Il tour di Calenda, da Er Faina all’estetista

Chissà qual è il malinteso senso per gli influencer che spinge Carlo Calenda a fare campagna elettorale con i più improbabili personaggi del sottobosco digitale. Si può ancora capire lo scambio con “Er Faina”, principe dei coatti di Instagram (di aperte simpatie salviniane): nel gioco delle parti con lui, ex netturbino oggi tremendamente popolare tra i giovani, Calenda può fingere di rinnegare l’odiata aura pariolina. Un tentativo goffo, visto il terribile e fasullo accento romanesco sfoggiato da Carletto per disquisire con l’influencer, che nel suo schema mentale deve incarnare l’elettore borgataro (pure se le uniche periferie che frequenta er Faina sono quelle dei followers e dei like). Dunque, passi er Faina. Ma che c’azzecca invece “l’estetista cinica”? Nome d’arte di Cristina Fogazzi, influencer da 837mila followers su Instagram, autrice del prezioso volume Guida cinica alla cellulite. Calenda ha fatto una marchetta elettorale pure insieme a lei. Una preziosa opinion maker che ieri, per dire, analizzava nelle sue storie le “strutture dei culi” nelle foto delle sue fan (parole sue). Che bisogno aveva Calenda di confrontarsi su Roma con un’estetista bresciana? Fino a che punto ci si ridicolizza per un pugno di followers?

L’Europa vuol sabotare la svolta di Biden contro i paradisi fiscali

La storia ci ha insegnato a non avere troppe aspettative quando arriva un nuovo inquilino alla Casa Bianca. Ma questo non ci impedisce di applaudire alcune iniziative della nuova Amministrazione statunitense, come quella del mese scorso di sostenere la revoca temporanea dei diritti di proprietà intellettuale sui vaccini Covid-19 in modo che possano essere prodotti in altri Paesi. Ma non è tutto. Joe Biden potrebbe anche essere sul punto di scuotere la questione del finanziamento dello sviluppo, affrontando quello che è considerato un campo minato negli Stati Uniti: la tassazione.

Per finanziare un pacchetto di stimolo da 1.900 miliardi di dollari, Washington vuole cercare i soldi dove ci sono: nei conti delle persone più ricche e delle multinazionali. Tra le altre misure, questo significa introdurre un’aliquota fiscale minima del 21% sui profitti delle imprese all’estero. In termini pratici, questo significa che le filiali delle multinazionali americane in Irlanda, per esempio, dove l’aliquota è del 12,5%, pagheranno immediatamente un’ulteriore tassa dell’8,5% alle autorità fiscali americane.

Questa è, ovviamente, una decisione unilaterale. Per il resto del mondo, però, è anche una grande opportunità per seppellire il modello di business dei paradisi fiscali. Con l’introduzione di una tassa minima globale, le multinazionali non avranno più alcun incentivo a manipolare la loro contabilità per concentrare artificialmente i loro profitti nei paradisi fiscali. L’iniziativa di Joe Biden, se approvata dal Congresso degli Stati Uniti e seguita da un numero significativo di Paesi, porterebbe il più grande cambiamento nella tassazione delle imprese da decenni. Questa è una delle principali raccomandazioni del rapporto sull’integrità finanziaria per lo sviluppo sostenibile presentato a febbraio dal Facti, un gruppo di esperti convocato dall’Onu, di cui faccio parte.

Sotto la pressione di alcuni Paesi europei, in primis Londra, l’Amministrazione statunitense ha abbassato le sue richieste, chiedendo una tassa minima globale di “almeno il 15%”. L’obiettivo: convincere la maggioranza dei 139 Paesi che attualmente discutono all’interno dell’Ocse – questo gruppo è chiamato “framework inclusivo”, l’aggettivo può far sorridere se si pensa al divario tra le capacità di negoziazione delle principali potenze e quelle degli altri Paesi –. Tuttavia, Washington precisa che gli stessi Stati Uniti saranno più ambiziosi, tassando le filiali delle sue multinazionali fino al 21%, e chiede alle grandi capitali di fare lo stesso.

Poiché il G7 (il gruppo dei sette Paesi più industrializzati) prenderà posizione su questa misura questo fine settimana a Londra, si spera che Italia, Francia, Germania, e Regno Unito seguano l’esempio degli Stati Uniti nell’essere ambiziosi. Non possiamo cedere al ricatto delle multinazionali, che sostengono che un’aliquota del 21% sarebbe eccessiva e danneggerebbe i Paesi in via di sviluppo, privandoli di uno strumento prezioso per attrarre investimenti.

Questo è un argomento specioso, anche se è stato molto stranamente trasmesso dal presidente della Banca Mondiale. Quando una multinazionale sta considerando una località per un impianto di produzione, il vantaggio fiscale è un aspetto secondario rispetto ad altre questioni come la qualità delle infrastrutture, l’istruzione dei lavoratori o la certezza del diritto.

Nella Commissione Indipendente sulla Riforma Fiscale Internazionale delle Imprese (Icrict), che presiedo, insieme a economisti come Joseph Stiglitz, Thomas Piketty, Gabriel Zucman e Jayati Ghosh, crediamo che l’aliquota fiscale minima dovrebbe essere del 25% a livello globale. Nei negoziati dell’Ocse, il tasso finale dovrebbe essere tra il 15% e il 21%. Ma presentare l’estremità inferiore della forbice come una vittoria sarebbe un grave errore: significa meno soldi per i programmi sanitari, l’istruzione e la ripresa economica.

L’Osservatorio Fiscale europeo, diretto da Gabriel Zucman, ha appena considerato diversi scenari, a seconda di una serie di aliquote. Un accordo internazionale su un tasso minimo del 25% – come sostenuto da Icrict – consentirebbe all’Unione europea di aumentare le sue entrate fiscali di 170 miliardi di euro nel 2021, un aumento del 50% delle entrate fiscali aziendali raccolte oggi e il 12% della spesa sanitaria totale dell’Ue. Con un’aliquota minima del 21% (la proposta di Biden), l’Ue raccoglierebbe circa 100 miliardi di euro. Passare dal 21% al 15% dimezzerebbe le entrate (50 miliardi di euro).

Naturalmente, dovremo metterci d’accordo sulla distribuzione della torta. È imperativo che le entrate aggiuntive generate da una tassa minima globale siano condivise equamente tra i paesi d’origine delle multinazionali, come gli Stati Uniti o i paesi europei, e le nazioni in via di sviluppo dove le attività – lavoro e materie prime – hanno origine. Ecco perché il Gruppo intergovernativo dei 24 (G24), che rappresenta le economie emergenti, chiede che queste economie abbiano la priorità nella tassazione dei profitti trasferiti nei paradisi fiscali.

Per esempio, supponiamo che una multinazionale statunitense abbia operazioni in Colombia, ma abbia spostato i profitti dalla Colombia a Panama, dove le tasse sono estremamente basse. Con il sistema dell’amministrazione Biden, le autorità fiscali statunitensi dovrebbero essere in grado di recuperare la differenza tra il tasso di Panama e il 21%. Il G24 vuole che la Colombia abbia la priorità nel tassare questi profitti dichiarati a Panama, e che gli Stati Uniti non applichino questa tassa minima. In questo modo, la Colombia riceverebbe la sua giusta quota di tasse prima di qualsiasi altro paese.

Idealmente, si dovrebbe trovare un accordo globale. Ma in realtà, basta che una coalizione di Paesi mostri di fare sul serio. Un accordo solo tra i paesi del G20 – le 20 maggiori potenze mondiali – farebbe già la differenza, dato che rappresentano più del 90% delle entrate fiscali globali delle imprese. Anche in questo caso, speriamo in una maggiore ambizione da parte degli europei, e in particolare l’Italia.

Questo sarebbe un gesto politico forte, ma deve essere preso con urgenza. La pandemia di Covid ha causato la peggiore crisi sanitaria, economica e sociale del secolo. Non possiamo perdere l’opportunità di rispondere a questa sfida, per ricostruire società più prospere, giuste ed eque.

*Professore alla Columbia University e presidente della Commissione Indipendente sulla Riforma Internazionale dell’Imposta sulle Società (ICRICT).

Assunzioni Pnrr: saranno migliaia, ostacoli ai giovani

Alla fine la montagna della rivoluzione della P.A. e della fine del turn over ha partorito il topolino del decreto, approvato ieri, che consente di procedere alle assunzioni connesse col Piano di ripresa e resilienza (Pnrr). Il topolino, però, è destinato a crescere assai per gli effetti di una norma che prevede di fatto la stabilizzazione del lavoro “precario”, cioè a termine, con cui verrà accompagnato il Recovery Plan italiano.

Anche se la gestione del Pnrr è come disconnessa, in questo testo, dal tema più generale della macchina pubblica parliamo comunque di molte migliaia di posti nel prossimo futuro. Il testo, ad esempio, prevede oltre 24mila assunzioni dirette, 22.100 delle quali riguardano il solo comparto giustizia (16.500 unità da aggregare al cosiddetto “ufficio del processo” e altre 5.410 di personale amministrativo). Il resto riguarda di fatto il livello apicale del Pnrr e le sue procedure di monitoraggio e controllo: 500 esperti nei ministeri, di cui 80 alla Ragioneria dello Stato; mille che dovranno supportare gli enti locali “nella gestione delle procedure complesse”; 268 alla Transizione digitale e altri 67 all’Agid. È rimasto invece all’asciutto Roberto Cingolani, che voleva che il ministero della Transizione ecologica potesse assumere a chiamata diretta 400 dipendenti della società in house Sogesid: non l’ha presa bene, tanto che il Cdm è stato sospeso, ma non c’è stato niente da fare (se ne parlerà in futuro).

Numeri che sono solo la punta dell’iceberg e a cui andranno aggiunte le migliaia di assunzioni e di contratti di consulenza, collaborazione, apprendistato e persino di stage che gli enti interessati – secondo questo decreto – potranno caricare sul Pnrr nei limiti di costo previsti dal singolo progetto e a patto di poter dimostrare che quel personale serva proprio lì. Il ministero di Brunetta predisporrà una sorta di bacino unico telematico di questi esperti, a cui si potrà accedere per titoli e previa prova scritta.

Tutti i contratti relativi al Pnrr saranno temporanei e comunque decadranno al massimo a fine 2026, ma per molti di questi lavoratori la speranza di restare nei ranghi della P.A. è più che fondata: nei successivi concorsi una quota fino al 50% dei posti sarà riservata a loro. È fallito, invece, il tentativo di risolvere con questo testo anche il problema del reclutamento del personale stabile dello Stato: l’opposizione del Tesoro ha potuto più delle pressioni dei ministeri. Se ne parlerà più in là e cioè dopo che – entro fine anno – tutte le amministrazioni con più di 50 dipendenti avranno stilato il “Piano integrato di attività e organizzazione”: dovranno indicare cosa vogliono fare e con quale (e quanto) personale. Il tempo c’è: i concorsi per decine di migliaia di posti sono in gran parte ancora fermi.

Giustizia a parte, visto che si tratta di un progetto discusso e approvato da tempo, che tipo di P.A. disegna questo decreto? Con la scusa della fretta, che pure esiste, si cambiano persino i meccanismi di carriera, lasciando contestualmente mano libera all’arbitrio dei singoli enti: non una buona notizia per i giovani, specie neo-laureati, che a parole si vorrebbero favorire. Accanto ai concorsi veloci, infatti, resta un’ampia possibilità di assumere a chiamata diretta. Ad esempio gli enti coinvolti nel Pnrr possono con questa formula reclutare dirigenti esterni – ovviamente di “comprovata esperienza” – fino al 20% del totale della loro pianta organica (il doppio di adesso): tutte posizioni che saranno difficilmente attribuite in futuro a neo-laureati, vista la riserva del 50% di posti riservati agli assunti Pnrr nei futuri concorsi. Non manca neanche la solita normetta a favore degli ex dirigenti pubblici in pensione: fatti salvi errori di drafting e in attesa del testo ufficiale, viene abrogato il limite di un anno – incompatibile col Pnrr – alla concessione di incarichi dirigenziali e direttivi “a personale in quiescenza”. La comprovata esperienza c’è, i rapporti pure: chi sceglieranno gli enti?

Turni di 20 ore e zero riposi: Ecco chi sono i ‘fannulloni’

Sono un cuoco e, ancora oggi stento a crederci, ma l’anno scorso ho fatto un turno da venti ore. Venti ore senza pausa e senza mangiare, in un hotel di lusso in una delle località più rinomate e visitate della Campania”: questa storia l’ha raccolta un’associazione che riunisce i lavoratori stagionali del turismo e si chiama “Oltre la Piazza”. Stona un po’con l’allarme lanciato in questi giorni da albergatori e ristoratori che dicono di non trovare lavoratori. L’associazione ha fatto una cosa semplice: ha chiesto ai suoi iscritti di raccontare le loro esperienze. La mail è esplosa: in poco tempo sono arrivate centinaia di testimonianze, così come al Fatto Quotidiano, tra commenti sui social e lettere che riguardano un metodo di lavoro strutturale, attivo 365 giorni all’anno, che con la pandemia è peggiorato. “Sono sconcertato per queste diffamazioni diffuse dai media e dai proprietari di alberghi e ristoranti”, dice il cuoco, che sottolinea come spesso finanche l’orario di lavoro sia una categoria dello spirito. “Se un gruppo di clienti vuole sedersi a Mezzanotte – sostiene un cameriere con dieci anni di esperienza – sono pochi i titolari che rifiutano di riaprire la cucina. E noi siamo costretti a rimetterci all’opera. Piccolo dettaglio: senza straordinari.”

Part time è come si scrive ma si legge “più che tempo pieno”

In base ai racconti, il metodo consolidato per aggirare le regole è una sorta di lavoro grigio: “sul contratto è scritto ‘part time’ ma le ore effettive sono ben oltre quelle di un tempo pieno – spiega un lavoratore – . I più fortunati prendono un’integrazione della paga fuori busta, in contanti”. Altri invece devono addirittura accontentarsi di lavorare il triplo per mezzo stipendio. Vale sia nei periodi di bassa stagione, quando il grosso del lavoro si concentra nel weekend, sia – amplificato – durante il picco estivo, quando sparisce il giorno di riposo. “Ho lavorato in un ristorante, facevo sia il pranzo sia la cena con un’ora e mezza di stacco tra i due turni”, dice una cameriera che svolge questo mestiere da 13 anni. Quattordici ore al giorno in servizio, “con un contratto part-time firmato un mese dopo aver iniziato”. Solo mezza giornata libera ogni settimana per 950 euro al mese, nessun trattamento di fine rapporto e sistemazione in un seminterrato con altre nove persone. Un’altra ragazza ha inviato la sua candidatura per una rosticceria. Proposta, otto ore al giorno per 500 euro al mese: “Ecco perché ho rifiutato, pur non ricevendo alcun sussidio”. E ancora, a un’aspirante receptionist è stato prospettato un contratto da tre giorni settimanali per farne in realtà sei e con turni da otto ore per 800 euro.

Il nero Il ricatto fuori busta e le spese a carico

Al cuoco di un albergo siciliano è stato chiesto di lavorare su tre turni: colazione, pranzo e cena con un’oretta scarsa di pausa tra uno e l’altro. In pratica è stato costretto a passare le intere giornate al lavoro. Sempre nell’Isola, per una 50enne addetta alla lavanderia di un hotel è stato previsto il turno serale che finiva alle 2 e quello della mattina successiva che iniziava alle 5, dopo sole tre ore di ‘sonno’. Talvolta, poi, il “fuori-busta” è un ricatto: lo sa un manutentore che dice di aver preso 800 euro come parte “regolare”, mentre 200 euro aggiuntivi arrivavano solo se accettava turni extra. Quando poi si parla di zone turistiche, spesso ci si riferisce a luoghi non facilmente raggiungibili. Le spese per gli spostamenti, però, non sempre vengono rimborsate. È l’esempio di un tuttofare di una struttura alberghiera che è all’opera per nove ore al giorno, il suo contratto ne riporta solo quattro e lo stipendio si aggira sui 900 euro. Ma ne spende 100 per prendere l’aliscafo. Non forniscono neanche i pasti: per alberghi e ristoranti non dovrebbe essere difficile garantire un pranzo o una cena decente a fine turno. E invece…“Lavoravo in un lido – racconta un soccorritore – e in pausa pranzo concedevano solo un’agevolazione sui prezzi del ristorante gestito dalla moglie del titolare. Con 6 euro ci davano un piatto, una bevanda e un caffè”. Ancora. “Mia figlia ha lavorato per 4 euro l’ora come barista a Chivasso – ricorda una mamma – e per cena le davano le brioches avanzate dalla colazione, da mangiare in piedi nei buchi di servizio.”

Sostegni? I furbetti spesso sono proprio i titolari

Tra le segnalazioni abbiamo anche furbetti degli ammortizzatori sociali che mettono i dipendenti in cassa integrazione ma poi li fanno lavorare regolarmente, scaricando sul pubblico i costi dei loro stipendi. “Sono impiegato in un hotel al centro di Roma – spiega un cameriere di catering – e oggi sono totalmente in cassa integrazione, ma vado a lavorare ogni giorno dalle 5 del mattino per 7 ore, senza giorno di riposo. Ho provato a chiedere anche qualcosa in più al titolare, ma me lo ha negato”. Ci sono poi iniziative padronali che spiccano per originalità, come quella di un titolare che riservava le mance a sua figlia e sua nuora, escludendo gli altri. O che a fine mese regalava un pacco di sigarette ai dipendenti più apprezzati dai clienti.

La narrazione “Tutti pigri” Ignoranza o malafede?

Sebbene finora abbia avuto un decimo della risonanza ottenuta dalle imprese, adesso un “esercito” di camerieri, chef, bagnini, addetti alle pulizie di bar, pub, pizzerie e stabilimenti balneari sta cercando di far capire che cosa significhi lavorare nelle strutture turistiche: orari improponibili, paghe misere, irregolarità che diventano norma, abusi da parte dei titolari, diritti scambiati per favori, sistemazioni fatiscenti. Ancora di più negli ultimi due anni, con i datori che provano a recuperare le perdite generate dalla pandemia con condizioni ancora più mortificanti. Eppure, la narrazione resta la stessa: il problema sono i giovani fannulloni e i troppi sussidi, dal Reddito di cittadinanza ai bonus elargiti per l’emergenza Covid. Ricostruzione che ora piace pure a “sinistra“: è stato il segretario del Partito democratico Enrico Letta a dire, giovedì a Porta a Porta, che “in questo momento ci sono stati molti sostegni e ristori” che ha “l’impressione che ci sia una tendenza a non rendersi conto che bisogna uscire dalla logica del ristoro e mettersi in azione”, per poi aggiungere che “si preferisce prendere il Reddito di cittadinanza e lavorare a nero, è una cosa insopportabile”. Nemmeno il dubbio che i contratti irregolari possano essere imposti dagli imprenditori – da secoli i contraenti forti del mercato del lavoro – per risparmiare su stipendi, assicurazioni e contributi. Né sembra sospettare che l’alta incidenza della povertà – quindi le numerose richieste di sussidi – possano essere conseguenza di un’economia basata su impieghi sotto-pagati.

I dati Parlano chiaro: se le paghe fossero regolari…

Le paghe indecenti proposte si avvicinano infatti spesso ai 450 euro al mese, l’importo medio percepito da un single con il Reddito di cittadinanza. Applicando le regole, un cameriere inquadrato nel livello più basso, senza straordinari, dovrebbe invece guadagnare quasi il triplo di quella cifra, più il trattamento di fine rapporto alla scadenza del contratto, con un assegno di disoccupazione (la Naspi) pari al 75% dello stipendio e di durata pari alla metà del periodo lavorativo. Basterebbero quindi pochi mesi all’opera (o poche ore settimanali per tutto l’anno) per portare a casa introiti di gran lunga superiori ai sussidi. Questo, però, richiederebbe che i datori facessero ogni cosa in regola. E invece è una circostanza presa in considerazione solo dal 26% delle aziende di alloggio e ristorazione visitate dall’Ispettorato del Lavoro nel 2020.

“L’Italia punti sulle batterie: sono il futuro”

Portare il nuovo hub delle batterie per le auto elettriche in Italia, e soprattutto nella Torino della Fiat Mirafiori, sarebbe solo un favore per Stellantis? O è anche un’occasione strategica per il nostro Paese, magari rivedendo quel Piano di ripresa oggi troppo sbilanciato sull’idrogeno e carente, invece, sull’elettrico?

Non ha dubbi Silvia Bodoardo, docente di Chimica al Politecnico di Torino, una delle scienziate europee più esperte in materia di batterie, coinvolta in tutti i programmi della Ue e dei suoi organismi su questo tema, a cominciare dall’European Battery Innovation che prevede un primo finanziamento di 2,9 miliardi. “Se l’obiettivo è decarbonizzare la mobilità e uscire dal motore termico, l’Italia non può restare fuori – dice la professoressa Bodoardo –. Dunque, l’interesse di Stellantis e le opportunità del Recovery Plan possono essere il volano per questa scelta. Stato e azienda devono dialogare e trovare una soluzione, se vogliamo essere competitivi e sganciarci dal monopolio asiatico”.

I programmi di ricerca europei, ma anche di supporto produttivo (nuove tecnologie, elettronica, testing, riciclo delle batterie esauste) stimano almeno 800mila nuovi posti di lavoro nell’area Ue. Il Politecnico di Torino e la sua docente sono il fronte avanzato dell’Italia in un network collegato alle principali università europee, a cominciare da quella di Uppsala in Svezia. “Operiamo in due master europei sulle batterie, con l’ateneo di Lisbona e la Aalto University in Finlandia. Esistono 7 bandi Ue per questo settore, nei quali portiamo contributi ed esperienza, e ci sono aziende che si sono già inserite, come Comau o Midac, ma anche altre opportunità dalle quali l’Italia è rimasta fuori, mentre ha aderito la Turchia”.

La professoressa usa l’immagine del treno in corsa: “Passa una volta sola: se non saliamo, resteremo tagliati fuori. Vuol dire posti di lavoro, vuol dire formare giovani, vuol anche dire recuperare chi ha perso il lavoro. Infine, significa attrezzare l’Italia per la riduzione delle emissioni di CO2. Qualcosa che non riguarderà solo le auto. Anche per stoccare l’energia dei pannelli solari e delle pale eoliche, incentivati dalle agevolazioni del 110 per cento, servono le batterie”.

Il nostro Pnrr, però, ed è questo il vero problema, stanzia 3,2 miliardi di euro per il futuro dell’idrogeno e solo 750 milioni per installare le colonnine di ricarica sulla rete stradale. Un errore? “Non tocca a me giudicare. Ciò che dobbiamo avere chiaro è che l’idrogeno è una risorsa non immediata e che non servirà per le auto: si userà per i grandi camion e i treni. Per l’auto la scelta è l’elettrico e non solo perché Stellantis, come gli altri gruppi, ha fatto quella scelta”.

Qualcosa che si dovrà decidere in fretta, dopo gli incontri tra i vertici di Stellantis e il governo e in vista dell’annuncio di Tavares previsto per l’8 luglio: un solo nuovo hub, o in Spagna o in Italia. Nel caso la preferenza per la sua collocazione – soprattutto del ministro per la Transizione ecologica, Roberto Cingolani – sarebbe al Sud. “Ancora una volta l’università non può interferire. Ma se si devono produrre batterie, sia chiaro: a Torino c’è già tutto. La ricerca del Politecnico, l’inserimento strutturale nei network europei per ricerca e supporto alla produzione. E c’è, infine, la storia della Fiat e di Mirafiori: dove oggi si produce la 500 elettrica. Se esiste davvero la volontà di fare, qui il percorso virtuoso è già concreto”.

Metro C, nessuno pagherà per le “varianti gonfiate”

Almeno sette anni di ritardo sulla tabella di marcia. Circa 700 milioni di extra-costi, oltre ai 3 miliardi di euro previsti dal già ricco quadro economico di partenza. Un’infrastruttura realizzata a metà, pensata alla fine degli anni 90 per rivoluzionare il trasporto pubblico della Capitale d’Italia, ma ridotta a frequenze da trenino di provincia. Nessuno, quasi certamente, pagherà sul fronte penale per il grande spreco della Linea C della metropolitana di Roma, a causa della prescrizione che ha distrutto l’indagine penale della Procura di Roma. Qualcosa potrebbe muoversi, forse, alla Corte dei Conti, dove il fascicolo è tornato nella Capitale dopo aver viaggiato avanti e indietro da Perugia sul filo della scadenza termini. E non è detto che si arrivi a dama, a causa delle continue eccezioni di competenza territoriale. La scorsa settimana, sono stati rinviati a giudizio alcuni tra politici, funzionari pubblici e dirigenti delle società costruttrici, indagati a vario titolo per corruzione, truffa aggravata, falso ideologico in atto pubblico. Per molti di loro il processo è però finito ancora prima di iniziare.

Al centro dell’inchiesta romana ci sono due episodi chiave nella storia di quest’opera. Il primo riguarda quello conosciuto come “accordo transattivo”, firmato il 6 settembre 2011 e ratificato dal Comune di Roma il 7 novembre 2012. L’atto fu stipulato dai dirigenti del ministero Infrastrutture e Trasporti – che finanziava l’opera al 70% – i vertici del Campidoglio e della municipalizzata Roma Metropolitane, e quelli dal consorzio delle società costruttrici, di cui sono capofila Astaldi e Vianini Lavori (Gruppo Caltagirone). Quell’atto doveva fare in modo che parte delle 45 varianti sul progetto originario, valutate quasi 1,4 miliardi, portassero al pagamento in sede civile di 230 milioni di euro in favore dei costruttori. Il problema è che quel credito per i giudici derivava da riserve “infondate e/o insussistenti”, iscritte a bilancio grazie alla compiacenza dei tecnici capitolini che non le avevano mai contestate. E la ratifica in Comune dell’accordo è costato il coinvolgimento anche per l’ex sindaco Gianni Alemanno, il suo assessore Antonello Aurigemma e l’allora alto dirigente del Mit, Ettore Incalza, accusati dai pm romani di truffa aggravata e falso materiale: il loro presunto reato, commesso fra il 2 e il 7 novembre 2012, è però andato prescritto, come quelli degli allora vertici di Roma Metropolitane e del Consorzio Metro C. L’altro episodio, i cui presunti reati che ne sono derivati non sono ancora prescritti, riguarda il cosiddetto “atto attuativo” sottoscritto il 9 settembre 2013. Un secondo accordo, direttamente collegato al primo. Vianini&C., infatti, pretendevano altri 90 milioni di euro rispetto ai 230 milioni già “sbloccati”. Il sindaco Ignazio Marino era appena arrivato in Campidoglio, i lavori si erano fermati e l’opera portava già con sé ritardi importanti. Fu il suo assessore Guido Improta a pretendere e ottenere la firma di questo nuovo accordo, secondo i pm romani, “non dovuto in quanto in parte frutto di un precedente accordo illecito”. Per gli inquirenti, in quella fase fu Incalza ad “attestare falsamente l’esistenza di un parere positivo rilasciato dall’Avvocatura generale dello Stato” in cambio, sempre secondo i pm, di “consulenze professionali per 747.264 euro” da parte dell’allora presidente del Consorzio, Franco Cristini. Questi reati, che per la Procura sono stati commessi fino al marzo 2015, si prescriveranno entro il mese di settembre del 2022, quindi fra poco più di un anno. Improbabile un processo lampo, considerando che fra la chiusura delle indagini (luglio 2018), e il rinvio a giudizio (giugno 2021), sono passati ben tre anni.

Ma cosa resta della Metro C oggi? La terza linea avrebbe dovuto tagliare in due la città, collegando la periferia est con la zona nord dove svetta lo stadio Olimpico, tagliando il centro storico. Le prime brochure diffuse dall’ex sindaco Walter Veltroni indicavano il 5 aprile 2011 come data del viaggio inaugurale a San Giovanni, stazione in realtà aperta solo nel 2018. Da qualche mese le talpe hanno concluso il viaggio fino a piazza Venezia, ma le stazioni centrali non apriranno prima del 2024. La frequenza dei convogli è di ben 9 minuti, che alla vigilia del Giubileo – dicono in Campidoglio – diventeranno “solo” 5. Non proprio una “scheggia”, come si dice a Roma

Le Ong fanno causa all’Italia: “Non rispetta gli accordi sul Clima”. Poi toccherà all’Eni

“Chiederemo al giudice di ordinare allo Stato di abbattere i livelli di emissione dei gas serra affinché siano compatibili con il raggiungimento dei target fissati dall’Accordo di Parigi. L’attuale obiettivo dello Stato italiano, con le misure previste ma non ancora implementate, è di tagliare entro il 2030 le emissioni del 36% rispetto ai livelli del 1990. È inadeguato, dovrebbe essere migliorato di più del doppio”. Luca Saltalamacchia è l’avvocato che sta intentando la prima causa climatica contro lo Stato italiano. Spera in un remake di quanto avvenuto in Olanda, dove l’ong Urgenda ha ottenuto in tutti i gradi di giudizio la condanna dello Stato olandese a ridurre le emissioni del 25% entro il 2020 rispetto al 1990 (5% in più di quanto programmato dal governo de L’Aia). “L’atto di citazione sarà iscritto a ruolo nei prossimi giorni al Tribunale civile di Roma”, annuncia a Fatto Saltalamacchia, che rappresenta un gruppo di 24 associazioni e 179 persone.

“Gli impatti del cambiamento climatico minacciano il godimento di diritti umani fondamentali come quello alla vita, alla salute, all’ambiente salubre. Lo Stato ne è consapevole, ma non fa abbastanza per contenere l’incremento delle temperature. Il nostro sarà un giudizio basato sui diritti fondamentali, come riconosciuto dalla nostra Costituzione e dalla Corte europea dei diritti umani. L’Accordo di Parigi – spiega l’avvocato – impone agli Stati di tagliare le emissioni per contenere l’incremento delle temperature, ma non specifica in concreto quali misure gli Stati debbano adottare. Queste ultime vengono individuate innanzitutto dall’Ipcc. Gli scienziati hanno individuato i percorsi di riduzione delle emissioni in linea con l’Accordo di Parigi. Lo Stato italiano se ne discosta allegramente”, dice, “continua ad approvare delle opere che hanno un impatto climatico mostruoso, come Tav e Tap, e non sa nemmeno quale quantità di gas serra è necessaria per ultimarli”.

Oltre alle cause climatiche contro gli Stati, ci sono anche quelle contro le aziende private. Shell è stata appena condannata in primo grado in Olanda a ridurre entro il 2030 le emissioni di gas serra del 45% rispetto ai livelli del 2019. Per gli stessi motivi Eni potrebbe essere chiamata in causa in Italia? “Eni sarà presto chiamata in giudizio”, annuncia Saltalamacchia. Secondo l’avvocato, il colosso italiano “ha presentato un piano industriale basato su dati che sono facilmente manipolabili, come ad esempio il peso che hanno i progetti di compensazione, o che sono contraddittori, come ad esempio il fatto che si sposta a dopo il 2030 gran parte delle riduzioni. L’Accordo di Parigi va in direzione opposta: i tagli devono essere effettivi e avvenire il prima possibile”.

Il Copasir riparte: si può eleggere il nuovo presidente

Nei prossimi giorni potrebbe sbloccarsi lo stallo sul Copasir, il comitato parlamentare che esercita il controllo sui Servizi Segreti fermo da due settimane dopo le dimissioni del presidente leghista Raffaele Volpi dato che, per legge, la presidenza spetta all’opposizione, cioè a Fratelli d’Italia. Ieri i presidenti di Camera e Senato Roberto Fico e Maria Elisabetta Alberti Casellati hanno inviato una lettera di risposta ai due capigruppo della Lega Riccardo Molinari e Massimiliano Romeo che il 27 maggio scorso avevano fatto sapere che avrebbero indicato i sostituti dei componenti dimissionari Volpi e Paolo Arrigoni “solo dopo le dimissioni di tutti i membri”. Ma ieri Fico e Casellati hanno risposto che non è questa la soluzione e che “diversamente dalle dimissioni dalla carica di Presidente, le dimissioni da componenti del Copasir, quando non seguite dall’indicazione dei sostituti, sono prive di efficacia”. Inoltre, nella lettera inviata alla Lega, i presidenti delle Camere hanno sbloccato la situazione spiegando che adesso il vicepresidente può convocare il seggio elettorale per far eleggere il nuovo presidente. La convocazione potrebbe arrivare già a inizio settimana.

Adesso però si pone un problema politico perché il candidato di Fd’I per la poltrona più alta di San Macuto è il vicepresidente Adolfo Urso che però non piace nè alla Lega (“non voteremo amici dell’Iran” ha detto Matteo Salvini) nè ad altri componenti del Copasir: per essere eletto Urso dovrebbe ottenere 6 voti su 10 a scrutinio segreto. E in caso di mancata elezione, resterebbe lo stallo. Teoricamente Urso potrebbe essere eletto anche senza i voti della Lega ma sarebbe una spaccatura profonda nel centrodestra. È per questo che il nodo sarà sciolto solo con un accordo politico tra le forze del centrodestra: martedì Salvini e Giorgia Meloni si rivedranno per chiudere l’accordo sulle città e potrebbero risolvere anche la questione Copasir.

Il fiume Sarno collassa: analisi e accuse del Noe

Il fiume Sarno è una discarica a cielo aperto. A testimoniarlo sono le numerose inchieste dei carabinieri del Noe, agli ordini del Ten. Col. Marco Ballerini. I controlli hanno comportato l’apertura di numerosi procedimenti penali per i quali sono state delegate ulteriori indagini e interrogatori di garanzia, il tutto terminato con l’emissione dei relativi rinvii a giudizio dei responsabili delle condotte illecite segnalate. La presenza dell’Arma sul territorio ha comportato la diminuzione del fenomeno degli scarichi illeciti nei corpi idrici superficiali, mentre i controlli eseguiti presso le aziende hanno comportato la consapevolezza di dover sanare le mancanze riscontrate. Ma i problemi restano. Nelle giornate del 5 e 6 maggio 2021 è stata effettuata la valutazione dello stato qualitativo chimico e biologico delle aste fluviali del fiume e dei suoi principali affluenti. Dalle prime analisi è emersa la presenza di un alto carico inquinante riconducibile a reflui domestici, per quanto concerne i principali parametri descrittori di un inquinamento di tipo industriale sono risultati tutti al di sotto dei limiti sanciti dal dm 260/2010 e in particolare i valori degli idrocarburi policiclici aromatici sono risultati tutti inferiori al limite di rilevabilità strumentale. I valori di Cadmio, Zinco, Mercurio, Rame, Tallio, Antimonio, Stagno, Vanadio, Selenio, Cobalto e Tellurio sono tutti al di sotto del limite di rilevabilità strumentale. I valori di Bario, Boro, Nickel, Piombo, Ferro presentano concentrazioni poco significative in tutte le stazioni monitorate. Le attività condotte con i Nuclei Operativi Ecologici di Napoli e Salerno hanno consentito di indagare circa 37 km di corsi d’acqua e canali secondari, su cui è stata verificata la presenza di circa 134 immissioni o altre criticità ambientali di natura antropica. C’è ancora tanto lavoro da fare.

Sudtirol, assolto il giornalista che denunciò l’abuso di pesticidi nella coltivazione di mele

“Das Wunder von Mals” (“Il miracolo di Malles”), il libro che ha denunciato l’abuso di pesticidi nella coltivazione delle mele in Alto Adige, è stato assolto dall’accusa di diffamazione aggravata. Il suo autore, l’austriaco Alexander Schiebel, era imputato a Bolzano per le querele presentate da 1.367 coltivatori e dall’assessore provinciale all’agricoltura Arnold Schuler. Si erano ritenuti lesi nell’onore a causa dell’uso dell’appellativo “assassini” legato all’attività di produzione. Ne è scaturito un processo-simbolo concluso dalla sentenza del giudice Ivan Perathoner, che ha sancito il diritto di critica contenuto nel libro. A settembre 2020 l’assessore Schuler aveva anticipato l’intenzione di ritirare le querele, ma solo lui e due rappresentanti di cooperative lo hanno fatto. Prosegue invece il processo che vede accusato di diffamazione e abuso del marchio dei coltivatori dell’Alto Adige (a fini satirici) Karl Bär, referente per le politiche agricole dell’Umwletinstitut München, l’Istituto tedesco che nel 2017 ha realizzato una campagna di sensibilizzazione sul tema.