Avevo vent’anni, abitavo nell’osteria di famiglia. Quella sera mi stavo lavando le mani nel bagno. Mia madre mi aveva appena messo sulla tavola un piatto di broccoli. Mentre la terra ancora tremava andai verso la casa dove abitava mio nonno. Ricordo più di tutto l’oscillare dei lampioni. E ricordo che lungo una piccola discesa un signore con due stampelle sembrava volare.
Finita la scossa mi avviai verso la piazza. Ancora non sapevo niente del disastro nei Paesi vicini, ma sentivo che era successa una cosa che mi avrebbe cambiato la vita. Ricordo che qualche mese dopo a Teora un uomo mi parlava commosso davanti alle rovine del suo paese e mi indicava il luogo dove era il bar, il sarto, il fruttivendolo. Io mi rimproveravo di non essere mai stato a Teora e di non poterla mai più vedere come era prima. Forse quel giorno è nata la mia passione di andare nei Paesi. Ogni volta è come andare a trovare un vecchio zio in ospedale. E mentre lo salutiamo a noi e a lui vengono le lacrime agli occhi. Ogni volta può essere l’ultima volta che ci vediamo.
Arrivai con un mio amico a Sant’Angelo dei Lombardi verso le dieci di sera e per la prima volta nella mia vita vidi dei cadaveri. Erano stesi su un marciapiede, pancia a terra, non erano coperti da un lenzuolo, ma dalla polvere. C’erano persone che scavavano in cima alle case cadute. Si scavava dove si sentiva una voce. E c’era chi scavava anche dove non si sentiva niente. (…)
Al telegiornale delle venti si fa cenno a una scossa di terremoto, ma non si capisce la zona di provenienza e l’entità. Un’ora dopo si parla della Basilicata, il primo paese che viene nominato è Balvano. Qui è caduta una chiesa e sono morte tante persone. A quell’ora dall’Irpinia scena muta. A quel tempo c’era la Sip e le sue linee sono fuori uso. Ovviamente è andata via la luce. Il cuore del terremoto è un buco nero.
Il lunedì mattina l’elicottero mostra le rovine. È come se interi paesi fossero stati schiacciati dal dito di un gigante. Il terremoto ha colpito un pezzo d’Italia che era conosciuto solo da chi lo abitava. Nessuno a Roma e a Milano aveva mai sentito parlare di Santomenna, Laviano, Castelnuovo di Conza. Eccoli i paesi, ognuno con la sua forma: uno era una nave ferma da secoli sulla collina, un altro era ignaro di essere nel cuore della crepa.
L’Italia trema, ogni tanto. E ogni volta sembra una sorpresa, un evento inaudito, un disastro accresciuto dalla nostra impreparazione. Da questo punto di vista il terremoto che colpì la provincia di Avellino e quelle vicine ne è l’emblema. Molte abitazioni non erano antisismiche. Non lo erano le case vecchie e non lo erano molte delle case nuove, fatte con un cemento disonesto, disarmato.
La terra cominciò a tremare quando mancavano sette secondi alle 19.35. In una stanza dell’Osservatorio di Monte Porzio Catone l’ago del sismografo accelerò il suo ritmo, ma non ci fu nessuno a dare l’allarme. La grande scossa durò novanta secondi e colpì un’area vasta quanto il Belgio. Alla fine ci furono duemilanovecentoquattordici morti, ottomila feriti, trecentomila sfollati.
Il boato è impressionante mentre Radio Alfa di Avellino manda in onda una musica popolare. Magnitudo di 6,9 della scala Richter, una forza enorme, pari a quella di quindici bombe atomiche, la forza accumulata nella frizione tra la placca africana e quella europea.
Noi guardiamo case, strade, lampioni, asfalto, ma dovremmo sempre fare attenzione a quello che c’è sotto. La ragnatela taciturna delle faglie all’improvviso lancia il suo urlo.
Il terremoto si sentì dalla Sicilia al Veneto, solo a Nord-Ovest non fu avvertito. L’Appennino e le Alpi sono la nostra oreficeria geologica, creazioni bizzarre, gioielli che percepiamo separati, ma che vengono da un’unica mano: i sassi della Sila hanno la stessa radice dei sassi del Monviso. L’Etna e il Vesuvio sono sillabe isolate della stessa lingua di fuoco che ci percorre nel profondo.
A volte viene una dolorosa nostalgia a rivedere le vecchie immagini dei paesi, come se si volesse riacciuffarla, quell’aria mitemente sgraziata, come se si volesse passeggiare nelle piazze con quella gente magra, ossuta. Erano vecchi già a sessant’anni, avevano gli acciacchi di chi non è mai partito o di chi è andato via senza volerlo. Alla fine di una strada buia c’era un silenzioso negozio di scarpe, il ronzio di un bar. L’odore dei mesi e delle ore esisteva ancora: sentivi l’uva, le mele, il freddo delle stanze lontane dal camino.
Il terremoto ha accentuato la mutazione già in corso tra il mondo rurale e la modernità incivile. Tornano alla mente storie di emigrazione, l’adiacenza tra la vecchia civiltà contadina e l’avvento della civiltà dei consumi, la fornacella e il cestino con la frutta di plastica sul tavolino, i ragazzi che andavano all’università e i muli che andavano in campagna. C’era il senso che le cose stavano insieme, come se il paese fosse tutto un unico quadro e tutti stessero dentro la stessa cornice. La guerra, il terremoto, l’emigrazione. (…)
La conta dei morti va sempre incrociata con quella dei vivi. A Laviano i morti furono trecento. Il paese era più noto a Bellinzona che in Italia. L’emigrazione aveva già portato via tante persone. La conta dei vivi fu di poco superiore a quella dei morti. E lo stesso si può dire per Conza della Campania. La gente di qui viveva in gran parte in Belgio. Morirono soprattutto bambini e anziani. Chi morì quella sera molto spesso era vestito di nero. (…)
Si è detto tante volte del ritardo con cui arrivarono i soccorsi. E quando arrivarono videro scene come queste: una donna stesa per terra davanti a una palazzina di cemento armato, i suoi piedi lambiscono una lunga crepa sull’asfalto; un cadavere poggiato su un pezzo di legno, sulle gambe due paia di occhiali e un pacchetto di sigarette; una donna seduta con una mano sulla fronte, dietro di lei le case cadute, una pentola, un bottiglione di vino; una macchina avanza tra le rovine con due bare sul portabagagli; un uomo porta un piccolo tavolo e uno specchio sulle spalle, lo specchio riflette le rovine di un palazzo; un uomo con in mano un crocifisso; una donna col tipico scialle che ancora si portava negli anni Ottanta e di cui ora non c’è più traccia.
Era un altro mondo, era ancora un mondo. Lo si capisce bene adesso, e quel 23 novembre 1980 è una data che sembra uno spartiacque, prima e dopo Cristo, prima e dopo il terremoto.