Q5 Sportback, il suv solo elettrificato

È disponibile nelle concessionarie da questo mese a un prezzo di partenza di 54.250 euro. Parliamo della nuova Audi Q5 Sportback, che si ispira a una delle pietre miliari del design dei quattro anelli: la Sportback concept del 2009, che a sua volta era contaminata dalle fastback degli anni 60.

Un ponte col passato per proiettarsi nel futuro, raccogliendo le nuove tendenze che vedono i suv sempre più ibridi e coupé.

Audi Q5 Sportback mantiene il dna delle Q, fatto di versatilità, tecnologia e sicurezza, unendovi un tocco di dinamismo. Sarà solo elettrificata, con il mild hybrid da 12 o 48 volt oppure ibrida plug-in e disponibile in quattro allestimenti: Q5 Sportback, Business Advanced, S line e S line plus.

Tra i modelli Q, la “sorella” suv della Sportback è quello più venduto al mondo e in Italia ci si aspetta che dalla coupé possa arrivare il 55% delle vendite, di cui il 20% plug-in.

Numeri importanti, come quelli dell’auto stessa. Larga 1,84 m e con un passo di 2,82 m, arriva a una lunghezza di 4,69 m. La maggiore sportività traspare già nel design esterno, con il frontale dove spiccano l’ampio single frame ottagonale, le prese d’aria laterali trapezoidali, la linea di cintura ascendente e il tetto spiovente.

Anche lo spoiler posteriore e l’estrattore dedicato aumentano la percezione di muscolosità.

È disponibile con trazione anteriore o integrale quattro nelle configurazioni con differenziale centrale autobloccante o con tecnologia ultra, che attiva la ripartizione della coppia al retrotreno solo quando necessario. Nella gamma ci sono motori a 4 o a 6 cilindri e trasmissione a doppia frizione S tronic a 7 rapporti o tiptronic a 8 rapporti, e da subito Audi Q5 Sportback è disponibile nelle versioni plug-in 2.0 (50) TFSI e quattro S tronic da 299 cv e 2.0 (55) TFSI e quattro S tronic da 367 Cv, nella variante mild hybrid a benzina 2.0 (45) TFSI quattro S tronic 265 Cv oppure diesel nelle configurazioni 2.0 (35) TDI S tronic 163 Cv, 2.0 (40) TDI quattro S tronic da 204 Cv e 3.0 (50) TDI quattro tiptronic 286 Cv cui si affianca la variante sportiva SQ5 Sportbkc TDI da 341 cavalli.

Le (nuove) auto sono rimaste in “panne”: non hanno più chip

La più ridicola delle contraddizioni in termini è informatica. I microprocessori fanno calcoli, ma nessuno è riuscito negli ultimi 18 mesi a calcolare quanti ne servissero. La produzione mondiale non soddisfa minimamente la domanda, i chip si sono trasformati da bandiera delle nanotecnologie a palcoscenico di una tecnoparodia. I pochi produttori del pianeta hanno mancato in modo grossolano le valutazioni sulla domanda crescente nei settori dell’elettronica di consumo e della telefonia. La pandemia ha innescato l’abitudine del lavoro domestico, con la necessità di ulteriori nuovi acquisti hi-tech, e il colpo finale è arrivato dall’esplosione della domotica, una prateria per i marchi di elettrodomestici, che hanno digitalizzato lampadine, frigoriferi, aspirapolveri e macchine del caffè. Il risultato è stato uno tsunami di mancate consegne che progressivamente ha colpito tutti i settori, centrando in pieno il bersaglio grosso dell’auto. Ogni vettura richiede fino a 150 chip diversi da utilizzare per tutti i sistemi essenziali, e la loro mancanza ormai cronica sulle catene di montaggio, secondo le analisi raccolte dall’agenzia Bloomberg, ha portato solo nel primo trimestre 2021 a ben 61 miliardi di dollari di mancate vendite. Secondo le valutazioni degli esperti di AutoForecast, sono finora 2,07 milioni i veicoli “non ultimati” a causa della crisi dei chip, con un totale 2021 che può superare agilmente i tre milioni. Inutile fare nomi, con un lungo elenco di case automobilistiche in continuo aggiornamento e aggravamento, dal blocco della singola linea di assemblaggio di un modello alla progressiva chiusura di interi stabilimenti nei diversi continenti. Il settore dedica all’acquisto di componentistica elettronica 40 miliardi di dollari l’anno, cioè un decimo delle commesse di chip annuali e dunque non può fare la voce grossa con i responsabili di una situazione piuttosto intricata. Solo 21 grandi aziende al mondo si occupano di microprocessori, di cui 12 negli States, 4 in Europa e 5 in Asia, e tra queste ultime rintracciamo le uniche tre che non si limitano a progettare chip, ma li producono realmente anche in scala globale. In rigoroso ordine di grandezza, la taiwanese Tsmc, la coreana Samsung e la cinese Smic. Per gli esperti della società di analisi Counterpoint, il rapporto tra investimenti e fatturato per queste aziende è sceso fino al 18% nel periodo 2015-2019, cioè a livelli addirittura inferiori a quelli visti nel 2010. Chi ha puntato ai profitti ha strozzato la crescita nel momento in cui chiedeva aria. Ora Tsmc ha stanziato 30 miliardi di dollari, Samsung 28, l’americana Intel 20. Sono ignoti i tempi di recupero sulle ormai 25 settimane di ritardo nelle consegne. E l’auto non è in testa alla fila.

Cannes, solo Moretti in gara. Non ci resta che Nanni

Cannes 74, due notizie. Prima la buona, anche se notizia invero non è: Tre piani di Nanni Moretti è in concorso. Poi la cattiva: Tre piani di Nanni Moretti è l’unico film italiano in cartellone. L’edizione del 2020 per cui il primo adattamento nella carriera di Moretti era stato originariamente selezionato non si è tenuta causa Covid, che in due anni il cinema italiano non abbia prodotto null’altro di apprezzabile, almeno dal delegato generale Thierry Fremaux e dai suoi collaboratori, pesa come un macigno sulle sorti magnifiche e progressive del comparto. Eccezion fatta per Nanni, i piani tricolori sono andati storti: non troviamo residenza negli ulteriori 60 (sessanta!) titoli annunciati dalla manifestazione francese. Uno smacco, a voler essere buoni. Che non verrà cancellato, al massimo lenito, dalle probabili aggiunte nella selezione ufficiale – si fa il nome di Marx può aspettare, il documentario che Marco Bellocchio ha dedicato al fratello gemello Camillo, morto suicida a 29 anni nel 1968 – e alle promesse inclusioni nelle sezioni parallele, da Piccolo corpo dell’esordiente Laura Samani alla 60. Semaine de la Critique al collettivo Futura di Pietro Marcello, Alice Rohrwacher e Francesco Munzi e A Chiara di Jonas Carpignano alla 53. Quinzaine des Réalisateurs.

Insomma, a dar retta alle indicazioni di Cannes, abbiamo un enorme, letterale problema di visibilità: non riusciamo a farci vedere, ovvero non ci vedono, a livello internazionale. Sicché il portabandiera rimane il caro vecchio Moretti, che torna per l’ottava volta da regista sulla Croisette, a vent’anni esatti dalla Palma d’Oro a La stanza del figlio, l’ultima alzata dall’Italia. Un gongolante Fremaux l’ha ringraziato “per essere stato paziente, un ossimoro per Nanni”. Tratto dal romanzo dell’israeliano Eshkol Nevo, nel cast con il regista Margherita Buy, Riccardo Scamarcio, Alba Rohrwacher, Adriano Giannini e Elena Lietti, Tre piani arriverà nelle nostre sale il 23 settembre. Per la Palma competerà con altri ventitré film. Otto, con insana dose di sciovinismo, quelli diretti da francesi: tra gli altri, il musical (in presa diretta) di Leos Carax, Annette, che aprirà il festival il 6 luglio, Paris 13th District di Jacques Audiard, Tout s’est bien passé di François Ozon, France di Bruno Dumont. Quattro – pochini per l’auspicata parità di genere – diretti da donne, quali Bergman Island di Mia Hansen-Love e The Story of My Wife di Ildikó Enyedi, con Jasmine Trinca e Sergio Rubini. Tre da americani: l’atteso The French Dispatch, decimo lungometraggio di Wes Anderson, con cast all star (Benicio del Toro, Tilda Swinton, Timothée Chalamet, Bill Murray); l’indie Red Rocket di Sean Baker; Flag Day, il ritorno di Sean Penn dopo i fischi a The Last Face nel 2016. In Concorso anche l’iraniano due volte premio Oscar Asghar Farhadi con A Hero e Paul Verhoeven con la monaca lesbica di Benedetta, chissà che il presidente di giuria Spike Lee – è il timore di molti, anche alle nostre latitudini… – non issi la bandiera del Black Power e dunque guardi con particolare favore al chadiano Haroun (Lingui) o al thailandese già vincitore nel 2010 Weerasethakul (Memoria). Archiviata – si spera – la minaccia terroristica che ha interessato le passate edizioni, la sfida extra-cinematografica di Cannes 74 riguarda le misure sanitarie anti-Coronavirus: i partecipanti non completamente vaccinati dovranno sottoporsi a tampone ogni 48 ore, i baci sulla Montée des Marches saranno vietati, ma il coprifuoco e le sale a ridotta capienza dovrebbero essere abrogati di qui a luglio. Del resto, la grandeur festivaliera esce dal Covid rafforzata, la supremazia globale della Croisette non pare in discussione, ammesso lo sia mai stata: Fremaux si concede il lusso di mettere fuori concorso Todd Haynes con il rockumentary The Velvet Underground e Stillwater di Tom McCarthy, e addirittura s’inventa la neonata Cannes Premiere, non fosse che per levare altri titoli di rilievo alla Mostra di Venezia, da JFK Revisited di Oliver Stone a Jane par Charlotte, che la debuttante regista Gainsbourg ritaglia sulla madre Birkin, da Cow di Andrea Arnold a Deception di Arnaud Desplechin, tratto da Philip Roth.

Tanta roba, tantissima, per affermare che “il cinema non è morto, il trionfale ritorno degli spettatori in sala (in Francia, da noi si fatica, ndr) è la prima buona nuova, la seconda – rivendica Fremaux – è il festival”. Per fortuna, Cannes e Netflix non hanno trovato un accordo – la manifestazione prescrive l’uscita in sala per film in competizione, sicché lo sfruttamento online ne risulterebbe largamente dilazionato – neanche quest’anno, altrimenti l’ingordigia dei cugini non lascerebbe che briciole ai concorrenti, in primis Venezia. Viceversa, la piattaforma streaming in settembre licenzierà al Lido un tot di proposte, a partire da È stata la mano di Dio di Paolo Sorrentino.

 

“Qui a Giaffa parlano ‘arabebraico’: le città miste sono il futuro”

Se a Giaffa un viaggiatore distratto scende dall’autobus alla fermata sbagliata e chiede a un passante come arrivare in via Rabbino di Peshischa nessuno di certo gli sa indicare la strada. I nomi delle strade a Giaffa sono un bel problema. Via “Shivtei Israel” (tribù di Israele)”, o Via Naji al-ali, in nome di un artista visuale palestinese? Dipende a chi lo chiedi.

Eppure è la stessa strada. Yafo in ebreo, o Yafa in arabo, uno dei porti più antichi del mondo, è la città gemella di Tel Aviv con cui condivide il sindaco, ma non si assomigliano affatto. Solo due settimane fa era al centro di una crisi di drammatica violenza. Di vera e propria guerriglia urbana. Spazzata e ripulita, di quei giorni non è rimasta traccia.

La nostra prima tappa nel groviglio di identità che la popola è da una famiglia di ebrei laici e di sinistra che vivono di fronte a una popolare caffeomante araba, cioè una lettrice dei fondi di caffè, una non meno famosa attrice araba, e una famiglia di arabi cristiani. “Siamo venuti qui alla ricerca di una vita più autentica di quella della metropoli, e subito Giaffa ci è entrata nel cuore con i suoi giardini nascosti, la sua architettura orientale e il mosaico creato dai suoi abitanti: arabi musulmani e arabi cristiani, cattolici, armeni, protestanti accanto a ebrei liberali, religiosi, di destra e di sinistra, ashkenaziti e sefarditi”, afferma la padrona di casa. “Quando quindici giorni fa ho visto dei ragazzi che bruciavano una ‘rana’, cioè un recipiente verde che contiene la spazzatura, ho preso una gran paura. Non me lo sarei mai immaginata.” Anche Marta, ebrea di origine marocchina, in affitto in una palazzina di proprietà araba, ricorda lo sgomento e la sorpresa quando si trovò di fronte quella folla inferocita “ma secondo me quei ragazzi erano parte della delinquenza locale. Non ragazzi ‘normali’”.

“Non sono affatto d’accordo. I ragazzi che hanno dimostrato sono giovani normalissimi che non hanno orizzonte, non hanno lavoro, futuro, non riescono a guadagnare abbastanza per potersi sognare una casa a Giaffa adesso che è diventata così di moda” commenta il proprietario di una famosa humusia cioè di una sorta di trattoria specializzata in humus.

“La mia famiglia non si è mossa da qui quando è nato lo Stato di Israele. Come tutti gli arabi israeliani ho carta d’identità israeliana e passaporto israeliano. Voto come ogni israeliano. In teoria ho gli identici diritti di ogni altro israeliano, ma nella realtà non è proprio così. Speriamo di arrivarci. E già che ci siamo anche di risolvere i problemi dei nostri fratelli di Gaza e della Cisgiordania”.

“Io chiedo solo di poter lavorare e vendere il mio pesce fresco”, commenta un pescivendolo di Rehov Yeffet. “Ho dovuto chiudere per una settimana. Non c’è nulla di più triste che un pesce che invecchia e muore dentro al frigo”.

“O un ristorante vuoto”, commenta il ristoratore. Suha, il capo coperto dall’hijab, madre di tre figli: “Ho avuto una grandissima paura quando ci sono stati le agitazioni. Non volevo che i miei figli uscissero di casa. C’è una grande frustrazione, una grande rabbia. C’è ancora molto fuoco sotto la cenere, ci sono problemi da affrontare, domande a cui dobbiamo trovare risposta”. Hidaya, impiegata, madre di due figli: “Da parte mia è importante, come araba, anche crescere e maturare nella mia identità di donna, madre, moglie” commenta. Lana, studentessa: “Mia madre è nata a Gaza. Una prozia viveva nel palazzo di Gaza in cui c’erano le agenzie di stampa. Quando il palazzo è stato bombardato è rimasta solo con gli abiti che aveva addosso. Certo che ne abbiamo sofferto. Ma io vivo qui. Un mio cugino è stato arrestato qui, e rilasciato qui due giorni dopo. I miei problemi e la mia vita sono qui. Non riesco neppure a immaginarmi di poter vivere altrove. O in un paese dove tutti sono arabi. C’è una grande ricchezza nel vivere insieme, religioni e identità diverse”. “Questa ricchezza se non sfruttata può essere anche un grande problema afferma Ishai, attivista sociale (ebreo di Giaffa) le cui figlie studiano in una scuola mista. “I giovani di Giaffa parlano un arabo intercalato di parole in ebraico, una specie di arabebraico, e quando si trovano a fare il test psicometrico per entrare all’università non sanno abbastanza ebraico o abbastanza arabo da poterlo superare. Sono nel mondo di mezzo. Il nodo del miglioramento è tutto lì. Nella scuola. Nei giovani”.

Il suo cauto ottimismo è giustificato. Negli ultimi sei anni il numero di laureati arabi nella Sanità è aumentato del 36%, nell’Istruzione del 29% e nella libera professione del 56%. Contemporaneamente proprio in queste ore, in Israele si sta formando un nuovo governo di coalizione di cui farà parte per la prima volta nella storia di Israele, un arabo israeliano.

Pragmatico e coraggioso, Mansour Abbas del movimento islamico è il fautore di un cambiamento storico in questo momento così complesso nella storia dello Stato. Per la prima volta un politico arabo che non si occuperà principalmente di Gaza e Cisgiordania, ma dei problemi dei suoi concittadini arabi. “Era ora” commenta Suha.

I canti degregoriani al Colle. Ora “Generale” per Figliuolo

Solenni canti degregoriani per il Due Giugno. La Repubblica festeggia 75 anni, il nemico della pandemia è (quasi) scappato, vinto, battuto e così persino il frugale e canuto capo dello Stato cede al citazionismo pop delle canzoni. “La storia siamo noi, nessuno si senta escluso”. Francesco De Gregori, ovviamente. Che l’altro giorno, nel cortile d’onore del Quirinale, sarebbe stato la colonna sonora perfetta anche per la vera stella della serata, richiestissima per i selfie: il generale Francesco Paolo Figliuolo, ché dietro la collina adesso c’è la notte del virus cinese e assassino e in mezzo al prato c’è un hub per inoculare vaccini. Ma il personale paramedico femminile è sempre lo stesso: “Torneremo ancora a cantare/ E a farci fare l’amore/ L’amore dalle infermiere”.

Che notte di note repubblicane sul Colle più alto di tutti. Un epilogo insonne avrebbe fatto intonare ai presenti pure Ligabue. Al cospetto del Migliore diventato premier: “Ci vediamo da Mario prima o poi”. Tanto, tutte le strade dei competenti portano a Draghi, icona di una nuova fede laica e mariana.

Il primo leader di partito a introdurre il canto degregoriano in politica fu Bettino Craxi. Viva l’Italia aprì il congresso socialista del 1981 e venne usata poi per il famoso spot sull’ottimismo della volontà. “Viva l’Italia/ L’Italia liberata,/ L’Italia con gli occhi asciutti nella notte scura,/ Viva l’Italia,/ l’Italia che non ha paura,/ L’Italia con gli occhi aperti nella notte triste,/ Viva l’Italia,/ L’Italia che resiste”. Ci sono sempre le notti nei versi del cantautore romano riprese dal Palazzo. Le strofe citate sopra di Viva l’Italia sono le stesse che Giuseppe Conte digitò su Twitter l’anno scorso per i 75 anni della Liberazione.

De Gregori, suo malgrado, è stato sfruttato pure dal renzismo declinante di Italia Viva. Era la Leopolda del 2019 e ogni sessione si apriva e si chiudeva con la struggente Siamo quelli che restano, cantata insieme con Elisa. Chi scrive era lì e ascoltare questa canzone nel tempio fiorentino di Renzi e i suoi, da Boschi e Bonifazi in giù, dava forma a una sensazione grottesca e stridente. Una bellezza fuori posto.

Il quale De Gregori, a dirla tutta, ha sempre mazziato la politica nei suoi testi. Il medesimo Craxi venne fustigato come Nerone nella Ballata dell’Uomo Ragno, anno 1992: “È solo il capobanda ma sembra un faraone/ Ha gli occhi dello schiavo e lo sguardo del padrone/ Si atteggia a Mitterrand ma è peggio di Nerone”. Certo, poi il cantautore ha rivisto il suo giudizio sul capo del Psi ma le canzoni restano. Finanche il moderato Veltroni finì dentro un’invettiva degregoriana: “Chiudi gli occhi e vai in Africa, Celestino!”. Il Walter maanchista e mancato africano come Celestino, il papa del gran rifiuto.

A sinistra, l’unico momento che la vittoria (1996) ha avuto ritmo è stato nell’èra prodiana dell’Ulivo: la Canzone popolare di Ivano Fossati. Al contrario, al citato Veltroni non andò bene nel 2008 con Mi fido di te di Jovanotti. Un testo dove ci si stende sul burrone per guardare giù. E dire che il cantante aveva avvisato l’allora leader del Pd: “Questa è una canzone che parla di perdita, non è adatta”. Appunto.

Il problema è che sovente ci s’innamora delle frasi estrapolate come slogan. Ma l’apice della tristezza dell’italica gauche ebbe la sua epifania al congresso di scioglimento dei Ds, a Firenze nel 2007: sul palco un Fassino lacrimante e per l’aere Rino Gaetano con Ma il cielo è sempre più blu. Questa maldestra intuizione di accostare Rino buonanima alle metamorfosi partitiche fu riproposta da Matteo Salvini in piazza del Popolo a Roma, nel 2018, per una Lega blu e non più verde. Insomma, il senso tra politica e canzone può essere sconnesso ed è per questo che genialmente Pier Luigi Bersani scelse nel 2009 Un senso di Vasco Rossi per la campagna vincente a segretario del Pd. Ma quattro anni dopo le Politiche non gli buttarono bene con Inno di Gianna Nannini. “Mi ricordo di te tu sorridi e mi dici ciao”. E fu un ciao per sempre. Gli unici a non cedere alla tentazione di appropriarsi di brani editi sono stati i grillini, of course. E fu così che Fedez scrisse per il M5S Non sono partito: “Dalla marcia su Roma fino al marcio su Roma c’è solo un MoVimento che va avanti all’infinito”. Meglio i canti degregoriani, possiamo dirlo?

Torre Annunziata, arrestato ex vicesindaco. E il nuovo, l’anticamorra Diana, si dimette

Ma quale “momento di debolezza” di un ingegnere caduto in tentazione perché sconvolto da una malattia in famiglia, come l’uomo provò a difendersi davanti al Gip dopo l’arresto in flagranza di reato. La mazzetta delle Feste di Natale a Torre Annunziata (Napoli), i diecimila euro in contanti trovati a fine dicembre addosso al capo dell’ufficio tecnico Nunzio Ariano, consegnati da un imprenditore assegnatario di un appalto di somma urgenza per adeguare le scuole alla normativa anti-Covid, erano il frutto di “un sistema di corruttela” che coinvolgeva “la politica”. Lo scrive a caratteri cubitali il giudice Antonio Fiorentino nelle 37 pagine di un’ordinanza di custodia cautelare chiesta dalla Procura di Torre Annunziata guidata da Nunzio Fragliasso.

Così ieri gli uomini della Finanza, agli ordini del colonnello Agostino Tortora, hanno eseguito l’arresto dell’ex vicesindaco Pd con delega ai Lavori Pubblici, Luigi Ammendola. Un loro collega, un maresciallo. Il complice, forse non l’unico, di Ariano. Fu chiaro subito che l’ingegnere non agiva da solo. Non era un caso che aveva diviso la mazzetta di 10mila euro in due buste da 5mila. Ammendola al momento dell’arresto di Ariano era vicesindaco in carica e fu fatto fuori dalla giunta pochi giorni dopo. Il sindaco Vincenzo Ascione la azzerò per imprimere una svolta di legalità e salvare un’amministrazione pericolante. Chiamando al suo posto un big dell’anticamorra campana, Lorenzo Diana, l’ex senatore uscito pulito da un’indagine per presunte collusioni con il clan dei Casalesi che lo aveva costretto a una lunga sosta ai box. Uno che le cose non le manda a dire e che in un webinar del 29 aprile con la segreteria dem di Napoli affermò che “il Pd doveva prendere le distanze da politici come Ammendola”. In serata Diana, dopo aver ricordato il ‘piano anticorruzione molto stringente’ da lui recentemente varato, si è dimesso: “Pezzi di burocrazia oppongono resistenza al cambiamento”, ha scritto al sindaco.

Ad incastrare Ammendola alcune registrazioni ambientali fatte di nascosto da un dipendente dell’Utc e la goffa autodifesa di Ariano nei primi interrogatori. Aveva negato e sminuito i suoi contatti telefonici con Ammendola nei momenti concitati dell’arresto. Ma su whatsapp, mentre era già in caserma, gli aveva scritto “mi hanno trovato lì”. Ovvero nel luogo – il lungomare di Rovigliano – dove Ariano aveva avuto l’appuntamento col costruttore per i soldi. Un riferimento chiaro per un correo, l’unico in grado di comprenderlo. Infatti Ammendola provò a richiamare subito una ventina di volte. Ma ormai il cellulare era spento.

Bruno Vespa si dà all’alberghiero: arriva “S. Chiara”

Che la “terza Camera” di Porta a Porta gli andasse stretta lo si era capito da quando aveva iniziato a produrre vino. Ma ora Bruno Vespa ha deciso di non perdersi la moda del momento e darsi anche al mondo della ristorazione e dell’accoglienza. Domenica sera infatti il noto giornalista Rai inaugurerà il suo ristorante “Santa Chiara” (40 coperti, cucina di pesce e vino ovviamente prodotto da lui, tra cui il “Donna Augusta 2019” dedicato alla moglie Augusta Iannini) con una cena nella sua masseria “Li Reni” a Manduria, nel cuore del Salento. Per l’occasione la cena sarà preparata dallo chef stellato Heinz Beck del ristorante romano “La Pergola”. Ma il vero evento sarà il giorno dopo, lunedì 7 giugno, quando alla corte del giornalista di Rai 1 arriverà mezzo governo e alcuni tra i più noti rappresentanti dell’industria italiana. Uno di quegli eventi dove più che i panel e gli interventi pubblici contano le relazioni.

L’occasione sarà il convegno “Innovazione e Turismo”, primo evento della rassegna “Forum in Masseria” organizzata proprio da Vespa e famiglia con il patrocinio della Regione Puglia. Sul palco, moderati ça va sans dire dal conduttore di Porta a Porta, si alterneranno i ministri di centrodestra Giancarlo Giorgetti, Massimo Garavaglia e Mara Carfagna che dialogheranno con il presidente di Confindustria Carlo Bonomi, l’Ad di Leonardo Alessandro Profumo, la presidente di Federturismo Marina Lalli, il country manager di Booking.com Alberto Yates e Bernardo Mattarella, figlio del Presidente della Repubblica Sergio e Ad di Mediocredito. Tra gli ospiti ci sarà anche il Presidente della Regione Puglia Michele Emiliano e la presidente del Cnr Maria Chiara Carrozza. Ma oltre all’innovazione tecnologica, ci sarà tempo anche per lo svago: l’evento si concluderà con una visita alla cantina e una degustazione dei vini di casa Vespa.

Energia, indagati i vertici Green Network “Trattenuti 166 milioni dalle bollette”

Centosessantasei milioni di euro di oneri di sistema € riscossi dai clienti e indebitamente non versati, con l’intento di salvare l’azienda dalle difficoltà finanziarie. Questa la contestazione mossa dalla Procura di Roma a Green Network, società fornitrice di luce e gas, attiva sul mercato libero delle utenze elettriche. I pm hanno chiesto e ottenuto tre misure interdittive dei vertici e il sequestro delle azioni. Le indagini sono partite dopo una segnalazione dell’Arera (l’Authority del settore). Secondo l’accusa, 166 milioni di euro sono stati distratti dall’incasso delle bollette da parte dei vertici di Green Network, omettendo il versamento al proprio fornitore che, avendo già anticipato l’importo agli enti pubblici competenti, è stato poi costretto a richiederne il rimborso alla Cassa per i servizi energetici e ambientali (Csea). Gli oneri di sistema, che valgono un quarto del totale delle bolletta, sono destinati a obiettivi collettivi e vengono pagati da tutti gli utenti per finanziare, ad esempio, la produzione di energia da fonti rinnovabili o il bonus sociale.

Irpinia, 1980: lettera a chi non c’era

Avevo vent’anni, abitavo nell’osteria di famiglia. Quella sera mi stavo lavando le mani nel bagno. Mia madre mi aveva appena messo sulla tavola un piatto di broccoli. Mentre la terra ancora tremava andai verso la casa dove abitava mio nonno. Ricordo più di tutto l’oscillare dei lampioni. E ricordo che lungo una piccola discesa un signore con due stampelle sembrava volare.

Finita la scossa mi avviai verso la piazza. Ancora non sapevo niente del disastro nei Paesi vicini, ma sentivo che era successa una cosa che mi avrebbe cambiato la vita. Ricordo che qualche mese dopo a Teora un uomo mi parlava commosso davanti alle rovine del suo paese e mi indicava il luogo dove era il bar, il sarto, il fruttivendolo. Io mi rimproveravo di non essere mai stato a Teora e di non poterla mai più vedere come era prima. Forse quel giorno è nata la mia passione di andare nei Paesi. Ogni volta è come andare a trovare un vecchio zio in ospedale. E mentre lo salutiamo a noi e a lui vengono le lacrime agli occhi. Ogni volta può essere l’ultima volta che ci vediamo.

Arrivai con un mio amico a Sant’Angelo dei Lombardi verso le dieci di sera e per la prima volta nella mia vita vidi dei cadaveri. Erano stesi su un marciapiede, pancia a terra, non erano coperti da un lenzuolo, ma dalla polvere. C’erano persone che scavavano in cima alle case cadute. Si scavava dove si sentiva una voce. E c’era chi scavava anche dove non si sentiva niente. (…)

Al telegiornale delle venti si fa cenno a una scossa di terremoto, ma non si capisce la zona di provenienza e l’entità. Un’ora dopo si parla della Basilicata, il primo paese che viene nominato è Balvano. Qui è caduta una chiesa e sono morte tante persone. A quell’ora dall’Irpinia scena muta. A quel tempo c’era la Sip e le sue linee sono fuori uso. Ovviamente è andata via la luce. Il cuore del terremoto è un buco nero.

Il lunedì mattina l’elicottero mostra le rovine. È come se interi paesi fossero stati schiacciati dal dito di un gigante. Il terremoto ha colpito un pezzo d’Italia che era conosciuto solo da chi lo abitava. Nessuno a Roma e a Milano aveva mai sentito parlare di Santomenna, Laviano, Castelnuovo di Conza. Eccoli i paesi, ognuno con la sua forma: uno era una nave ferma da secoli sulla collina, un altro era ignaro di essere nel cuore della crepa.

L’Italia trema, ogni tanto. E ogni volta sembra una sorpresa, un evento inaudito, un disastro accresciuto dalla nostra impreparazione. Da questo punto di vista il terremoto che colpì la provincia di Avellino e quelle vicine ne è l’emblema. Molte abitazioni non erano antisismiche. Non lo erano le case vecchie e non lo erano molte delle case nuove, fatte con un cemento disonesto, disarmato.

La terra cominciò a tremare quando mancavano sette secondi alle 19.35. In una stanza dell’Osservatorio di Monte Porzio Catone l’ago del sismografo accelerò il suo ritmo, ma non ci fu nessuno a dare l’allarme. La grande scossa durò novanta secondi e colpì un’area vasta quanto il Belgio. Alla fine ci furono duemilanovecentoquattordici morti, ottomila feriti, trecentomila sfollati.

Il boato è impressionante mentre Radio Alfa di Avellino manda in onda una musica popolare. Magnitudo di 6,9 della scala Richter, una forza enorme, pari a quella di quindici bombe atomiche, la forza accumulata nella frizione tra la placca africana e quella europea.

Noi guardiamo case, strade, lampioni, asfalto, ma dovremmo sempre fare attenzione a quello che c’è sotto. La ragnatela taciturna delle faglie all’improvviso lancia il suo urlo.

Il terremoto si sentì dalla Sicilia al Veneto, solo a Nord-Ovest non fu avvertito. L’Appennino e le Alpi sono la nostra oreficeria geologica, creazioni bizzarre, gioielli che percepiamo separati, ma che vengono da un’unica mano: i sassi della Sila hanno la stessa radice dei sassi del Monviso. L’Etna e il Vesuvio sono sillabe isolate della stessa lingua di fuoco che ci percorre nel profondo.

A volte viene una dolorosa nostalgia a rivedere le vecchie immagini dei paesi, come se si volesse riacciuffarla, quell’aria mitemente sgraziata, come se si volesse passeggiare nelle piazze con quella gente magra, ossuta. Erano vecchi già a sessant’anni, avevano gli acciacchi di chi non è mai partito o di chi è andato via senza volerlo. Alla fine di una strada buia c’era un silenzioso negozio di scarpe, il ronzio di un bar. L’odore dei mesi e delle ore esisteva ancora: sentivi l’uva, le mele, il freddo delle stanze lontane dal camino.

Il terremoto ha accentuato la mutazione già in corso tra il mondo rurale e la modernità incivile. Tornano alla mente storie di emigrazione, l’adiacenza tra la vecchia civiltà contadina e l’avvento della civiltà dei consumi, la fornacella e il cestino con la frutta di plastica sul tavolino, i ragazzi che andavano all’università e i muli che andavano in campagna. C’era il senso che le cose stavano insieme, come se il paese fosse tutto un unico quadro e tutti stessero dentro la stessa cornice. La guerra, il terremoto, l’emigrazione. (…)

La conta dei morti va sempre incrociata con quella dei vivi. A Laviano i morti furono trecento. Il paese era più noto a Bellinzona che in Italia. L’emigrazione aveva già portato via tante persone. La conta dei vivi fu di poco superiore a quella dei morti. E lo stesso si può dire per Conza della Campania. La gente di qui viveva in gran parte in Belgio. Morirono soprattutto bambini e anziani. Chi morì quella sera molto spesso era vestito di nero. (…)

Si è detto tante volte del ritardo con cui arrivarono i soccorsi. E quando arrivarono videro scene come queste: una donna stesa per terra davanti a una palazzina di cemento armato, i suoi piedi lambiscono una lunga crepa sull’asfalto; un cadavere poggiato su un pezzo di legno, sulle gambe due paia di occhiali e un pacchetto di sigarette; una donna seduta con una mano sulla fronte, dietro di lei le case cadute, una pentola, un bottiglione di vino; una macchina avanza tra le rovine con due bare sul portabagagli; un uomo porta un piccolo tavolo e uno specchio sulle spalle, lo specchio riflette le rovine di un palazzo; un uomo con in mano un crocifisso; una donna col tipico scialle che ancora si portava negli anni Ottanta e di cui ora non c’è più traccia.

Era un altro mondo, era ancora un mondo. Lo si capisce bene adesso, e quel 23 novembre 1980 è una data che sembra uno spartiacque, prima e dopo Cristo, prima e dopo il terremoto.

 

 

Friends, triste rimpatriata

Tra le varie iatture generate dalla Rete e dai cosiddetti social ci sono le rimpatriate. Per quanto uno tenti di far perdere le proprie tracce, arriva sempre il giorno in cui un compagno di classe, un caporale di giornata del centro reclute, la capogruppo di una lontana gita aziendale ti rintraccia. Ma questo è il meno. Quel compagno più solerte degli altri è riuscito a rintracciare l’intero gruppo, e ha già concepito come ricomporlo al completo decenni dopo. Le serate che ne conseguono sono quanto di più forzosamente allegro – dunque, intimamente triste – possa darsi nella vita, dove pure, dopo una certa età, la concorrenza è spietata. In quest’epoca estenuata, tessuta di sequel e remake, la rimpatriata si va affermando anche nello showbiz. La chiamano reunion, che fa rima con location, ma il senso è quello. Dai Pink Floyd ai Pooh, non c’è gruppo dal passato glorioso che non ci sia cascato, quindi per capire se si è arrivati al fondo del barile c’è una prova regina: non ci resta che la reunion.

Con Friends the Reunion, produzione HBO Max trasmessa da Sky Atlantic, la televisione ha fatto il suo ingresso nel magico mondo del reducismo a gettone. Un anno e mezzo di annunci (si vede che questi amiconi non vedevano l’ora di riabbracciarsi) ha partorito un c’era una volta a Manhattan a base di battute telefonate, cotillon postadolescenziali e ospiti d’onore (tutto è perduto fuorché l’ospite d’onore, notava Marcello Marchesi già mezzo secolo fa). Alla fine della fiera, la noia ha prevalso sulla tristezza, ed è già qualcosa. A differenza del cinema, la tv non è fatta per la nostalgia, invece di Sergio Leone al massimo arriva Carlo Conti con I migliori anni, senza contare che una ribollita del passato è sempre il modo più sicuro per riscattare il presente. Ma da queste reunion televisive anche lo spettatore ha il suo tornaconto: uno vede Jennifer Aniston e gli altri Friends lottare contro gli sbadigli ricordando i bei tempi andati, e capisce di averla scampata bella.