Trincea. Agnelli e Perez come Hiroo Onoda: ultimi giapponesi nella giungla di Superlega

“La Superlega è una nuova competizione europea tra 20 top club, composta da 15 club fondatori e 5 qualificati annualmente. Ci saranno due gironi da 10 squadre ciascuno che giocheranno partite in casa e fuori all’interno del gruppo ogni anno. Riunendo i migliori club e giocatori del mondo, la Superlega regalerà emozioni e drammi mai visti prima nel calcio”.

Detto che l’unico dramma effettivamente consumatosi è stato quello della morte del neonato nella culla prim’ancora di udire il suo primo vagito, roba che nemmeno nella scena finale di Rosemary’s baby, sono queste le parole che a distanza di 50 giorni è ancora possibile leggere nel sito thesuperleague.com comparso d’incanto nella galassia del web nella notte tra domenica 18 e lunedì 19 aprile 2021 contestualmente all’annuncio della nascita dell’Orrida Creatura messa a punto in laboratorio dai novelli dr. Frankenstein Florentino Perez, presidente del Real Madrid, e Andrea Agnelli, presidente della Juventus. Che qualcosa non fosse andato per il verso giusto era apparso subito chiaro: per dirne una, i “15 club fondatori” erano in realtà 12 (all’ultimo momento se l’erano data a gambe Bayern Monaco, Borussia Dortmund e Psg, un quinto del battaglione), un po’ come se il mostro di Frankenstein si fosse mostrato agli astanti, a fine esperimento, senza una gamba, senza un braccio e senza un occhio.

Ma come si sarebbe sviluppata questa meraviglia di nuovo torneo annunciato al via già ad agosto 2021? “Dopo la fase a gironi – si legge ancor’oggi nel sito – 8 club si qualificheranno per un torneo ad eliminazione diretta, giocando in casa e fuori fino alla finale di Superlega in partita unica, in quattro emozionanti weekend”. Di emozionante ci furono invece le 48 ore che seguirono il Grande Annuncio: due giorni che videro l’abbandono del campo di battaglia, in un esilarante effetto domino, di ben 9 dei 12 combattenti, ossia tre quarti dei superstiti di questa Armata Brancaleone 2.0.

Non un gran kolossal, a giudicare dalla sceneggiatura. Ma come Hiroo Onoda, il militare giapponese che a 30 anni dalla fine della seconda guerra mondiale ancora si aggirava nella giungla dell’isola filippina di Lubang rifiutandosi di credere che la guerra fosse finita, anche i marmittoni Perez (Real Madrid), Agnelli (Juventus) e Laporta (Barcellona), continuano ad aggirarsi torvi nella giungla del Pianeta Pallone armati fino ai denti. La loro Creatura, nata morta, sia pure senza troppi onori ha avuto la giusta sepoltura ma loro non vogliono crederci e si rifugiano in trincea, ricaricano i fucili e urlano a tutti di arrendersi. Il moto di ribrezzo che l’intero mondo ha avuto di fronte al loro Progetto non li tocca: loro vogliono la Superlega e tutti dovranno passare sui loro cadaveri. Questa è la terza guerra mondiale: Hiroo Onoda la vuole vincere.

Oggi, a quasi due mesi dall’abortito progetto, l’Uefa si è stufata e adesso vorrebbe lasciarli fuori: che sarebbe il minimo, dopo il pandemonio creato. Invece loro si ribellano. Avevano pensato a un torneo a numero chiuso, a un calcio che avrebbe chiuso le porte in faccia al resto del mondo; e adesso che qualcuno dice loro “scusate tanto, per un anno o due avremmo pensato di lasciarvi fuori dalle nostre coppe, magari per schiarirvi meglio le idee”, loro si rivoltano, urlano e strepitano. E si rimettono l’elmetto.

Diciamolo: Sturmtruppen faceva ridere, ma non così tanto.

I post body positive, una gran bella cosa (ma il troppo storpia)

 

Bocciati

Show must go on?

Ad “Avanti un altro pure di sera” (vabbè, è un programma di Paolo Bonolis) una valletta è caduta. La signora Adriana era stata presa in braccio dal concorrente Luigi, che è inciampato e ha fatto cadere rovinosamente la donna a terra, per fortuna senza conseguenze. Come forse sapete però due anni fa un uomo, Gabriele Marchetti, è rimasto paralizzato dopo una prova a Ciao Darwin. La partecipazione al programma condotto da Paolo Bonolis gli è costata cara: il 56enne è diventato tetraplegico a causa di uno scivolone sui rulli della sfida “genodrome”. I fatti risalgono al 2019 e ora quattro persone rischiano il processo. L’uomo avrebbe spiegato agli inquirenti di aver svolto una prova senza essere stato addestrato né avvisato dei rischi che avrebbe corso. L’ipotesi di accusa è lesioni gravissime e vedremo cosa accadrà al processo. Resta il fatto, imperdonabile, che all’epoca la trasmissione andò in onda nonostante l’incidente. Show must go on? Forse no, forse abbiamo solo smarrito il senso del limite.

 

Promossi

Indiana nonns

”L’unica cosa certa è che Indiana Jones non morirà come accaduto recentemente a Ian Solo nella nuova trilogia di Star Wars. Su questo ci potete scommettere”. Parola di Harrison Ford, che è appena entrato per la quinta volta nei panni dell’archeologo più famoso della storia del cinema. Dice il nonno più sexy di Hollywood: “Non credo sarò più il protagonista di una commedia romantica. A volte leggo una sceneggiatura e mi capita di pensare che sarebbe perfetta se solo avessi dieci anni in meno, ma non li ho, quindi me ne faccio una ragione. A me piace il processo di creazione di un film. Lo trovo affascinante. Mi piace immaginare, spaziare. Adoro usare la mia fantasia e spero che questo aspetto non si sopisca mai e stia con me per sempre. Sono fortunato a potere fare ancora questo lavoro. È magnifico. E poi stiamo parlando di Indiana Jones. Ha significato molto per me”. E pure per noi!

 

Non classificati

Il comune seno del pudore

Arisa, dopo vari pentimenti sui ritocchini, si mostra su Instagram mezza nuda, con i seni in bellavista: “Ma sai che c’è? Ci sono cose che non potrai fare più… Il tempo passa e chissà come andrà a finire, ma qui e ora sono questa. Basta vergogne e interrogativi, basta se, basta ma… Mi voglio celebrare e ringraziare i miei genitori che mi hanno fatto bella, perfetta a modo mio”. La giudice di Amici ha più volte parlato del rapporto conflittuale con il suo corpo via social. “Quando ero piccola il mio seno era un grande problema. Stasera mi guardavo allo specchio e pensavo a quanto mi piace adesso. E meno tonico di quando avevo 20 anni, e ha qualche smagliatura che adesso trovo deliziosa”. Va tutto benissimo, il “body positive” e l’accettazione, ma benedetta Arisa non ce l’hai un’amica a cui raccontare tutte queste cose, che una volta si chiamavano confidenze?

 

Here’s a shadow hangin’ over me

“Hanno le stesse armonie, la stessa sequenza di accordi. Solo che ‘Non ho l’età’ è nata ben prima di ‘Yesterday’… Una coincidenza? So per certo che i Beatles mi conoscevano. Paul McCartney l’ho pure incontrato per intervistarlo per la Rai. In quegli anni a Londra si ascoltavano le mie canzoni. I Beatles allora erano dei ragazzini e l’avevano sicuramente sentita. Plagio involontario?”. Così Giliola Cinquetti al Corriere della sera. Ma non era meglio quando non si aveva l’età e nulla da dire? Ci sono cose che se anche si pensano, è più decoroso non dire.

 

Bella ciao. L’emozione di sentire un operaio mentre canta, al lavoro, l’inno alla Resistenza

Otto del mattino. Un caffé come unica compagnia. La solita dose: la metà di una tazzina fatta a mano da un’amica, fortunata superstite di un servizio sterminato negli anni da mani frettolose. Mentre lo sorseggio giunge una voce dall’esterno. “Una mattina, mi son svegliato…”. Non c’è dubbio, canta proprio così la voce sconosciuta. “O bella ciao, bella ciao…”. Ma perché quei versi in musica alle otto del mattino di una giornata feriale? Non è data di cerimonie o di commemorazioni. Non sono previste manifestazioni. Eppure le parole sono esattamente e coerentemente quelle: “… e ho trovato l’invasor”. Mi incuriosisco. Penso a qualcuno che forse vuole sondare le reazioni del vicinato, dalla strada o da qualche finestra dei palazzi di fronte. A una strofa spensierata in libera uscita. La voce però riprende. Ora è perfino tonante, si direbbe quasi da tenore.

“O partigiano, portami via…”, sembra che le sappia tutte, le parole. Non dev’essere né uno squinternato né, data l’ora, un ubriaco. Sapete com’è, in certe circostanze si è alla ricerca di voci amiche. Spinto dalla curiosità esco dunque con la mia tazzina sul balcone. Voglio vederlo, il tenore. Guardo in basso, nulla. Finestre e balconi dei palazzi vicini, ancora nulla. Sposto lo sguardo più in là, verso l’alto. E finalmente ho davanti a me, a circa cento metri di distanza, l’ispirato e improvvisato interprete della più bella canzone di Resistenza al mondo. È un uomo alto, robusto. Porta una maglietta color verde pisello sotto una giacchetta di tela gialla antinebbia. Sta armeggiando su un balcone, ultimo piano di una casa di ringhiera in ristrutturazione. Sta in piedi, vicino a una scala a pioli. Oltre la scala, sul tetto, c’è una altra persona, mi sembra più giovane e con la pelle più scura, che lavora con lui e che mi sembra il suo aiutante. Maglietta sul granata e pantaloni corti, tiene sollevato un secchio di detriti. È chiaro, sono due muratori che stanno eseguendo lavori finali senza più i ponteggi. Lui continua, come se traesse forza e gioia dal suo canto: “… e tutti quelli che passeranno…”. Canta con orgoglio, intervallando le strofe con qualche breve disposizione di lavoro al compagno che lo ascolta.

Voi direte: e che c’è di eccezionale in tutto questo? Forse nulla. Ma voi avete mai sentito un muratore, un carpentiere, un cuoco, uno spazzino, un giardiniere, un garzone, cantare Bella ciao a squarciagola mentre lavorava? Lo confesso: a me sentirla cantare da un muratore durante le sue fatiche di polvere e di pesi ha regalato un’emozione strana. Ho pensato che in fondo quella canzone ha preparato la Repubblica fondata sul lavoro. Ha dato dignità alle persone umili, magari venute da lontano, come mi è parso essere l’aiutante del tenore partigiano. Sono riandato anche a quando ero bambino e gli italiani cantavano per strada, a quando arrivava il festival di Sanremo e nei tinelli o nei salotti si approvavano le canzoni più orecchiabili dicendo “questa la canteranno i garzoni dei panettieri”, noti (allora) per fischiettare i loro motivi prediletti pedalando su una bicicletta. In un attimo Bella ciao mi riassume un po’ tutte queste conquiste e queste malinconie. Naturalmente il signore che armeggia a cento metri da me non lo immagina nemmeno. Andando avanti e indietro tra le porte del ballatoio all’ultimo piano esprime solo il suo buon umore.

Finché a un tratto si interrompe. Il ritornello si blocca. E arrivano altre parole, sempre con la stessa intensità: “Dice ch’era un bell’uomo e veniva, veniva dal mare”. Ancora qualcosa che sa di Resistenza. Questa volta le parole saltano, visibilmente il nostro tenore non le conosce tutte. Ma quelle che arrivano al mio balcone sono sufficienti a farmelo sentire amico. Abbiamo qualche affinità profonda, amico sconosciuto. Ecco che cosa ti combinano un caffè, un muratore e un po’ di solitudine.

 

Carlo Calenda. I ricchi finanziano “Mister 3%”. “Perché non sprecano i loro denari al casinò?”

 

“Io e la mia dipendenza affettiva. Volevo morire, riparto da zero”

Cara Selvaggia, sono Adele e tra meno di un mese compirò 17 anni, ma addosso me ne sento 10 in più. Sono stata vittima di una dipendenza affettiva e l’ho capito solo grazie a te, prima non ne avevo mai sentito parlare. Ti ho conosciuta grazie alla mia mamma che ti segue con passione, perché rivede me nei racconti delle vittime dei tuoi podcast. Io – e di conseguenza mia madre – abbiamo vissuto un trauma che ci ha segnate per sempre e per la prima volta non mi sono sentita sola, pazza e incompresa. Sapere che qualcuno (pur da adulto) aveva vissuto un’esperienza simile mi faceva stare meglio.

La mia storia con quel ragazzo di 18 anni, due più di me, è cominciata un anno e mezzo fa ed è finita da 5 mesi. L’ho conosciuto per caso in paese e mi è parso meraviglioso e misterioso, il tipico “tutte mi vogliono ma nessuna mi prende”. Siamo diventati amici e io all’inizio non volevo altro. Lui aveva già relazioni “tira e molla” con altre ragazze, io ero troppo semplice per uno come lui. La morbosità è cominciata intorno a giugno scorso: ero l’unica preda rimasta e mi dice di essere follemente innamorato di me, ma di non sapere cosa vuole. Da lì, cominciai a dipendere totalmente e completamente da lui. Compiacerlo era la mia missione, per non alterarlo o dispiacerlo. Ero il suo calmante, ma come una candela mi stavo consumando e insieme a me la mia famiglia. Mia mamma mi è stata vicina e gliene sarò per sempre grata, lei è la mia forza.

Dicevo: la mia dipendenza dura tutta l’estate con scontri durissimi con i miei, poiché era riuscito a mettermeli contro convincendomi che solo lui potesse capirmi, che solo lui mi conoscesse. Oltretutto, facevamo parte dello stesso gruppo di amici e stavamo sempre insieme. Già ad agosto mi svegliavo piangendo, per l’ansia della giornata che avrei trascorso con lui. Studiavo tutti i metodi per farlo sorridere e renderlo fiero di me, ogni tanto. Le litigate erano terribili, la cattiveria e l’odio che uscivano dalla sua bocca mostruosi. Non mi ribellavo, anzi, cercavo di riconquistarlo in qualunque modo, anche se “urlavo” a me stessa di scappare. In quel periodo ho coltivato l’amicizia con un altro ragazzo, che si è rivelato un angelo, mi ha difesa e si è preso cura di me quando nessuno capiva. Ma poi, spaventato, è scappato. Cosa potevo fare? Tornare nel circolo vizioso… e ci tornai. Mi misi insieme a lui, ma non ero innamorata, solo ossessionata dall’idea di renderlo felice e guarire le sue psicopatie. Non avevo più autostima, né amici. La mia famiglia non capiva il mio “bipolarismo”, senza stabilità mentale decisi di aggrapparmi alla mia unica certezza: lui. Fino a gennaio di quest’anno, quando realizzo di non voler più andare avanti. Parlo con mamma e non le nascondo il desiderio di porre fine alla mia vita. Le dico che dovrei andare da uno psicologo e di aver bisogno di cure. Ma lei non capisce. Contemporaneamente lui peggiora, è sempre più aggressivo, geloso, morboso, malato. Decido di lottare. Sfinita, lo lascio. S’era preso tutto e se avessi continuato a stare con lui si sarebbe preso anche la mia vita.

Ora sono completamente sola, senza amici, e da 5 mesi penso solo al futuro. Frequenterò il mio 4° anno di liceo in America e non vedo l’ora di rincominciare. Ti racconterei tutti i dettagli della mia storia ma una lettera non basta. Avevo perfino pensato di scrivere un libro, per far sentire meno sole le vittime di dipendenza emotiva. Grazie infinite per avermi dato la possibilità di esprimermi, te ne sono grata.

Adele

 

Cara Adele, questa è la storia di una dipendenza affettiva da manuale. Il fatto che tu abbia affrontato tutto questo da così giovane, ti permetterà di avere strumenti emotivi per il futuro, per proteggerti e non cadere più in queste relazioni malsane. A patto però che la tua rinascita inizi non solo da un Paese lontano ma anche da un percorso psicologico lungo e approfondito, mi raccomando. Buona vita!

 

Carlo dai Parioli, il candidato senza elettori (coi soldi dei big)

Cara Lucarelli, ho per Carlo Calenda la stessa simpatia che ha Lei. Quando è in tv cambio canale con una velocità imprevedibile in un uomo di 82 anni. Fino allo scorso 18 maggio mi chiedevo perché Calenda buttasse via i suoi soldi in un’assurda campagna elettorale. Pensavo gli interessasse solo apparire. L’articolo di Stefano Vergine mi ha fatto scoprire quei miliardari che, anziché gettare soldi nei casinò, preferisce regalarli a Calenda: 370 mila euro in un mese. Solitamente i contributi provengono da iscritti, amministratori o parlamentari in carica. In tal caso la quasi totalità proverrebbe da imprenditori; donazioni fra i 10mila e i 50mila euro. I più generosi Pier Luigi Loro Piana e Patrizio Bertelli, che non sono romani come non lo sono Alessandro Riello, presidente di Aermec, Fabio Storchi di Unindustria Reggio Emilia, i proprietari delle Rubinetterie Bresciane, Gianfelice Rocca, patron della multinazionale Techint. Calenda ha lavorato per Confindustria ma non bastano, secondo me, amicizie o relazioni industriali per investire denaro a fondo perduto. Calenda viene dato al 3-4%. Chi finanzia un politico spera nel do ut des; qui è prevedibile solo il “do”. Il des?

Guariente

 

Gentile Guariente, non ne ho idea. Consideri però che solo di Photoshop per i manifesti elettorali Calenda avrà speso il pil del Belize. Non sia troppo duro.

 

Il falco che sussurra a Draghi e Donald trump, il generale senza Twitter

 

Bocciati

Suonala ancora Sam

Wolfgang Schäuble, presidente del Bundestag e ministro delle Finanze della Germania dal 2009 al 2017, ha scelto le colonne del “Financial Times” per suonare la fine della ricreazione: “Per mantenere la pace sociale in Europa urge tornare a una severa disciplina fiscale”, ha scandito il falco tedesco alle altre nazioni europee. Poi dal generale il vecchio Schäuble è passato al particolare, cercando un contatto diretto con Mario Draghi: “L’esperienza mostra che i bilanci in pareggio nei Paesi con alti livelli di debito sono quasi irraggiungibili senza pressioni esterne. Lasciati a se stessi, i membri di una confederazione di stati rischiano di soccombere alla tentazione di contrarre debiti a spese della comunità. Ho discusso più volte di questo ‘azzardo morale’ con Mario Draghi. Siamo sempre stati d’accordo che, data la struttura dell’Unione monetaria europea, la competitività e le politiche finanziarie sostenibili sono responsabilità degli Stati membri”. Suonala ancora Sam, suona la nostra canzone. Come quando io ero ministro delle Finanze e lui banchiere centrale europeo. Suona come a quel tempo. Suona Sam. Ma i vecchi tempi sono andati, e mentre Wolfang ricorda e rimpiange i tempi felici del rigore e del pareggio di bilancio, Mario ha rotto i ponti con il passato e vive una nuova vita da premier, nella quale non c’è più posto per il sogno romantico dell’austerità. Oggi nel cuore di Draghi ci sono la crescita e il debito buono, non c’è amarcord che tenga, e Schäuble dovrà farsene una ragione.

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Non classificati

Volubilità canaglia

Dev’essere stata senz’altro una giornata uggiosa per Donald Trump, quella in cui ha toccato con mano quanto la gente non rifiuti affatto di esser preda di facili entusiasmi e ideologie alla moda, per dirla con Battisti. L’ex presidente degli Stati Uniti d’America, espulso da Facebook, Instagram e Twitter a seguito dei suoi post durante la rivolta di Capitol Hill che gli sono valsi una procedura d’impeachment con l’accusa d’istigazione all’insurrezione, ha pensato che il suo numeroso seguito di sostenitori sentisse l’esigenza di essere pedissequamente aggiornato sul fluire dei suoi pensieri, come era solito verificarsi ai tempi della Casa Bianca. Così ai primi di Maggio ha aperto il blog “From the desk of Donald J. Trump” (“Sorge un faro di libertà. Un luogo dove parlare liberamente e in sicurezza”, diceva il video di presentazione della nuova piattaforma), con l’aspettativa di raggiungere decine di milioni di visualizzazioni. C’è voluto meno di un mese perché il tycoon si rendesse conto di come la media d’interazioni sul social non superasse le 15mila al giorno e prendesse atto che un calcolo tanto preciso quanto impietoso sul proprio calo di popolarità fosse tutt’altro che una buona pubblicità. Così il blog è stato chiuso in quattro e quattr’otto e la scrivania restituita al suo mero ruolo di scrittoio. Ma soprattutto The Donald ha imparato a sue spese come quella volubilità dell’opinione pubblica che l’ha fatto salire alle stelle, portasse con sé anche la caduta alle stalle.

 

Vaticano. Da Lutero a Ratzinger e Marx: la Chiesa tedesca sposta a “sinistra” le divisioni tra cattolici

A giudizio di vari esperti di Vaticano nonché della destra clericale anti-Bergoglio, le clamorose dimissioni del cardinale Reinhard Marx da arcivescovo di Monaco e Frisinga offrono, in generale, una lettura pessimistica dell’esito rivoluzionario del pontificato Francesco. Marx è infatti uno dei cardinali più fedeli a Bergoglio e il suo strappo si può leggere come l’atto finale di una crisi irreversibile della Chiesa (“punto morto”) oppure come un’ultima disperata mossa per scuotere il centralismo di Roma (“punto di svolta”).

Ufficialmente, nella lettera datata 21 maggio e resa nota venerdì 4 giugno, con l’autorizzazione dello stesso Francesco (un dettaglio non secondario), l’arcivescovo dimissionario si dichiara sconfitto per il “fallimento istituzionale e sistematico” della Chiesa tedesca a causa dello scandalo della pedofilia. Eppure il cardinale, come riconosciutogli in Germania da più parti, ha affrontato con decisione e coraggio la questione degli abusi clericali sui minori, a differenza dell’arcivescovo di Colonia Rainer Maria Woelki, il suo principale oppositore e che secondo il Comitato centrale dei cattolici tedeschi si sarebbe dovuto dimettere al posto di Marx, come riferito ieri da Avvenire.

La pur decisiva lotta alla pedofilia nella Chiesa è però solo un aspetto di quello che è ormai considerato il rischio scismatico in Germania. Un pericolo noto da tempo e che adesso viene rilanciato dalle dimissioni di Marx, che nella sua lettera fa riferimento al fatidico cammino sinodale per ripartire e dare un punto di svolta.

Da anni nella Chiesa teutonica si registra una tendenza progressista su celibato sacerdotale, donne prete e benedizioni alle coppie gay. Al punto che un altro cardinale tedesco di rango, Gerhard L. Müller, già prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, ha parlato di in un’intervista alla Nuova Bussola Quotidiana di “un’agenda omosessualista e femminista” che “mina l’antropologia naturale”. Questo anche a causa della vicinanza coi protestanti luterani. Insomma, come ha titolato ieri La Verità, il quotidiano di Belpietro, “Dietro la spallata di Marx c’è un’agenda di riforme alla Lutero”. Il paragone tra Bergoglio e l’autore della Riforma è un classico di questi anni di anti-bergoglismo, solo che stavolta Francesco stesso potrebbe essere vittima dello strappo marxiano. Non solo. Nel lacerante dibattito sul futuro della Chiesa teutonica, il 20 maggio scorso c’è stata un’altra lettera che non ha avuto molto risalto.

A vergarla il papa emerito e tedesco Benedetto XVI. In risposta all’invito ricevuto dal seminario della diocesi di Czestochowa, Ratzinger scrive: “Che meraviglia vedere in Polonia ciò che invece sta appassendo in Germania”. E qui ritorna forte il tema dell’intransigenza dottrinaria della destra clericale. Da una parte il cattolicesimo polacco, cupo e tradizionalista. Dall’altra la sinistra di Marx, il cardinale. In mezzo Francesco, che nella domenica di Pentecoste, il 23 maggio, ha ammonito: “Oggi, se ascoltiamo lo Spirito, non ci concentreremo su conservatori e progressisti, tradizionalisti e innovatori, destra e sinistra, no: se i criteri sono questi, vuol dire che nella Chiesa si dimentica lo Spirito”.

 

Non perdòno Brusca e Riina, ma la legge sui pentiti va difesa

Nell’estate di 29 anni fa, Riina era raggiante. “Giovanni, si sono fatti sotto. Insistiamo. Gli ho fatto un papello di richieste grande così”. Sono parole di Riina e quel Giovanni è Giovanni Brusca, boss di San Giuseppe Jato, assassino di Falcone e mandante dell’omicidio del piccolo Di Matteo, figlio di Santino Di Matteo, uomo d’onore del clan di Altofonte il quale, arrestato dopo la strage di Capaci, aveva deciso di pentirsi. Brusca è stato appena scarcerato. Uno dei killer più crudeli della mafia, autore di decine di omicidi nonché collaboratore di Riina nella fase stragista, è uscito dal carcere. “Se lo incontro non so che succede”, ha detto Santino Di Matteo. Come dargli torto. Il punto è che la legittima indignazione non deve mai ottenebrare il ragionamento. Soprattutto nei tempi oscuri che stiamo vivendo, tempi di restaurazione anche per quel che concerne la lotta alla mafia. Qui nessuno chiede il perdono per Brusca. Perdonare sarà anche divino, ma siamo uomini e nessuno può costringerci a farlo.

Io non perdono Brusca, non perdono Riina, non perdono Provenzano, non perdono chi ha trattato con la mafia dopo Capaci accelerando l’assassinio di Borsellino. Non perdono ma difendo la legge sui pentiti. Ogni pentito, chi più chi meno, si è macchiato di tremendi delitti prima di pentirsi. Per caso erano uomini onesti i Salvatore Grigoli, assassino di Don Puglisi, i Gaspare Spatuzza, killer di Brancaccio, i Francesco Di Carlo, testimone chiave al processo Dell’Utri? Era un santo Buscetta, il boss che testimoniando al maxi-processo permise la condanna di centinaia di mafiosi? Fa scalpore che colui che pigiò il telecomando a Capaci sia stato scarcerato grazie ad una legge voluta dal giudice che fece saltare in aria. Ma è la legge, ed è una legge da difendere. Brusca non è il primo pentito che esce di prigione dopo aver “parlato”. Qualcuno, oggi, vorrebbe fosse l’ultimo. O meglio vorrebbe che fosse l’ultimo boss ad uscire dopo aver vuotato il sacco (o parte di ecco). Esistono i collaboratori di giustizia ed esistono coloro che, forse senza neppure accorgersene, “collaborano” con le cosche rilanciando le loro richieste.

Fu Brusca in persona a raccontare agli inquirenti quell’incontro con Riina dopo la strage di Capaci. “Giovanni si sono fatti sotto” disse il capo dei capi. Traduzione? “Lo Stato ci ha cercato, le stragi funzionano. Possiamo alzare il tiro”. Se nel nostro ordinamento non ci fosse la legge sui pentiti voluta da Falcone, Brusca avrebbe mai raccontato quell’episodio? Sono immorali le scarcerazioni dei boss pentiti? Può darsi. Ma la morale lasciamola ai moralisti, chi combatte la mafia ha il dovere di essere pragmatico. Quanti omicidi sono stati evitati grazie ai pentiti? Quanti assassini sono finiti in cella grazie alle loro confessioni? Si ritiene che Brusca non abbia detto tutto. Probabile. Così come non disse tutto Buscetta. “Non mi chiedete chi sono i politici compromessi con la mafia perché se rispondessi, potrei destabilizzare lo Stato” disse Buscetta a Falcone. E sempre Buscetta, nel 1999, a La Repubblica disse: “I collaboratori hanno perduto da tempo.

Tutti, e soprattutto negli ultimi due anni, non hanno fatto altro che parlare male di loro”. Ciò che avviene oggi. Attaccare Brusca è facile. Accorgersi che alcuni lo stanno facendo per colpire il pentitismo, ovvero una delle armi principali in mano agli inquirenti, è più difficile. La riforma della legge sui pentiti era una delle richieste che Cosa nostra avanzò durante la trattativa. Chi oggi attacca i pentiti si posiziona, consapevolmente o meno, dalla parte dei boss. Di quei boss che non si pentono (vedi i fratelli Graviano) perché attendono che il solo dissociarsi dalla mafia, atto che non prevede alcuna confessione, potrà garantirgli sconti di pena. In tal senso l’attacco all’ergastolo ostativo – ovvero niente sconti per chi non si pente – rischia di esaudire una delle richieste contenute nel papello. La verità è che ci sono pentiti e pentiti. Dei collaboratori di giustizia che parlano di altri criminali importa poco o nulla. Al contrario i pentiti che osano menzionare politici o pezzi delle istituzioni vanno delegittimati affinché nessun altro si azzardi a fare altrettanto. Fu Enzo Brusca ad uccidere materialmente il piccolo Di Matteo su ordine di suo fratello Giovanni. A raccontare i particolari macabri dell’assassinio fu Vincenzo Chiodo, il quale, insieme a Brusca junior strangolò il bambino prima di scioglierlo nell’acido. Enzo Brusca è stato scarcerato nel 2003 ma la cosa fece meno scalpore. Anche lui ha ottenuto uno sconto di pena per essersi pentito. Anche lui ha fornito agli inquirenti utili informazioni, ma a differenza del fratello, non ha parlato del papello, della Trattativa Stato-mafia e di un lussuoso orologio che sarebbe stato visto al polso di Berlusconi da Giuseppe Graviano. Nell’Italia della restaurazione c’è chi combatte affinché i pentiti si pentano non di aver sparato, ma di aver parlato troppo.

La sai l’ultima?

 

Ischia

L’ex senatore Antonio Razzi vince il prestigiosissimo premio Orgoglio italiano

E alla fine il senatore dei senatori, l’eterno Antonio Razzi ha avuto anche un trofeo. L’uomo che sapeva farsi i cazzi suoi ha ricevuto il prestigioso (?) “Premio Orgoglio Italiano”. Dobbiamo confessare la nostra completa ignoranza sulla storia di questa onoreficenza: il sito del premio è offline, in rete si trova qualche informazione frammentaria, pare sia destinato alle “eccellenze italiane nel mondo”. Chi meglio di Razzi, che negli anni d’oro faceva sopravvivere i governi e tesseva proficue relazioni dipolomatiche con la Corea del Nord. Il premio gli è stato consegnato a Ischia lo scorso fine settimana. Insieme al nostro, una serie di vincitori illustri: “Per la Tv Elisa D’Ospina, Roberta Morise, Monica Marangoni, Nadia Bengala, Demetra Hampton, Graziano Scarabicchi”, scrive il sito isolaverdetv.com. Razzi ha festeggiato con una foto su Instagram appolipato a una procace signora bionda: “la bellissima Paola Caruso”, scrive lui. Complimenti a tutti.

 

Danimarca

La giornalista fa l’inchiesta sul locale di scambisti e manda in onda il suo rapporto sessuale

Giornalismo da Pulitzer in Danimarca: una giovane reporter di Radio4 ha realizzato un’inchiesta sui locali di scambisti da insider, nel senso che alla fine si è “scambiata” pure lei e ha mandato in onda un suo rapporto sessuale. Lo scopriamo su Today.it: “Dieci minuti senza filtri nel locale vicino Copenaghen – appena riaperto dopo il lockdown – dove la 26enne ha documentato in ogni dettaglio un mondo in cui non tutti sono ammessi. Un’intervista ‘sperimentale’ che nasce da un’idea della Fischer, senza nessun condizionamento da parte dei suoi datori di lavoro”. Lei ci teneva davvero: “In redazione hanno pensato che potesse essere un nuovo punto di vista e si sono assicurati che avrei fatto solo quello che avrei voluto di mia spontanea volontà”, ha detto la cronista. “Ho trovato persone molto più educate che in un normale bar – ha aggiunto – e avrei potuto tranquillamente dire di no se non avessi voluto. Mi sono divertita. Gli uomini in quel locale ti fanno sentire una dea”.

 

Livorno

“Vietato ciabattare”, in centro compare un segnale stradale (finto) contro l’esercito dei turisti in infradito

Meraviglia a Castiglioncello, in provincia di Livorno. Con l’arrivo della stagione estiva è comparso in centro un curioso segnale stradale. Ci sono disegnate due infradito e un richiamo a stampatello: “Vietato ciabattare”. Qualcuno pare ci sia cascato, tanto più che dopo pochi giorni quel cartello meraviglioso è stato rimosso. Non si sa chi sia l’anonimo sognatore che ha provato a introdurre il divieto. “È sparito nel nulla lasciando a bocca asciutta i curiosi che nei giorni scorsi non hanno mancato di scattare fotografie e commentare sorridendo lo scherzo di inizio estate – scrive il Tirreno -. Adesso, all’incrocio tra le due vie, è rimasto solo il più triste cartello di divieto di accesso. E nessuno sa chi lo abbia rimosso. Forse lo stesso autore o qualcuno di passaggio per tenersi un souvenir”. Resta un monito contro lo sbraco della stagione turistica, un segno molto più profondo di quello che lasciano le infradito.

 

Trucchi

Maneskin-mania anche nel mercato dei cosmetici: crescono del 70% le richerche di “eyeliner per uomini”

Un’altra puntata della Maneskin-mania. Dopo l’imprescindibile notizia sul cantante Damiano che somiglia a Lady Diana, questa settimana il titolo ce lo dà il sito di Repubblica nella sezione “D”: “Le ricerche Google di ‘eyeliner per uomini’ crescono del 70%: merito dei Maneskin”. A quanto pare l’estetica glam dei ragazzi romani che hanno vinto l’Eurovision – già apprezzata dal democratico e tutt’altro che omofobo governo bielorusso – sta spopolando sul mercato dei cosmetici. A sancire questo nuovo trionfo dei Maneskin è la piattaforma di “ricerca di moda, beauty e design” Stylight Insights, che analizza i numeri dello shopping online in quello specifico settore di mercato: “Dal 23 maggio (il giorno dopo la finale dell’Eurovision) al 29 maggio, le ricerche di trucco da uomo, in particolare l’eyeliner, sono più che raddoppiate rispetto alla settimana precedente”, scrive D.

 

Firenze

Una mamma si dimentica la figlia piccola al supermercato, la trovano addormentata tra gli scaffali

Forse non vincerà il premio “genitore dell’anno” ma poteva andare molto peggio di così. Una mamma di Firenze è riuscita nella notevole impresa di scordarsi la figlia al supermercato. La bimba per fortuna non si è accorta di nulla, dormiva come un ghiro nel passeggino, parcheggiato tra le corsie e gli scaffali. Lo scrive La Nazione: “Una vicenda che ha gettato nel panico il supermercato Lidl di via D’Annunzio. Verso le 20.40 la chiamata ai carabinieri. ‘Venite, c’è una bambina lasciata sola nel passeggino tra gli scaffali, non sappiamo di chi sia. Sta dormendo’, è stata la richiesta”. Il primo a presentarsi è stato il nonno, poi la bambina è stata portata in ospedale per verificarne le condizioni. È lì che sono arrivati finalmente i genitori della bimba. La madre ha provato a fornire una spiegazione, non molto convincente: “Ero con mia sorella e la bambina: siamo andate al supermercato. Abbiamo fatto spese differenti e ci siamo separate. Avevo capito che mia sorella avrebbe riportato a casa la piccola”.

 

Usa

Triste storia di Toby, il cane con i rasta: il suo pelo era così aggrovigliato che non riusciva più a camminare

A vederlo in foto poteva essere il cane di Bob Marley, un quadrupede rastafariano con il pelo raccolto in grandi trecce dreadlock. In realtà l’aspetto peculiare del povero Toby era il frutto di una storia di abbandono e incuria: la bestiola è stata trovata dopo la probabile fuga da un padrone poco attento (eufemismo) e aveva il vello talmente sporco e arruffato da non riuscire più a camminare o a vedere davanti a sé. La bestia è stata salvata e portata in un rifugio per cani, dove l’hanno sottoposta alla faticosa toeletta di cui aveva gran bisogno. “Con il pelo tagliato – scrive il sito La Zampa, che allega tempestiva documentazione fotografica – Toby è irriconoscibile. Per ora dovrà rimanere nel rifugio, in attesa che venga fatta chiarezza sul suo passato. Nel mentre si potrà godere un po’ di attenzioni speciali che sicuramente gli mancavano da tempo”. Anche se purtroppo non sarà più un pastore giamaicano, ma un piccolo bastardo qualunque.

 

Udine

Credeva fosse profumo, invece era spray al peperoncino. Tutta la classe finisce in lacrime, arrivano pure i carabinieri

Miracoli della scuola in presenza, finalmente. Un’intera classe di una scuola professionale di Udine è stata visitata dai medici di quartiere dopo che un’alunna aveva spruzzato una bomboletta di spray al peperoncino convinta che si trattasse di profumo. Se si sia trattato di un vero equivoco o di uno scherzo finito malissimo non lo sapremo mai. Nel dubbio ci affidiamo alla puntuale cronaca del sito di Telefriuli: “Intervento delle ambulanze questa mattina intorno alle 10 durante l’ora della ricreazione nella scuola professionale IAL di via del vascello a Udine. Una ragazzina, dopo aver infilato la mano nello zaino della compagna, ha spruzzato una bomboletta credendo si trattasse di un profumo mentre invece si trattava di spray al peperoncino. Gli studenti hanno iniziato a tossire e lacrimare. Nessuno è stato portato in ospedale ma sono stati controllati dal personale medico inviato immediatamente dopo l’allarme lanciato dall’insegnante. Sul posto anche i carabinieri della radiomobile della Compagnia di Udine”.

Cemento o niente: il futuro dell’Italia è a Santo Stefano

“Parlo per esperienza personale (…) in carcere, onorevole Ministro, si fa questo: si percuote un detenuto; sotto le percosse il detenuto muore (…) Ed allora fanno questo: denudano il detenuto, lo legano all’inferriata e lo fanno trovare così appeso. Viene il medico e fa il referto di morte per suicidio. Questa fu la fine di Bresci. Bresci è stato percosso a morte, poi hanno appeso il cadavere all’inferriata della sua cella di Santo Stefano, dove io sono stato un anno e mezzo”. Il 19 novembre del 1947, con questa scioccante testimonianza di Sandro Pertini irrompeva in Assemblea costituente il carcere borbonico di Santo Stefano, isola pontina prossima a quella di Ventotene.

Un luogo terribile, una delle più straordinarie testimonianze di quel “sorvegliare e punire” che costò la vita, tra gli altri, all’anarchico Gaetano Bresci, responsabile di aver tolto di mezzo il re Umberto I per vendicare gli 81 manifestanti milanesi caduti sotto le fucilate ordinate dal generale Bava Beccaris, prontamente fatto senatore da Umberto. Un luogo, Santo Stefano, che dovrebbe rimanere “prevalentemente simbolico, orientato alla conservazione del patrimonio architettonico, ambientale e paesaggistico, e al mantenimento della sua aura: un landmark volto alla messa in opera della memoria (…) un luogo quasi sacrale”. Sono parole del Progetto Ventotene per il recupero del carcere di Santo Stefano, affidato a Invitalia e guidato dal commissario straordinario Silvia Costa, politica di lunghissimo corso. Ma nonostante questa sacrosanta enunciazione di principio, il progetto si sta concretizzando nella costruzione di un osceno molo di 25 metri da realizzare con cassoni cellulari imbasati fino a profondità di 7 metri, solidarizzati attraverso getti in calcestruzzo e micropali, e collegati in testa da sovrastrutture in cemento armato emergenti ad altezze fino ai 2,5 metri sopra il livello del mare. Tutto in una Riserva naturale statale, area marina protetta di interesse storico archeologico. Dal progetto non è chiaro se il banco di tufo con testimonianze di età romana, sarà coperto da una gettata in calcestruzzo con soletta di 10 cm e pavimento rivestito in pietra locale. Però si parla di “porto”: il sospetto è che sia la prima tappa di uno scempio ben più grande.

Leggendo il progetto, si capisce che i promotori hanno chiare le proporzioni dell’impatto ambientale e simbolico di questo cemento colato su quello che loro stessi definiscono “un luogo quasi sacrale”. Si apprende che “inizialmente è stata valutata, ed esclusa, anche l’ipotesi zero, ovvero l’ipotesi di ‘non intervento’. Questa richiede misure di carattere gestionale e operativo attraverso l’impiego di una flotta di imbarcazioni specializzate e dedicate in funzione degli usi: per lo sbarco passeggeri è possibile ricorrere a mezzi nautici di ultima generazione dotati di adeguate passerelle e/o pedane, ad integrazione della flotta di gommoni che attualmente vengono utilizzati per le visite all’isola; per lo sbarco e la movimentazione di materiali e merci è possibile ricorrere a mezzi nautici e motopontoni dotati di sbracci o rampe idrauliche. Inoltre, l’ipotesi di impiego di ‘flotte dedicate’ non necessiterebbe di opere a terra ed a mare, ad eccezione dell’approntamento di bitte e di corpi morti / boe, esclusivamente presso lo Scalo della Marinella, unico ad avere condizioni di sbarco, seppur minimali, attraverso la banchina esistente scavata nella roccia”. Splendido, fantastico, giusto: ma allora perché il cemento? Basta continuare a leggere: “Tuttavia, si renderebbe necessaria una attenta gestione della flotta in termini di programmazione degli usi, oneri per acquisti e/o noleggi, interventi di manutenzione specializzata, etc”. E soprattutto ci sarebbe un problema “di utilizzo dei fondi destinati al Contratto Istituzionale di Sviluppo, i quali sono destinati esclusivamente alla realizzazione di un approdo e non alla predisposizione di una ‘flotta dedicata’”. E dunque non resta che cementificare: anche se lo stesso documento riconosce che “l’aspetto critico principale di questa soluzione è costituito dall’estensione del tratto di costa interessato dall’intervento”.

Riassumiamo: si potrebbe rendere visitabile Santo Stefano senza toccare l’ambiente e la storia, e anzi creando lavoro in una economia virtuosa. Ma i fondi ci sono solo per il cemento, non per la sostenibilità ambientale. È, questo, il meccanismo infernale che distrugge insieme ambiente e lavoro: ed è la filosofia che presiede al Pnrr del governo Draghi. Non sorprendentemente, Silvia Costa ha dichiarato che “alcune delle sei dimensione del Pnrr incrociano lo spirito e il metodo del progetto Santo Stefano in particolare la dimensione culturale, la valorizzazione del patrimonio, l’utilizzo delle fonti alternative, la parte ambientale, la nuova agricoltura e la transizione digitale”. Un motivo in più per preoccuparsi di ciò che sta per succedere a tutto il Paese.

“La tv è una droga che brucia il pensiero. Ora mi disintossico”

“La televisione ti propone di regredire, retrocedere alla condizione di un bufalo, bruciare con le parole il pensiero, far saziare il fanatico dicendo una castroneria, oppure lanciare una cattiveria perché in tv il peggio è persino un pregio. Richiama gente che dirà: ma guarda tu che stronzo è questo qui. Io accetto volentieri questa disfatta”.

È davvero un mistero glorioso il matrimonio di Mauro Corona con la tv.

Narcisismo, voglia di vendere un po’ di libri, perché i soldi possono servire a necessità familiari, a urgenze.

Mauro Corona era uno scrittore di pietra e di legno. Destinato a una vita selvatica, perciò curiosamente popolare. È stato ingabbiato recentemente, da qualche mese è tradotto negli studi di Cologno Monzese.

Erto è la mia spada, il mio fianco, la mia dimensione e il mio destino finale.

Temeva che senza la tv non sapessero della sua esistenza?

La tv ti droga e sei finito.

Ancora non mi è chiaro perché sia finito da Del Debbio, a parlar bene della Meloni.

In tv ci sto perché sono narciso, perché voglio apparire. Dobbiamo dircele le cose.

Lei è un devoto della verità.

Mio nonno diceva: se devi annegare allora vai in un mare grande.

La tv sarebbe il mare grande?

Esatto.

Non ha bisogno di vestiti di scena, è barbarico, esonda oltre i confini della ragione.

Bisognerebbe dirsi anche un’altra verità: in tv devi andare senza aver bevuto e mangiato. Ti scappa una parola, a me ne scappano molte.

Più ne scappano e più si alza lo share.

Mi voglio disintossicare, vorrei smettere. In autunno smetto.

Condivido.

Se ce la faccio smetto, ma non sono sicuro.

Ora è sotto contratto con Mediaset.

Vorrei tornare a Raitre. Quella è casa mia. Vorrei ritornare da Bianchina.

Con la Berlinguer c’è una bella connessione.

Per fare la guerra a Bianchina il direttore di rete Franco di Mare (Frank Del Lago, lo chiamo) ha fatto fuori me. Quell’epiteto (“gallina!”, ndr) di cui mi sono ampiamente scusato è stato il pretesto.

Con la parola scritta ci sa fare bene perché rimpiazzarla con le urla?

Le cafonerie?

Anche.

Devo dire che con Del Debbio c’è un bel rapporto.

Devo dire che non si capisce niente. A volte.

Perché irrompo, non penso, dico anche ciò che non si potrebbe, o non mi faccio capire come dovrei. Per esempio: sono di sinistra ma se il centrodestra fa una cosa buona io dico evviva il centrodestra.

Si capisce e non si capisce.

Sono del Pd, sono comunista, ho votato Rifondazione.

È dentro il flusso afflittivo?

Se non sei in tv muori e nessuno lo sa.

Corona ci è andato da vivo.

Anche per soldi, diciamoci la verità. Nel senso che qualche libro in più lo vendi.

La pagano poco?

Cinquecento lordi a puntata a Raitre, a Mediaset siamo a settecento. Togli le tasse e tutto finisce in spiccioli.

Disintossichiamoci.

Lo penso veramente. Chissà se in autunno ci sarò.

Tra l’altro le sue montagne l’aspettano. La sorella roccia, il fratello abete. E poi il faggio, la roncola, lo scalpello.

Proprio adesso sono sceso dal monte.

Erto.

Qua piove sempre.

Perché si maltratta così?

Se faccio il cafone in tv non significa che sia cafone.

La tv propone anche il senso cafonal della vita.

Ho letto due tir di libri.

Nessuno se ne accorge se continua con le ospitate fisse.

La tv è la risacca di noi stessi.

Senza la televisione saremmo un popolo?

È un popolo per lo più analfabeta. La televisione abbassa il rating dell’intelligenza.

Ma rende la conoscenza istantanea, diretta e orizzontale.

Ma costringe al mascheramento, alla banalizzazione.

È il motore della democrazia.

Lei è a favore o contro la tv? Perché mi sa che i ruoli sono mutati.

Era per fare l’avvocato del diavolo.

In autunno mi disintossico e smetto, come ho fatto con l’alcol.