Brunetta si prende l’Anticorruzione. E l’Anac protesta

Ben che vada si crea uno strano doppione, complicando la vigilanza dell’Autorità anticorruzione. Mal che vada, l’Anac sarà esautorata dal monitoraggio delle amministrazioni pubbliche. E siccome assai poco avviene per caso nei provvedimenti che accompagnano il Piano nazionale di ripresa (Pnrr), sembra che il ministro della Funzione pubblica, Renato Brunetta, abbia messo a segno un discreto blitz: è successo nell’ultimo decreto, approvato venerdì, con le assunzioni straordinarie per gestire il Piano europeo. L’Anac è furente: “Dal governo arrivano preoccupanti passi indietro in materia di anticorruzione, se venissero confermate le bozze in circolazione, in un momento in cui massima dovrebbe essere l’attenzione verso la gestione trasparente delle risorse, anche per il rischio di infiltrazioni delle mafie”, ha attaccato ieri il presidente Giuseppe Busia. Al Fatto, Busia – nominato ad agosto 2020 dal governo giallorosa – rincara la dose: “Il governo così mette in piedi un sistema in cui il controllore è subordinato al controllato, un errore grave e un pessimo segnale in vista del Piano”.

Cosa è successo? Il diavolo, è noto, si annida nei dettagli. E stavolta all’articolo 6 del decreto, che peraltro con il Pnrr non c’entra nulla. La norma non compariva nelle bozze iniziali né ha fatto capolino nelle interlocuzioni avute con l’Anac. Cosa fa? La materia è complessa ma, in sostanza, rivede l’impianto che oggi stabilisce la redazione del piano di contrasto alla corruzione da parte delle amministrazioni statali.

Funziona così. Oggi l’Anac redige delle linee guida nazionali sulla base delle quali le amministrazioni redigono i piani attraverso un responsabile interno, che si interfaccia con l’Authority cui poi spetta il monitoraggio sia dei piani sia della loro attuazione. Il decreto di venerdì cambia tutto. Prevede che tutte le amministrazioni redigano, entro dicembre, un “Piano integrato di attività e organizzazione”. In quest’ultimo, che ha durata triennale, ci finisce un po’ di tutto, dagli “obiettivi programmatici” delle performance e del reclutamento, ai criteri per le “progressioni di carriera del personale”, dalla lista delle “procedure da semplificare” ai criteri per rispettare la “parità di genere”. Il Piano deve poi contenere anche “gli strumenti e le fasi per giungere alla piena trasparenza dell’attività e dell’organizzazione amministrativa nonché per raggiungere gli obiettivi in materia di anticorruzione”. E qui viene il punto.

In sostanza, in tema di anticorruzione, viene chiesto un doppione di quanto già avviene, solo che stavolta i piani vanno inviati al ministero della Funzione pubblica, a cui spetterà la vigilanza. Il ministero di Brunetta redigerà un “Piano tipo”, che servirà da schema per tutti (se ricorda le “linee guida” dell’Anac non è un caso). Che il sistema oggi controllato dall’Autohrity resti in vita è difficile crederlo, anche perché l’articolo affida poi a un Dpr il compito di eliminare “gli adempimenti assorbiti nel piano integrato”, tipo quelli oggi in capo ad Anac. Anche le sanzioni passano al ministero di Brunetta, che potrà punire i dirigenti inadempienti con gli strumenti tipici della Funzione pubblica, cioè “il divieto di erogazione della retribuzione di risultato”.

“In questo modo si passa dal controllo di un’autorità indipendente a quello di un ministero, che è gerarchicamente subordinato al governo – spiega Busia al Fatto –. Si fa la lotta alla corruzione con la minaccia di non erogare il premio di risultato: è insensato. I controlli li fanno dei dirigenti nominati dal ministro vanificando una normativa oggi apprezzata all’estero. Non abbiamo bisogno di continue modifiche normative, ma di dare forza alle norme in vigore. Abbiamo imprese deboli, a rischio di infiltrazione mafiosa e arriveranno molte risorse: la trasparenza va rafforzata, non indebolita”. L’articolo 6 non è l’unico a preoccupare l’Authority. Dal testo, per dire, è saltato il rafforzamento dell’organico chiesto dall’Anac: 32 persone da selezionare tra chi ha già superato un concorso. Il decreto raddoppia poi al 20% la quota di dirigenti esterni che possono essere assunti a chiamata diretta: “Si tratta di figure scelte dal vertice politico, e questo non aiuta a difendere la trasparenza e il merito nell’operato della P.A.”, conclude Busia. Il governo ieri ha replicato solo attraverso “fonti” anonime: “La norma non pregiudica alcuna competenza dell’Anac su indirizzo gestione e controllo anticorruzione, riunisce solo la maggior parte degli attuali piani, compreso quello anticorruzione”. Si vedrà.

“Fermate il condono edilizio mascherato da semplificazione”

Non c’è niente di più duraturo, nella recente storia d’Italia, della passione della politica italiana per la sanatoria degli abusi edilizi. Senza risalire alla Prima Repubblica o ai fasti di Silvio Berlusconi, solo nel 2020 ne ha proposto uno il tavolo tecnico del Consiglio dei lavori pubblici (per gli immobili ante-1967, anno di entrata in vigore della “legge Ponte”) e uno la Regione Emilia-Romagna, poi fortunatamente abbandonato.

Storicamente i condoni sono sempre stati infilati in provvedimenti che avrebbero dovuto risolvere – e mai lo hanno fatto – un problema che pure c’è: gli intoppi burocratici che molti italiani conoscono nel rilascio di permessi o certificati riguardanti anche minime modifiche edilizie. Anche la vicenda odierna non fa eccezione: gli intoppi burocratici, infatti, rendono in alcuni casi impossibile accedere al cosiddetto “superbonus al 110%”, che dovrebbe servire a ristrutturare in senso anti-sismico o “ecologico” le abitazioni private (e a rilanciare il settore delle costruzioni). La modalità scelta, però, è una sorta di sanatoria generalizzata degli abusi, ovviamente mascherata da “semplificazione” nel relativo decreto.

Questo bizzarro modo di procedere era già stato descritto dal Fatto settimane fa, quando il provvedimento era in bozze: ora che è finalmente approdato in Gazzetta Ufficiale, e a Montecitorio, ci si accorge che le norme non hanno cambiato di segno e le associazioni ambientaliste, in particolare Italia Nostra, chiedono che il Parlamento le modifichi. “Ci si augura che questa norma, che sana l’abusivismo edilizio a spese dello Stato, possa essere drasticamente cambiata in sede di conversione in legge – ha scritto l’ufficio legale proprio di Italia Nostra – magari rafforzando, in generale, l’attività di repressione dell’abusivismo edilizio. Sarebbe un bel segnale”.

Veniamo ai dettagli. Per rendere più veloce l’uso del superbonus l’idea del ministero della Transizione ecologica – in cui è stato materialmente scritto il testo – è aggirare qualunque forma di requisito, in particolare l’odiato “stato legittimo”, che aveva escluso sia le vittime della burocrazia che tutti gli immobili parzialmente o totalmente abusivi: l’esistenza dei requisiti è ora affidata invece alla mitica CILA, la Comunicazione di inizio lavori asseverata, scritta da un tecnico pagato da chi ristruttura.

A dare l’ennesima speranza agli abusivisti dello Stivale è un solo comma di una quindicina di righe all’articolo 33 del decreto. La procedura delineata è in sostanza la seguente. Per gli immobili parzialmente abusivi è un’autostrada: basta che la CILA attesti gli estremi del titolo abilitativo o l’eventuale condono del nucleo originale, anche se – per dire – poi fosse stato aggiunto un intero piano o due; finiti i lavori si potrà, con la legislazione già in vigore, accatastare l’immobile completo della CILA per dimostrare, ad esempio, il passaggio di classe energetica. Se la casa è completamente abusiva, bisogna invece sperare che sia antecedente al 1967, anno in cui la Repubblica sancì che per costruire qualcosa bisognava munirsi di apposita licenza edilizia. Attenzione perché questo meccanismo senza controlli vale anche per immobili già oggetto di ordinanze di sospensione lavori o di demolizione (ovviamente se non eseguita). Dirà il lettore: ma l’ordinanza di demolizione resta. Certo, ma sarà assai più semplice per l’abusivo ricorrere al Tar contro l’illogicità di uno Stato che da un lato paga la ristrutturazione (e consente di accatastarne l’esito) e allo stesso tempo ordina di buttare giù l’immobile.

Non manca una chicca finale, che riguarda la clausola alla lettera “d” del nostro comma: “Resta impregiudicata ogni valutazione circa la legittimità dell’immobile oggetto di intervento”. Scrive Italia Nostra: “Anziché risolvere il pasticcio, lo aggrava. Infatti, in base al Testo Unico dell’Edilizia, l’attività di repressione dell’abusivismo edilizio non è discrezionale ma vincolata. Specificare che, a seguito degli interventi di manutenzione utilizzando il Superbonus, le prefetture e gli enti locali dovranno ‘valutare’ cosa fare anziché demolire d’ufficio gli abusi, conferma i peggiori sospetti”. E a pensar male, diceva uno che se ne intendeva…

I pm di Mantova: “Ha evaso l’Iva, la Marcegaglia vada a processo”

La pulizia e la depurazione dell’isola di Albarella finiscono sotto l’occhio della magistratura. Ed Emma Marcegaglia, che con il gruppo di famiglia da sempre controlla la gestione dell’isola vip sul Delta del Po, rischia il processo per evasione fiscale. La Procura di Mantova ha infatti chiesto il rinvio a giudizio per l’ex presidente di Confindustria, iscritta nel registro degli indagati con l’accusa di aver evaso l’Iva tra il 2015 e il 2018. Vicenda sulla quale la Guardia di Finanza e l’Agenzia delle Entrate hanno puntato i riflettori. “E non hanno trovato alcuna irregolarità” sostiene l’avvocato Sergio Genovese, legale di Emma Marcegaglia.

Per la Procura guidata da Manuela Fasolato, però, c’e qualcosa che non torna. In particolare alcune fatture. Quelle che la Alba Tech srl con sede a Chioggia ha emesso nei confronti della società Albarella srl con sede a Gazoldo degli Ippoliti e che è direttamente riconducibile a Marcegaglia, che risulta essere la legale rappresentante.

Per chi indaga, la ex presidente di Confindustria, carica ricoperta dal 2008 al 2012, su quelle fatture avrebbe omesso di versare oltre 800mila euro di Iva. La Procura di Mantova ritiene che le fatture contestate siano relative ad operazioni inesistenti.

Nel mirino è finito un appalto del 2007 per i lavori di pulizia e depurazione dei 528 ettari di isola privata in provincia di Rovigo ed eseguiti dalla società Alba Tech srl che però, all’epoca della contestazione, non avrebbe avuto capitali, organizzazione, beni strumentali e autonomia gestionale. Insomma, una scatola vuota. Tramite l’appalto a questa società, la Albarella srl di Emma Marcegaglia avrebbe, secondo le ipotesi, ottenuto un notevole vantaggio economico. Perché pur avendo la possibilità e la disponibilità per assumere e pagare il personale, si è affidata alla Alba Tech che ha emesso fattura. Un’operazione che gli inquirenti inquadrano come un appalto simulato.

Per l’avvocato Sergio Genovese, però, a oggi Guardia di Finanza, Agenzia delle Entrate e anche l’ispettorato del lavoro per quanto riguarda i contratti degli operai che hanno pulito l’isola di Albarella, non avrebbero ravvisato irregolarità nell’appalto. E la difesa che tra pochi giorni sarà in aula per l’udienza preliminare è pronta, in caso di rinvio a giudizio dell’ex presidente di Confindustria, a scegliere la strada del processo in abbreviato.

Da Amazon a Google e Facebook: felici per l’accordo

Da Facebook ad Amazon, big tech ha accolto con calore inaspettato ma eloquente l’accordo sulla tassazione delel società raggiunto al G7. Google, ad esempio, ha espresso “un forte sostegno al lavoro svolto per aggiornare le norme fiscali internazionali” con “l’auspicio che i Paesi continuino a lavorare insieme per garantire un accordo equilibrato e duraturo che venga concluso presto”. Facebook, invece, “saluta con favore l’importante passo in avanti fatto al G7” atraverso un tweet del vice presidente degli affari globali e della comunicazione, Nick Clegg, commentando. “L’accordo – dice- è un primo passo significativo verso la certezza degli investimenti e il rafforzamento della fiducia pubblica nel sistema fiscale globale” nonostante “potrebbe significare che Facebook pagherebbe più tasse e in luoghi diversi”. Anche Amazon si è espresso: “Riteniamo che un processo guidato dall’Ocse per creare una soluzione multilaterale contribuirà a portare stabilità al sistema fiscale internazionale – spiega un portavoce – . Speriamo di vedere proseguire questo dibattito all’interno del più ampio gruppo di Paesi del G20 e della alleanza Inclusive Framework”.

Nessuna svolta al G7: l’intesa è a misura dei paradisi fiscali

L’accordo “storico” arrivato ieri al G7 di Londra su una tassazione minima globale con un’aliquota minima di almeno il 15% per le multinazionali normalizza per la prima volta, al massimo livello politico, la dannosità della concorrenza fiscale tra gli Stati. Quest’ultima premia le grandi aziende e i paradisi fiscali, ma toglie all’Italia e agli altri Paesi del mondo almeno 240 miliardi di dollari l’anno di risorse per sostenere welfare e investimenti.

L’accordo, però, ha molti punti oscuri. Dopo quasi 8 anni di negoziazioni, è un primo passo avanti nel fermare la corsa al ribasso nella concorrenza fiscale. Corsa che anche in Italia ha spinto i governi nel corso degli anni a ridurre l’imposta sui redditi delle imprese e a introdurre incentivi fiscali non sempre efficienti. Si pensi solo al “patent box”, una tassazione agevolata sui redditi derivanti dall’utilizzo della proprietà intellettuale (come brevetti) introdotta nel 2015, con un costo per l’erario nel 2018 di €655 milioni, ma con il 63% del vantaggio fiscale ottenuto da imprese con ricavi sopra i€250 milioni. Non è chiaro se abbia portato a investimenti e occupazione aggiuntivi. Questa concorrenza fiscale ha reso molto più competitive le multinazionali rispetto alle piccole e medie imprese che pagano l’aliquota intera (24% di Ires e l’Irap del 3,9%) e che sono responsabili di gran parte dell’occupazione in Italia.

L’aliquota di “almeno il 15%” decisa dal G7 di ieri è di fatto un favore ai paradisi fiscali europei con aliquote effettive molto vicine al 15%, si pensi a Irlanda, Svizzera, Lussemburgo e Olanda. Ma evidenzia soprattutto la mancanza di ambizione dei leader Europei seduti al tavolo del vertice: Italia, Francia, Germania, Regno Unito hanno risposto in modo timido all’appello ambizioso dell’amministrazione Biden per un accordo che arrivasse a un’aliquota del 21%, e costretto gli Stati Uniti a ridimensionare le ambizioni pur di trovare un compromesso comune. Se la nuova amministrazione Usa è convinta della dannosità della concorrenza fiscale, non è chiaro se e quanto questo messaggio sia condiviso dai leader europei.

C’è una nota positiva: quell’“almeno” nell’accordo lascia spazio a tutti i grandi Paesi di andare oltre il 15% e seguire quel che faranno gli Stati Uniti, intenzionati, indipendentemente dall’accordo globale, a introdurre un’aliquota minima al 21% sui profitti delle proprie multinazionali all’estero per finanziare il grande piano di 2 mila miliardi di investimenti infrastrutturali e welfare annunciato da Biden. Il governo italiano può e dovrebbe seguire gli Stati Uniti e introdurre un’aliquota minima vicina al 21%, per ridurre il differenziale con la propria aliquota nazionale e quindi drasticamente ridurre l’incentivo per le multinazionali a spostare profitti nei paradisi fiscali. La differenza tra il 15% e il 21% in termini di gettito addizionale per il nostro Paese è enorme, almeno 5 miliardi. Con aliquota al 21% il gettito previsto sarebbe di 7,6 miliardi secondo lo studio dell’Osservatorio Europeo sulla fiscalità d’impresa pubblicato questa settimana. Sarebbe un contributo alla ripresa post Covid (visto che questa norma, se approvata, sarà valida non prima del 2022) che arriverebbe da chi finora ha fatto di tutto per eludere il contratto sociale. Nella nostra società scegliamo infatti di mettere in comune buona parte della ricchezza che produciamo ogni anno, tra imposte dirette e indirette, per finanziare il welfare. Secondo la Commissione indipendente sulla riforma fiscale internazionale delle imprese (Icrict), l’aliquota avrebbe dovuto essere di almeno il 25% (gli incassi per Paesi Ue sarebbero pari a 170 miliardi).

Il governo italiano deve ora scegliere quali interessi ritiene prioritari. Quelli dei paradisi fiscali e delle multinazionali che eludono, o quelli delle piccole e medie imprese e dei cittadini che pagano ogni anno le tasse.

Maresca, Brunetta, Toti: “Rep” vira a destra

La sterzata verso il centro(destra) di Repubblica, un tempo quotidiano di riferimento della sinistra progressista, si manifesta con variegati sintomi da ormai un anno, cioè da quando la famiglia Elkann ha preso il controllo del giornale.

All’addio di alcune firme storiche e al diverso posizionamento su temi divisivi (come la questione palestinese) si è aggiunto nelle ultime settimane un bizzarro, morboso, interesse nei confronti di Forza Italia e di ciò che le ruota attorno. Quasi a dire che Silvio Berlusconi e i suoi aspiranti eredi possano trovare rifugio editoriale là dove un tempo proliferavano le celebri 10 domande sugli scandali del Cavaliere.

L’aria è decisamente cambiata. Negli ultimi dieci giorni c’è quasi una intervista al giorno ai forzisti, tendenza battezzata dalla lenzuolata concessa il 27 maggio a Marcello Pera, uno dei padri nobili di Forza Italia. Il giorno dopo è Michaela Biancofiore a spiegare su Repubblica i motivi del suo imminente addio a B. per aderire al progetto di Giovanni Toti e Luigi Brugnaro, quel “Coraggio Italia” che giura di poter rivitalizzare i moderati.

Il 29 maggio la redazione di Napoli intervista invece l’eurodeputato azzurro Fulvio Martusciello, prodigo di consigli in vista delle amministrative: “Catello attento ai trasformisti. E i partiti servono…”. Il 30 maggio tocca al ministro Renato Brunetta, ottimo per mantenere alta la media. L’annuncio è di quelli epocali: “Siamo alla vigilia di un boom. Con le nostre riforme una rivoluzione gentile”. Di più: “Grazie al decreto Semplificazioni una volta che le decisioni sono state prese non possono più essere fermate”. Detta così sembra una minaccia, ma i lettori di Repubblica non fanno neanche in tempo a farsi venire il dubbio che il giorno seguente si ritrovano in pagina Antonio Tajani: “Senza Berlusconi, Toti e Brugnaro faranno la fine di Alfano”.

A inaugurare giugno c’è invece Catello Maresca, sentito ancora dal dorso napoletano. È il preludio a un giorno di pausa, prima che il 3 giugno Repubblica intervisti la forzista Stefania Prestigiacomo: “Da chi va via poca riconoscenza verso Silvio”. Il 4 giugno esce il settimanale Il Venerdì di Repubblica e lì si può dar sfogo a quel che non è entrato nel quotidiano. Ecco allora Elio Vito, forzista doc e deputato dal 1992, oggi fiero oppositore del ddl Zan. Verrebbe da dire che la settimana si chiude così, visto che al sabato nessun forzista si concede al quotidiano che fu di Eugenio Scalfari. Ma il diavolo, è noto, si nasconde nei dettagli e allora ecco un’intervista dall’apparenza innocua a Giovanni Toti, la seconda nel giro di un paio di settimane. Nella redazione genovese di Repubblica raccontano però che negli ultimi tempi il presidente ligure è parecchio coccolato da quelle parti. Non è un caso che Vittorio Coletti, linguista dell’Accademia della Crusca che da anni collabora con Repubblica Genova, oggi firmerà il suo ultimo articolo sul quotidiano. Stando ai sussurri in redazione, Coletti – che già da un po’ pensava di smettere anche per motivi personali – avrebbe deciso di chiudere dopo la mancata pubblicazione di un suo articolo critico nei confronti di Toti. L’ultima traccia del riposizionamento della testata.

L’intesa Salvini-B. spacca FI: Carfagna e Gelmini in fuga

Se il vero obiettivo di Matteo Salvini sia quello, svuotare Forza Italia per respingere l’assalto di Giorgia Meloni, è troppo presto per dirlo. Ma le premesse vanno tutte in quella direzione: mentre il leader della Lega accelera sulla federazione del centrodestra, Forza Italia implode. Nel day after del “sì” di Silvio Berlusconi all’idea di unire i gruppi parlamentari e, forse, in futuro, anche i due partiti, tra gli azzurri si respira aria da resa dei conti. Con una frattura politica dentro al partito che potrebbe materializzarsi già mercoledì quando il segretario della Lega ha convocato gli altri leader del centrodestra di governo per iniziare a mettere in piedi la federazione da realizzare entro fine mese: il coordinatore di Forza Italia Antonio Tajani andrà al vertice con il beneplacito di Berlusconi ma senza l’appoggio dei ministri forzisti del governo Draghi.

Dopo la riunione di giovedì in cui Mariastella Gelmini e Mara Carfagna, esponenti dell’ala liberal del partito, hanno espresso tutta la loro contrarietà sull’operazione, ieri la ministra per gli Affari Regionali ha ribadito il concetto ancora più chiaramente: “Sì a un centrodestra unito ma plurale, oggi non si può prescindere da una forza liberale e moderata come Forza Italia – ha detto Gelmini – è giusto dialogare ma il ruolo di ogni forza politica va accentuato, non annacquato”. Anche la ministra del Sud Carfagna, da mesi con un piede fuori da Forza Italia prima di assumere la carica di governo, è sulla stessa linea. Nel caso in cui il progetto di Salvini andasse in porto sarebbe pronta a guidare una pattuglia di deputati (c’è chi dice 30, chi addirittura 50) fuori da Forza Italia, in un nuovo soggetto centrista oppure nel nuovo partito di Luigi Brugnaro e Giovanni Toti che infatti ieri puntualmente si sono detti indisponibili a una federazione del centrodestra (“La pluralità nella coalizione è una ricchezza”). Non andranno alla riunione di mercoledì, al contrario di Maurizio Lupi (Noi con l’Italia) e Antonio De Poli (Udc). Nelle ultime ore Carfagna ha sentito diverse volte Toti e i due hanno parlato degli scenari politici futuri: se si arriverà al partito unico, la ministra del Sud potrebbe davvero lasciare FI. Renato Brunetta, ministro della P.A e ormai uomo di Mario Draghi, invece resta più defilato. In Forza Italia lo descrivono con un aggettivo: “equilibrista”. Manda avanti Gelmini e Carfagna ma, pur essendo contrario a una fusione con il Carroccio, in questo momento non ha alcuna intenzione di esporsi pubblicamente per non creare ulteriori tensioni sia nel partito che nel governo. Inoltre pochi giorni fa ha ricevuto al ministero proprio Salvini che lo ha elogiato pubblicamente e non vuole mettere a rischio la sua poltrona da ministro tra i più ascoltati dal premier Mario Draghi. Resta il fatto, però, che in FI si rischia la rottura tra i ministri e i vertici del partito: “La riunione voluta da Salvini già la prossima settimana è una forzatura – spiega un big contrario alla fusione – Tajani così vuole spaccare i gruppi parlamentari”.

E così è già visto che i deputati sono più vicini alle posizioni di Carfagna, Gelmini e Gianni Letta (contrarissimo alla federazione) mentre i senatori sono da sempre filo-leghisti. Risultato: una guerra tra bande. L’accusa lanciata dai governisti al duo Tajani-Ronzulli è di aver trascinato Berlusconi “in una contesa tra Lega e Fd’I” e di aver raggiunto un accordo sulla federazione in cambio di una decina di collegi sicuri alle prossime elezioni. Dall’altra parte, Tajani spiega che “non sarà una fusione” ma un coordinamento con la Lega e la convinzione dei favorevoli è che senza una nuova strategia, FI è destinata a scomparire. Il malumore nei confronti di Gelmini-Carfagna però rimane: vengono accusate di cercare il pretesto per andarsene. Nel mezzo a questa guerra sotterranea resta Berlusconi che giovedì ha lanciato il sasso e ieri ha fatto molte telefonate ai suoi parlamentari per capire cosa ne pensassero. In diversi hanno mostrato perplessità. Un sentimento che accomuna anche alcuni parlamentari leghisti: “Il predellino del Pdl non ha portato bene”.

Il ministro che in tuta ha scalato “il Sistema” (ma solo su Amazon)

Dispiace per Danilo Toninelli. Il suo libro Non mollare mai va fortissimo. È al terzo posto della classifica di vendite di Amazon nella sezione “politica”. Prima di lui Giorgia Meloni e Marco Travaglio (con il “giallo” su Giuseppe Conte), al quinto posto Alessandro Di Battista: la stampa “populista” gode di salute invidiabile. Ma c’è un problema di natura psicoanalitica: Toninelli crede di essere Batman. E scrive di sé come di un eroe italiano. Con retorica agghiacciante. “Un grillino intransigente, onesto e libero, che voleva portare avanti una rivoluzione”. La sua biografia è tutta un “dossier scottante”, una fatica inesauribile, una lotta a mani nude contro l’establishment. È un guerriero senza spada: “Da ministro avevo cercato di realizzare questo sogno di fare la differenza. Io contro tutti”. Il terrore delle lobby: “Se ne rimanevi fuori dovevi soccombere. E io ne sono stato, e ne sono tutt’ora, completamente fuori. Volontariamente e con tutte le mie forze. Per questo avevo il destino già segnato: massacrato dal sistema di potere mentre facevo il bene del Paese”. Ha salvato l’Italia a sua insaputa: “In un mondo a testa in giù dove tante persone mi deridevano, io lavoravo anche per loro: aprivo strade, rilanciavo porti e salvavo aziende dal fallimento. A loro insaputa, o quasi”.

Il racconto del primo giorno al ministero dei Trasporti è una gemma: “Cominciai con il saluto a tutto lo staff (…): un’opera titanica, considerato il numero di persone. Mentre parlavo con quelle donne e quegli uomini cercavo di incrociare i loro sguardi (…). Fu un’emozione indescrivibile. Ricordo i volti di alcuni di loro. Di una donna in particolare rammento gli occhi lucidi, a testimoniarne la commozione. La stessa che stavo vivendo io”.

La rivoluzione inizia dalla scorta: “Optai per la massima sobrietà, a partire dalla vettura che chiesi di poter utilizzare. Scelsi, tra i moltissimi modelli a disposizione, l’ultimo della classe, una dignitosissima Alfa Giulietta”. Macchina strettina: “Si studiavano i vari dossier, si facevano telefonate, si lavorava al computer: tutto rigorosamente in tre sul sedile posteriore dell’auto, e tre uomini di stazza non così esile. Molte volte i poliziotti, vedendoci così stretti, ci dissero che ci avrebbero potuto assegnare una vettura più spaziosa”. Lui dice no, è il ministro della porta accanto: “Se la sera non avevo fatto troppo tardi, la mattina presto andavo ad allenarmi in palestra (…). Invece del solito ministro in doppiopetto che si fa aprire porte e portoni per essere accompagnato nel proprio ufficio, le guardie e il personale civile si trovavano davanti me in tuta ginnica”. L’uomo a cui toccano i dossier più scottanti d’Italia: “Stavo per essere travolto dalla questione migratoria”. Lui in persona. “Un sabato sera, insieme alle famiglie del condominio in cui viviamo, si era organizzata la consueta grigliata estiva in giardino (…): li avvertii che stavo affrontando dossier scottanti, che toccavano un sistema di potere e denaro molto forte, e che non avrebbero dovuto credere a quanto, di lì a poco, si sarebbe raccontato e scritto su di me. Dissi che mi avrebbero dipinto come un incapace, un inetto, e che sarebbero venuti anche a loro dubbi su chi fossi realmente”. Sarebbero dubbi imperdonabili.

Voti, soldi e controllo. L’indigesta Milano che ha segnato i 5S

Il nome lo aveva scelto sempre lui, Gianroberto, anche se il battesimo online di Rousseau era arrivato solo nel giorno della sua morte, il 12 aprile 2016. “È il suo ultimo regalo”, dissero allora. Due settimane dopo arrivò il “blog delle Stelle”, a sancire la nuova stagione del M5S che aveva appena perso un padre per malattia, mentre l’altro già un paio di mesi lo aveva anticipato con il passo di lato e la corsa solitaria di beppegrillo.it.

“Non delegare, partecipa”, è stato il verbo con cui si erano messi in testa di rivoluzionare la politica. E Davide Casaleggio lo declinava così: attraverso Rousseau, “noi otteniamo che le persone ci dicano in quale direzione il M5S deve andare e quali esponenti debbano essere eletti”. Non è andata esattamente così, e forse lo ammetterà anche lui, che adesso dice di “non riconoscere più” il Movimento con cui è cresciuto. Non perché su Rousseau non si sia votato. Ma perché la storia dei quesiti sulla piattaforma è una rassegna di “no” che volevano dire “sì”, di affermazioni che servivano a negare, di plebisciti arrivati previo indottrinamento dei “big”. Memorabile fu il quesito sul mancato sbarco della nave Diciotti, quello in cui bisognava decidere se mandare a processo Matteo Salvini, allora alleato e ministro del primo governo Conte: si interrogarono gli iscritti sulla “tutela di un interesse dello Stato” e perfino Beppe Grillo non trattenne lo sconcerto: “Se voti Si vuol dire No. Se voti No vuol dire Si. Siamo tra il comma 22 e la sindrome di Procuste!”.

Schiere di commentatori l’hanno avversata come il partito dei clic; svariati hacker – e poi il Garante per la Privacy – ne hanno dimostrato le larghissime maglie della sicurezza informatica; per anni gli uffici di via Morone, in pieno centro a Milano, sono stati la sede di una leggendaria “Spectre”, che il carattere non esattamente empatico del manager Davide, così come l’infilata di consulenze ottenute da Poste, Moby-Tirrenia e Philip Morris, hanno contribuito ad alimentare. Ma al di là dei conflitti di interessi della Casaleggio associati, la verità è che l’horribilis piattaforma non è mai davvero decollata. Casaleggio si era dato l’obiettivo di raggiungere il milione di adesioni entro il 2018, invece è finito nella ridotta degli iscritti certificati: 195 mila, secondo l’ultimo dato disponibile. Ma oltre alla ristretta partecipazione, non è servita davvero nè all’organizzazione interna del Movimento – con i referenti delle varie aree di fatto non riconosciuti da nessuno – né alla formazione della classe dirigente, tantomeno agli eventi per la democrazia diretta organizzati in giro per l’Italia.

Non avevano mai sfondato, Rousseau e Casaleggio, nemmeno tra i parlamentari. Figuriamoci quando hanno cominciato a chiedere a tutti – era il 2018 – l’obolo da 300 euro al mese per mantenere i costi della piattaforma. E infatti, l’intolleranza contro quelli di Milano – malcelata solo dietro la venerabile memoria di Gianroberto – si era riversata sui suoi emissari. L’Enrica Sabatini che ogni settimana scendeva a Roma per vedere che aria tirava, il Pietro Dettori che era stato messo alle calcagna di palazzo Chigi, quel Max Bugani – che da tempo ha imboccato una strada autonoma – che per lungo tempo ha lavorato con Luigi Di Maio. A Milano, da quando c’era Davide, non ci si andava quasi più. Era lui ad andarli a trovare a palazzo, negli ultimi tempi più che altro per trovare il modo di riscuotere i debiti, che nel frattempo erano diventati a cinque zeri. All’ultima convention di Ivrea, quella organizzata ogni anno in ricordo del padre, nemmeno ha invitato i portavoce, che da un pezzo parlano un’altra lingua. Sei mesi fa, in occasione dell’undicesimo compleanno del Movimento, aveva pubblicamente diagnosticato il “partitismo” che aveva colpito i 5 Stelle. Poi è arrivato il sì al governo Draghi, l’addio di Alessandro Di Battista che per Davide era rimasto l’unico custode del verbo paterno. Gli ultimatum sono scaduti ieri. E consegnando i dati degli iscritti a Vito Crimi, in un grigio sabato di inizio giugno, hanno ripreso il filo da dove tutto era cominciato e se lo sono detti davvero, per l’ultima volta: vaffanculo.

M5S, Conte chiude i conti con Rousseau: “Si parte”. Casaleggio: “Me ne vado”

È finita una guerra, ma soprattutto un’era. Con un rifondatore che subentra, Giuseppe Conte, e l’Erede che esce, Davide Casaleggio. “Il tempo dell’attesa e dei rinvii è finito, siamo in possesso dei dati degli iscritti e abbiamo raggiunto l’intesa con l’associazione Rousseau” respira di sabato sera Conte, che di attendere non ne poteva più. “A completamento del passaggio dei dati mi disiscriverò dal M5S, questo non è più il Movimento e sono certo non lo avrebbe più riconosciuto nemmeno mio padre”, geme Casaleggio, il figlio di Gianroberto. E pare quasi un anatema. Stati d’animo opposti, dopo che il M5S e Rousseau hanno separato le proprie strade nero su bianco, per sempre. Il M5S non avrà più legami formali con la famiglia che ne era quasi un sinonimo. “Inizia una nuova storia” celebra Conte, con gli iscritti che “entro giugno – precisa su Facebook – voteranno online prima il nuovo Statuto e poi il capo politico”. Cioè lui, l’avvocato. Porta a questo, la transazione perfezionata ieri a Milano, dove il reggente Vito Crimi si è presentato con dei periti forensi per farsi consegnare i dati degli iscritti alla piattaforma web e quindi al M5S.

Sconfitto davanti al Garante della Privacy, sfinito da un anno di battaglie e dai problemi economici per l’associazione, Casaleggio ha accettato la mediazione proposta da Conte. Ha ceduto gli elenchi e si è impegnato a non portare in tribunale il Movimento. In cambio avrà soldi: non i 450mila euro di mancati versamenti dei parlamentari che pretendeva da mesi, ma una cifra attorno ai 200mila euro – suddivisi in rate – che gli permetteranno comunque di ridare ossigeno alla piattaforma. Da parte propria il Movimento si è caricato le spese legali e quelle per le altre incombenze burocratiche. Ma l’essenziale era chiudere, perché di tempo i 5Stelle e Conte ne hanno perso già troppo. Ora l’avvocato potrà dare il via alla rifondazione, con le votazioni su una nuova piattaforma che lo eleggeranno capo, sostenuto da una segreteria, e in cui verranno ratificati anche il nuovo Statuto e una Carta dei valori. Ma prima, forse già la prossima settimana, arriverà un’assemblea generale a Roma, in cui Conte illustrerà il nuovo M5S. Servirà ancora qualche settimana, in sintesi, per vedere l’ex premier capo dei 5Stelle. Il tempo anche di far partire la nuova piattaforma, su cui nei prossimi giorni andranno trasferiti i dati degli iscritti. Un’operazione di cui si è avuto il primo segnale formale attorno alle 18 di ieri, quando l’associazione Rousseau ha annunciato la sospensione delle funzioni della piattaforma “per ragioni di carattere tecnico”. Gli elenchi ora andranno “caricati” sulla nuova piattaforma. Poi, una volta che Conte li avrà presentati nella convention a 5Stelle, il nuovo Statuto e la Carta dei valori verranno pubblicati sul portale. Norme alla mano, dovranno trascorrere almeno due settimane per le votazioni che daranno il via al nuovo M5S. A fine mese, insomma, il nuovo Movimento vedrà la luce. Poi Conte potrà dedicarsi a un tour per l’Italia per lanciare e spiegare “il secondo tempo del M5S” come lo definisce. Nell’attesa, diffonde sillabe di pace verso l’Erede: “Dopo tanti anni di collaborazione era giusto un accordo. Mi sono direttamente confrontato con Casaleggio e abbiamo trovato una soluzione, mettendo fine alle varie pendenze e onorando i pagamenti”. È la fine di una storia, anche se l’avvocato rende l’onore delle armi allo sconfitto: “Le strade si dividono ma con pieno rispetto da parte nostra. Casaleggio è un nome che evocherà sempre la storia del Movimento e chi non rispetta la propria storia non rispetta se stesso”.

Ma il figlio del co-fondatore, dell’uomo che aveva pensato concretamente il M5S, non ha voglia di stemperare. E parla sul blog delle Stelle con un post dal titolo chiarissimo, “Il fu Movimento 5Stelle”. In cui rivendica: “Per 15 anni ho contribuito gratuitamente e ho sempre chiesto che le cose si facessero senza scorciatoie e nel rispetto delle regole verso migliaia di attivisti ed eletti. Lo stesso rispetto l’ho chiesto in questi mesi per individuare un rappresentante legale legittimato attraverso un voto democratico, ma gli organi politici del M5S e il Garante hanno deciso di indicare chi fosse. Ma se si cerca legittimazione politica in un tribunale, vuol dire che la democrazia interna è fallita”. Però è andata, e lui “con dolore” uscirà dal Movimento. Continuerà con Rousseau e verosimilmente con un progetto politico per raggrumare un po’ di fuoriusciti e di scontenti. Nel segno del vecchio M5S, che non tornerà.