Urne aperte, ma hanno già vinto i sicari: 35 candidati uccisi

Con 500 deputati, 15 governatori, circa 20mila amministratori locali da eleggere e 35 candidati uccisi in campagna elettorale – l’ultimo ieri a Veracruz – oggi il Messico affronta le elezioni più vaste e più violente della sua storia. Il presidente Andrés Manuel López Obrador (Amlo), che con il voto di medio termine sottopone a un test la sua popolarità e consenso per il suo governo, tuttavia, ha invitato i messicani a non lasciarsi intimidire, ché la sicurezza è garantita. Amlo non ha mancato di accusare i media – con i quali non ha mai intrattenuto una serena relazione – per aver “ingiallito” la cronaca e ingigantito le violenze “con l’intento di confondere il clima elettorale”. Resta il fatto che dalle urne di oggi potrebbe uscire ridimensionata la schiacciante vittoria ottenuta dal presidente 3 anni fa con il 66% dei voti, seppure, secondo i sondaggi, il suo partito, Morena, otterrebbe un’ampia maggioranza con il 41% alla Camera. Il che supporrebbe però un’alleanza con i partiti minori per mantenere l’attuale maggioranza, ma significherebbe anche che né la sua discussa strategia anti-Covid né le critiche alla gestione dell’incidente della metro di Città del Messico, hanno ridotto il suo consenso. A facilitare questo risultato sarebbe anche la difficoltà dell’opposizione di frenare la visibilità e la popolarità di un presidente onnipresente, catalizzatore dell’agenda pubblica con le sue mañaneras, le conferenze stampa mattutine durante le quali, a ruota libera e senza quasi domande se non da parte di media “amici”, snocciola dati e risultati del suo governo. “Mai il Messico era stato tanto esposto a uno sforzo propagandistico tanto sistematico e poderoso”, ha spiegato alla Bbc il politologo Luis Antonio Espino. D’altra parte, i tre grandi partiti della transizione democratica messicana, Pri, Pan e Prd scontano ancora, come nel 2018, il disincanto dei messicani sulla loro gestione del Paese negli anni precedenti. E a niente pare sia servita la creazione della grande coalizione, ancora molto distante da Morena. La cosa certa è che Amlo da questa eventuale vittoria trarrà nuova forza per negoziare – senza necessità di patti con l’opposizione – le riforme costituzionali del suo famoso progetto “Quarta Trasformazione”. Tornando ai primati di questa tornata elettorale, quello politico per ora è il record di partecipazione delle donne: sarà la prima volta infatti che ci sarà parità di genere tra i candidati governatori e governatrici, frutto della riforma costituzionale del 2019. Domani nove Stati potrebbero svegliarsi governati da donne.

Marxismo o restaurazione. La Sfida Castillo-Fujimori

“Chiedo perdono a tutti coloro che si sono sentiti danneggiati da noi. Lo faccio con umiltà e senza alcuna riserva, perché so che ancora persistono alcuni dubbi sulla mia candidatura”. Con una richiesta di perdono e una firma su un contratto in cui giura fedeltà alla democrazia, Keiko Fujimori, 46 anni, figlia e first lady del dittatore peruviano (1990-2000) condannato a 25 anni di carcere per crimini contro l’umanità e corruzione, ha concluso venerdì la campagna elettorale più bizzarra della storia del Perù, Paese che di bizzarrie politiche non ne ha viste poche.

Grazie a questo cambio d’abito nonché al rinnegamento dell’eredità paterna Keiko, per la terza volta candidata alla presidenza, oggi va al ballottaggio avendo recuperato in un mese venti punti percentuali che l’avvicinano all’avversario, il sindacalista e maestro Pedro Castillo. Venti punti che sommati ai soli 13 con cui ha passato il primo turno ad aprile, potrebbero darle la vittoria e che vengono interamente dai suoi ex nemici. Quegli stessi feroci oppositori del fujimorismo che nel 2011 e nel 2016 le preferirono prima Ollanta Humala e poi l’ex ministro conservatore Pedro Pablo Kuczynsky. Ma allora “la donna del Perù” come la acclamano i suoi fan, rivendicava ancora l’eredità di suo padre e “la mano dura contro il terrorismo di Sendero Luminoso”. Ora, con la svolta anti-fujimorista, che solo a dirlo sembra un paradosso, Keiko è riuscita ad attirare in prima fila anche lo scrittore Mario Vargas Llosa, grande fan di Humala nel 2011 e imperituro oppositore della dittatura di Alberto Fujimori. “Si tratta di un momento importante della storia del Perù. Non solo di eleggere un presidente, ma un sistema”, ha raccontato Alvaro Vargas Llosa al Pais, il figlio del Nobel per la Letteratura, che prendendo il microfono nell’ultimo atto della campagna della candidata di Fuerza Popular ha spiegato che “a chi lo chiama traditore per l’appoggio a Fujimori” risponde solo “Keiko presidente, Keiko presidente”.

A proposito di questioni di famiglia, persino il fratello della rivale di Pedro Castillo, Kenji, che l’aveva rinnegata dopo le dichiarazioni anti-indulto nei confronti di suo padre nel 2016, è corso in appoggio alla sorella in chiusura di campagna. Per non parlare di Pedro Cateriano, vicepresidente di Humala nonché ex-ministro della Difesa, perseguitato dai fujimoristi che si è unito ai fan di Keiko: “Sono certo che manterrà la parola data”. Segno questo che i conservatori, frammentati e sconfitti al primo turno, stanno provando a fare quadrato intorno a Keiko, che con la maglia della nazionale sogna per il Perù un futuro di concordia e unità, una sorta di transizione democratica che porti alla stabilità istituzionale in un Paese che ha visto succedersi cinque presidenti in cinque anni. Ma soprattutto il ritrovato appoggio a Keiko da parte dei suoi detrattori si spiega con il timore della destra di una vittoria di Pedro Castillo, rappresentante, a detta loro, del comunismo e del chavismo, il quale porterebbe a una “dittatura comunista”. Appoggiato dal partito marxista Perù Libre, Castillo, 51 anni originario di Cajamarca, sulle montagne Nord del Paese andino, incarna lo spauracchio dei partiti tradizionali usciti azzerati dalle rivolte della Generacion Bicentario.

Tra le sue proposte ci sono una nuova Costituzione, in stile cileno e un economia stile Evo Morales in Bolivia. Ma soprattutto Castillo, in groppa al suo cavallo, con tanto di sombrero da ex-rondero (membro delle ronde di difesa dei contadini), maestro d’asilo con un master in Psicologia e pedagogia, rappresenta la grande novità e la grande sorpresa delle presidenziali peruviane, che ha lasciato sgomenta propria quell’élite di Lima che ora si stringe intorno a Fujimori.

Alle urne di oggi vanno milioni di peruviani indignati – anche per la spaventosa situazione della pandemia del Covid, che ha reso il Paese primo nella classifica della mortalità globale – costretti a scegliere “tra due estremi”. E mentre i sondaggi avvicinano sempre di più i due candidati, il risultato più probabile è che i peruviani rifiutino entrambi, disincantati nei confronti della politica e ormai convinti che nessuno dei due candidati possa spazzare via la corruzione politica endemica. A vincere dunque potrebbe essere l’astensionismo, se non addirittura le schede bianche o nulle.

Londra ha un problema con l’indiana. Può colpire tra prima e seconda dose

A15 giorni dal 21 giugno, data indicata dal governo Johnson per il ritorno alla normalità e la riapertura di tutte le attività, il Regno Unito teme una terza ondata. I dati della pandemia, aggiornati a ieri pomeriggio, indicano una tendenza allarmante. I contagi quotidiani sono 5.765, oltre la soglia psicologica dei 5.000 e oltre 31 mila alla settimana: un ritorno ai livelli di marzo 2020, quando il Paese entrò nel primo lockdown. È un aumento del 46% rispetto alla settimana scorsa. L’impatto sui decessi è però ancora limitato: martedì scorso zero, 61 questa settimana, 13 ieri.

Public Health England ha confermato il 3 giugno che a dominare i nuovi contagi sarebbe la diffusione della variante B.1.617.2, nota finora come “indiana’” e appena ribattezzata dall’Oms “variante Delta”, ora prevalente nel Regno Unito. Secondo gli ultimi dati disponibili, al 26 maggio i casi totali di delta erano 12.431. Ma è un ceppo più contagioso degli altri. Secondo le prime evidenze scientifiche, porta al ricovero 2,61 volte e mezzo in più rispetto al ceppo del Kent, rinominato alpha, e si starebbe diffondendo rapidamente nelle scuole elementari e superiori; i casi segnalati nelle ultime 4 settimane sono 97, uno ogni 250 istituti, concentrati fra gli studenti dagli 11 ai 15 anni di età. Malgrado questo, PHE non ha ceduto alla richiesta di sindacati, associazioni di genitori, attivisti e scienziati di pubblicare i dettagli del contagio scolastico. Per arginare l’impatto della nuova variante il governo sta accelerando la campagna vaccinale nelle aree più colpite, visto che il 73% dei casi di delta riguarda i non vaccinati. Ma uno studio del Francis Crick Institute e del National Institute for Health Research, pubblicato dalla rivista Lancet suggerisce che vi sia una minore produzione di anticorpi contro la variante Delta dopo la prima dose di Pfizer rispetto al ceppo originario. Su un campione di 250 persone, il 79% dei vaccinati ha riportato una risposta degli anticorpi rispetto alla variante originaria contro il ceppo Alfa ridotta al 50%, che scende al 32% con la variante Delta e al 25% con la variante Beta (ex sudafricana). In sintesi, una copertura accettabile si ottiene solo dopo la seconda dose: da qui la spinta del governo a velocizzare la campagna vaccinale.

A oggi la popolazione britannica adulta protetta con una dose è il 76%, oltre 40 milioni, con la seconda oltre il 51%, più di 27 milioni. Oltre a quella del Kent/Alpha, le altri varianti presenti in misura minore e molto contenuta sono la sudafricana e la brasiliana, sulla cui resistenza ai vaccini le verifiche sono ancora in corso.

Negli ultimi dieci giorni il numero di tamponi quotidiani ha oscillato da un minimo di 488 mila a un massimo di 959 mila, ma la forza del sistema britannico sta nell’individuare la varianti è nell’efficacia della mappatura del virus, affidata a Cog-Uk, il consorzio creato nell’aprile 2020 con un budget di 20 milioni di sterline per lavorare sul sequenziamento genomico del Covid. Aperto a collaborazioni internazionali, ne fanno parte 16 università, una serie di istituti di ricerca, le quattro Agenzie di Salute pubblica e una rete capillare di laboratori territoriali. Una organizzazione che ha permesso finora di sequenziare 452.434 genomi. Un filtro fitto e capillare da intercettare ogni mutazione.

Vaccinazione in azienda, che bello: però a pagamento

Lo bramavano, chiedevano di farlo il prima possibile, spesso contestavano il governo per i troppi ritardi nel dare il via libera. Da giovedì scorso, infine, anche le imprese piemontesi possono vaccinare i propri dipendenti sul luogo di lavoro: già 700 le aziende coinvolte e l’obiettivo di almeno 5 mila somministrazioni al giorno. A dare il buon esempio, il ramo torinese di Confindustria, quell’Unione Industriale che fu presieduta in passato da Carlo De Benedetti, Sergio e Andrea Pininfarina.

Con una disponibilità in più, condivisa anche con qualche altra impresa: nell’hub dell’Unione, le vaccinazioni non sono aperte solo ai dipendenti, ma pure ai loro familiari.

Sin qui, tutto bene e, anzi, molti complimenti. La (cattiva) sorpresa, però, è arrivata subito dopo l’inoculazione. L’hanno raccontata all’edizione di Torino del Corriere della Sera

due signore. La prima, moglie di un dipendente, si è presentata assieme al figlio: “Fatto il vaccino, ci hanno chiesto di pagare 50 euro a testa. Nessuno ci aveva avvertiti: non credo sia una bella figura”. La seconda, invece, è lei a essere dipendente della struttura confindustriale: “Mio marito ha dovuto pagare. Una scelta criticabile e che, inoltre, introduce indirettamente una sorta di privilegio: se paghi, salti prenotazioni e attese. E, soprattutto, scavalchi qualcuno”.

Chissà cosa ne pensa il presidente di Confindustria, quel Carlo Bonomi sempre solerte nel bacchettare il governo (quello Conte, preferibilmente) e i sindacati.

Spendere tutto, ma spendere bene?

Nel 1963 lo scrittore inglese Charles Percy Snow pubblicò Le due culture, un saggio fortunato che animò il dibattito sul rapporto tra cultura umanistica e cultura scientifica.

Nel 2013 lo psicologo americano Jerome Kagan pubblicò a sua volta Le tre culture in cui, alle discipline naturali e umanistiche aggiunse quelle sociali. Intanto, a partire dal 1969, si erano andate sviluppando le reti Arpanet e poi Internet che avrebbero dato vita a una quarta cultura: quella digitale.

Gli antropologi, invece, preferiscono parlare di tre culture, intese come bagaglio di conoscenze che ciascuno di noi si porta dentro: la cultura ideale (le idee, i linguaggi, le credenze, gli stereotipi), quella materiale (l’insieme delle materie e dei manufatti che ci circondano) e quella sociale (usi, costumi, leggi, comportamenti solidali e conflittuali).

Quando il nostro Recovery Plan parla di “cultura” intende soprattutto la cultura materiale (teatri, biblioteche, chiese, borghi, parchi, computer, ecc.) e una parte della cultura sociale (turismo, eventi, restauro, occupazione, ecc.).

È interessante appurare con quali criteri il nostro governo ha assegnato i finanziamenti ai singoli comparti culturali ma è altrettanto intrigante paragonare ciò che ha fatto l’Italia con ciò che hanno fatto gli altri Paesi. A soddisfare questa legittima curiosità ha provveduto la Fondazione Civita con un’utile ricerca condotta dallo Studio Valla su Italia, Francia, Portogallo, Spagna e Germania.

Quanto all’Italia, su 191,5 miliardi il Piano nazionale di ripresa e resilienza destina 6,68 miliardi (cioè il 3,5%) al turismo e alla cultura, considerati come settori siamesi. Gli interventi previsti si articolano in quattro aree. La prima (Patrimonio culturale per la prossima generazione) assegna 1,1 miliardi alla digitalizzazione, all’efficienza energetica di cinema, teatri, archivi e musei nonché alla rimozione delle barriere fisiche e cognitive. La seconda area (Rigenerazione di piccoli siti culturali, patrimonio culturale religioso e rurale) assegna 2,72 miliardi all’attrattività dei borghi, alla tutela e valorizzazione dell’architettura e del paesaggio rurale, all’identità di parchi e giardini storici, alla promozione della sicurezza sismica e del restauro dei luoghi di culto. La terza area (Industria culturale e creativa 4.0) assegna 460 milioni all’approccio verde lungo tutta la filiera culturale e creativa e alla competitività del settore cinematografico attraverso un “Progetto Cinecittà” e un Capacity building con cui accrescere la professionalità degli operatori culturali anche attraverso mezzi digitali. La quarta area (Turismo 4.0) assegna 2,4 miliardi al miglioramento delle capacità competitive delle imprese attraverso la sostenibilità ambientale, l’innovazione e la digitalizzazione dei servizi.

Sono poi previsti una riforma dell’ordinamento delle professioni delle guide turistiche e 500 milioni per il progetto “Caput mundi” relativo ai grandi eventi turistici, alla riqualificazione delle periferie, al restauro di parchi e giardini, alla digitalizzazione dei servizi culturali di Roma.

Dopo l’Italia, in ordine di stanziamenti, viene la Francia, dove il Plan National de Relance et de Résilience, su un complesso di 40,9 miliardi, ha destinato alla cultura 2 miliardi (cioè il 2%) per ammodernare il patrimonio artistico e culturale, rilanciare la creatività giovanile, l’occupazione artistica, la transizione ecologica delle istituzioni artistiche, la digitalizzazione soprattutto degli istituti di istruzione superiore, implementare il programma “Jeunes en librairies” per familiarizzare migliaia di giovani con le librerie, rilanciare il settore cinematografico incoraggiando la distribuzione dei film, le nuove opere, la modernizzazione dei cinema, la ricerca e sviluppo, l’esportazione dei prodotti, l’occupazione e la formazione, la messa in sicurezza delle cattedrali e degli altri monumenti, il recupero del Castello di Villers-Cotterêts per farne un crocevia internazionale di culture valorizzando la lingua francese e il plurilinguismo.

Su 16,6 miliardi previsti dal piano Recuperar Portugal, Costruindo o futuro 243 milioni (cioè l’1,4%) sono destinati al doppio scopo sia di valorizzare la cultura come affermazione dell’identità e della coesione sociale e territoriale, sia di accrescere la competitività economica del Paese attraverso lo sviluppo di attività di natura culturale. Cinema e filiera del libro sono considerati settori strategici. Per raggiungere questi due scopi, 93 milioni sono destinati a migliorare tecnologicamente la rete delle attrezzature culturali pubbliche, per digitalizzare le opere letterarie e le librerie, per internazionalizzare i libri digitali di autori fondamentali per la lingua portoghese. Altri 150 milioni sono destinati a riqualificare e conservare alcuni musei, monumenti, palazzi e teatri dello Stato, a mettere in sicurezza alcune cattedrali, a realizzare il centro e i laboratori del programma “Sabre Fazer”.

In Spagna il Plan de Recuperación, transformación y resiliancia ha destinato alla cultura 825 milioni su 69 miliardi (cioè l’1,2%), agganciandola allo sport, così come l’Italia l’ha agganciata al turismo. 325 milioni vanno a rivalutare l’industria culturale promuovendone la competitività, la dinamicità, la digitalizzazione e la sostenibilità. Viene sviluppato uno Statuto dell’Artista e rafforzato il diritto d’autore. 200 milioni vanno alla creazione di un centro per consolidare la Spagna come piattaforma per gli investimenti audiovisivi nonché come paese esportatore di audiovisivi in tutto il mondo, con una ricaduta positiva sulla creazione di posti di lavoro, soprattutto per i giovani. 300 milioni, in fine, sono destinati a ristrutturare e ammodernare il settore sportivo per il quale sono anche previsti un nuovo diritto per le professioni e un nuovo piano sociale.

La Germania, che ha chiesto 27,9 miliardi per il suo Deutscher Aufbau – und Resilienzplan, non destinerà alla cultura neppure un euro di questo fondo perché vi aveva già provveduto con precedenti finanziamenti.

Dunque i Paesi esaminati puntano tutti sulla digitalizzazione e, in ognuno di essi, l’investimento sulla cultura “materiale”, cioè sulle infrastrutture architettoniche, tecniche e digitali, prevale nettamente sull’attenzione alla cultura “sociale” e soprattutto “ideale”. Solo Italia e Francia hanno descritto minuziosamente i singoli progetti, i relativi investimenti e le tempistiche di attuazione. I fondi, una volta ottenuti, saranno impiegati tutti e bene? Lo sapremo solo nel 2026. Per ora, però, guardando a ritroso, sappiamo come sono stati usati i fondi europei del ciclo 2014-20 assegnati per rafforzare la coesione economica, sociale e territoriale riducendo il divario fra le regioni più avanzate e quelle in ritardo dal punto di vista dello sviluppo. La spesa finora certificata dimostra che la Francia è riuscita a spendere il 66% delle risorse assegnate; la Germania e il Portogallo sono riusciti a spenderne il 62% ciascuno; l’Italia ne ha speso il 52% e la Spagna il 42%. Ciò significa due cose: che il divario tra Francia, Portogallo e Germania da una parte, Italia e Spagna dall’altra, anziché attenuarsi, è aumentato; e che i soldi, da soli, non bastano: occorrono pure l’intelligenza e l’organizzazione per saperli spendere.

 

Mail box

 

Complotti e libertà,il mantra delle destre

30 maggio 2020, manifestazione dei gilet arancioni e di Casapound a Roma: “Il virus non esiste, è un complotto: libertà, libertà”. Invece il virus godeva di ottima salute, tant’è vero che ci sono state altre due ondate che hanno triplicato le vittime registrate fino al 31 maggio 2020. La parola “libertà”, ripetuta come un mantra fino allo sfinimento dal cucuzzaro destrorso per 1 anno e mezzo, si è rivelata del tutto inappropriata. Come se dopo un terremoto la popolazione volesse, sempre in nome della “libertà”, rientrare nella propria abitazione dichiarata inagibile dagli uffici tecnici del Comune. In entrambi i casi la “libertà” c’entra come i cavoli a merenda, perché trattasi di restrizioni per causa di forza maggiore, ma il concetto sembra troppo complesso per essere compreso dal cucuzzaro destrorso.

Maurizio Burattini

 

Reddito di cittadinanza per eliminare la schiavitù

Fa impressione sentire De Luca e la Santanchè lamentarsi che non si trovano lavoratori per colpa del Reddito di cittadinanza! Due parassiti senza vergogna, che ci vadano loro a lavorare per pochi spiccioli. Proprio questo è l’aspetto più bello del Reddito di cittadinanza, eliminare la schiavitù. E, se continuano ad arrivare tanti profughi, chiediamoci a chi fanno comodo. Non è certo una novità che chi lavora nel settore della ristorazione e del turismo venga sfruttato con paghe da fame. È sempre stato così. Oltre ai camerieri, chi lavora negli stabilimenti balneari è stato soppiantato da lavoratori extracomunitari pagati 1/5. Lo stesso Billionare li impiega e infatti l’anno scorso è stato un focolaio; oltretutto chiude in perdita e spero proprio che quest’anno lo tengano chiuso, per sempre. Basta ammalarsi per far guadagnare gente che quando è arrivato l’euro hanno raddoppiato i prezzi dalla sera alla mattina (es. 1 pizza 15.000 lire, 15 euro il giorno dopo). Spero che alla fine di questo scempio si faccia finalmente giustizia e che tutti paghino le giuste tasse, finalmente!

Andrea Manganelli

 

Su Brusca non capisco tutta questa indignazione

Francamente non capisco tutta l’ondata di indignazione per la scarcerazione di Brusca… La sua uscita dal carcere dopo 25 anni è stata dovuta alla legge sui pentiti (che concede sconti di pena in cambio di collaborazione), legge che, lo ricordo, è stata voluta e ideata da Giovanni Falcone. Coloro che si stracciano le vesti provino a riflettere su questo prima di avere certi atteggiamenti.

Marco Scarponi

 

Referendum e Giustizia, non toccate la Severino

Sono contrario ai referendum proposti da Salvini e Radicali. In particolare, quello sulla abolizione della Legge Severino. Che rende incandidabili, ineleggibili e decaduti da cariche pubbliche i politici condannati in giudicato per reati intenzionali (non colposi). Abbiamo legioni di politici collusi, corrotti e persino diretta espressione di poteri criminali, eppure Salvini&C. hanno la bella idea di privarci dell’unica norma-filtro che ci protegge (quasi) dallo sversamento di delinquenti nelle istituzioni. Ma scherziamo? Ormai restituiamo i vitalizi anche ai condannati, ma questo non autorizza a provocarci ancora. Uno pensa: vabbè, Salvini è normale che voglia liberalizzare i pregiudicati, visto i processi personali e quelli che riguardano i 49 milioni spariti nella Lega; i Radicali è normale che producano referendum a prescindere; ma poi ci si aspetta che il Pd gliele canti. E invece, no. Bettini appoggia i referendum come un Marcucci renziano qualsiasi e Letta è contrario, ma nel metodo (sic!). Ecco, da elettore di sinistra vorrei mandare un messaggio forte e chiaro a Letta e a tutti quelli favorevoli a smantellare la Severino: non vogliamo il ritorno in massa di corrotti e delinquenti nelle istituzioni. Grazie.

Massimo Marnetto

 

“Repubblica” si sposta sempre più verso B.

Che tristezza leggere che Repubblica mostra interesse per l’area berlusconiana… per tanti anni è stata il mio punto di riferimento! Povero Eugenio Scalfari… fortuna che ormai da più di un decennio leggo il Fatto Quotidiano. Mi rattrista molto che nel 2021 uno dei maggiori quotidiani italiani ritenga interessante pubblicare un’intervista con personaggi come la Prestigiacomo o simili, esponenti di un partito che ha riportato indietro il nostro Paese di almeno 25 anni!

Biagio Passalacqua

Quando (e se) tornerà la sinistra?

“L’unica cosa utile sarebbe organizzare una vera fase ricostituente della sinistra. Ma non so, sinceramente, se siamo ancora in tempo”.

Massimo Cacciari, “Repubblica”

Un paio di anni fa, in un libro dal titolo “C’era una volta la sinistra”, con Silvia Truzzi raccogliemmo le testimonianze di Achille Occhetto, Fausto Bertinotti, Massimo D’Alema e Pier Luigi Bersani. Personaggi informati sui fatti a cui chiedemmo lumi per comprendere un fenomeno altrimenti incomprensibile, partendo dalla domanda: quando ha cominciato a morire la sinistra? Proponendo alcune risposte. Quando il più grande partito comunista d’Occidente è stato archiviato? Quando i governi di centrosinistra sono stati affossati? Quando i lavoratori non hanno trovato più chi li rappresentava? E ancora: quanto hanno pesato nel processo di inesorabile dispersione dei voti le lotte fratricide e l’irresistibile tentazione di dividersi? Se nel 2019 la malattia sembrava grave, ma non ancora irreversibile, a leggere gli ultimi sondaggi, se non siamo vicini al decesso poco ci manca. Sono intenzioni di voto che hanno fatto rumore perché per la prima volta i partiti che si dividono la vetta dei consensi appartengono entrambi alla destra radicale, identitaria e sovranista: Lega al 22,4%; FdI al 19,4%. Se aggiungiamo il 7,7% di Forza Italia, dove appare sempre più forte la tentazione (benedetta da Silvio Berlusconi) di federarsi con Matteo Salvini, la destra nel suo complesso sfiora il 50%. Fenomeno non solo italiano, ma europeo, visto che la destra avanza in Spagna, Germania e Francia approfittando della crisi delle forze socialiste e centriste. Qui da noi la sinistra è addirittura riuscita a realizzare la famosa scissione dell’atomo spaccandosi in due: Sinistra Italiana al 2% e Articolo 1 all’1,6%. Poi c’è il Pd e qui si potrebbe aprire un dibattito per stabilire quanto di sinistra ci sia in una formazione dominata dalle componenti moderate ex Popolari ed ex Margherita. Ma per non farla tanto lunga, ok sommiamo il 19,4% del partito di Enrico Letta (noto rivoluzionario), tiriamo una riga e otteniamo che in Italia la sinistra, al 23-24%, equivale a meno della metà della destra. Certo, al totale potremmo aggiungere il M5S (15,4%) ma come la mettiamo con un movimento che fin dalla nascita ha dichiarato di non essere né di sinistra e né di destra? La crisi terminale della sinistra partitica e parlamentare non significa ovviamente l’esaurimento dei valori della sinistra nella società, nel sindacato, nella cultura, nell’informazione, dove la sinistra mantiene una certa egemonia. Per quanto paradossale possa apparire, la sola diga al governo Salvini&Meloni è rappresentata oggi dalla tecnostruttura guidata da Mario Draghi. Quando però si tornerà a votare, visti i numeri, la sinistra (o ciò che ne resta) dovrà rassegnarsi a una lunga opposizione. Nella quale, forse, potrà ritrovare le ragioni per tornare a essere e a contare qualcosa.

 

Secondo la scienza stiamo correndo dei rischi colossali

In Italia – La primavera 2021, con temperature medie tra 0,5 °C e 2 °C sotto la norma dell’ultimo trentennio, è stata fresca come di rado è accaduto in questi tempi di riscaldamento globale, l’ultima volta nel 2013 a Torino, Piacenza, Parma, Modena, nel 2004 all’osservatorio di Pontremoli, e nel più lontano 1987 in Friuli-Venezia Giulia, zona più vicina alle marcate anomalie fredde dell’Europa centrale. Però nelle valutazioni sul clima più che le fluttuazioni tra un anno e l’altro contano le tendenze a lungo termine e a grande scala, e nell’ultimo secolo le primavere si sono mediamente riscaldate di circa 1,5 °C in Italia e di 1,1 °C nel mondo. Maggio 2021 è terminato con venti freschi da Nord-Est e alcune piogge e temporali specie in Piemonte – 68 mm d’acqua ai piedi del Monviso la sera di sabato 29 – e dal Centro alla Puglia, più localmente sulle Venezie, con danni a Sottomarina (Chioggia) per una tromba d’aria nella notte tra domenica e lunedì. Ma poi l’avvio di giugno ha riservato un assaggio d’estate e da Milano a Bologna a Firenze si sono toccati i primi 30 °C dell’anno. Ieri è stata presentata “Giudizio Universale”, la causa allo Stato italiano per inadempienza verso la riduzione delle emissioni di gas serra che condannano il Paese a gravi conseguenze per le generazioni future.

Nel mondo – Calori straordinari si sono concentrati tra Stati Uniti e Canada (41,5 °C nel Manitoba, non era più accaduto dall’agosto 1988), in Sudamerica, Scandinavia (dove la stazione meteorologica più settentrionale della Finlandia, a 70° di latitudine Nord, ha misurato 29,4 °C, una ventina di gradi sopra media!) – e dalla zona arabica su fino alla Siberia orientale. Prime atmosfere estive anche in Europa centrale con termometri vicini a 30 °C in Francia e Germania, ma anche nubifragi come quelli che hanno inondato Reims e altre località dalla Normandia al Belgio. Le alluvioni del ciclone “Yaas” si sono fatte sentire fino in Nepal con 4 morti, intanto la tempesta tropicale “Choi-Wan” ha causato dissesti e almeno 8 vittime nelle Filippine, ma pure Manaus, in Brasile, è alluvionata dal Rio Negro. Quasi metà del territorio Usa invece è già in siccità alle porte dell’estate, a Chicago non si vedeva una primavera così secca dal caso del 1934 e in California aridità estrema e incendi stanno diventando cronici, in linea con i preoccupanti scenari climatici futuri. L’urgenza di non superare la soglia di riscaldamento di +1,5 °C rispetto all’era preindustriale è ravvivata dallo studio Interacting tipping elements increase risk of climate domino effects del Potsdam Institute for Climate Impact Research, su Earth System Dynamics: già a +2 °C aumenterebbe molto il rischio di sfavorevoli interazioni tra elementi del sistema-Terra divenuti instabili (tipping elements, come le calotte polari, il permafrost, la circolazione oceanica in Atlantico e la foresta amazzonica) in grado di innescare un drammatico e irreversibile effetto-domino nel clima. Cade dunque a fagiolo l’appello a dimezzare le emissioni e fermare la perdita di specie ed ecosistemi entro il 2030 scaturito dal Summit dei Premi Nobel dello scorso aprile (Our Planet, Our Future – An Urgent Call for Action) e ora trasmesso ai leader del G7 in programma tra una settimana nel Regno Unito: ancora non ce ne rendiamo conto, ma secondo la scienza “l’umanità sta correndo rischi colossali”. Il ripristino di ecosistemi, dal nostro giardino fino agli oceani, è stato al centro, ieri, della Giornata Mondiale dell’Ambiente con lo slogan “Reimagine. Recreate. Restore”. Lo dice anche il report “Becoming #GenerationRestoration” del programma ambientale Onu, che invoca il risanamento di un miliardo di ettari di terre degradate entro un decennio, quanto la superficie della Cina.

 

Gesù e il pane. La vita del Signore si riversa nella nostra in forma di cibo

La cornice del Vangelo di oggi (Mc 14,12-16.22-26) è temporale: era il primo giorno degli “Azzimi”. Che cosa erano questi giorni? I sette che precedevano la Pasqua, nei quali si mangiava pane fatto con farina nuova, senza lievito e senza nulla che provenisse dal vecchio raccolto: un nuovo inizio. Questa festa di origine agricola è stata legata allo stesso significato della Pasqua perché alla liberazione dalla schiavitù egiziana fece seguito l’insediamento nella Terra promessa: un nuovo inizio, appunto.

Si preparava la Pasqua. I discepoli lo sanno bene e chiedono al Maestro: “Dove vuoi che andiamo a preparare?”. Ed ecco che sembra iniziare un poliziesco: Gesù mandò due dei suoi discepoli, dicendo loro: “Andate in città e vi verrà incontro un uomo con una brocca d’acqua; seguitelo. “Seguite quell’uomo!”, dunque. No, non è un pedinamento, in realtà, ma l’individuazione di un segno chiaro. Vedere un uomo con la brocca non era comune perché allora erano le donne che andavano ad attingere acqua per l’uso domestico.

Che cosa devono fare i discepoli? Seguirlo fino a che non entrerà in una casa. Gesù non dà un indirizzo: chiede di seguire un segno. Là dove entrerà, dite al padrone di casa: “Il Maestro dice: Dov’è la mia stanza, in cui io possa mangiare la Pasqua con i miei discepoli?”. Gesù coinvolge il padrone – un suo amico? – richiedendo ospitalità, chiedendo di essere accolto. Autori spirituali intendono come se Gesù chiedesse a ciascuno di noi: “Dov’è la mia stanza dentro di te, nel tuo cuore?”. La dinamica del racconto ci coinvolge e ci lascia anche un po’ di suspense.

“Il padrone – prosegue Gesù – vi mostrerà al piano superiore una grande sala, arredata e già pronta; lì preparate la cena per noi”. Il racconto della preparazione della Pasqua è intrecciato di segni di riconoscimento. La preparazione è importante, disseminata di indizi che mettono in luce che è Gesù stesso a preparare la sua Pasqua, che sarà il nuovo inizio. Ogni vero nuovo inizio è accompagnato da “spie” che si illuminano sul nostro cammino, da persone che si incontrano al di là delle attese e che accompagnano una svolta. C’è un percorso da compiere. È necessario prepararsi. E c’è bisogno di un luogo adatto che sia arredato e preparato. E Marco non tralascia di confermare che i discepoli andarono e, entrati in città, trovarono come aveva detto loro. Affidarsi a Gesù non significa andare alla cieca, ma prepararsi confidando nel futuro da lui aperto, in segni che indica per il cammino e che si rivelano affidabili. Dunque, giunta la sera, Gesù si reca sul posto e celebra la sua Pasqua: Mentre mangiavano, prese il pane e recitò la benedizione, lo spezzò e lo diede loro, dicendo: “Prendete, questo è il mio corpo”. Poi prese un calice e rese grazie, lo diede loro e ne bevvero tutti. E disse loro: “Questo è il mio sangue dell’alleanza, che è versato per molti”.

Il corpo di Cristo, che abbiamo visto in fasce, e poi crescere in età, lavorare e poi camminare e predicare, mangiare con i peccatori e che poi vedremo arrestato, dileggiato e crocifisso, adesso è lì: è da prendere, spezzare e mangiare. Così compie il suo destino. Con l’invito a mangiare e a bere il corpo e il sangue dell’alleanza i discepoli sono associati al destino spezzato di Gesù, che sparge il suo sangue per la “moltitudine”. Si compie proprio così il suo destino universale. La vita di Dio si riversa nella nostra in forma di cibo. Accogliendo il Signore come cibo, scopriamo che pure noi stessi siamo chiamati a diventare un vero nutrimento per la vita degli altri. La tavola della vita è e deve restare apparecchiata.

 

Il nulla italiano intorno all’ingiustizia su Zaki

Zaki, il dottorando egiziano che studiava a Bologna e ha commesso l’errore di fare una breve visita alla famiglia nel suo Paese, resterà in carcere, senza una parola di accusa e di motivazione, per altri 45 giorni, per un totale, finora, di un anno e quattro mesi di detenzione abusiva, cioè senza motivazioni o richiamo alle leggi internazionali o locali. C’è, su un giornale italiano, un titolo esemplare che racconta, insieme, l’informazione e il nostro Paese in questi anni. “Zaky, un altro compleanno in cella. La rabbia dell’Italia: accanimento” (Repubblica).

Ma non sono diversi i titoli del Corriere della Sera (“L’inferno infinito di Zaky, adesso servono risposte”) e del nostro giornale (“L’Egitto proroga ancora la prigionia di Zaki. Altri 45 giorni”).

Tutti questi titoli e quelli delle tv e dell’informazione online sembrano privi di una parte vera e tragica della notizia: la prigionia del giovane Zaky, con modalità fisiche ed espedienti giuridici di tipo ovviamente masochistico (far male per fare male e umiliare) è chiaramente contro l’Italia. L’offesa è evidente e diretta, ma il nostro Paese, che è il protagonista e la causa di questo dramma, si scosta e, pur con frasi di grande costernazione, sta alla larga dalla politica (che ci riguarda ed è il vero tema di questa storia) e sta alla larga dalla promessa, fatta in un momento di rara determinazione, di dare al prigioniero Zaki la cittadinanza italiana. L’idea aveva senso molto oltre l’apparente gesto di solidarietà umana. Avrebbe scoperto le carte dell’impegno egiziano contro l’Italia, il Paese di Giulio Regeni. Con Patrick Zaky il governo di Al Sisi – che ha dimostrato proprio con Regeni ciò che i suoi uomini sanno fare – si è procurato un ostaggio molto utile alle buone relazioni con il governo italiano. Come in un tetro gioco dei tarocchi, Al Sisi, i suoi giudici, i suoi carcerieri, cioè il suo governo, mostrano quello che si può fare per avviare una buona trattativa.

La prima carta è una netta dichiarazione di disprezzo. Da un lato si manomette barbaramente ciò che ha un legame con l’Italia. Hanno imparato che l’Italia non disturba , e questo rasserena gli uomini di Al Sisi, sia coloro che fanno in commedia la parte dei “giudici” sia le alte cariche di quello Stato. La seconda carta dimostra senza tante esitazioni o segreti che ci sono questioni con l’Italia che il gruppo Al Sisi vuole discutere senza intoppi e senza condizioni, partendo da situazioni di ricatto.

L’Italia è spaventabile? Spaventiamola. L’Egitto crede di aver capito la nostra mitezza quando si tratta di affari. Vuole cedimenti, sottomesso rispetto, con tanto di ambasciatore italiano sul posto, che funge, evidentemente, da funzionario locale e portavoce del governo egiziano. Non è una scelta dell’ambasciatore. L’ambasciatore deve adeguarsi alla vigente scuola italiana su come affrontare ostilità e disprezzo (assassinio di Regeni, prigionia con beffa di Zaky). Il ministro degli Esteri italiano infatti è la quarta carta del gioco egiziano. Si chiama Luigi Di Maio, è poco noto nel mondo, perché si dedica intensamente a minimi affari locali. Ma ha provveduto a chiarire la sua identità e quella del nostro Paese, il giorno dopo la Festa della Repubblica, con questo messaggio scandito con una certa solennità: “È un fatto che più aumenta la portata mediatica del caso e più l’Egitto reagisce irrigidendosi. Non illudiamoci che dall’altra parte otteniamo un risultato facendo così”. Inutilmente ha risposto subito, e secondo comune buon senso, il portavoce di Amnesty International: “Il silenzio è proprio ciò che aiuta i governi repressivi a continuare a commettere violazioni dei diritti umani”. Infatti, il giovane Zaky dorme per terra da 490 notti in una sperduta prigione egiziana con l’accusa di avere parlato, detto cose che non si dovevano dire. Colpisce, nella dichiarazione di Di Maio, l’espressione “non illudiamoci che dall’altra parte otteniamo un risultato…”. Di Maio sconsiglia la protesta studentesca dimenticandosi che è lui il ministro degli Esteri, che deve essere di fronte ad Al Sisi a portare con durezza e fermezza ciò che l’Italia ha da dire. Invece ha lanciato a chi vuole liberare Zaky anche questo ammonimento, buono per una baruffa in ufficio: “Abbassare i toni”. Zaky è al riparo da queste notizie e forse pensa ancora all’Italia che lo aveva adottato quando lui viveva e studiava a Bologna. Forse già allora, da giovane studioso avrà notato la stranezza dei governi italiani che, mossi da sparatorie e piraterie, corrono a Tripoli o ricevono a Roma chi ha sparato, rovesciato barche e aperto prigioni, e versano altro danaro, non si sa grati di che cosa. Come si vede, purtroppo, l’Egitto ha in mano buone carte e continuerà a giocarle contro l’Italia. Come la Libia, sa che non corre rischi, neanche di condanna morale.