fa, in Francia, il montepremi fu di 301 milioni e il fatturato totale di 1,9 miliardi di euro. Mantenendo le stesse proporzioni, l’edizione 2021 dovrebbe superare per la prima volta la quota storica di due miliardi di ricavi. Da dove vengono tutti questi soldi è facile immaginarlo: diritti tv (oltre il 50%), sponsor, merchandising, biglietti, tutto ciò che gira intorno agli Europei è della Uefa. Ancora più interessante capire che fine fanno: nel 2016 la manifestazione si chiuse con un utile netto di addirittura 847 milioni di euro. Il segreto è semplice: le bocche da sfamare sono molte meno o comunque meno esose. Della Champions la Uefa riesce a trattenere solo il 6,5% dei proventi, margine che potrebbe ancora assottigliarsi in futuro. Diverso con gli Europei. Le Federazioni fanno parte del sistema Uefa, non sono i club, si accontentano di circa il 15% del totale. Un’altra fetta, 150-200 milioni, va proprio ai club, come “indennizzo” per aver messo a disposizione i loro calciatori. Poi ci sono i costi vivi per l’organizzazione, ma quelli infrastrutturali ricadono sul Paese ospitante. Il resto è tutto guadagno.

È la classica gallina dalle uova d’oro, e come tutte le mucche da mungere si cerca di farlo il più possibile. È la ragione per cui dal 2016 è stato aumentato il numero di partecipanti da 16 a 24: la nuova formula è bislacca, ha reso una farsa le qualificazioni (si qualifica praticamente chiunque, a questo giro pure la piccola Macedonia del Nord) e inutili i gironi iniziali, dove su 4 squadre passano le prime 2 e pure le migliori terze. Però ha avuto il grande merito di far schizzare il fatturato del 40%, e tanto basta. Per la Uefa è vitale e non è solo un modo di dire: senza gli Europei, praticamente fallirebbe. È con questo evento disputato ogni quattro anni, infatti, che l’associazione ripaga le spese degli altri bilanci, chiusi sempre sistematicamente in rosso: -74 nel 2020, -46 nel 2019, -5 nel 2018, -7 nel 2017, +100 nel 2016. E succederà anche l’anno prossimo, quando si chiuderanno i conti di Euro 2021. Gli utili servono per finanziare l’attività nel ciclo quadriennale, il mastodontico programma HatTrick per la promozione del pallone nel continente, come racconta la Uefa. O semplicemente per tenere in piedi il baraccone, questione di punti di vista. “Solo l’organizzazione di manifestazioni come gli Europei è in grado di far decollare il fatturato, portare in utile il bilancio e quindi garantire la stessa sopravvivenza dell’associazione”, spiega l’esperto di contabilità sportiva, Luca Marotta.

Tutto ciò vale in tempi normali. Ma questi sono tempi di guerra, perché l’effetto di una guerra ha avuto il Covid sul pallone. E lo avrà anche sugli Europei, come dimostra la sforbiciata del 10% al montepremi. È ancora presto per quantificare con precisione l’impatto della pandemia sulla manifestazione. Sicuramente i ricavi saranno inferiori a quelli previsti: se in sede di programmazione il fatturato era atteso intorno ai 2,3 miliardi, adesso la Uefa si accontenterebbe di toccare quota due miliardi. Il portale Statista.com aveva stimato in circa 300 milioni le potenziali perdite per lo slittamento al 2021 del torneo, potrebbero essere leggermente superiori. Per la Uefa comunque è il male minore. Un anno fa, quando si pose il problema di come rivedere i calendari internazionali dopo il lockdown, il gran capo Ceferin non ci pensò due volte a rinviare l’Europeo, evitando lo scontro con i club che spingevano per chiudere tornei nazionali e coppe a scapito della manifestazione. Stava salvando capra e cavoli. Innanzitutto perché anche la Champions è importante per i conti Uefa. Ma soprattutto, dopo un anno di lotta alla pandemia e mesi di vaccinazioni, il torneo oggi si disputerà in condizioni migliori di quelle che avrebbe incontrato l’estate scorsa.

Il rinvio permetterà alla Uefa di salvare persino una fetta degli incassi da stadio, cosa che sembrava impensabile fino a pochi mesi fa. Tanti campionati ancora aspettano il ritorno degli spettatori, ma gli Europei si giocheranno solo con i tifosi. Minimo il 25% di capienza dell’impianto. È stato un vero e proprio diktat, a cui si è dovuta piegare anche l’Italia, a metà aprile, quando ancora le prime riaperture erano lontane già si sapeva che per gli Europei ci sarebbero state 20mila persone all’Olimpico. La Uefa non va tanto per il sottile quando si tratta di soldi. L’impatto sui biglietti sarà inevitabile ma alla fine potrebbe essere relativo: i ticket rappresentano solo una piccola parte del business: a Euro 2016 valevano 269 milioni su 1,9 miliardi, il 14% del totale. Con la capienza al 25% la riduzione sarebbe ad un quarto, ma diverse città, da San Pietroburgo a Budapest, hanno già annunciato di voler aumentare la soglia, e l’Inghilterra lavora per avere Wembley al completo per la finale.

Sicuramente ci saranno delle spese extra da sostenere: il rinvio ha comportato penali, prenotazioni disdette e rifatte, disagi con gli sponsor, e poi l’estensione di un anno di tutti i contratti a libro paga dell’organizzazione. Il rinvio da solo è costato 150 milioni, sull’unghia. Per far fronte all’emergenza Covid, l’Uefa ha donato 75 milioni ai club e speso oltre 50 milioni in tamponi. E poi non bisogna dimenticare la formula itinerante con cui si disputerà il torneo quest’anno, per la prima volta in 11 undici città di 11 Paesi, prima delle final four in Inghilterra. Tante valute differenti, tanti comitati organizzatori, ognuno con le sue esigenze, spostamenti, tutto moltiplicato per 11: alla fine il “cost event” di Euro 2021 dovrebbe aggirarsi intorno a mezzo miliardo (nel 2016 fu di 355 milioni). All’Uefa tirano la cinghia, con meno ricavi e più spese il margine si assottiglia: sopravvivranno, con oltre 500 milioni di riserve patrimoniali se lo possono permettere.

Tutti in campo, suonano gli inni nazionali, comincia Euro 2021. Finalmente si gioca, si fa per dire.

Dilemma. Come scegliere il dottore tra la fauna dei consigli: “Ci sono ‘cani’ e occhi da Triglia”

Ma come si fa a stabilire se un medico è bravo o no? Non è come andare dal salumiere, dove arrivi con l’aria di chi sa bene cosa deve comprare: “Quel salame lì è buono vero? E quel formaggio? Mi raccomando c’ho gente a cena, mi dia il meglio, non mi faccia fare brutta figura!”. Oppure dal pescivendolo: “È fresco il pesce?” – “ Certamente signorina, si vede dall’occhio!” – “Ah, non lo sapevo” – “Se l’occhio è bello aperto, vuol dire che il pesce è buono!”. Tu ti fidi e compri, ma nel caso della scelta di un medico come fai? Soprattutto se ti devi operare, lì c’è in ballo la tua salute, e con la salute non si scherza, non puoi dire “dottore lei è sicuro della diagnosi vero? Mi faccia vedere la laurea!”. Quello ti caccia.

Allora come fai a scegliere un medico piuttosto di un altro? Ti informi un po’ in giro, ma ci sarà sempre chi ti dirà: “Ah, il dottor Tal dei tali è bravissimo, è il numero uno, capisce immediatamente quello che hai, c’ha proprio l’occhio!” – “L’occhio come il pesce?” – “Ma no, che c’entra il pesce, l’occhio clinico!”. Mentre qualcun altro ti dirà: “Per carità, non andare da quello che è un cane, è negato! Pensa, mia suocera aveva un’unghia incarnita e lui l’ha operata alla prostata!” – “Ma come, le donne la prostata non ce l’hanno” – “Sua suocera sì!”.

Vedete, faccio queste piccole riflessioni perché domani dovrei andare a togliermi un dente del giudizio e, a parte la paura di perdere quel poco di giudizio che ho, non so chi scegliere tra due esimi odontoiatri. Naturalmente ho pareri contrastanti, mi hanno detto che uno è tanto simpatico, bell’uomo, spiritoso, aggiornato e pieno di diplomi, però non basta. L’altro è un dolce vecchiettino tutto calvo, non ha neanche un diploma appeso al muro, forse non è neanche laureato, però ha degli occhi vispi, stupendi e soprattutto di cognome si chiama Triglia!

Indovinate da chi andrò?

 

Claretta. L’amante di Mussolini spiava il Regime per conto di Adolf Hitler (e non morì per amore)

Se passate da “Claretta” (Claretta l’hitleriana di Mirella Serri, Longanesi) vi trovate in un mondo affollato di gerarchi e spioni, di artisti fantasiosi della propria vita e della vita degli altri, di nuovi burocrati e di robusti relitti del passato, di sfacciati adulatori e di fedeli servitori di un solo personaggio, Mussolini (che di colpo si espande in dimensioni grottesche).

Un mondo dove ogni servizio si paga al capo, ma si mette subito a carico di qualcuno; gente che vive una bella vita di privilegi, potere e compensi ma restando sempre in equilibrio su un filo che richiede un lavorìo senza fine. Pena la caduta. Come nel celebre film di Stanley Kubrick Barry Lyndon, la Serri sceglie di passare, con un unico movimento di camera, dalle stanze affollate di spie (con e senza incarichi ufficiali) alla solitudine – angosciata, ma anche ben organizzata – di una donna. È una signora giovane e molto abile nel disporre e riordinare continuamente i materiali (persone, documenti, eventi, rivelazioni, incidenti) e i modi di resistere o reagire.

Il tema non è il fascismo ma il potere. La storia non è l’amore ma il controllo, un match di tennis di una campionessa improvvisata (ma brava, ci dice il racconto) continuamente sfidata dalla sorpresa, e capace a lungo di tenerle testa. Il punto di arrivo ci rivela (ed è questo il fatto nuovo offerto con bravura attenta ai dettagli dall’autrice) che la morte di Claretta Petacci, uccisa sul corpo già esanime dal suo presunto uomo, non è uno dei tanti femminicidi tipici di una barbarie che dura ancora. È l’esecuzione di una sentenza contro una spia molto attiva a causa del privilegio (l’amante del duce) e della sua scelta, finora ignota: lavorare per Adolf Hitler.

Il libro di Mirella Serri, come si vede, non è la trasformazione in racconto di un famoso dramma storico. È una indagine, una scoperta, e una rappresentazione radicalmente diversa della vita e della persona di Claretta (rispettata dal popolo antifascista in nome del suo legame d’amore). La donna appare qui come l’informatrice dei servizi tedeschi e la confidente di Hitler.

La narrazione di Mirella Serri ci dice che c’era chi lo sapeva bene, al momento giusto.

 

Claretta l’hitleriana

Mirella Serri

Pagine: 300

Prezzo: 19

Editore: Longanesi