Dal saturimetro a Wikipedia. Cosa ci mancherà del Covid

La fine della pandemia sembra ormai vicina e penso già con nostalgia a quante abitudini abbandoneremo presto.

Per esempio:

I tamponi. Ci mancherà farci sodomizzare le narici da cotton fioc lunghi come righelli, mentre ci chiediamo se il naso sia abbastanza pulito. Ci mancherà chiederci silenziosamente “che mano avrà oggi il tizio?”, perché ci sono tizi che esplorano le narici con discrezione e altri che arrivano al lobo occipitale, perforano l’iride, puliscono l’occhio da residui cisposi e ripongono con nonchalance il bastoncino nel contenitore.

La tosse. Ci mancherà dare un colpo di tosse per un innocuo prurito alla gola in presenza di altre persone e sentirci colpevoli come se ci avessero scoperti con dieci chili di munizioni di uranio impoverito sotto le ascelle. Ci mancherà quel giustificarci imbarazzati per trenta minuti spiegando che siamo allergici alle graminacee e comunque “ho fatto il tampone due giorni fa” e comunque “tossisco spesso, è la conformazione del mio tratto respiratorio” e comunque “ho avuto la pleurite da piccolo” e comunque “io tossico ma ho una secchezza salivare arcinota in famiglia quindi tossisco asciutto” e comunque “è tardi, devo andare, scusate, arrivederci”. Per poi iniziare a correre travolgendo cose e persone e finire a tossire in un bosco fittissimo, alla Fantozzi.

Le scuole. Ci mancherà salutare i nostri figli che vanno a scuola come se fossero in partenza per il fronte. “Mi raccomando, stai attento!”. “Sì, mamma!”. “Ti voglio bene!”. “Anche io mamma!”. “Sii prudente!”. “Mamma, sto andando a buttare l’umido, oggi è il 2 giugno, le scuole sono chiuse”. “Li senti ancora i sapori?”. “Sì mamma”. “Lo senti il sapore delle lasagne?”. “No mamma”. “Andiamo in ospedale”. “Mamma, senza offesa, le tue lasagne non sapevano di un cazzo neanche prima del Covid”.

Il numero massimo. Ci mancherà superare il numero massimo di persone ammesse a una tavola e cenare con gli amici al tavolo accanto, come a quelle cene in cui i bambini mangiavano insieme al tavolo più basso. Ci mancherà chiederci “Per antipasto chiedo un tagliere misto da mettere in mezzo?” e realizzare che in mezzo c’è un buco tra i tavoli. Ci mancherà chiedere a Luca se chiede a Luigi se chiede a Francesca se chiede a Valentina se ha già chiesto il conto. Ci mancherà tornare a casa e chiederci “ma con chi ho centro stasera? Boh”.

Mangiare all’aperto. Ci mancherà consultare il meteo non per decidere se andare al mare, ma più modestamente se andare a cena fuori nel senso di fuori – all’aperto, senza che il calice di rosé venga riempito da 200 ml di acqua piovana. Ci mancherà quella piacevole sensazione di avanzata ipotermia quando arriva il tiramisù. Ci mancherà arrivare al ristorante dove ci hanno rassicurato “sì sì abbiamo un bel dehors”, scoprire che il bel dehors sono due tavolini in uno spartitraffico sulla Cristoforo Colombo e trovare comunque tutto questo meravigliosamente bucolico.

Amuchina. Ci mancherà il distributore dell’Amuchina prima di entrare nei negozi, roba che nelle giornate di shopping, al dodicesimo strato di disinfettante sulle mani, iniziano a corrodersi anche le fedi nuziali.

La febbre. Ci mancherà il tizio che ci misura la febbre davanti ai centri commerciali, al ristorante, all’ingresso dei musei e dei bar. Un uomo solo, messo lì con la sua pistola elettronica, a misurare la temperatura dell’universo, nonostante l’arma si inceppi di frequente. Nonostante i “ha 31,4 ma vabbè passi, sarà rotto il termometro” e tu continui a fare shopping chiedendoti se era il termometro a essere rotto o sei tu che sei già morto e sei convinto di parlare con la gente, ma quella è gente morta come te, vedi Il Sesto senso.

Il saturimetro. Ci mancherà la presenza fissa del saturimetro tra i soprammobili di casa, tra il tagliacarte e il portacenere di vetro. Ci mancherà infilare il dito in quella specie di tagliola elettronica che decide in un attimo se chiamerai un delivery per cena o il 118.

I treni. Ci mancherà il distanziamento sui mezzi di trasporto. A me in particolare mancherà quello sul treno, perché tutto quello spazio vuoto sembrava scoraggiare i temibili passeggeri che passano ore a ingaggiare interminabili telefonate di lavoro a volume lancinante, infarcite di brain storming, briefing, skills e know-how, cosicché pure lo stagista dello studio assicurativo di provincia appaia una via di mezzo tra Bill Gates e Sergio Marchionne. Mi mancherà lo spazio libero di fronte, le gambe libere dal polpaccio dello sconosciuto e dal carlino della signora.

Ascensore. Ci mancherà la possibilità di non entrare in ascensore col vicino di casa che ci sta sulle palle con la scusa che “c’è il Covid, uno alla volta”.

Sindrome Wikipedia. Ci mancherà la sindrome da Wikipedia applicata al Covid. La sindrome da Wikipedia è quella patologia per cui chiunque, alla comparsa di un qualsiasi sintomo, consultando Wikipedia scopre di essere ormai allo stadio terminale di una malattia incurabile. Col Covid era pure peggio perché, a parte essere contagioso, aveva praticamente tutti i sintomi descritti dai manuali di Medicina Clinica. Mi si è arrossato l’occhio, ho il Covid. Mi prude il ginocchio da un paio di giorni, ho il Covid. Ho un fortissimo dolore al fegato dopo aver bevuto tre cartoni di Tavernello, ho il Covid. Non ho niente, ho il Covid. Asintomatico.

Exit strategy. Ci mancherà aprire le porte, le finestre, le uscite di sicurezza con l’ausilio delle sole nocche. Altri due anni così e l’evoluzione avrebbe fatto nascere neonati con nocche gigantesche e prensili, capaci di afferrare meteoriti al volo.

Virologi. Ci mancheranno i virologi, che stanno perdendo forza e diffusione, come il virus. C’è chi si sta riciclando come showgirl, per esempio Bassetti, c’è chi si sta ritirando dalle scene prima che le scene abbandonino lui, per esempio Massimo Galli. C’è chi continuerà a dire che moriremo tutti, come Andrea Crisanti. E quando qualcuno gli farà notare che il virus non circola più, attenderà – lui, immortale – che si muoia tutti di vecchiaia per dirci: “Ve l’avevo detto”.

Ci mancherà la mascher… no, la mascherina no.

Ci mancherà accontentarci di poco, perché tanto lo sappiamo: quei tavoli piazzati nello spartitraffico sulla Colombo torneranno a sembrarci una ciofeca, in un attimo.

La rottura di Marx: “Pedofilia, la Chiesa è a un punto morto”

Siamo allo “scisma marxista”? Da più parti l’allarme circa le spinte “eccessivamente riformatrici” interne alla Chiesa tedesca era già stato lanciato. Ieri poi, la notizia delle dimissioni del cardinale Reinhard Marx da arcivescovo di Monaco e Frisinga, che ha messo la firma alle sue rimostranze in calce alla lettera inviata a papa Bergoglio. Il motivo: “La catastrofe degli abusi sessuali perpetrati dai rappresentanti della Chiesa”.

“Mi pare – e questa è la mia impressione – di essere giunti a un punto morto che, però, potrebbe diventare anche un punto di svolta”, scrive Marx in relazione al “momento di crisi che sta attraversando la Chiesa in Germania”, crisi che a parere del cardinale che ha partecipato anche al conclave per l’elezione di Papa Francesco, “è causata anche dal nostro personale fallimento, per colpa nostra, guardando non soltanto a oggi, ma anche ai decenni passati”.

Per il membro del Consiglio di Cardinali, il C6, nonché presidente della Conferenza episcopale tedesca, si tratta di “assumersi la corresponsabilità” di ciò che “indagini e perizie degli ultimi dieci anni mi dimostrano costantemente” e cioè che “ci sono stati sia dei fallimenti a livello personale che errori amministrativi, ma anche un fallimento istituzionale e ‘sistematico’”, affonda Marx nella lettera al Papa, mettendo in evidenza che “polemiche e discussioni più recenti hanno dimostrato che alcuni rappresentanti della Chiesa non vogliono accettare questa corresponsabilità e pertanto rifiutano qualsiasi tipo di riforma e innovazione per quanto riguarda la crisi legata all’abuso sessuale”.

I riferimenti del cardinale sono chiari e toccano soprattutto la spaccatura all’interno del clero tedesco su quella “via sinodale” e il vento di riforme di cui l’allievo di Benedetto XVI ha più volte ribadito negli ultimi anni la necessità per riavvicinare l’Istituzione ecclesiastica alle persone, lui, figlio di un sindacalista, laureatosi in teologia con una tesi dal titolo “La Chiesa è diversa? Possibilità e limiti di un modo di vedere sociologico”. Tra i temi da ridiscutere, a suo parere ci sarebbero le modifiche al celibato, il ruolo delle donne nella Chiesa e una maggiore trasparenza. Ed è proprio su quest’ultimo aspetto, che nella lettera di dimissioni è tornato a chiedere un sinodo al Papa. “Un punto di svolta per uscire dalla crisi” che riaccenda la stima nei confronti dei vescovi e nella percezione ecclesiastica secolare che probabilmente – spiega Marx – ha raggiunto il suo punto più basso”.

“Soltanto dopo il 2002 e, successivamente, in modo più intenso dal 2010 sono emersi i responsabili degli abusi sessuali. Tuttavia, questo cambiamento di prospettiva non è ancora giunto al suo compimento”, assicura il cardinale, sottolineando di avvertire la sua colpa proprio “nel silenzio, le omissioni e nel troppo peso dato al prestigio dell’Istituzione” così come nella “trascuratezza e il disinteresse per le vittime”.

Non basta dunque al porporato tedesco la riforma del Diritto penale vaticano in tema di abusi appena decisa dal Papa che stabilisce che l’abuso sessuale sui minori sia da considerarsi un crimine contro la dignità della persona. Né è sufficiente per Marx quell’ammissione di fallimento da parte di Bergoglio seguita allo rapporto sull’abuso sessuale sui minori commissionato dalla Conferenza Episcopale tedesca.

Le dimissioni, invece, a detta del diretto interessato sarebbero l’unico modo “per dare un segnale personale per nuovi inizi, per una nuova ripartenza della Chiesa e non soltanto in Germania. Voglio dimostrare che non è l’incarico a essere in primo piano, ma la missione del Vangelo. Anche questo fa parte della cura pastorale”, ha concluso nella lettera datata 21 maggio.

Ma l’urgenza di un rinnovamento dell’Istituzione viene da lontano per il cardinale e passa da vari indizi seminati negli ultimi anni, non ultimo quello di benedire – contrariamente alle indicazioni vaticane – le unioni dello stesso sesso. Nel 2018 c’era stata la battaglia di Reinhard Marx contro l’affissione dei crocifissi nei luoghi pubblici in Baviera, contro il parere dei politici della Csu e dell’AfD. È dell’anno successivo, l’apertura del fronte a favore dell’ammissione di divorziati e risposati civilmente alla comunione, oltreché il riesame della posizione della Chiesa sulla contraccezione.

A tutte queste istanze, le autorità vaticane, allarmate anche da uno scisma tedesco, avevano risposto con una lettera, indirizzata proprio al cardinale Marx, in cui si ribadiva “l’universalità dei tempi trattati”, che tradotto voleva dire non sta a voi considerare riforme al riguardo, e che nessuna assemblea sarebbe stata valida al di fuori di quella stabilita dal Pontefice. Punto. Questa volta, Bergoglio pare abbia dimostrato invece maggior strategia rispondendo al cardinale Marx di rendere pure pubblica la lettera e di rimanere nel suo ruolo fino a quando non avesse ricevuto una sua risposta.

D’altra parte il tema è enorme: dopo le violenze sistematiche nel Coro di Ratisbona emerse nel 2017, secondo il rapporto choc di marzo scorso stilato dagli avvocati Björn Gercke e Kerstin Stirner, commissionato dallo stesso arcivescovado di Colonia e citato da Marx nella lettera al Papa, sarebbero 314 le vittime di abusi nella diocesi e 202 i responsabili individuati tra il 1975 e il 2018.

Non è ancora V-day svolta in autunno

Tra le tante dichiarazioni sull’andamento della pandemia e affini, mi viene sempre voglia di dare voce ai numeri. Comincerei dai dati più eloquenti e che ci riguardano più di ogni altro: numero positivi, numero decessi e numero ricoverati in terapia intensiva. Come impone un metodo scientifico, prima di dedurre considerazioni, confrontiamo la situazione del 31 maggio di quest’anno e quella dello stesso giorno del 2020. Positivi: 1,2% dei tamponi effettuati nel giorno indicato dello scorso anno, il 2,1% di quelli effettuati dodici mesi più tardi. Decessi: rispettivamente 75 e 85. Ricoverati in terapia intensiva: erano 435 il 31 maggio del 2020 e sono 1061 nel 2021. Per una corretta interpretazione, dovrebbero essere inseriti altri elementi, ma semplifico.

Altro dato importante, la vaccinazione. Nella classifica europea, da pochi giorni ci siamo piazzati al 2° posto come numero di vaccinati, dopo la Spagna, ma se si guarda agli individui che hanno ricevuto la prima dose, siamo preceduti da Germania, Belgio e Spagna.

Malgrado molti trionfalmente enuncino i successi nella sconfitta del virus, dobbiamo far notare che i dati numerici del 31 maggio di quest’anno, non solo non sono migliori, ma addirittura sono modestamente peggiori rispetto alla stessa data dello scorso anno. In entrambe le situazioni, si evidenzia un sensibile miglioramento rispetto ai mesi precedenti. Nel 2020, era stato attribuito alla bella stagione, nemica dei virus respiratori, quest’anno si fa riferimento alla vaccinazione, il cui andamento, a mio parere, merita particolare attenzione. C’è discrepanza tra l’incremento dei vaccinati (con le due dosi) e l’accesso alle prime dosi, come se si assistesse a un rallentamento dello slancio iniziale. Decisamente preoccupante la percentuale dei fragili ancora scoperti. Mancano all’appello tra i 2 e i 3 milioni di over 60. A oggi, pertanto, non ci sono ancora elementi sufficienti per valutare l’incidenza di questi fenomeni e l’andamento della pandemia. Credo che, pur rimanendo sempre ottimisti e “vaccinisti”, sia saggio attendere l’autunno.

Noi e la campagna elettorale tedesca

Nell’Uec’è voglia di rigore, si sa. Vorremmo dire che è nella natura stessa di quell’istituzione chiedere rigore: tenere sotto controllo i potenziali squilibri dell’euro via deflazione è l’unica sua missione chiara. Ovviamente sarà assai difficile – o, meglio, sarebbe un suicidio – tornare alle regole pre-Covid dal 2023, come oggi si dice, ma altrettanto ovviamente questo non impedisce al partito del rigore di cantare la sua canzone. E così – cogliendo fior da fiore – la Commissione può rispolverare i suoi “squilibri macroeconomici eccessivi”; il capo della Bundesbank, Jens Weidmann, dire che la Bce “dovrà stringere la corda, se sarà necessario a mantenere la stabilità dei prezzi”; il presidente del Bundestag ed ex ministro Wolfgang Schäuble rimpastare per il Financial Times un articolo uscito su Project Syndacate a metà aprile sempre a tema “oddio arriva l’inflazione” e “dobbiamo tornare alla normalità fiscale e monetaria”. Questo dibattito a colpi di allarmi e grida di guerra ha però più a che fare con le elezioni in Germania (26 settembre) che con quanto succederà quando – tra la fine di quest’anno e l’inizio del prossimo – bisognerà davvero decidere cosa fare del Patto di Stabilità: come spesso è capitato la politica tedesca, specie la Cdu, ama indicare alla riprovazione del suo elettorato scontento gli abbronzati fannulloni del Sud Europa. Nella realtà, la riforma del Patto di Stabilità è stata in sostanza già fatta con quel topolino macroeconomico detto Next Generation Eu: il bilancio pubblico è bloccato per sei anni e le “riforme strutturali” care a Bruxelles quasi obbligatorie, comprese quelle che assicurino “il finanziamento degli interventi pubblici” e “la sostenibilità di lungo periodo del bilancio”. Ora che la Commissione Ue – col suo ridicolo pallottoliere a base di “output gap” e la sua sudditanza non solo psicologica a Berlino – proponga più tasse e/o tagli è naturale, è lì per quello, è invece incomprensibile che Bankitalia – nelle recenti Conclusioni finali di Visco – chieda il ritorno all’avanzo primario in tutta fretta o che al Tesoro già pensino a come spendere meno di quel che servirebbe: non si vede perché due prestigiose istituzioni italiane debbano partecipare alla campagna elettorale tedesca…

MailBox

 

Nella Regione del Doge i vaccini sono esauriti

Buongiorno Direttore, sono un residente di Venezia, Cannareggio, da poco 70enne, e da oltre un mese sto cercando di prenotare il vaccino, ma nonostante le varie indicazioni di funzionari e tecnici della Regione Veneto (dove Zaia la vende tanto), trovo che in città e provincia sono esaurite le scorte, comprese quelle dei 40enni. Leggevo stamattina che hanno prenotato già 250mila 12enni. E noi anziani possiamo morire, tanto siamo vecchi. Saluti!

Omero Terrin

 

Quanta pazienza devono avere i cittadini?

Gentile direttore, consiglio la lettura del libro ai pochi che ancora non credono ai miserevoli giochi di potere come causa della caduta del governo Conte-2. Con l’unico avvertimento che non si tratta di un libro giallo, ma di un “noir” degli orrori che offre uno spaccato indecente dello stato della politica e dell’informazione nel nostro Paese. I poteri forti che maneggiano questo Paese hanno cercato in tutti i modi di abbattere il governo Conte-2, con attacchi continui di giornalisti o presunti tali, che hanno spacciato per informazione macchie maleodoranti di inchiostro. Ma non bastava, serviva qualcuno che facesse da “utile idiota” alla causa. Qual è il limite di pazienza richiesto ai cittadini in una democrazia? Grazie direttore per il suo lavoro. Mi raccomando, turarsi bene il naso quando rimescola questi pozzi neri!

Angelo D’ingeo

 

Tennista minacciata per problemi mentali

Vorrei segnalare questo caso di ingiustizia e bullismo che riguarda una giovane tennista, Naomi Osaka (giapponese/haitiana di 23enne). Recentemente al torneo Grande Slam di Roland Garros, Naomi aveva dichiarato di non essere più in grado di poter partecipare alla solita conferenza stampa a fine partita per problemi di salute mentale. Come risposta, dopo averla multata, gli organizzatori dei quattro tornei Grande Slam hanno rilasciato una dichiarazione congiunta minacciando di escludere Naomi da tutti i tornei. Non solo c’è l’odore putribondo di discriminazione razzista/sessista, ma anche una completa mancanza di rispetto ed empatia per i problemi di salute mentale di Naomi.

Claudio Trevisan

 

La dibattuta origine del Coronavirus

Mentre riprende vigore l’ipotesi che l’agente di CoViD-19 abbia avuto origine nei laboratori dell’Istituto di Virologia di Wuhan, una serie di studi condotti in Europa e altrove avevano consentito di rilevare la presenza del Coronavirus nella popolazione umana già diversi mesi prima di quella data. L’origine “laboratoristica” di SARS-CoV-2 viene teorizzata sulla base della cosiddetta gain of function, l’acquisizione di “nuove funzioni” conseguente alle manipolazioni genetiche effettuate in laboratorio. Fra queste rientrerebbe, in primis, la capacità del virus di infettare le nostre cellule e di propagarsi nella nostra specie. Su questo fondamentale crocevia l’ipotesi dell’origine artificiale si interseca, giustappunto, con quella dell’origine “naturale” di SARS-CoV-2, che risulterebbe avvalorata da una serie di dati, sia “storici” che “attuali”. I primi ci rimandano agli agenti responsabili delle cosiddette “malattie infettive emergenti”, che nel 70% dei casi (almeno) avrebbero una comprovata o sospetta origine animale e, più nello specifico, ai due beta-Coronavirus della SARS e della MERS, originanti da un serbatoio animale “primario” (pipistrelli) e da un ospite “intermedio” (zibetto e dromedario, rispettivamente). Per i secondi, invece, l’elevata similitudine genetica (oltre il 96%) che SARS-CoV-2 condivide con un altro Coronavirus isolato in Cina dai pipistrelli (RA-TG13) renderebbe oltremodo plausibile la sua origine naturale. Non senza aver sottolineato, in proposito, anche il lungo viaggio che in poco più di un anno avrebbe portato SARS-CoV-2 a infettare, in condizioni assolutamente naturali, un elevato numero di specie animali domestiche (gatto, cane) e selvatiche (visone, tigre, leone, puma, leopardo delle nevi), nonché ad evolvere in una serie di temibili varianti.

Giovanni Di Guardo, ex docente di Patologia generale

 

Clima di restaurazione a talk show unificati

La faccia di Giannini durante l’intervista a Salvini a Otto e mezzo è stata l’unica cosa interessante della trasmissione. Era un misto di imbarazzo, stupore e anche timore. Purtroppo “il coraggio uno, se non ce l’ha, mica se lo può dare”. Poveri noi… Poi a Piazzapulita di che cosa si parla? Del caso Di Maio. Direttore, l’informazione è morta… Amen… Gaia Tortora che attacca il nostro giornale… qui è tutto capovolto. Sento un clima da Congresso di Vienna, una restaurazione in atto e la lettera di Di Maio ha contribuito non poco. Sentire la Tortora che parla di “ossessione Berlusconi” è stata la ciliegina sulla torta… poi ho spento la televisione. Chissà che cos’altro mi sono perso.

Giovanni Frulloni

 

Credo niente, come sempre.

m. trav.

 

I presidenti di Regione non sono governatori

Buongiorno, leggo il Fatto da tempo e l’apprezzo per le notizie che riporta, molte delle quali assenti negli altri giornali. Nell’insieme del giornale la mia richiesta è senz’altro marginale, ma le parole sono importanti e creano realtà. Vi chiedo che almeno il Fatto eviti di qualificare come “governatori”, i presidenti di regione.

Alessandro Pompei

 

 

I NOSTRI ERRORI

Nel catenaccio dell’articolo pubblicato giovedì dal titolo “I giornali e i camerieri fannulloni: ‘Ma offrono 300 euro al mese…’” abbiamo definito Gianluigi Alessio “dirigente” dell’alberghiero “Vespucci” di Roma. Il ruolo corretto è “direttore amministrativo”. Ce ne scusiamo con l’interessato e con i lettori.

Fq

Mottarone “In Italia va così: si dà la colpa agli operai per salvare i capi”

Gentile redazione, i tragici fatti del Mottarone disegnano un Paese che ha vissuto sull’insabbiamento e il depistaggio delle prove, come testimonia anche la mia storia.

Ho avuto l’incarico di responsabile della centrale presso una società di Magenta, Novaceta Spa, per oltre 20 anni. Le richieste di adeguamento alle norme di sicurezza causarono la mia rimozione dall’incarico e il licenziamento nel 2005. Durante un’ispezione, il Rappresentante dei lavoratori per la sicurezza rilevò che il turbopompa era “freddo” e, quindi, fuori servizio. Questo ha la funzione, durante un black-out di energia elettrica, di alimentare con acqua il generatore di vapore e, per funzionare, riceve vapore a 450 °C, che, se investisse la turbina fredda, ne provocherebbe l’immediata rottura. Mi è stato detto che “la macchina era fredda ma non fuori servizio“, tale assurdo tecnico fu firmato da sette operai, ma da nessun responsabile aziendale. Gli ispiratori furono il direttore e l’ingegnere per la sicurezza. Le condizioni di sicurezza (macchina tenuta calda) richiedevano costi importanti che invece venivano “risparmiati”. Come finisce la storia? Novaceta chiude i battenti nel 2009. Il sottoscritto (già licenziato nel 2005) raccoglie 98 adesioni tra i dipendenti e denuncia l’azienda. Nel febbraio 2018 vengono condannati, in primo grado, 18 manager per bancarotta, per complessivi 180 anni di carcere. I lavoratori, come parte civile, attendono ancora i risarcimenti.

Morale della favola: per i fatti del Mottarone aspettiamoci che a qualche “fesso” operaio venga addossata ogni colpa. Sentenziava Eduardo: “Al mondo si starà bene quando moriranno tutti i furbi e resteranno solo i fessi!”.

Mario De Luca

La “Raivoluzione” (modello Renzi) del nostro Mister Bce

“Se il presidente del Consiglio vuol dare la dimostrazione che il Paese cambia, provi a cambiare la Rai. È una riforma senza costi, l’unico prezzo per lui è rinunciare al controllo sulla tv di Stato”

(Michele Santoro – Sede della Stampa estera – Roma, 18 maggio 2015)

Siamo stati facili profeti a pronosticare qui, il 20 febbraio scorso, che probabilmente Mario Draghi non sarebbe riuscito a fare la riforma della Rai, evocata come in una seduta spiritica da tutte o quasi le forze politiche. “Il nuovo presidente del Consiglio – scrivemmo quattro mesi fa – non la farà non per incapacità o cattiva volontà, bensì perché non gliela lasceranno fare i partiti che formano la sua variegata maggioranza e che sostengono il suo governo di salvezza nazionale”. E nello stesso articolo aggiungemmo che proprio questa, invece, avrebbe potuto essere “la condizione propizia per realizzare una larga intesa sulla riforma del servizio pubblico radiotelevisivo”.

Era tanto fondata quella previsione che ora, su richiesta dello stesso governo, l’Assemblea degli azionisti Rai è stata rinviata a fine mese e in seconda convocazione a metà luglio. E questo, con un Cda in scadenza l’8 giugno, significa lasciare il servizio pubblico nel pantano dell’immobilismo almeno per altri due mesi, in modo da consentire ai lottizzatori di continuare le trattative per spartirsi le poltrone. Di fronte alla difficoltà di mettersi d’accordo sui nomi dei quattro consiglieri di amministrazione su sette che – secondo la legge in vigore – devono essere eletti dal Parlamento, la partitocrazia della maggioranza extralarge paralizza così la Rai con l’effetto di un gas narcotizzante, come fanno i ladri quando vogliono addormentare le loro vittime.

Per quanto riguarda gli altri consiglieri, in forza dell’ultima “riformicchia” varata dal governo Renzi nel 2015, due saranno nominati dal medesimo governo su proposta del ministero dell’Economia e il settimo dai dipendenti dell’azienda. Ora è vero, come ha ricordato nei giorni scorsi su Twitter Vittorio Di Trapani – segretario dell’Usigrai, il sindacato interno dei giornalisti – che “la scelta del presidente spetta al Cda” e che “una legge già pessima non può essere attuata peggio”. Ma di fatto, avendo l’ex rottamatore trasferito dal Parlamento all’esecutivo il controllo del servizio pubblico con l’investitura dell’amministratore delegato, in pratica sarà Draghi a decidere il nuovo vertice di viale Mazzini e a fare la sua “Raivoluzione”.

Si accontenteranno il centrosinistra e il centrodestra di ottenere due consiglieri a testa su quattro? Oppure, cercheranno di eleggere un presidente di garanzia, magari garante della radiotelevisione pubblica piuttosto che della tv privata berlusconiana, in grado di ottenere l’approvazione dei due terzi della Commissione di Vigilanza? E soprattutto, come reagiranno il M5S, il Pd e Leu che detengono tuttora la maggioranza in Parlamento?

La stravaganza di questi interrogativi può dimostrare, da sola, l’anomalia della situazione in cui si trova oggi la Rai, fra sprechi, contratti d’oro e appalti esterni. Un’azienda allo sbando, come una nave in mezzo alla burrasca, esposta ai venti e alle correnti di un uragano. Eppure, a quanto trapela da Palazzo Chigi, “Mister Bce” intenderebbe fare tutto da solo, nominando un presidente di sua fiducia e un amministratore delegato che “sappia fare i conti”. E ci mancherebbe altro! In quale impresa non dovrebbe essere così? Figuriamoci in quella che passa ancora per essere “la più grande industria culturale del Paese”. Soltanto che qui non basta saper fare i conti, occorre anche saper fare informazione, intrattenimento, educazione civica e civile: in due parole, servizio pubblico.

 

Caro Bettini, la giustizia non si sistema con la clava (e la lega)

Al netto di un qualche eccesso di protagonismo a cui Goffredo Bettini cedette nell’accreditarsi come il consigliere del principe Zingaretti segretario del Pd (non giovandogli), tuttavia condivisi le sue riflessioni circa l’esigenza di costruire un campo largo nitidamente alternativo al centrodestra al quale, di necessità, partecipasse un M5S che, anche grazie al cantiere rappresentato dalla collaborazione con Pd e LeU nel governo giallorosso presieduto da Conte, portasse a compimento un processo di maturazione teso a un triplo fine: confermare il M5S come forza di governo, testimoniare un suo inequivoco orientamento europeista, sollecitarlo a operare una limpida scelta di campo, ponendo fine all’ambigua e opportunistica teoria del né di qua né di là. Una linea che, a sua volta, sul versante del Pd, finalmente archiviasse il doppio deragliamento renziano: la sua subalternità al paradigma neoliberale e la sua velleitaria presunzione di autosufficienza, che condussero il Pd all’isolamento e alla sconfitta. Al contrario, non mi convince affatto l’endorsement di Bettini sui referendum in tema di giustizia proposti dai radicali sui quali si è fiondato Salvini. Per più ragioni. La prima: con l’aria che tira, mi pare iniziativa tutt’altro che innovativa e sfidante, semmai subalterna al contingente mainstream. Una temperie che, complici episodi che hanno seminato sfiducia verso la magistratura, dà fiato a chi, più che a riformare la giustizia così da farne un servizio più adeguato per i cittadini, ne approfitta semmai per limitare l’indipendenza e l’autonomia dei giudici. La seconda: lo strumento, ovvero il referendum. Proprio nel mentre si sta discutendo in parlamento. In questo tempo e in questo contesto, chiunque può intendere come il referendum non rappresenti, come usa dire, uno stimolo costruttivo ma piuttosto una clava, un contributo alla radicalizzazione dei dissensi che non giova a riforme che, per loro natura, esigerebbero un consenso parlamentare largo. Terzo: chi ha esperienza e discernimento politico (di sicuro Bettini) sa bene che i compagni di cordata cui ci si associa – tanto più ex post, a rimorchio – non sono indifferenti, che essi contribuiscono a imprimere un senso politico all’iniziativa. Nella fattispecie Salvini, improvvisatosi improbabile campione di garantismo. E per converso non può sfuggire la consapevolezza da un lato delle divisioni interne al Pd nel caso di un suo impegno referendario, dall’altro delle tensioni che ciò produrrebbe nel rapporto con il M5S. Sorprende che la circostanza sfugga a Bettini, il quale, non a caso, con la sua estemporanea uscita a sostegno dei referendum che portano il sigillo radicali-Lega, ha raccolto il pronto apprezzamento dei renziani di vario rito, da sempre decisi a minare l’asse con Conte e il M5S. Infine, una nota di ordine politico generale. Non c’è bisogno di indulgere a letture complottiste per osservare come un vasto fronte politico-mediatico stia assediando Letta affinché il Pd si appiattisca sull’agenda Draghi, rinunciando a ogni distinguo, a coltivare una qualche differenza/alterità. Palesemente prescritta dall’esigenza di marcare la propria identità e la propria scelta di campo in rapporto a un esecutivo nativamente concepito come privo di una “formula politica” (copyright di Mattarella). Ma i cantori di questa fase non predicano ogni ora che i partiti dovrebbero profittarne per ridefinirsi? Rinunciando tout court a fare politica? La storia non finisce con Draghi. Un’esigenza avvertita da Letta, di sicuro non un estremista. Sta bene ripudiare il giustizialismo e le gogne mediatico-giudiziarie, ma domando, sicuri che sia buona cosa, anche solo al fine di preservare una sana dialettica democratica, allinearsi alla destra nostrana sui temi della legalità e dell’autonomia della magistratura? Temi a cui – mi ostino a pensare – è sensibile l’elettorato democratico e di sinistra, anche in un tempo nel quale si dà credito all’idea che il deficit di legalità tra le classi dirigenti che condusse a Mani pulite e la sequela di leggi imposte da Berlusconi e dai suoi uomini in Parlamento siano un’ossessione di visionari giustizialisti. Una smemoratezza che sconfina nella fuorviante rimozione. Mi piace rammentare che l’Ulivo – il solo che portò la sinistra al governo dopo avere vinto le elezioni – nacque nel 1995 anche sull’onda di una sana domanda di trasparenza e di legalità in reazione a una degenerazione della vita pubblica di portata sistemica.

 

Tassa di successione: solo Letta è di sinistra

Enrico Letta, segretario del Pd, ha proposto, alcuni giorni fa, di alzare al 20% la tassa di successione per i redditi che superino i 5 milioni di euro, e solo sull’eccedenza. Il ricavato, secondo Letta, sarebbe sufficiente per dare una “dote” di 10.000 euro alla metà dei 560.000 ragazzi che ogni anno compiono i fatidici 18.

Finalmente un segretario del Pd ha detto qualcosa “di sinistra”. Si sono opposti quasi tutti, a cominciare da una buona metà del suo partito argomentando che non è il caso di proporre nuove tasse in periodo elettorale. A parte che l’Italia è sempre, per una ragione o per l’altra, in periodo elettorale o pre-elettorale, l’argomentazione è risibile perché è una tassa che colpirebbe solo l’1% della popolazione e soggetti che certamente non votano Pd. Per le destre, Lega, Fratelli d’Italia, Forza Italia, ogni tentativo, sia pur minimo, di una ridistribuzione sociale della ricchezza, si tratti di tassa sull’eredità o di patrimoniale, è come l’apparizione stessa di Belzebù, come un “esproprio proletario” dei tempi di Lotta Continua. In quanto al premier, Mario Draghi, ha affermato che un provvedimento del genere va inserito nel più generale riordino del sistema fiscale italiano che è la classica “fuga in avanti” per annullare qualsiasi iniziativa poco gradita tante volte usata dai nostri politici di professione. Del resto da un banchiere di professione non ci si può certo attendere un occhio di attenzione per le classi più disagiate come del resto mi pare venga fuori dall’intricatissimo piano di riforme presentato nei giorni scorsi all’Ue in cui è pressoché certo che, a parte la sacrosanta abolizione della incomprensibile norma che concede l’appalto all’azienda che fa il massimo ribasso e non a quella che offre le garanzie migliori, sarà dato il via libera a tutti i famelici e assatanati fautori di “mega opere” compreso l’inutilissimo e ambientalmente devastante Ponte di Messina.

In tutti i principali Paesi occidentali la tassa di successione è molto più alta che in Italia (dove l’aliquota è attualmente al 4%): in Francia varia tra il 5 e il 60%, in Germania la massima è del 30%, negli Stati Uniti e in Gran Bretagna del 40.

Del resto la tassa di successione è perfettamente coerente col pensiero liberista che vuole un’uguaglianza, almeno teorica, sulla linea di partenza (mentre su quella d’arrivo vince il più bravo, ma anche qui non senza dei limiti perché sia Adam Smith che David Ricardo sono contrari al monopolio e agli oligopoli perché violano un altro dei cardini della dottrina liberista, quello della libera concorrenza). Sul versante opposto di questa posizione liberista c’è l’umanissimo desiderio di lasciare i frutti del lavoro di una vita ai propri figli. Ma questo riguarda le persone normali, le eredità, diciamo così, normali, non certamente quelle enormi che al contrario pongono dei problemi ai discendenti. Perché se ci si ritrova ad avere, senza alcun merito personale, una montagna di soldi, poi non si sa più che cosa fare della propria vita. I suicidi di Edoardo Agnelli e di Christina Onassis dovrebbero aver insegnato qualcosa.

Ma la proposta di Letta, che certamente non risolverà la questione, è importante perché segnala un fenomeno in atto da almeno cinquant’anni in Occidente: i ricchi diventano sempre più ricchi, e anche un pochino più numerosi, mentre i poveri diventano sempre più poveri e molto più numerosi finendo così per assottigliare il ceto medio che è il collante necessario di ogni società perché rende meno evidente il divario fra le classi sociali. E questa divaricazione non ha fatto altro che aumentare. Ne La Ragione aveva Torto? (1985), che fotografa la situazione dell’Italia degli anni 80, scrivevo: “Il decile più ricco, cioè il 10% che sta alla sommità della piramide sociale, ha il 29,9% del reddito complessivo rispetto al 2,4% del decile più povero, i ricchi cioè hanno un reddito che è 12,5 volte quello dei più poveri”. Ma il dato più sconcertante lo si ha se si mettono a raffronto le ricchezze invece dei redditi. Nell’Italia degli anni Ottanta il 6,7% delle famiglie deteneva il 42% della ricchezza totale e il 15,8% si spartiva il restante 66%. Per contro il 47,8%, cioè quasi la metà della popolazione, aveva lo 0,8%. Da allora la situazione in Italia, ma il problema è mondiale, non ha fatto che peggiorare. Secondo un rapporto della Banca d’Italia del 2018, “Nel decennio tra il 2006 e il 2016, i due decili più bassi della ricchezza netta sono passati, rispettivamente, da 2.300 a 1.100 euro e da 12.000 a 6.200”. Ma oggi assistiamo, ammirati ma anche spaventati, all’accumularsi di ricchezze (Bezos, Musk, Zuckerberg) che non erano pensabili non dico in era preindustriale, ma fino a una decina di anni fa. Oggi il normale cittadino, lo “schiavo salariato” come lo chiama Nietzsche, è più lontano da Bezos, come ricchezza ma anche come status sociale, di quanto lo fosse il contadino della società preindustriale rispetto al più ricco dei feudatari o forse allo stesso re. Bisogna allora ammettere un fatto piuttosto imbarazzante: lo sviluppo economico, industriale ma oggi soprattutto finanziario, aumenta a dismisura le diseguaglianze. È un processo che si autoalimenta e sembra ormai del tutto fuori controllo.

 

I migliori programmi in tv: da quarta repubblica a nudi e crudi e beautiful

E per la serie “Chiudi gli occhi e apri la bocca”, eccovi i migliori programmi tv della settimana:

Rai 1, 18.45: L’eredità, quiz con Flavio Insinna. Pochi di noi sono fortunati abbastanza da migliorare con l’età.

Sky Cinema Suspense, 21.00: Buried – Sepolto, film thriller. Paul Conroy si ritrova rinchiuso in una bara sottoterra, con in tasca un cellulare, una matita e un accendino. Dovrà guidare i soccorsi fino a lui prima che il pubblico cambi canale.

Rai 1, 10.15: La Santa Messa, commedia. Maria scopre di essere incinta. Temendo di essere cacciata di casa, riconsidera la proposta di matrimonio di quel tontolone di Giuseppe. Gli dirà che è incinta per opera dello “Spirito Santo”, e che gliel’ha detto “un angelo”. Giuseppe se la berrà?

Canale 5, 13.40: Beautiful, soap. Si sta celebrando il matrimonio di Thomas e Zoe. Allo scambio degli anelli, colpo di scena: nella stanza entra Hope vestita da sposa, tenuta per mano del piccolo Douglas. Thomas in un secondo liquida Zoe e dice a Hope di essere pronto a sposarla subito. Questa è la trama vera della puntata, e le spettatrici di questa cagata sono 3 milioni e votano a livello locale e nazionale. Di cosa vi stupite?

Nove, 16.00: Australia, film drammatico. Un’aristocratica inglese eredita un ranch in Australia. Per risollevare le sorti della proprietà, deve condurre 1500 capi di bestiame attraverso le zone più ostili del Paese, fra cui una nuova boutique di Dolce & Gabbana.

Rete 4, 21.20: Quarta Repubblica, attualità. Pure in questa puntata Nicola Porro cercherà di analizzare la situazione politica ed economica italiana come se ne fosse capace.

Apple Tv+, streaming: La storia di Lisey, miniserie tratta da un romanzo di Stephen King. Due anni dopo la morte del marito, famoso romanziere, Lisey si trova a rileggere i suoi manoscritti, e scopre che forse i fantasiosi personaggi di cui erano popolati i suoi libri non erano tutta finzione. Per esempio, il vicino di casa, una piccola cicala d’uomo con un orologio digitale di importazione attorno al polso peloso. Lo si direbbe un uomo decente, onesto, di buon cuore, profondamente convenzionale, che prende la vita come viene. Impossibile credere che un tempo fosse conosciuto come il macellaio del Borneo. Difficile immaginarlo mentre castrava da solo a morsi un battaglione di giapponesi. Lisey cerca di non immaginarlo, senza successo.

DMax, 19.30: Nudi e crudi, documentario. Una coppia sposata tenta di sopravvivere per 14 giorni in una fitta giungla delle Filippine. Verranno sbranati da una torma di coccodrilli, dopo di che la loro relazione si rafforza.

La7, 20.35: Non è l’Arena, attualità. Massimo Giletti conduce la penultima puntata della stagione intervistando i suoi ospiti sulla pandemia e sulla situazione politica. Le domande che invece io chiederei a sua madre, la donna meravigliosa che l’ha messo al mondo, sono: Massimo era avido al seno? A che età da piccolo fu educato al vasino? Quando cominciò a masturbarsi guardandosi allo specchio? Soprattutto: gli piaceva essere al centro dell’attenzione, anche se può sembrare incredibile a chi lo conosce oggi? Non che sia interessato alle risposte ma, col mio tipico altruismo, sto pensando a voi, mie milioni di lettrici, che volete sapere tutto dei vostri beniamini.

Canale 5, 21.20: L’Isola dei famosi, reality condotto da Ilary Blasi. Per la 15ª edizione di questo programma è arrivata l’ultima puntata. Già sento i miei occhi inumidirsi.