Dodi Battaglia è un juke-box vivente dei Pooh, è un portatore sano di melodie, arrangiamenti, parole e storia dei quattro (o cinque) splendidi cinquantenni (non come età anagrafica, ma per durata del sodalizio).
Dodi Battaglia ha sempre e ancora Tanta voglia di lei; di lei intesa come musica, così quando risponde, spesso intona, canticchia, cita, fissa le date della propria esistenza a seconda delle hit, degli album, o magari della tournée, come fossero Natale, Pasqua o Capodanno. “E infatti non ho ancora capito il motivo del nostro scioglierci”, ripete da anni, come un ritornello, appena qualcuno gli nomina il gruppo.
Il primo giugno ha compiuto settant’anni, “o sette punto zero”, come li definisce lui, e tutti i giorni abbraccia la chitarra “e la suono per almeno tre ore. Se invece ho dei concerti o un disco, mi preparo mattina, pomeriggio e sera”, con dinamiche da francescano in preghiera, “chiuso in una tavernetta perso tra i miei accordi”.
Guai a disturbarla.
No, con gli anni ho cambiato atteggiamento rispetto alla vita.
Cioè?
Conviene arrotondare gli angoli dell’esistenza; (pausa) quando i Pooh hanno deciso di smettere, sono rimasto spiazzato, non lo avrei mai immaginato, anche perché andavamo sempre alla grande, con concerti straordinari, eppure davanti a quella decisione non mi sono incazzato.
Passati cinque anni?
Mi sono organizzato con musicisti fantastici, ho realizzato dei bei dischi, tutti andati bene, ho almeno sessanta date l’anno e in bei spazi. Per me è la libidine vera; (ci pensa) a me i concerti per pochi intimi sono sempre interessati poco: ho bisogno dell’alito delle persone, voglio sentire la puzza del sudore, vedere gli occhi che brillano.
Si è mai lanciato sul pubblico?
(Ride) No, però sono caduto dal palco e a causa di un momento di estasi: guardavo la gente cantare e ho valutato male le distanze.
Bel rischio…
Il vero rischio è stato correre per vent’anni in macchina, mentre ero un Pooh.
La sua altra passione.
(Sorride) Da bravo emiliano credo nella musica, nella velocità e nella gnocca: ce l’abbiamo nel sangue.
Ha corso insieme a Giorgio Faletti.
Una delle persone più divertenti e intelligenti mai conosciute; a fine gara, la sera, restavamo con i tecnici e i meccanici a mangiare, noi sempre in tuta, sporchi, pieni di grasso, e lui a tenere banco con la sua profonda leggerezza; poi quando eravamo soli usciva il Giorgio in stile Minchia signor tenente.
Il brano presentato a Sanremo…
Pezzo bellissimo, ricordo ancora quando, serio, mi chiese di ascoltarlo, e non rimasi troppo stupito, perché conoscevo la sue qualità nascoste: ero già entrato con lui in sala d’incisione.
Oltreché con i Pooh, spesso ha inciso con altri artisti.
Se mi chiamano, vado, mi sento gratificato e arricchito; ed è stato così con Gino Paoli, Zucchero, Enrico Ruggeri, Mia Martini; ognuno di questi è una star, e passare del tempo con loro ti fa brillare della luce che li avvolge.
Anche lei è una star.
(Incerto) Sì, ma per me è diverso: ho iniziato a suonare quando avevo cinque anni, poi vengo da una famiglia di musicisti e gli strumenti sono parte di me, è qualcosa di naturale; una mattina papà portò a casa una fisarmonica, e la sera già la suonavo benissimo. Tutti sbalorditi.
Qualcuno dei figli ha ereditato questo dono?
Daniele (speaker radiofonico) sarebbe potuto diventare un gran bel cantante, e ci ha provato, ma alla fine non è stato corroborato dall’ossessione necessaria per tentare questa strada. Però sono contento così, ha trovato la sua strada.
Anni fa Guido Elmi, produttore di Vasco, al Fatto…
(Ferma la domanda) Guido è stato un grande, un fratello, eravamo a scuola insieme, ed è stato lui a portarmi da Vasco per suonare tre brani.
Per Elmi non è mai esistita una scuola bolognese.
Perché qui siamo gentili, accoglienti, disponibili, ridiamo e scherziamo, ma alla fine ognuno resta a casa sua, ognuno ha il suo orticello; (cambia tono) abito a sessanta o settanta metri da Vasco, ma non ci vediamo; con Gianni (Morandi) siamo amici, ma stessa storia, così come con Gaetano Curreri.
Le dispiace?
Al di là di Bologna o non Bologna, tutti noi vogliamo essere il Re del quartierino, nessuno intende dividere la luce con altri artisti.
I Pooh, altro che quartierino…
La nostra forza è stata una peculiarità che spiego con un esempio: anni fa, con la mia compagna di allora, sono andato a un concerto di Franco Battiato ed ero tranquillo in platea, senza che nessuno mi fermasse per un autografo o una foto. Ero uno dei tanti. Se allo stesso concerto mi fossi presentato con gli altri componenti della band, sarebbero stati capperi, roba da servizio d’ordine.
Quindi?
In questi decenni mi sono permesso di passeggiare per i portici, di parlare con le persone, di ascoltare le loro storie, con una naturalezza non concessa ad altri artisti. Ed è stata una gran fortuna.
Battiato per lei.
Lui e Valerio Negrini sono riusciti, attraverso la canzone popolare, a raccontare storie straordinarie, e solo i grandissimi ci riescono; Pensiero raccontava la storia di un carcerato (e la canta)…
Baglioni per anni è stato ostracizzato perché non cantava brani politici. Voi?
Anche peggio, perché eravamo un gruppo; lui era un bravo ragazzo dalla faccia pulita, ed era quasi normale che non avesse l’aria del contestatore, mentre noi ci confrontavamo con il Banco o la Pfm. E la critica è stata spietata, ci accusava di tutto, ci accantonavano come serie B, quando un brano come Piccola Katy (la accenna) era e resta una fotografia dell’epoca, con le ragazzine che scappavano di casa per dimostrare il loro coraggio.
Lei è mai scappato?
(Silenzio) No, avevo altro da fare; (ritorna a prima) nel 1973, proprio per rispondere alle critiche, abbiamo inciso un album diverso dai precedenti, come Parsifal; (qui si scalda) e noi, a differenza dei Camaleonti o dei Dik Dik – lo dico con rispetto – non ci affidavamo alle cover, non chiedevamo i pezzi a Mario Lavezzi per poi andare a Sanremo, ma scrivevamo e producevamo da soli.
Le critiche del tempo ancora le bruciano.
Dopo anni i critici più importanti, come Mario Luzzatto Fegiz o Mangiarotti, su di noi hanno ammesso l’errore.
Il pubblico vi ha mai contestato.
Certo, è successo, ma senza grosse problematiche; (sorride) nel 1971, al Cantagiro, andò peggio a Gianni Morandi, con tanto di cariche della polizia; per sfuggire ai lacrimogeni mi rintanai dentro a un gabinetto.
Oltre a quei lacrimogeni, in questi 70 anni a cosa è sfuggito?
Voglio restare in quel periodo; dopo il successo di Piccola Katy il gruppo ha rischiato di mandare in pappa il cervello: la macchina nuova, le ragazzine, le feste. Da lì i Pooh hanno iniziato a perdere popolarità, con sempre meno pubblico ai concerti, meno richieste televisive. Poi nel 1971 è di nuovo cambiata la prospettiva grazie a Tanta voglia di lei, è tornato il successo e abbiamo capito la lezione e non l’abbiamo più mollato.
Professionisti…
Dei soldatini: dalla mattina alla notte in sala d’incisione.
Però Facchinetti sostiene: “Io ero il più serio a resistere alle tentazioni”.
Quali tentazioni?
Dica lei.
La più forte era quella femminile, e il migliore o peggiore scagli la prima pietra; poi quella di spendere i quattrini, per il resto basta, non ce ne fregava di altri aspetti.
Mai?
Allora chiarisco: ancora oggi mi bacio i gomiti tutte la mattine perché sono riuscito a far diventare una professione la mia passione. Questa è una fortuna straordinaria, l’ho capito subito e l’ho preservata; (cambia tono e scandisce) la mia famiglia proviene dalla campagna padana, dai campi di barbabietole, dalle mattine dove vedevi solo la nebbia.
Si è definito il peggior giudice di se stesso…
Sono un grande consigliere per gli altri: se un collega mi fa sentire cinque pezzi, colgo sempre quello giusto. Con me non sono in grado; quando ci riunivamo con i Pooh, ognuno si presentava con dieci brani e se ne sceglievano tre a testa: una volta, alla fine della riunione, prendo la chitarra e ne intono un altro, da me definita “cazzatina”. Era 50 primavere; (pausa) anche in quest’ultimo lavoro mi è mancato il loro apporto.
Di chi si fidava maggiormente?
Musicalmente di Roby (Facchinetti); sotto il profilo dei testi di Stefano (D’Orazio); Stefano era molto semplice nella sua bonarietà: per lui il pezzo era “bono” o non era “bono”. E ci prendeva (su D’Orazio, morto recentemente di Covid, gli si strozza la voce e cambia discorso)
Ha vinto vari premi come miglior chitarrista, eppure qualcuno “l’ha spettinata”. Parole sue…
Si riferisce a Jimi Hendrix?
Sì.
La copertina di un mio disco è dedicata proprio a lui, e quel giorno del 1968 non ha spettinato solo me, ma tutti i presenti nel palazzetto di Bologna.
Lei davanti al numero uno.
Ero un ragazzino di 16 anni incosciente e presuntuoso, e con la faccia come il culo ho deciso di suonare Foxy lady e poco prima della performance dello stesso Hendrix. Eppure tutti me lo avevano sconsigliato. Quando è salito lui sul palco abbiamo visto la magia, con tutti presenti uniti da uno stato catatonico di stupore.
Gli ha chiesto l’autografo?
Io? Troppo timido e riservato, figlio di genitori che avevano vissuto la guerra, quando i padri evitavano la carezza e tornavano la sera stanchi, magari dai campi. Solo con il tempo ho cambiato atteggiamento e mi sono ricostruito, sia con i miei figli, che con i fan.
Quindi nei live…
Nei primi anni ero molto composto, stavo sul palco concentrato su quanto dovevo suonare; con il passare del tempo ho acquisito sicurezza e mi sono lasciato andare.
Dopo 50 anni di carriera si è scocciato di alberghi e ristoranti?
No, mi rompe le palle solo la valigia sul letto (e cita Julio Iglesias). Arrivato alla mia età non ne posso più.
Se si gira indietro, cosa vede?
Io a tre anni che guardo un campanile in un paesino in provincia di Benevento. Ci salgo in cima per vedere la festa e lì mi fermo, folgorato, per ascoltare la banda suonare.
Lei chi è?
Quello che sto diventando.
(Cantano i Pooh in “50 primavere”: “E noi con tutto da imparare. Siam qui a improvvisare amor. Quel 25 aprile pioveva e gli invitati dicevano, ‘Che sposi fortunati’”)