Armatevi e partite

Inuovi 5Stelle di Conte somigliavano ormai alla comica che Mannelli ricorda qui accanto: quella di Stanlio e Ollio in partenza che salutano tutti (“Arrivedooorci! Arrivedooorci!”) e non partono mai. Ne risentivano i sondaggi, per quel che valgono in questa morta gora. Ma soprattutto ne risentiva la democrazia, casomai fregasse ancora a qualcuno, orfana del partito di maggioranza privo di un capo, una linea, una voce. Ad approfittarne sono stati Draghi, gli altri ministri e partiti, passeggiando per 100 giorni sul cadavere dei 5Stelle. Si sono appropriati – come il cuculo che s’imbuca nel nido altrui, come il paguro bernardo che occupa la conchiglia altrui – delle migliori conquiste del Conte-2 (dal Pnrr alle misure anti-Covid, dall’avvio della campagna vaccinale all’assegno unico per i figli) come fossero roba loro. E altre le hanno smantellate: reddito minimo, blocco delle trivelle e dei fondi all’idrogeno blu, lotta all’evasione (un bel condono), 16 mila assunti nei tribunali, riforma del Csm. Che, nella versione Bonafede, vietava il rientro dei magistrati reduci dalla politica; ora, nella versione Cartabia, chi fa politica può tornare allegramente in toga dopo due anni (sai che paura). E tocca pure leggere su Rep: “Stretta sulle toghe in politica. Cartabia e il freno alle porte girevoli”. Sì, il freno della funivia di Stresa.

Un giorno, com’è già avvenuto col governo Monti, guarderemo indietro e rideremo di quanto fossero sopravvalutati i “migliori”: almeno quanto erano sottovalutati i “peggiori”. E quel giorno arriverà se e quando Conte, dopo l’accordo di divorzio da Casaleggio, riuscirà a dare forma e contenuti ai nuovi 5Stelle. Che, com’è già avvenuto col Pd di Zinga e con Leu, potranno contaminare in positivo anche gli alleati. Si spera in tempo per correggere la rotta del governo (che intanto sta demolendo pure i controlli anticorruzione affidandoli – non è una barzelletta – a Brunetta). E si spera in tempo per le elezioni, che al momento sono un cappotto assicurato delle destre: Lega e FdI sono in testa ai sondaggi, con tanti saluti a chi raccontava la favoletta che Draghi avrebbe seppellito il “populismo”. Non sappiamo se Conte, che da neofita ha offerto buone prove come premier, sarà all’altezza anche alla guida del M5S: come leader politico è ancora tutto da scoprire. Ma all’orizzonte non si vede nessuno che possa riuscirci meglio di lui. E, se qualche capetto o caperonzolo grillino pensa di presentargli il conto raccattando truppe mastellate per farsi le proprie correntine, non condannerà all’estinzione soltanto se stesso, ma anche i 5Stelle e – ciò che più conta – la speranza di molti italiani di non morire melonian-salviniani. Magari con B., o quel che ne resta, presidente della Repubblica.

L’intelligenza di Krahl, il figlio ribelle della Scuola di Francoforte

Hans-Jürgen Krahl è figura apparentemente minore di quell’impresa teorica che porta il nome di Istituto di ricerca sociale a Francoforte. La Scuola fondata da Theodor Adorno, Max Horkheimer, Herbert Marcuse e molti altri attraversa il nazismo – grazie all’esilio – e poi tutto il Novecento (vive ancora oggi nella sua “quarta generazione”), ma si imbatte in una contraddizione alla fine degli anni 60. Se Marcuse è probabilmente l’autore più letto dal movimento di contestazione, la figura teorica più autorevole, Adorno, è quella che si scontra con gli studenti. E proprio Krahl, brillante allievo di Adorno, si intesterà intellettualmente quella contestazione, coscienza ribelle che trasmuta nei suoi scritti gli umori di quel movimento sociale.

Krahl muore nel 1970 a 27 anni in un incidente stradale e fa in tempo a scrivere solo un importante volume, Costituzione e lotta di classe, pubblicato in Italia nel 1973, ma ora introvabile.

L’intelligenza in lotta offre ora una selezione di testi del filosofo tedesco a cura di due ricercatori, Nicolas Martino e Francesco Raparelli, che hanno il duplice obiettivo di far conoscere l’opera di Krahl e di coinvolgerlo, forse con qualche forzatura, nel solco dell’operaismo italiano.

Se ad Adorno il giovane allievo contesta “l’astrazione” della sua critica negativa, incapace di cogliere la forza trasformatrice del proletariato – anche se Adorno scriveva avendo in mente gli anni del nazismo – Krahl ha però come obiettivo principale l’esponente di punta della seconda generazione della Scuola di Francoforte, Jürgen Habermas, a cui contesta una concezione “parlamentarista” dell’agire collettivo. Lo scontro sulla lettura del potenziale antagonistico di quel movimento studentesco rimanda così a due diverse linee di ricerca all’interno della teoria critica. Un dibattito raffinato, per osservatori attenti, ma del resto raffinata era l’analisi di Krahl e a questo libro va il merito di averla riproposta.

L’intelligenza in lotta

Hans-Jürgen Krahl – Pagine: 168 – Prezzo: 14 – Editore: Ombre Corte

 

“Le storie: l’unico strumento che dà senso al caos”

Il suo passato di magistrato e il suo presente di autore di successo si tengono per mano, in una sovrapposizione tanto aderente che la fede nella giustizia che vibra nella scrittura non è che il riverbero di quella che per anni ha officiato nelle aule di tribunale. In Ragionevoli dubbi si legge: “Le storie sono uno strumento per dare senso al caos. Le storie sono tutto quello che abbiamo”.

Processi e romanzi sono per Gianrico Carofiglio, 60 anni appena compiuti, le due facce di una stessa medaglia: la ricerca della verità. Ecco perché le parole (l’uso etico e semplice del vocabolario contro tutti i bizantinismi) definiscono l’uomo prima ancora che il letterato. Nato e cresciuto in una Bari che Mario Sansone definiva “senza ironia e senza malinconia”, Carofiglio ha raccontato il capoluogo pugliese in molte sue opere ma è probabilmente ne Il passato è una terra straniera che la città, tra i vicoli stretti del centro storico e la modernità rampante, emerge in tutta la sua anima torbida e notturna. Nella storia di due amici che il destino prima unisce nell’illegalità e che poi divide in nome di uno scarto morale, c’è la fascinosa Bari da bere degli Anni 80.

Carofiglio, papà ingegnere e mamma scrittrice siciliana (ecco l’imprinting fatale per la letteratura) entra in magistratura a 25 anni. Prima pretore a Prato e poi Sostituto procuratore antimafia tra Foggia e Bari fino al 2007. Una legislatura da senatore del Pd e poi la toga appesa definitivamente al chiodo. Un autore – nel suo nomadismo editoriale dai volumetti blu Sellerio ai dorsi gialli di Stile Libero Einaudi, senza dimenticare le incursioni con Rizzoli – capace di sedurre una comunità di lettori tanto vasta da trasformare ogni suo romanzo o saggio in un best-seller.

Capofila del thriller legale, con trame consapevoli che non hanno nulla da invidiare agli americani Grisham o Turow, Carofiglio riesce a coniugare codice penale, affreschi d’ambiente e ritratti umani in opere che mettono un piede fuori dal recinto di genere. I suoi personaggi, pur alle prese con crimini e investigazioni, sono sempre complessi e sfuggenti. Da Guido Guerrieri, avvocato penalista che si divide tra buoni libri e tiri al suo sacco da box, a Pietro Fenoglio, vecchio maresciallo dei carabinieri piemontese trapiantato a Bari, a Penelope Spada, ex pubblico ministero milanese depressa e quasi alcolizzata (protagonista del nuovo La disciplina di Penelope, uscito a gennaio per i Gialli Mondadori), Carofiglio racconta la solitudine che grava su carnefici e vittime, su inquirenti e imputati, in un cortocircuito di passati ingombranti e difficoltà relazionali che finisce per marcare una realizzazione di sé mai davvero compiuta. Le sue storie non sono mai allestite per pura messa in scena ma procedono lungo gli argini di un’appassionata denuncia civile. Testimone inconsapevole, il suo esordio del 2002 e da pochi giorni in libreria con una nuova edizione Sellerio per celebrare il record della centesima edizione, ha al centro l’odissea di un ambulante senegalese accusato dell’omicidio di un bambino. I temi sensibili si rincorrono: il maltrattamento sulle donne (Ad occhi chiusi), il traffico di droga (Ragionevoli dubbi), la corruzione di un magistrato (La regola dell’equilibrio), l’errore giudiziario (Una mutevole verità), la malavita e i pentiti (L’estate fredda).

Carofiglio, con il suo fisico asciutto forgiato dal karate, è riuscito nell’impresa di assestare un colpo anche nel tempio della narrativa consacrata. Due le sue partecipazioni al premio Strega. Lo scorso anno con La misura del tempo (Guerrieri alle prese con la falsa colpevolezza di un imputato e segreti del suo passato) si è dovuto arrendere a Veronesi, nel 2012 è stato spettatore della disfida per soli due voti tra Piperno e Trevi con Il silenzio dell’onda: i tormenti e il passato di un ex agente segreto e i rapporti tra padre e figlio. Tema caro all’autore che ci è ritornato con Le tre del mattino: viaggio a Marsiglia tra un padre matematico e un figlio liceale. Nel libro brilla un passaggio che potremmo elevare a cifra della vita e della scrittura di Carofiglio: “Dovremmo essere capaci di morire giovani. Non nel senso di morire ma nel senso di cambiare vita, morire giovani rimanendo vivi”.

“Promesse” ai fornelli tra Mike e Benson

“Io Mifune, tu Yasuke”. Mifune, attore giapponese che incarnò (anche) il samurai ribelle nelle pellicole di Kurosawa; Yasuke, mozambicano, da deportato come schiavo in Giappone venne elevato al rango di samurai (il primo di colore) nel periodo Sengoku. “O forse siamo solo due stronzissimi Bonnie e Clyde”. Potrebbero essere entrambe le coppie, Mike e Benson, residenti in uno storico quartiere nero di Houston, Texas, il primo cuoco di origini nipponiche in un locale fusion, il secondo maestro d’asilo afroamericano.

Entrambi hanno retroscena famigliari tellurici: il padre di Mike sta morendo di cancro, quello di Benson è scivolato nell’alcolismo dopo il divorzio. L’omosessualità dei due, che non da subito si sono presentati come coppia, è nodo spinoso sia per la società che abitano sia per entrambe le famiglie, sulle uova o giudicanti riguardo il tema. Dopo quattro anni di relazione il rapporto tra Mike e Benson vacilla, si crepa. La comunicazione verbale langue mentre prende piede quella basata sui silenzi, i non detti, e il sesso e le mani si fanno canale unico, non sempre sufficiente, per riappacificarsi o dirsi col corpo quello che altrimenti resterebbe taciuto. “Mike non mi ha mai promesso niente” dice Benson. “Le cose le ha sempre fatte o non fatte. Ha sempre sostenuto che le promesse non sono che parole, e che il significato delle parole dipende solo da come ti comporti”. Quindi, quando Mike decide di partire per Osaka per soccorrere il padre malato con cui non parla da eoni, e lo fa nell’esatto frangente in cui la madre giunge in visita a Houston, non promette a Benson che andrà tutto bene. Crea però un punto di rottura che costringerà entrambi a mettersi in discussione e gli dice che sarà lui a dover intrattenere la madre in sua assenza.

Sulle prime taciturna e introversa, Mitsuko riuscirà gradualmente a connettersi con Benson soprattutto in cucina, luogo e tempo del (ri)trovarsi, dove l’esecuzione di piatti della tradizione giapponese si rivelano momenti di sospensione salvifica nel mezzo di una scrittura veloce, entropica, fisica, fatta di dialoghi brevi e brucianti, spesso sarcastici, tanto che le emozioni vere vanno stanate o interpretate tra le righe.

In un alternarsi di voci e prospettive – prima Benson, poi Mike, infine ancora Benson –, Bryan Washington, classe ’93, afroamericano nato in Kentucky ma cresciuto a Houston, già premio Dylan Thomas e O. Henry, riesce in Promesse (romanzo d’esordio che arriva dopo la raccolta di short stories Lot e da cui verrà tratta una serie tv prodotta dalla casa del film premio Oscar Moonlight) a conquistare con una storia agrodolce sui trascorsi ingombranti, sulla sessualità, il dolore, il rapporto padre-figlio, le divergenze di classe sociale, il razzismo, la morte, l’amore come “un’entità sempre in movimento e in evoluzione”. Nella narrazione di un rapporto che trova, infine, il coraggio di (ri)definirsi luccicano sprazzi di poesia, come quando Benson ricorda le dieci volte in cui lui e Mike si sono detti, goffamente, a mezza bocca o nel frastuono, ti amo, piccoli ma importanti gesti quotidiani e l’inaspettata apertura del cuore proprio quando pareva chiuso a chiave.

Promesse Bryan Washington – Pagine: 352 – Prezzo: 19 – Editore: NN

Le “visioni” del male di Nina, ragazzina contro un serial killer che uccide padri-mostri

Graziano è stato un bambino che ha vissuto all’inferno. Un male quotidiano, una routine cupa e nera. A casa c’è il papà violento, dipendente dall’alcol e dal gioco e che un giorno va via per sempre. A scuola è il bersaglio della gang di Federico, che arriva a rinchiuderlo in un pozzetto. Da adulto Graziano diventa un serial killer, guidato dall’altro se stesso incarnato da Ken il guerriero, supereroe giapponese degli anni 80. È un giustiziere che ammazza a caso uomini che picchiano le mogli e i figli. “La morte puzza anche senza eviscerarla. Prende la sega, pratica una sternotomia che dovrebbe essere mediana e longitudinale (…). Ma la sua è bassa macelleria, uno sfogo di bestia, una festa del sangue. Con le mani gli fruga nel petto cercando quel che crede gli spetti”. I corpi vengono maciullati. Alle sue vittime, Graziano taglia la testa, cava gli occhi e prende il cuore.

Anche Nina è poco più di una bambina. Ha undici anni. Sorda a causa di un incidente, la ragazzina soffre di incubi che anticipano il futuro. Visioni. Scene di paura e di morte. Per questo non riesce a dormire, soprattutto se ha l’apparecchio acustico spento: se chiude gli occhi viene sospinta in un isolamento tenebroso e soffocante. Così Nina “vede” prima della polizia i pozzetti e i cassonetti dove Graziano ha rovesciato i resti delle sue vittime. Nelle visioni, l’assassino è Bunny Boy, dal nomignolo con cui veniva bullizzato da bambino, per via dei denti. I destini di Nina e Graziano, che ha ancora un volto ignoto, s’incrociano su due piani narrativi diversi nel nuovo noir di Lorenza Ghinelli. Siamo in una città di mare del nord ed è quasi Natale. Bunny Boy è pronto a colpire di nuovo ma Nina, suo fratello e i loro amici si preparano alla sfida finale. Ghinelli è brava nell’esplorazione di questo buio maligno, anche se talvolta la scrittura risente di un uso massiccio delle metafore. Peccato veniale, da Scuola Holden.

 

Bunny Boy Lorenza Ghinelli – Pagine: 249 – Prezzo: 17 – Editore: Marsilio

Mario Martone e la Finocchiaro ridanno vita alla “Sapienza”

Lasciateci la nostra memoria, lasciateci la nostra follia! Così urlava dal profondo della sua anima Goliarda Sapienza, scrittrice “contro” per antonomasia, trovatasi a contrastare anche il proprio inconscio, deflagrato per accumuli depressivi, traumatici, selvaggi elettroshock. Affidò il ricordo-diario della terapia psicanalitica con il freudiano Ignazio Majore alla scrittura dando vita al romanzo autobiografico Il filo di mezzogiorno, uscito nel 1969 per Garzanti e ripubblicato di recente per La nave di Teseo. Raccogliendone la sfida ambiziosa, Ippolita di Majo e Mario Martone l’hanno rivisitato per il teatro, curando rispettivamente adattamento e regia. Ne è nato un duello per la psiche on stage, acceso e profondo come solo la psicanalisi sa provocare, quando sul lettino vi siano intelligenze inquiete. Ad animare il dibattimento di passioni nei corpi di Goliarda e Majore sono Donatella Finocchiaro e Roberto De Francesco, con l’attrice catanese interprete di una performance impressionante, sensibilmente aderente alla complessità di personaggio, testo e contesto. Il tempo della pièce equivale alla stratificazione del Tempo psicanalitico, edificato su un presente continuato che mescola rimossi, fantasmi, rimpianti, nei labirinti di una mente in fuga dall’oblio causato dalla violenza elettro-terapeutica. Sapienza/Finocchiaro e il suo psicanalista non si sottraggono a reciproci assalti frontali avvicendati in attacchi e difese che ben riflettono la costruzione scenografica (firmata da Carmine Guarino con luci curate dal “visionario” Cesare Accetta) di uno spazio diviso in due camere identiche, ma simmetricamente speculari e in costante movimento. Dopo l’apertura a Catania e il passaggio al Teatro India di Roma, Il filo di mezzogiorno è al Franco Parenti di Milano fino a domani per spostarsi, dopo l’estate, prima al Mercadante di Napoli (19.9-10.10) e poi al Carignano di Torino (9-14.11).

 

Stephen King dona brividi con “Lisey”

Mogli devote, padri tormentati, sorelle folli, fratelli infettati e piscine miracolose. Quelle dell’acqua della conoscenza, da cui tutto parte e ritorna, capace di resuscitare i morti accomodati in un Eden illuminato da una grande luna rossa, un non-luogo parallelo e immaginario che solo lo Scrittore sa rendere plausibile. Perché non esiste nulla di più irresistibilmente magnetico per ogni artista, poeta, e narratore che non la misteriosa linea che separa la realtà dalla fantasia, la verità dalla finzione, la vita dalla morte. Laddove, tuttavia, la rivelazione si lega ai segreti dell’Amore, quello maiuscolo.

Bentornati nell’universo visionario di Stephen King, il cui La storia di Lisey è diventato una serie tv in 8 episodi disponibile su AppleTv+. Uscito nel 2006, è il romanzo preferito dallo stesso King all’interno della sua sterminata produzione, una qualifica giustificata dalla genesi concepita nel doloroso periodo post incidente del 1999, con la moglie a giocare un ruolo chiave nella sua guarigione psico-fisica. Il romanzo appartiene al cosiddetto “filone kingiano degli scrittori” notoriamente ossessionati da loro stessi, in perenne conflitto con rimossi, ferite, ispirazioni e aspirazioni. Così forte è il legame tra l’autore di Shining e questo thriller/horror dagli ingredienti romantici che ha deciso non solo di curarne l’adattamento ma di scrivere personalmente ogni singola puntata, mantenendo il sangue del suo sangue sgorgare dal dolore di personaggi dolenti e abusati. Ma quella dello scrittore del Maine è solo una delle grandi firme incise nel progetto: J.J. Abrams con la sua Bad Robot produce per la Warner tv a e il miglior talento del cinema cileno contemporaneo, Pablo Larraín, siede in regia così come in produzione esecutiva accanto al fratello Juan de Dios, gli stessi King e Abrams e Julianne Moore.

Perché è l’attrice americana ad animare la protagonista Lisey, vedova di Scott Landon (Clive Owen), un marito troppo famoso per sopravvivere a un colpo di pistola fortuito, lui scrittore di culto idolatrato e divenuto miliardario dopo una tragica infanzia. Suo malgrado, Lisey elabora il proprio lutto dentro a un universo magico e violento, fatto di mostri cadaverici, stalker assassini (Dane Dehan) e una sorella mentalmente instabile (Joan Allen) in grado tuttavia di relazionarsi con l’Aldilà, da dove Scott le rivela segreti altrimenti insondabili.

Per quanto curata nei dettagli dal deus ex machina in persona, La storia di Lisey televisiva presenta alcuni problemi proprio in sede di scrittura drammaturgica, bradicardica di ritmo, alle volte irrisolta su alcuni punti percepiti fondamentali dallo spettatore, non per ultimo le radici profonde da cui si genera l’ispirazione del raccontare. Al netto di tali fragilità, l’alto valore produttivo del progetto resta intatto, con interpretazioni perfette e soprattutto la regia di Larraín a intercettare e restituire il colore visionario del genere, passando fluidamente dal pathos orrorifico a quello sentimentale, capace di adattare al servizio del testo una cifra riconoscibile, quello stesso sguardo che ricordiamo eccellere nella sua filmografia, di frequente alle prese con le ferite e l’elaborazione del lutto (il suo Post Mortem, non a caso..) di un popolo intero.

 

La storia di Lisey. In 8 episodi su AppleTv+

Guadagnino dirige la sua prima pellicola “americana”

Luca Guadagnino dirige in Ohio Bones & All, il suo primo film americano interpretato da Timothée Chalamet, Taylor Russell, Mark Rylance, André Holland, Jessica Harper e Michael Stuhlbarg e prodotto da Frenesy Film Company e Per Capita Productions con The Apartment Pictures, del gruppo Fremantle, MeMo e 3 Marys. Tratto dal libro omonimo di Camille DeAngelis e sceneggiato da David Kajganich il film racconta un primo amore, quello che porta Maren (Russell), una giovane donna che impara a sopravvivere ai margini della società, e Lee (Chalamet), un reietto vagabondo dall’animo combattivo, a unirsi e intraprendere un’odissea di centinaia di chilometri nell’America di Ronald Reagan, tra botole, passaggi segreti e stradine di provincia. Ma per quanto i due si sforzino ogni strada sembra riportarli al loro tremendo passato sino al momento finale che deciderà se il loro amore sia realmente in grado di sopravvivere al loro essere altro rispetto al mondo che li circonda.

Al via tra Pienza e Trequanda, in provincia di Siena, le riprese del film-opera Gianni Schicchi, esordio cinematografico del regista teatrale Damiano Michieletto tratto dall’omonima opera lirica di Giacomo Puccini su libretto di Giovacchino Forzano e realizzato da Genoma Films, Albedo Production e DO Consulting & Production. Gianni Schicchi (Roberto Frontali), un furbo faccendiere toscano, riesce con un abile stratagemma a intascare la cospicua eredità dell’anziano collezionista d’arte Buoso Donati appena deceduto (Giancarlo Giannini) e il folto stuolo di avidi parenti, accorsi per ottenere la loro parte, verrà cacciato di casa a bocca asciutta. Gli artisti recitano sul set cantando in presa diretta sulle musiche di Puccini registrate dall’Orchestra del Teatro Comunale di Bologna diretta da Stefano Montanari.

“Punta sacra”: Pasolini trova una sua discepola

Dopo troppi film di finzione girati, e talvolta spacciati, quali documentari, un documentario girato come un bel film di finzione: è Punta Sacra di Francesca Mazzoleni, catanese, classe 1989, in carnet Succede (2018, dal romanzo di Sofia Viscardi).

Pluripremiato e dal 10 giugno in tour tra sale e arene accompagnato dalla regista, prende il titolo dall’ultimo triangolo abitato alla foce del Tevere e racconta la vita della comunità dell’Idroscalo di Ostia, cinquecento famiglie tra cui quella di Franca (Vannini), matriarca, anima e motore di queste storie sospese tra cielo, mare e terra. Quale sia l’attaccamento a quel lembo forse lo direbbe meglio il concetto tedesco di Heimat, da parte sua Mazzoleni tallona senza assillo, partecipa senza prevaricazioni con una macchina da presa trepida, sollecita ed empatica: Silvia, Giulia, Stefania, Francesca, il rapper Chiky Realeza, tutti hanno qualcosa da dire, ma ancor più qualcuno da essere, se stessi.

È questo il punto di forza di Punta Sacra, il suo fluire in ossequio all’elemento che si è scelto, attraversando la politica (la pasionaria Franca e le amiche fasciste), la religione (e la fede), la lotta per l’istruzione e la casa (gli sfratti e le demolizioni sono ferita aperta) e un futuro da negoziare collettivamente. C’è l’eredità di Pasolini, dibattuta e dialettizzata anche aspramente, c’è sopra tutto un’idea di cinema che quando imbrocca il (Neo)realismo subito scarta verso un altrove, di immaginazione e immaginario insieme. Dalla fotografia di Emanuele Pasquet alle musiche originali di Lorenzo Tomio (con contributi di Teho Teardo e Enrico Minaglia), passando per il montaggio di Elisabetta Abrami, i contributi tecnici sono importanti, anzi, essenziali: non c’è alcuna concessione stilistica al pauperismo ideologico, la marginalità e la residualità della comunità non sono sublimate, e fondamentalmente vilipese, nell’estetica del brutto. Mazzoleni, di cui sentiremo senz’altro parlare, si accosta insomma al sacro, alla Punta Sacra, senza profanazione né proselitismo: la preparazione del Carnevale, le schermaglie amorose degli adolescenti, la paventata occupazione del porto turistico, la commemorazione degli abbattimenti, la festa di compleanno sono altrettante gocce di un’identità liquida e però – bel guadagno plastico – solida, tanto antropologica quanto poetica, tanto realista quanto trasfigurata. Con In un futuro aprile – Il giovane Pasolini di Federico Savonitto e Francesco Costabile, Punta Sacra è il più bel documentario italiano degli ultimi anni, e forse non casualmente entrambi hanno a che fare con PPP, il grande, sottile ma frainteso guastatore dell’eredità neorealistica. Nel finale due ragazzine si rimbrottano a vicenda, e ci regalano una battuta da ricordare: “Ridi bene per favore, mi urti”. Sì, il film è anche scritto, ossia sovrascritto dalla realtà, egregiamente. Non perdetelo.

 

La “Security di Maya”. Sansa nel film di Chelsom

Il male d’inverno è un film a colori visto alla tv.

Il male d’inverno è Security (da lunedì su Sky Cinema e Now) nuova opera di Peter Chelsom, regista britannico già dietro la macchina da presa con Serendipity, Shall We Dance? e Hannah Montana, con la bella fotografia di Mauro Fiore (premio Oscar con Avatar) e un cast da scioglilingua per quantità e qualità: Marco D’Amore, Maya Sansa, Silvio Muccino, Valeria Bilello, Ludovica Martino, Giulio Pranno, Tommaso Ragno e Fabrizio Bentivoglio.

Security è un dramma-giallo ambientato a Forte dei Marmi, giocato sulle sfumature, in cui la tecnologia è protagonista alla pari dei nomi già citati, e in cui si cerca di fondere tradizione italiana con tonalità internazionali. “Sono stati bravissimi il regista e il direttore della fotografia a guidarci con sicurezza e maestria; io, dopo tanti anni, ho anche ritrovato Fabrizio Bentivoglio”, racconta Maya Sansa.

Con il quale ha esordito…

In un film di Bellocchio (La balia, 1999); da allora non abbiamo più lavorato insieme. Lui è un grandissimo: è sempre e ancora curioso, tranquillo, divertito di lavorare. Ed è fondamentale per andare avanti.

Nel film i social, le telecamere, “l’occhio” sono molto presenti…

Nella vita privata i social m’illudo di poterli gestire: li seguo poco, mi collego meno, non ho tanti follower e cerco di prenderne solo la parte ludica, quando mi rompo, chiudo. Invece Security affronta un’attualità sconcertante in cui siamo tutti spiati.

Da anni è indicata come la rappresentante italiana del cinema di qualità.

(Silenzio. Deglutisce) Che bello. La fortuna è stata quella di aver incontrato da subito Marco Bellocchio, e di seguito altri grandi autori mi hanno coinvolto. (Ci pensa) Uno immagina i registi che vanno in cerca di talenti, in realtà spesso sbirciano le opere altrui, come in una sorta di catena.

Mentre Bellocchio.

Ha un approccio al lavoro molto anglosassone: pretende i provini ed è curioso, coinvolge anche attori che in teoria potrebbero non piacergli.

Pure lei “provinata”?

Certo, sempre: sei volte per La balia, tre per Buongiorno notte e un incontro e un provino per Bella addormentata; nel secondo e, soprattutto terzo film, non voleva proprio vedermi: “Ma tu cosa c’entri? Qui dovresti essere una tossica mentre sprizzi salute da tutti i pori…”. Invece l’ho convinto.Security ha un respiro internazionale.

Oltre al regista e al direttore della fotografia c’è Marco D’Amore che ormai è una star oltre l’Italia: quando in Francia vedono la sua immagine, immediatamente l’associano a Ciro di Gomorra.

In Security è una candidata sindaco. Le hanno mai proposto di entrare in politica?

(Ride) Tanti anni fa, in maniera pop, un giovane politico (non ricorda il nome) mi propose pubblicamente come ministro della Cultura.

Lei vive a Parigi, e quest’anno a Cannes c’è solo Moretti a rappresentarci…

Nanni è stato straordinario ad aspettare un anno per far uscire il suo film e Thierry Frémaux (il direttore, ndr) credo si sia trovato davanti a un ingorgo di film, con centinaia e centinaia di pellicole alla ricerca di una vetrina. Era difficile scegliere.

Ne ha scelti otto francesi.

È un po’ di patriottismo, in mezzo a una situazione drammatica.

Drammatica…

Sì, anche dal punto di vista della distribuzione: Security doveva uscire in sala a novembre, poi sulla piattaforma, quindi di nuovo in sala, fino al ritorno alla piattaforma.

È scemata l’attenzione del pubblico verso il cinema?

Il grande schermo è entrato in casa e anche io ammetto di avere un proiettore; comunque, dopo un periodo di stasi, adesso sento grandi attori, fino a poco tempo fa parcheggiati, tornare a lavorare pure grazie alle serie televisive.

Girerebbe un cinepanettone?

Perché no? Tutto dipende dal ruolo; (sorride) spero di non ferire nessuno, ma non ne ho mai visto uno.

Sonia Bergamasco sostiene che La meglio gioventù ha creato una generazione di attori.

È vero, tutti noi dobbiamo essere grati a Marco Tullio Giordana e ad Angelo Barbagallo: è stato un momento di svolta; (sorride) di solito gli attori non si rendono conto del prodotto fin a quando non lo vedono finito, mentre su quel set la sensazione positiva poi si è rivelata corretta.

Con tanto di Cannes…

Il film era stato realizzato per la tv ma non usciva, con noi attori preoccupati che ci domandavamo il perché, fino a quando Barbagallo organizza una sorpresa meravigliosa. Tutti a pranzo da lui, e lì troviamo Thierry Frémaux che ci annuncia la presenza al Concorso. Noi esplosi come una scolaresca; (ci pensa) sono passati quasi vent’anni.

Chi è lei?

(Ripete più volte la domanda) Ma alla fine dell’intervista crea questo terremoto? Sono una persona, una donna, una madre, un’attrice; sono una che ama la vita.