La vedova inconsolabile, il bel soldato romano e la croce senza corpo

Dalle satire apocrife di Luciano di Samosata. Viveva in Giudea una donna stupenda, talmente innamorata di suo marito, e talmente fedele, che delegazioni di donne giungevano da tutti i paesi vicini per ispirarsi a lei, e tornavano a casa giurando di emularla. I giovanotti la indicavano come modello alle proprie fidanzate; e i pellegrini, pur avendo visitato il Tempio di Gerusalemme, affermavano che in quella moglie avevano visto l’ottava meraviglia del mondo. Nessuno, pertanto, fu sorpreso del suo comportamento quando un male improvviso la privò dell’amato consorte: in testa al corteo funebre, si strappava intere ciocche di capelli per lanciarle sul feretro; e si lacerava le vesti, straziandosi con le unghie i seni ubertosi. Non stupì neppure la sua decisione: “Basta cibo e bevande. Lascerò che l’inedia mi conduca dal mio unico amore, che mi sta aspettando nell’altro mondo”. Nessuno poté farla desistere, neanche i sommi sacerdoti che la raggiunsero dal Sinedrio per cercare di farla ragionare. “Sei troppo ricca e troppo bella per morire”, le dissero. “Resta in lutto quanto vuoi, anche i 30 giorni di Mosè, ma poi asciuga le tue lacrime e sposa uno dei tanti gentiluomini che anelano alla tua mano”. “Non io” urlò la vedova, guardandoli con disprezzo. “Ho giurato di amare un solo uomo”. “Che devozione commendevole!” dissero i sacerdoti, ritornando in città. Ignorarono il giovane, aitante soldato romano ai piedi della croce su cui il prefetto aveva ordinato che fosse crocifisso Gesù, il sedicente re dei Giudei. Quando fece buio, quel soldato notò una luce nel cimitero, e si avventurò a indagare. Dalla soglia del sepolcro vide la vedova seduta in terra, accanto al cadavere avvolto nel lenzuolo. Restò incantato dal suo volto pallido e grazioso, dai suoi lunghi capelli neri, dal velluto dei suoi seni nudi e graffiati. Raggiunse tosto la sua postazione di guardia, prese del pane, del formaggio e del vino, e tornò alla tomba. La donna rifiutava di mangiare, ma la sua serva fedele, che digiunava con lei, vinta dalla fame emerse dall’ombra, mangiò il pane con il formaggio, e bevve alcuni sorsi di vino, implorando la vedova cocciuta di fare altrettanto. Poiché quella continuava a rifiutare, il soldato romano la sollevò in un abbraccio premuroso, e avvicinò una coppa alle sue labbra. La donna, assaporato quel nettare che ridava vigore, si convinse, bevve e poi mangiò. Rifocillata, si sentì subito meglio, e osservò con maggior attenzione il suo benefattore. “È più giovane, e molto più bello”, pensò, facendo un paragone inevitabile. Il soldato romano la guardò negli occhi e sorrise. La serva, che non era stupida, uscì con discrezione dalla tomba, e restò di sentinella. Quando il milite prese di nuovo la vedova fra le sue braccia, la vedova non lo respinse, però disse: “Ho giurato di amare un solo uomo”. “E manterrai il voto” disse il soldato “perché amerai un solo uomo. Alla volta”. Il mattino dopo il soldato romano ritornò alla sua postazione, dove scoprì che durante la notte qualcuno aveva rubato il corpo del crocifisso dalla croce. Terrorizzato corse dalla vedova e immerse la faccia nel tepore delle sue poppe generose. “Per punizione mi faranno prendere il posto di quel mascalzone!” pianse. “E tornerai in lutto: stavolta per me, perché in questo istante sono praticamente già morto”. “Non io!” urlò la vedova. “Aiutami”. Quindi, insieme con la serva fedele, crocifissero il marito morto al posto del Nazareno. E la notte stessa, e molte altre ancora, i due celebrarono i riti di Afrodite con così tanto ardore che nessuno, in Galilea, avrebbe potuto negare quanto la vedova fosse fedele all’uomo che amava.

 

Caro-ombrelloni. Prezzi su del 14% per 1 settimana al mare a giugno

Se lo scorso anno gli stabilimenti hanno deciso di non rifarsi dei costi di sanificazione e di distanziamento, quest’anno sotto l’ombrellone è già iniziata la stagione dei rincari con aumenti medi a giugno del 4,11% per il costo di un giornaliero e del 13,9% per quello di una settimana rispetto allo stesso mese del 2020. A fare i conti per i bagnanti è l’Istituto ricerche sul consumo ambiente e formazione (Ircaf) che ha presentato la terza indagine su 45 stabilimenti balneari delle località più rinomate di 15 Regioni, prendendo in considerazione il costo di un ombrellone e due lettini nella settimana che va dal 12 al 19 giugno. Partendo da 21,79 euro, la spesa media nazionale del campione per un giornaliero festivo, rispetto all’anno scorso il prezzo è aumentato di oltre il 4%, mentre per una settimana si spendono 135,97 euro, con un aumento di ben 16,59 euro sul 2020 pari a +13,9%. Nel dettaglio, per un giornaliero si va da un massimo di 45/50 euro a Sabaudia o Punta Ala a un minimo di 10 euro giornalieri a Grado o a Praia di Mare. Per i bagni che si trovano sul mare Adriatico e Ionio, spiega il presidente dell’Ircaf Mauro Zanini, la spesa media si attesta a giugno di quest’anno a 15,92 euro per il giornaliero e a 96,94 euro per il settimanale con un aumento dei prezzi rispetto all’anno scorso del +3,24%. In calo, invece, il giornaliero, probabilmente per strategia promozionale commerciale. Negli stabilimenti balneari della costa tirrenica-ligure si registrano prezzi significativamente più elevati: 28 euro per un giornaliero, in aumento di 3,79 euro rispetto al 2020 (+15,65%), mentre per il settimanale la spesa si attesta 177,29 euro, pari a un aumento su base annua di 28,18 euro (+18,9%). In soldoni, l’incremento registrato per una settimana di villeggiatura al mare nel Tirreno è 6 volte maggiore rispetto a quella sull’Adriatico.

Venezia, riecco i giganti del mare in Laguna. Tensioni fra la polizia e i “No Grandi Navi”

La battaglia navale è andata in scena nel Canale della Giudecca. Da una parte la flotta dei “No Grandi Navi”, che agitavano bandiere dei pirati e sparavano fumogeni in aria. Dall’altra sei imbarcazioni della Trasnbagagli, condotte da muscolosi lavoratori dell’indotto del porto di Venezia. In mezzo le moto d’acqua della Polizia, per evitare il contatto fisico. La prima crociera dopo la pandemia è partita da Venezia così, ieri poco dopo le 16. Msg Orchestra è salpata in anticipo per evitare la manifestazione. Si è trovata accerchiata da una cinquantina di barchini che l’hanno accompagnata per un tratto, fino al Bacino di San Marco. Poco più in là, a San Zaccaria erano schierate alcune decine di dipendenti delle società che proliferano attorno alla crocieristica.

L’ordine della Questura era che i due gruppi restassero staccati. Improvvisamente, di fronte alla Capitaneria sono comparsi i sei incursori, sbucati da un rio laterale. Attimi di tensione, urla da una parte e dall’altra. Non ci fossero stati gli agenti, sarebbe finita in modo diverso. Invece, mentre nave Orchestra continuava a seguire i rimorchiatori verso la bocca di porto del Lido, gli aggressori si sono ritirati. Anche perchè i No Grandi Navi erano molto più numerosi. Venezia è tornata così alla sua anormalissima normalità. Bestioni alti 60 metri (quasi come il campanile di San Giorgio e 17 metri più della Basilica di San Marco) non dovrebbero transitare davanti a Palazzo Ducale. Il decreto Clini-Passera del 2012, infatti, vieta la navigazione ai natanti con stazza superiore alle 40 mila tonnellate. Orchestra ne ha quasi 95 mila e può portare quasi 3 mila passeggeri. Ma nessuno l’ha fermata, la legge è lettera morta da 10 anni. L’associazione Ambiente Venezia ha inviato una diffida alcun giorni fa in Capitaneria di Porto e Sovrintendenza ai beni ambientali, invocando il rispetto delle norme. Non è accaduto nulla. La nave era arrivata giovedì all’alba. Ha fatto il pieno di carburante, generi alimentari e di turisti. È ripartita. Poco importa se un decreto del governo Draghi ha fissato l’obiettivo di portare le navi fuori dalla laguna, lanciando un concorso di idee per un attracco offshore. Camera e Senato hanno respinto la richiesta di alcuni gruppi (tra cui la Lega) di autorizzare soluzioni tampone a Porto Marghera. La bocciatura non ha evitato che Msg Orchestra inaugurasse la prima stagione del post-Covid.

Seid, il padre: “Non si è ucciso per razzismo”. E l’associazione cambia la “lettera d’addio”

“Mio figlio non si è ammazzato perché vittima di razzismo. È sempre stato amato e benvoluto”. Le parole di Walter Visin, padre adottivo di Seid, smentiscono il possibile collegamento del 20enne e un suo post pubblicato su Facebook alcuni anni fa. Venerdì l’associazione “Mamme per la pelle”, che si batte contro le discriminazioni razziali, aveva rilanciato il messaggio dell ragazzo – morto suicida nei giorni scorsi – che a quanto dicono i genitori risale al 2019. “Sento sulle mie spalle, come un macigno, il peso degli sguardi scettici, prevenuti, schifati e impauriti delle persone per il colore della mia pelle”. Parole riprese dal Corriere della Sera, che hanno indignato l’Italia, complice anche il fatto che l’associazione l’aveva presentata come la “lettera d’addio” del ragazzo. In realtà, già alla mezzanotte di ieri, “Mamme per la pelle” ha modificato il post, aggiungendo che la lettera era stata scritta “alcuni mesi fa”. Ma non è bastato.

La notizia è diventata subito virale, corredata dal fatto che Seid avesse un passato da calciatore nelle giovanili di Inter, Milan e Benevento, prima di far ritorno a Nocera Inferiore, in provincia di Salerno. “Fu uno sfogo, era esasperato dal clima che si respirava in Italia. Ma nessun legame con il suo suicidio, basta speculazioni”, ha spiegato il padre. Un giovane di sani principi, con una famiglia vicina, che condivideva le battaglie contro le disuguaglianze, razzismo e omofobia. Cos’abbia spinto a compiere un gesto così estremo, resta ancora ignaro. “Non voglio parlare delle questioni personali di mio figlio. Dico solo che era un uomo meraviglioso”, ha detto il padre. Solare e brillante, con un talento innato per il calcio, si trasferire sotto la Madonnina per giocare nelle giovanili di Inter e Milan.

“L’ho conosciuto a Milano, vivevamo insieme in convitto – racconta Gianluigi Donnarumma, portiere della Nazionale –. Abbiamo affrontato insieme tutte le difficoltà di chi a 14 anni lascia la propria famiglia e la propria casa per inseguire un sogno. Era un amico, un ragazzo come me”. Una breve esperienza con il Benevento, prima di lasciare il calcio professionistico per dedicarsi allo studio. L’ultima partita l’ha giocata con l’Atletico Vitalica, piccola squadra di calcio a 5 di Sarno, che lo ricorda come un “talento enorme dal cuore fragile”.

Grillo jr. e gli altri vogliono risarcire la seconda vittima

I legali di Ciro Grillo e dei tre amici indagati per violenza sessuale di gruppo – Vittorio Lauria, Francesco Corsiglia ed Edoardo Capitta – potrebbero chiedere il rito abbreviato. E tra le ipotesi in discussione c’è quella di un risarcimento alla seconda ragazza coinvolta nella vicenda: Roberta, l’amica di Silvia (la ragazza che li ha denunciati) che dormiva sul divano, e accanto a cui si sono scattati foto oscene. La Procura di Tempio Pausania ha chiesto il processo per tutti e quattro e ha depositato alcune intercettazioni ambientali. Risalgono alla fine di agosto 2019, oltre un mese dopo la denuncia. Grillo jr e i suoi amici vengono intercettati da microspie nella caserma di Quarto, a Genova. Pochi dialoghi da cui traspare la preoccupazione sui video girati e le foto scattate quella notte. Ciro ancora lunedì scorso davanti ai carabinieri di Genova ha ribadito che il sesso con Silvia è stato consenziente. Le pose oscene accanto a Roberta, ha aggiunto, erano scherzi di cattivo gusto, senza intenti sessuali. E in due scatti contestati, ha detto, “non ero io”.

Il fidanzato muore, lei mette il corpo in valigia e lo getta

Luca De Maglie, 37 anni, ha saltato l’obbligo di firma da lunedì scorso. Il giorno in cui la compagna Alma R., 39, l’ha trovato morto in casa, forse per overdose. La donna ha aspettato qualche giorno senza chiamare i soccorsi, poi ha deciso di disfarsi del corpo. Ha cercato di chiuderlo dentro un trolley, lasciando fuori una parte avvolta in un sacco. Ha poi trasportato la valigia lasciandola dietro una macchina in piazza Federico Sacco, a Colli Aniene, nella periferia est di Roma. Ieri mattina, la macabra scoperta. Le tracce ematiche lasciate lungo il marciapiede, e il forte odore di disinfettante usato per occultarle, hanno portato le volanti della Questura al civico 12 di via Luigi Bellardi, dove gli agenti della Squadra mobile in pochi minuti hanno rintracciato l’appartamento con dentro la donna. “Non l’ho ucciso io”, ha ripetuto più volte, ma ora dovrà rispondere di occultamento di cadavere. Già ad aprile Alma era stata denunciata per aver abbandonato il figlio di due anni in macchina. Lei però, all’arrivo degli agenti questa mattina, era sola.

L’ultima pista: il banchiere sapeva di quella bomba?

La bomba alla stazione di Bologna esplode la mattina del 2 agosto 1980. Il banchiere Roberto Calvi viene ucciso a Londra, appeso al ponte dei Frati neri, due anni dopo, la notte del 18 giugno 1982. Che correlazioni ci sono tra questi due eventi neri? Stanno tentando di rispondere i magistrati della Procura generale di Bologna, udienza dopo udienza, nell’ultimo processo sulla strage, con imputato (vivo) Paolo Bellini e con Licio Gelli, Federico Umberto D’Amato e Mario Tedeschi (morti) indicati come mandanti. “Una parte della nostra istruttoria”, ha anticipato in udienza il sostituto procuratore generale di Bologna Nicola Proto, “è relativa all’omicidio Calvi che, per come abbiamo accertato, è strettamente connesso con la strage”.

L’ipotesi d’accusa è che la strage sia stata finanziata con i soldi del Banco Ambrosiano sottratti a Calvi, come raccontato dal “Documento Bologna” (e spiegato nell’articolo qui a fianco). Ma c’è qualcosa di più, anticipano i magistrati bolognesi: “C’è la seria e concreta possibilità che Calvi sapesse di questa vicenda”. Ucciso dunque (anche) perché non parlasse di Gelli, dei neri e della strage?

Quello che è certo è che la Londra in cui Calvi compie il suo ultimo viaggio, in quei mesi è affollata di personaggi dell’estrema destra italiana. Ma ancor più curiosa è “la strana confluenza di soggetti a Londra in quei giorni”, dice Proto. C’è Flavio Carboni, che accompagna Calvi nella capitale britannica e lo sistema in un residence. In quello stesso residence, c’è una stanza affittata da Sergio Vaccari, antiquario italiano con base a Londra, che la mette a disposizione di alcuni suoi ospiti. In quei giorni, sulle rive del Tamigi ci sono anche Francesco Pazienza, che allora era il grande manovratore del Sismi (il servizio segreto militare) e il suo segretario Maurizio Mazzotta. Sia Carboni, sia Pazienza, sia Mazzotta in quelle ore telefonano in Italia, alla stessa persona: il prefetto-gourmet, Federico Umberto D’Amato, per anni potentissimo regista dell’Ufficio affari riservati (il servizio segreto civile). Queste connessioni inglesi saranno affrontate nelle prossime udienze del processo, quando l’accusa cercherà di tirare i fili che legano Calvi a personaggi della massoneria (Carboni e Gelli), dei servizi segreti (Pazienza e D’Amato), dei neofascisti italiani (tanti, in giro per Londra in quei mesi). L’antiquario Vaccari, secondo alcune fonti, fu l’ultimo a vedere Calvi vivo. Ora scopriamo che era in contatto con Giorgio Di Nunzio, che è considerato il primo beneficiario dei soldi che Gelli storna dal Banco Ambrosiano di Calvi e dirotta per finanziare la strage. A Londra, Vaccari si occupava di trovare sistemazioni per i latitanti di estrema destra in fuga dall’Italia. La sua agenda era zeppa di numeri di neofascisti italiani. Tra questi, Stefano Orlandini, che fu subito indagato per la strage di Bologna e subì una perquisizione subito dopo il 2 agosto.

Sulla morte di Calvi si è a lungo indagato, ma finora senza certezze definitive. È stata esclusa l’ipotesi iniziale del suicidio, ma non sono state ancora accertate le responsabilità di chi l’ha ucciso. Nel 2016 sono state archiviate le accuse a Gelli, Carboni e Pazienza. Di certo erano in molti ad avere interesse che il banchiere tacesse per sempre. I mafiosi di Cosa nostra che gli avevano affidato molto denaro che era andato perso nel crac dell’Ambrosiano. I personaggi del Vaticano che avevano collaborato con lui, con scarsa fortuna, a riciclare nello Ior i soldi delle sue banche. I vertici della P2 che lo avevano usato e depredato. Ora la Procura generale di Bologna aggiunge un ulteriore elemento: se Calvi sapeva dei finanziamenti di Gelli agli stragisti, era diventato un’ulteriore minaccia per il Venerabile, per il suo amico Federico Umberto D’Amato e per i neofascisti coinvolti. Disperato, in bancarotta, inseguito da un mandato di cattura, Calvi avrebbe potuto rivelare i tanti suoi segreti. Nelle prossime udienze del processo bolognese saranno resi pubblici i nuovi elementi raccolti dall’accusa. Intanto Pazienza ribadisce la sua linea. “Quando Gelli chiese di conoscermi, io gli risposi con una sola parola: vaffanculo. Non avevo niente da spartire con lui e lui sapeva che io ero un suo nemico. È vero che ero a Londra, dieci giorni prima della morte di Calvi, ma ci sono rimasto meno di 24 ore, solo per prendere il Concorde per New York. In precedenza avevo fatto il consulente di Calvi, per lui avevo scritto un memorandum nell’aprile 1981. Quanto a Federico Umberto D’Amato, lo sentivo spesso. Quando scoppiò lo scandalo P2, nella primavera 1981, mi chiese di aiutarlo a dar diventare il magistrato Domenico Sica capo del Sisde, il nuovo servizio segreto civile. Fu D’Amato a informarmi subito che Calvi era sparito”.

Strage di Bologna, il conto di Gelli. Così ha usato 15 milioni di dollari

Come un diligente ragioniere di provincia, Licio Gelli teneva il suo documento più segreto accuratamente ripiegato nel portafoglio. Il Maestro Venerabile, volonteroso funzionario dell’eversione, aveva scritto su un foglio a quadretti, in parte a macchina e in parte a mano, in stampatello, una misteriosa contabilità divisa in nove colonne: data, motivo, importo, conto, note, e poi ancora data, note, importo. Ripiegato in tre, ha l’aria di quei libretti che i bambini fabbricano per gioco. Ma qui il gioco è pericoloso. Sulla copertina, il titolo è scritto a macchina a lettere maiuscole: “BOLOGNA-525779-XS”.

Questo libretto così infantile e così terribile – secondo la Procura generale bolognese – racconta i flussi dei soldi con cui Gelli ha finanziato la strage del 2 agosto 1980. Il “Documento Bologna” è stato per quarant’anni una prova dimenticata. Invisibile, come la “lettera rubata” di Edgar Allan Poe che nessuno vedeva eppure era ben esibita sopra il caminetto. A trovarla – anzi, ri-trovarla – è il sostituto procuratore generale Nicola Proto, che con il collega Umberto Palma e l’avvocato generale Alberto Candi l’ha scovata, ingiallita dal tempo, nell’Archivio di Stato di Milano, conservata insieme a centinaia di altri documenti del processo sul Banco Ambrosiano.

La stele di Rosetta e la finta corruzione del giudice

Era stata estratta dal portafoglio di Gelli dopo il suo arresto a Ginevra, il 13 settembre 1982, e sequestrata dalle autorità svizzere. Per quattro anni era rimasta negli archivi elvetici e mandata in Italia il 16 luglio 1986, consegnata al giudice istruttore che stava indagando sul dissesto dell’Ambrosiano, Antonio Pizzi. Contrassegnata con il numero 27, è subito definita documento di “particolare interesse”. Eppure non si riesce a capirne il senso: “Bologna… non si riesce allo stato a dare un significato ben preciso”. A Gelli non vengono mai fatte le domande giuste. Adesso i magistrati bolognesi ritengono di aver interamente decifrato la stele di Rosetta della strage. Il numero 525779-XS indica un conto svizzero di Licio Gelli aperto presso l’Ubs. La denominazione “BOLOGNA” indica che lì è raccontata la storia dei soldi che finanziano la strage. Il documento allinea due flussi di denaro: il primo è chiamato “Dif. Mi” e si articola in sette operazioni bancarie tra il 3 settembre 1980 e il 15 febbraio 1981 per un totale di 10 milioni di dollari; il secondo è “Dif. Roma”, un flusso di 5 milioni di dollari che si muovono nei primi mesi del 1981. Che cosa significano “Dif. Mi” e “Dif. Roma”? E qui la storia si fa appassionante. Significano “Difesa Milano” e “Difesa Roma”. A Milano Calvi era indagato per violazioni valutarie, a Roma per concorso in bancarotta nel crac del gruppo Genghini. Il gatto e la volpe, Gelli e il suo compare Umberto Ortolani, riescono a convincere Calvi che grazie ai loro rapporti di loggia lo faranno prosciogliere, sia a Roma, sia a Milano. Ma le due operazioni hanno un costo: 10 milioni quella di Milano, 5 quella di Roma. Così il povero ragiunatt diventato padre-padrone dell’Ambrosiano risucchia 15 milioni di dollari dal Banco Ambrosiano Andino e li affida al gatto e alla volpe, che non li usano però per corrompere i giudici, come promesso, ma per finanziare se stessi e gli uomini della strage. A “UL” (cioè Umberto e Licio) vanno il 20% di “Difesa Milano” e il 30% di “Difesa Roma”: è la mediazione sul millantato credito, in cambio di una corruzione dei giudici solo promessa. È uno spettacolo di arte varia quello che il gatto e la volpe mettono in scena per convincere Calvi che stanno lavorando per lui: gli mostrano perfino una ricevuta bancaria per Ugo Ziletti, allora vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura. Tutto finto. Non pensano affatto ai guai giudiziari del ragiunatt. Hanno di peggio da fare. Il denaro comincia a correre. Parte il flipper. Il 22 agosto 1980, i 10 milioni della “Difesa Milano” transitano dall’Andino alla società Nordeurope, poi si dividono, metà alla Noè 2 e metà alla Elia 7 (due società di Ortolani), per ricongiungersi nel conto Ubs 596757 di Gelli. A settembre passano in tre conti Ubs: Bukada, Tortuga e il fatidico 525779-XS. I primi due sono di Marco Ceruti, fido braccio destro finanziario di Gelli e suo prestanome bancario; il terzo è di Gelli in persona. È il “conto Bologna”. Nel settembre 1981 altri milioni partono dall’Andino, passano per Bellatrix, arrivano a Antonino 13 (conto di Ortolani) e finiscono a Bukada (di Ceruti). Ora arriva il bello. I magistrati bolognesi e gli uomini della Guardia di finanza guidati dal capitano Cataldo Sgarangella vedono che i soldi di Calvi cominciano a muoversi dal 22 agosto 1980. La strage è del 2 agosto. E sul “documento Bologna” c’è qualcosa che non quadra: ci sono 1.900.000 dollari segnati con “dare a saldo” (nella colonna “Motivo”) e con “restano 1.900.000” (nella colonna “Note”). Come si spiega? Lo fa capire un bigliettino sequestrato a Gelli il 17 marzo 1981 nel suo ufficio di Castiglion Fibocchi, insieme a tanti altri documenti e alle liste della loggia P2. Il bigliettino è scritto a mano. Vi si legge: “A M.C. consegnato contanti 5.000.000 – 1.000.000” e “dal 20.7.80 al 30.7.80”.

Quel filo fino a “Zaff”, il capo degli Affari riservati

Che cosa significa? “M.C.” è Marco Ceruti. Spiega in aula il capitano Sgarangella che c’era qualcosa di tanto urgente da costringere Gelli ad anticipare in contanti suoi, a luglio, quanto poi arriverà da Calvi e sarà recuperato solo a settembre, sul “conto Bologna”: il tesoretto per finanziare la strage. Un milione in contanti per gli stragisti tra il 20 e il 30 luglio 1980; più 850.000 per “Zaf” il 30 luglio; e 20.000 per “Tedeschi Artic”. Altri 4.000.000 affluiscono sui conti Bukada e Tortuga. Di questi, 340.000 vanno a Giorgio Di Nunzio – sostengono gli investigatori – per finanziare la strage. “Tedeschi” è Mario Tedeschi, allora parlamentare del Msi e direttore del Borghese, oggi accusato di essere uno dei mandanti, insieme a Gelli e insieme a “Zaff”, che riceve una bella fetta del denaro di Calvi: è “Zafferano”, ovvero Federico Umberto D’Amato, capo degli Affari riservati e gran gourmet noto per la sua incontenibile passione per lo zafferano e per i misteri neri d’Italia.

Laboratori fermi e rivalità. L’Italia non cerca varianti

Era stata annunciato già il 28 gennaio da Giorgio Palù, presidente dell’agenzia del farmaco (Aifa) insieme a Pierpaolo Sileri, allora viceministro alla Salute. Sarà coordinato dall’Istituto Superiore di Sanità (Iss) sotto la guida della virologa Paola Stefanelli. Ma a distanza di mesi dal primo annuncio, e a 18 mesi dall’inizio della pandemia, la rete nazionale per il sequenziamento dei genomi dei campioni di SarsCov2 estratti dai soggetti positivi è tuttora fermo ai blocchi di partenza. “Avremo una rete nazionale per il sequenziamento per scoprire e monitorare le varianti quando il Covid non ci sarà più,” commenta amaro Graziano Pesole, genetista e direttore di Elixir, l’infrastruttura europea con sede a Bari che insieme a una rete di università e centri di ricerca italiana gestisce il Covid-19 Data Portal, dove si riportano le sequenze genetiche delle varianti di tutto il mondo. “Ci servirà forse per un’eventuale prossima pandemia, magari, ma per questa è tardi, anche perché, per fortuna, i casi stanno crollando”.

Sequenziare il genoma di quanti più campioni di virus estratti da tamponi positivi è un’arma chiave per individuare in tempo nuove varianti, quando cioè circolano al massimo nell’1% della popolazione positiva nazionale. È fondamentale per seguirne l’evoluzione, intervenire in tempo per stroncare eventuali focolai e determinare se siano o meno resistenti agli attuali vaccini.

Non a caso la Gran Bretagna ha istituito il proprio network di laboratori specializzati già a marzo 2020. Non a caso è lì che sono state scoperte molte delle varianti che oggi conosciamo. In Italia, invece, non si parte. Il Fatto aveva rivelato a dicembre scorso la grave mancanza della rete nazionale per il sequenziamento e le conseguenze nefaste in termini di contrasto alla pandemia. Da lì a due settimane, seguirono gli annunci di Aifa e ministero della Salute. Ma a 6 mesi di distanza, ancora non si muove foglia.

A ostacolarne la nascita c’è soprattutto la resistenza dei centri di riferimento regionali, come ad esempio gli Istituti Zooprofilattici e i laboratori di microbiologia degli ospedali Covid. “Hanno gestito loro la sorveglianza nazionale, attraverso l’analisi dei tamponi, e ora non vogliono cedere il passo ai grandi centri di ricerca specializzati in genomica” racconta la fonte che preferisce restare anonima.

L’Italia ne vanta molti, di riferimento europeo: per citarne alcuni, Elixxir di Bari, il Tigem di Pozzuoli, l’Istituto europeo di oncologia (Ieo) di Milano, il laboratorio dell’Ospedale militare Celio, l’Istituto di Genomica applicata (Iga) di Udine (contatti da Iss per costituire la rete). Hanno una capacità di sequenziamento migliaia di volte superiore ai laboratori regionali e un know how specifico per analizzarne dati e metadati associati alle sequenze genetiche. In un paradosso tutto italiano, i laboratori regionali si stanno attrezzando per acquistare nuovi sequenziatori, a spese del contribuente, mentre i supersequenziatori di cui i centri di genomica sono già dotati (e costati anche 2 milioni di euro), sono fermi.

“I circa 180 laboratori regionali preposti alla sorveglianza, quelli che eseguono i tamponi e trasmettono i risultati all’ISS, sono i padroni dei campioni – spiega la fonte –. Se decidono di tenerseli e non li spediscono ai centri di genomica per essere sequenziati, il processo si ferma”.

L’insistenza di molti laboratori regionali a voler fare da soli si traduce così: al 31 maggio l’Italia ha eseguito solo lo 0,7% di sequenze dell’intera popolazione positiva, contro la soglia minima del 5% che il Centro europeo per la Prevenzione e Controllo delle Malattie (Ecdc) ha stabilito. L’Italia ha cioè depositato solo 32.491 sequenze sul portale di riferimento mondiale Gisaid — quello dove ricercatori di tutto il mondo inseriscono via via ogni sequenza genomica dai campioni di SarsCov2. La Germania ne ha depositate 120.806 (terzo paese al mondo per numero di sequenze) Il Regno Unito, 430.472 (secondo). Gli Usa, oltre i 500 mila. Se si va a restringere il campo alle singole regioni italiane, le differenze tra una e l’altra sono enormi. La Campania è la più virtuosa, con 46 sequenze ogni mille positivi (ha raggiunto il 5% come indicato dall’Ecdc), grazie all’accordo Tigem-Regione Campania, che prevede che tutti i campioni estratti dai tamponi vengano inviati al Tigem per essere sequenziati. La Lombardia, fulcro della pandemia europea, sfiora appena lo 0,7%, tra le ultime in classifica. Il fatto che solo in Lombardia ci siano circa 70 laboratori regionali accreditati per la sorveglianza, non lascia dubbi sul fatto che i centri regionali non siano all’altezza di svolgere da soli il sequenziamento.

I rincari delle materie prime mettono in crisi il Superbonus

La morsa che preme sull’offerta di acciaio anziché attenuarsi si sta ulteriormente aggravando. E il panico legato alla carenza della materia prima, che era appannaggio degli operatori industriali, in queste settimane si è cominciato a riversare anche sul cliente finale. La più concreta dimostrazione è quello che accade nei cantieri edili, dove l’incredibile aumenti dei prezzi di metallo, calcestruzzo, legno, Pvc, ma anche rame o materiali isolanti sta sparigliando le carte del Superbonus 110%. “L’incentivo per i lavori di efficientamento energetico ci sta esplodendo in mano. I preventivi sono scritti sulla sabbia”, spiega Marco Mariotti, imprenditore del settore siderurgico e membro della giunta nazionale Confapi. “Non riusciamo a far capire agli amministratori di condominio o ai proprietari delle villette che la disponibilità dei prodotti è mancante. Non siamo in grado di prezzare i materiali che – aggiunge – da qui a qualche giorno potrebbero continuare ad aumentare”.

Una frase che da settimane sono costretti a ripetere ai clienti anche serramentisti, piastrellisti, idraulici, muratori o elettricisti. Il Superbonus 110%, insomma, rischia di essere mangiato dall’aumento delle materie prime: non solo sta già rallentando i lavori delle ditte, ora potrebbe compromettere anche l’esito positivo della misura. La maxi-agevolazione, infatti, salvo la possibile proroga inserita nella legge di Bilancio, scadrà il 30 giugno 2022. Solo per i condomini che entro questa data avranno realizzato almeno il 60% dei lavori è prevista una proroga al 31 dicembre 2022. “Peccato che i tempi di consegna dei materiali siano lunghissimi con il concreto rischio che non si faccia in tempo a finire i lavori rispettando le date di consegna. Chi glielo dice alle famiglie che hanno già attivato le pratiche per richiedere l’agevolazione fiscale?”, dice rammaricato Giuseppe Rossi, responsabile acquisti di un’azienda di Bassano del Grappa che fabbrica infissi. Se prima della pandemia i materiali per la coibentazione degli edifici venivano consegnati in una decina di giorni, oggi se va bene ce ne vogliono 40. L’acciaio, invece, è passato da tre a ben 8 mesi, mentre per la plastica i tempi sono raddoppiati. Gravi problemi ci sono anche per l’approvvigionamento: molti imprenditori hanno smesso di comprare a questi prezzi altissimi per paura che poi possano rimetterci se i materiali torneranno a valori normali. Ma c’è un altro elemento che potrebbe aggravare i risultati del Superbonus 110%. “Con questo aumento smisurato dei prezzi, lo scenario che si va prospettando – ha spiegato il presidente idraulici Cna Arezzo Damiano Iacovone – è di far saltare la misura che ha dei massimali di spesa ben precisi”. Il superamento di questi tetti è una sciagura sia per le imprese che per le famiglie. Le ditte potrebbero rimetterci di tasca propria per coprire gli aumenti delle materie prime rispetto al preventivo stilato mesi fa. Mentre ai clienti i nuovi prezzari potrebbero far superare il limite massimo di spesa detraibile: ad esempio 30 mila euro per l’impianto di climatizzazione o 54 mila per la sostituzione degli infissi. Un serio rischio, quello di vanificare tutti gli sforzi economici messi in campo con le detrazioni fiscali per l’edilizia, che potrebbe però essere scampato con la proroga fino al 2023 del 110%.

E guardando alle prossime settimane non c’è nulla che faccia ben sperare. Anche se governi e Banche centrali continuano a rassicurare, chiedendo di resistere “perché nell’arco di pochi mesi tutto si risolverà”, dal mercato non emerge una soluzione che possa far abbassare la pressione che insiste sul comparto delle materie. Nella logistica, la carenza di container ha spinto il prezzo del nolo per la tratta Cina-Europa a oltre i 10 mila dollari dai 1.500 di appena un anno fa. “I colli di bottiglia nel settore dello shipping non potranno che aggravarsi nei prossimi mesi – spiega al Fatto il top manager di una delle maggiori compagnie mondiali del settore – con l’attuale flotta di navi non gestiamo l’attuale boom di ordinativi che sono diretta conseguenza dei 5 mila miliardi di dollari in stimolo fiscali implementati negli Usa. Stiamo cercando di fare il possibile ampliando la nostra capacità, ma il lasso di tempo che corre tra l’ordine di una nave e la consegna è di circa due anni. Fino al 2023 non credo che la situazione possa migliorare”. Nel mercato dell’acciaio è addirittura un dramma: è stato investito da uno choc legato all’adozione da parte della Cina (primo produttore mondiale con oltre 150 milioni di tonnellate) di una politica di stampo autarchico finalizzata a disincentivare l’export al fine di aumentare l’offerta nel mercato interno. Una strategia che sembra aver prodotto i primi risultati se si pensa che nelle ultime settimane il prezzo è passato da 6.700 yuan toccato il 12 maggio agli attuali 5.400 yuan la tonnellata.

In Italia la criticità viene amplificata sia dalle incognite che ammantano il futuro dello stabilimento dell’ex Ilva sia dal previsto fermo dello stabilimento della Magona a Piombino controllato da Liberty Steel. “Siamo arrivati al punto in cui il prezzo dell’acciaio in Italia ha superato quello in Germania – spiega il buyer di un centro di servizi – quando la ruota girerà molti rimarranno in braghe di tela”.