Assassini non pentiti potranno uscire: che dice la Cartabia?

Ipocriti e demagoghi come sempre, quasi tutti i leader si stracciano le vesti e si lamentano perché il boss pluriassassino, Giovanni Brusca, è stato scarcerato dopo 25 anni di prigione. “Questa non è la giustizia che gli italiani si meritano”, dice Matteo Salvini. “L’idea che un personaggio del genere sia di nuovo in libertà è inaccettabile” gli fa eco Giorgia Meloni. “La sua uscita dal carcere fa venire i brividi. È impossibile credere che un criminale come lui possa meritare qualsiasi beneficio”, afferma Antonio Tajani. Mentre Virginia Raggi twitta: “È una vergogna, è un’ingiustizia per tutto il Paese”.

Il rosario degli interventi è lungo e comprende esponenti di ogni colore. Qualcuno, è vero, ricorda che Brusca è arrivato a fine pena perché, come ha stabilito una legge voluta proprio da Giovanni Falcone, ha goduto degli sconti sulle condanne riservati ai collaboratori di giustizia. Ma nel complesso ciò che giunge alle orecchie dell’opinione pubblica è solo il disgusto della classe politica per l’avvenuta scarcerazione.

I politici, insomma, fanno di tutto per dimostrare che la pensano come i loro elettori. I quali, però, a differenza degli eletti, hanno il pieno diritto di esprimere solo i propri sentimenti, senza preoccuparsi del bene comune. Chi fa politica, invece, ha doveri in più rispetto ai normali cittadini. In questo caso, il dovere del politico è quello di spiegare che Brusca è libero perché ha fatto scoprire centinaia di delitti e soprattutto ha fatto condannare o arrestare altre centinaia di assassini come lui, che senza le sue parole (e quelle dei suoi colleghi collaboratori di giustizia) sarebbero ancora liberi di sparare, uccidere, chiedere il pizzo, trafficare droga.

Ricordare che non esistono mafiosi disposti a pentirsi e fare i nomi dei loro complici senza averne un grosso vantaggio in cambio è il minimo sindacale richiesto a chi si fa eleggere in un paese in cui vaste aree sono ancora saldamente controllate dalla criminalità organizzata. E se non lo fa chi va a caccia di voti perché timoroso di non piacere ai suoi elettori, dovrebbe farlo almeno chi sta al governo. Dalla ministra della Giustizia, Marta Cartabia, invece, non arriva nemmeno una parola. Lei di mafia parla poco o non parla. E quando lo fa lascia la sgradevole sensazione di non essere contraria all’estensione dei benefici carcerari e di pena pure ad altri boss pluriomicidi che, però, a differenza di Brusca si rifiutano di accusare i loro complici. Nell’aprile del 2020, nella sua ultima relazione da presidente della Corte costituzionale, la neo ministra ha dedicato un’intera pagina del suo intervento a una sentenza della Consulta (definita “di particolare rilievo”) che ha dichiarato illegittimo il divieto di concedere permessi premio agli ergastolani condannati per mafia o terrorismo che non si fossero pentiti. A quella sentenza quest’anno ne è seguita un’altra. Che invita il Parlamento ad approvare entro 12 mesi una legge che stabilisca in quali casi un mafioso non pentito condannato all’ergastolo (per esempio i boss stragisti Bagarella, Santapaola e Graviano) possa accedere alla libertà vigilata dopo 26 anni di carcere. Bene, scarcerare dopo un quarto di secolo un pluriassassino che ha collaborato fa schifo. Mettere fuori chi non ha detto una parola fa un milione di volte schifo. Anche perché significa la resa dello Stato. Visto che sarà il ministero retto da Cartabia a doversi occupare della legge richiesta dalla Corte costituzionale, la ministra vuole dirci esplicitamente come pensa che vada scritta? Si attende cortese risposta.

 

Brusca potrebbe ancora far paura per ciò che ha svelato

Nelle ultime settimane si registra una singolare sintonia fra voci di diversa matrice, tutte insieme appassionatamente a sostenere all’unisono la tesi minimalista che riduce la stagione stragista del ’92/’93 a una parentesi sanguinaria della storia da attribuire solo alla mafia più efferata dei Riina, Brusca, Graviano, e compagnia.

Prima, il “pop mentale” di Maurizio Avola che – non si sa come – ha rammentato improvvisamente, a distanza di quasi un trentennio dalla sua collaborazione, di essere uno dei killer di Paolo Borsellino, avendo preparato l’autobomba e dato il segnale per farla saltare in aria. Rivelazione subito smentita dalle verifiche della Procura di Caltanissetta, e dal solo testimone oculare della strage, il poliziotto Antonio Vullo, unico sopravvissuto della scorta. Smentite che danno un sapore strano all’insistenza con la quale Avola ha rimarcato che nessuna “mano esterna” a Cosa Nostra ha partecipato alla strage.

Poco dopo, ecco il doppiopesismo mediatico, anch’esso anomalo, sulla mia audizione alla Commissione Regionale Siciliana Antimafia, con grande enfatizzazione delle mie dichiarazioni su una cosa arcinota, come l’interesse di Borsellino per la sorte del dossier “mafia-appalti” e le sue diffidenze verso alcuni magistrati della Procura di Palermo, e la totale censura delle mie rivelazioni, queste sì quasi inedite, sulla condotta del Procuratore di Caltanissetta dell’epoca, che da me apprese le informazioni in possesso di Borsellino sulle collusioni mafiose dell’alto funzionario dei Servizi, Bruno Contrada, e che, noncurante di quelle mie dichiarazioni, non solo non le verbalizzò, ma nel contempo incaricò di indagare sulla strage di via D’Amelio lo stesso Contrada insieme ad Arnaldo La Barbera, il quale – a libro paga dei Servizi – istruì a fini depistanti il falso pentito Vincenzo Scarantino.

Infine, negli ultimi giorni, si è sollevata una gran canea mediatica sulla scarcerazione di Giovanni Brusca, spietato assassino di Giovanni Falcone, del piccolo Giuseppe Di Matteo e di tanti altri, ma anche collaboratore che ha consentito di arrestare e condannare centinaia di mafiosi non meno pericolosi, così scongiurando delitti e stragi già programmate, e ha fornito preziose informazioni per smascherare le complicità dietro la infame “trattativa” Stato-mafia, essendo stato il primo a parlare del famoso “papello” di richieste che Totò Riina aveva fatto recapitare ad alti esponenti politico-istituzionali, il “prezzo” imposto da Cosa Nostra per sospendere la strategia stragista e siglare una tregua con lo Stato. Un armistizio che, secondo varie sentenze definitive e quella di primo grado del “processo trattativa”, venne siglato con la complicità di uomini di Stato, politici e vertici di Reparti Speciali investigativi. Un armistizio, però, grondante di sangue, perché, lungo il tortuoso percorso delle varie trattative che si snodarono in quegli anni, ha mietuto tante vittime innocenti.

Un articolo, molto documentato, uscito martedì su queste stesse colonne, di Giampiero Calapà, ha rimesso le cose al loro posto, svelando particolari inediti sulle nuove piste investigative che consentono di individuare “la mano dei Servizi” su stragi e indisturbate latitanze di capimafia.

Sicché, una domanda sorge legittima: ferma restando la più che comprensibile amarezza dei parenti delle vittime di Brusca, non è che la levata di scudi, di parte politica, contro di lui, non riservata neppure a certe scarcerazioni di mafiosi irriducibili, ha a che fare proprio col fatto che lo si vuole punire, più che per i delitti commessi, per ciò che ha dichiarato su versanti che devono restare indicibili e impuniti, specie alla vigilia della sentenza d’appello del processo Trattativa?

 

Ex Ilva, già il progetto annunciava il disastro

Quel “mostro” che è diventata l’acciaieria di Taranto ha una lunga storia preceduta dalle aspre polemiche fra quanti volevano che rimanesse la splendida area agricola ad agrumi e ulivi che era da anni e quanti ritenevano, anche al governo, indispensabile invece dotare anche il Sud di un grande polo siderurgico Iri, più moderno di Genova-Cornigliano, di Piombino o di Trieste.

Taranto era rimasta “la città dell’Arsenale”, che era stata sempre una realtà a se stante e, “irizzata”, era precipitata dai 13.000 addetti del 1945 ai 6.000 del 1960. Probabilmente si pensava, o ci si illudeva, che quella presenza avesse creato e consolidato una cultura industriale. E invece no, perché l’Arsenale e gli arsenalotti nella loro secolare vicenda storica erano rimasti in sostanza una realtà a parte e un travaso operaio nel nuovo stabilimento siderurgico era utopico soltanto ipotizzarlo.

La progettazione del nuovo stabilimento siderurgico fu affidata alla Tekne di Roberto Guiducci, sociologo e ingegnere, che per la parte urbanistica si avvalse di un grande del ramo: Giovanni Astengo che, col più anziano Luigi Piccinato e coi più giovani Giancarlo De Carlo ed Edoardo Detti, costituiva, insieme ad altri, la crème dell’urbanistica di sinistra. In realtà la Tekne si allineava all’idea del grande meridionalista Pasquale Saraceno secondo il quale bisognava creare tre aree fra loro connesse.

La Tekne scelse una località lontana 9 chilometri da Taranto, pressi il fiume Leto, ricco di alberi secolari che furono spiantati a migliaia, quindi abbastanza lontana, con una propria vena d’acqua autonoma. Ma l’ubicazione subito non piacque ai proprietari fondiari dei terreni fra quella localizzazione e Taranto e non fu difficilissimo convincere i sindaci del tempo, i primi anni Sessanta, tutti democristiani, della bontà della loro tesi. Persino un ufficiale sanitario, Alessandro Leccese, nei primi anni Sessanta, preconizzò, inascoltato, lo “sfacelo sanitario” di Taranto.

È così che la più moderna acciaieria italiana viene praticamente avvicinata in modo decisamente pericoloso alla città dell’Arsenale. Intanto essa non era più autonoma dal punto di vista dell’approvvigionamento di acqua dolce, ma doveva servirsi di quella interna. Inoltre seppelliva l’antica colonia romana di Neptunia e tendeva sempre più a saldarsi con quartieri di edilizia popolare, come Tamburi, inquinandoli sempre più pesantemente e diffondendo malattie respiratorie, polmonari, cancerogene, di ogni tipo. Insomma il “mostro” dà lavoro e però sparge in una vasta area malattie spesso incurabili o comunque gravemente invalidanti per intere famiglie, con anche danni gravissimi alla mitilicoltura (gli allevamenti di cozze, ndr), a lungo altrettanto taciuti.

L’Italsider, finché ne fu titolare, svolse anche una intensa attività culturale, alla quale mi occorse pure di partecipare sulla stampa italiana di quel periodo. Il turismo si allontanò parecchi chilometri da Taranto sia a Est verso l’Adriatico, sia a Ovest verso lo Jonio. Qui, con grande coraggio, la marchesa Di Giovinazzo aveva creato un Golf Hotel, il primo del Mezzogiorno, sotto la collina a strapiombo sulla quale sorge Castellaneta, il borgo natio del mitico Rodolfo Valentino. Attorno al Golf Hotel, tutto arredato con mobili antichi autentici, soltanto sobri bungalow collegati da strade rigorosamente sterrate, e guai se qualcuno si azzardava a schiacciare le innocue bisce d’acqua.

Lontano si scorgevano le fumate del maxi-stabilimento siderurgico contro il quale si levavano proteste sempre più violente, ma chi ci aveva ficcato là dentro il quartiere Tamburi? Mentre assieme a piani su piani di risanamento, si avvicendavano i proprietari privati di ogni tipo, fino agli indiani di Mittal, ora in fuga?

La disputa attuale è: possiamo restare in pratica un Paese senza acciaio, in balia delle mutevoli congiunture internazionali? Possiamo considerarlo un prodotto industriale da Paesi sottosviluppati?

Un particolare storico singolare: a Taranto fu di stanza come ufficiale d’artiglieria Pierre-Ambroise-François Choderlos de Laclos (nato nel 1741), a suo tempo giacobino, nato ad Amiens, autore delle più che celebri Liaisons dangereuses.

 

Le puzzette delle modelle, Fran Lebowitz snob e il papa eroe “bianco”

E per la serie “Lardo vescicato”, la posta della settimana.

Caro Daniele, è abbastanza difficile darti una qualifica: comico? Scrittore? Giornalista? Personaggio pubblico? Tu come vorresti essere ricordato? (Chiara Viale, Pesaro). Come il primo essere umano ad aver vinto il Nobel, l’Oscar e il Grande Slam prima di farsi ibernare a 65 anni in perfetta salute, per poi tornare alla vita attiva nel 4150 e sposare Miss Universo, poiché nel 4150 i progressi della scienza avranno allungato la vita fino a 250 anni, e un 65enne avrà la carica sessuale e la prestanza fisica di un adolescente. Mi piacerà raccontarti le mie sensazioni inebriate, quando accadrà. Ah no, scusa: per quella data tu sarai morta da un pezzo. Sarebbe come far assaggiare un budino a un cadavere. Una delle tue prime esperienze di lavoro è stata quella di tassista a Milano. Cosa hai imparato? (Renato Cirri, Milano). Che le scoregge delle top model profumano di Vetiver. Fran Lebowitz ha scritto che il suo ruolo è quello di accusare la gente che rende la vita insopportabile. Qual è il tuo ruolo? (Marco Lucia, Viterbo). Rendere la vita insopportabile alle snob sentenziose come Fran Lebowitz, che in Italia votano tutte Renzi o Pd, e stravedono per Fran Lebowitz, Fleabag e Mrs. Maisel. John Updike sosteneva che per un newyorkese vivere altrove è assurdo. Sei d’accordo? (Matteo Cristofani, Lucca). Conosco New York come le mie tasche, avendoci abitato a intermittenza per 25 anni. La sua vitalità culturale è unica al mondo. Il suo rumore, il suo attaccamento al denaro e la sua crudeltà verso chi non riesce a competere pure. Il newyorkese è uno snob che ama disprezzare chi non ce la fa. In campagna potrebbe disprezzare solo se stesso, mentre lui vuole poter trovare insopportabili i portoricani che gli mandano avanti la città sottopagati. Sei originario di Santarcangelo di Romagna. Come ti ha aiutato a comprendere New York? (Maria Cicchellero, La Spezia).

Come Topolino aiuta a comprendere una pantegana, e Playboy una figa. In un racconto, Fran Lebowitz capisce che un agente hollywoodiano è abbronzato dalla sua voce al telefono (Loretta Pistocchi, Parma).

Io una volta ho capito che una mia amica era al cesso, dalla sua voce al telefono. Fran Lebowitz scrisse pure: “In estate la frescura lascia New York perché non vuole restare in una città piena solo di scrittori sottopagati e di portoricani”. Chi le fa notare che era una battuta razzista, lei lo accusa di “censura che uccide l’intelligenza”. Come se il razzismo non fosse da censurare. Anche nelle snob. Sei credente? (Andrea Bigli, Torino).

Sono ateo da quando avevo otto anni: capii che Babbo Natale e Dio partecipavano della stessa consistenza gassosa. Se da piccolo mi avessero raccontato che Biancaneve e i sette nani erano l’Antico Testamento, ci avrei creduto, come avevo creduto a quell’altra favola dell’Onnipotente che ci ha creato a sua immagine e somiglianza, ma Eva mangiò la mela e allora Dio inviò suo figlio a morire per riscattare il mondo dal peccato, sicché tutti risorgeranno in Cristo, e finalmente potranno smettere di pagare l’Imu e l’Ici come la Chiesa cattolica. Cosa succede dopo la morte? (Daniela Necci, Firenze).

Chiediamolo al Papa. Indossa un costume bianco da supereroe, quindi lo saprà senz’altro. Esiste la pace interiore o ci sono solo ansia e morte? (Bruno Martelli, Sulmona).

Con centinaia di milioni di euro sul tuo conto corrente non sai che fartene dell’ansia. Quanto alla morte, chi ha tempo di pensarci, mentre stai scopando top model su uno yacht con DiCaprio?

Cercate anche voi una guida spirituale? Scrivetemi (lettere@ilfattoquotidiano.it)

 

Mail box

 

 

Deve cambiare il modo di pensare il lavoro

Vorrei fare i miei complimenti a Virginia Della Sala per il bell’articolo sugli imprenditori e sul lavoro in Italia, pubblicato a pag.16 nel Fatto di ieri. Sottoscrivo quello che ha scritto Virginia Della Sala, parola per parola. Se non cambiano gli imprenditori italiani (e il sistema politico che li protegge) la crisi non avrà mai fine.

Alessandro Tiri

 

Pantomima giudiziaria, uno spettacolo in tre atti

Nel teatrino giudiziario nazionale ogni anno si svolge lo spettacolo: la Pantomima dei Grandi Disastri (in tre atti). Atto Primo: gli imprenditori, i dirigenti e i politici molto compiacenti, responsabili del disastro, vengono dichiarati colpevoli di vari reati. Atto Secondo: gli imputati vengono assolti dalla Corte d’Appello perché il fatto non sussiste. Atto Terzo: la Cassazione dichiara che tutti sono comunque liberi, (e magari saranno anche risarciti), causa la prescrizione e/o cavilli legali vari e/o perché troppo vecchi per andare in galera. Alla fine i responsabili (ricchi) del disastro ridono, i familiari (poveri) delle vittime piangono e i soliti contribuenti (fessi) pagano. Che bello spettacolo!

Claudio Trevisan

 

Ilva, perché l’area a caldo non viene chiusa subito?

Ammesso e non concesso che tra qualche anno si avrà la sentenza della Cassazione che potrà chiudere la questione e che la sentenza di Appello confermi quella (ci credo poco!) di Assise, che comunque ha giudicato che l’area a caldo va chiusa perché “fa morire le persone”. Che senso ha aspettare altri morti in attesa che il tutto finisca con la sentenza passata in giudicato e non fermare subito l’area a caldo, la cui chiusura è dettata solo da numeri esenti, quindi dal codice? Sarà forse che le vite umane contano meno della “bilancia della dea bendata”?

Raffaele Fabbrocino

 

Rousseau e M5S, alcune proposte per il nuovo sito

Da tempo ormai assistiamo alla figuraccia che il figlio di Casaleggio sta facendo nei confronti del M5S e, quindi, del padre defunto. Non si accorge che sta svelando tutta la sua falsità e il disinteresse verso il Movimento che anche suo padre ha creato con tanto impegno, serietà e orgoglio. Con mia grande meraviglia non capisco perché il presidente Conte non risolva la cosa in maniera, per me, molto semplice: 1) Tramite il Fatto Quotidiano, ci indichi il sito su cui noi iscritti a Rousseau possiamo iscriverci; 2) Noi ci iscriviamo inviando copia della nostra carta di identità e le nostre credenziali di accesso a Rousseau; 3) Una volta iscritti, il personale della nuova organizzazione verifica la veridicità delle nostre credenziali. Dobbiamo fare presto.

Biagio Stante

 

Mentana e il giornalismo che va a “targhe alterne”

Caro direttore, ho apprezzato il suo intervento sull’episodio dell’errore di scrittura della targa del largo stradale dedicato al presidente Ciampi, che ha messo a fuoco la meschinità dell’utilizzo, da parte della “libera” informazione, di un evento del genere per finalità di bassa propaganda. La sua indignazione, a fronte dell’ennesimo momento di lapidazione della sindaca con ogni banale pretesto, è uguale a quella che ho provato lunedì sera quando Enrico Mentana, nel pistolotto introduttivo, ha aperto il telegiornale con questa notizia. E mi sono tornate in mente le introduzioni ai telegiornali negli anni di governo di Conte, nei quali il Nostro, con compunzione, doverosamente riferiva ogni fatto che metteva in evidenza la precarietà di quei governi, rivelandosi come extra-ricettivo sensore del “Conticidio.”

Umberto Monterubbianesi

 

I nostri errori

PeaceLink ci chiede di precisare che il titolo dell’articolo, pubblicato ieri e che riportava quanto detto pubblicamente da Alessandro Marescotti sul ruolo di Vendola nella vicenda Ilva, non contiene una dichiarazione di Marescotti. Com’è agevole rilevare leggendolo, è una sintesi fedele del suo pensiero.

Fq

 

Carissimi, sono lusingato per la citazione sul vostro giornale – per di più da parte di una penna prestigiosa come Massimo Fini –, ma il telecronista della finale di Champions League tra il Manchester City e il Chelsea non era il sottoscritto, bensì l’ottimo, collega e amico, Massimo Marianella.

Ps: Sulla “caratura sproporzionata” ai meriti di Guardiola sono perfettamente d’accordo, ma dite a Fini che Guardiola ha vinto la Champions League per due volte: nel 2009 e nel 2011, entrambe contro il Manchester United.

Max Nebuloni

 

Gentile Nebuloni, sono perfettamente d’accordo su tutt’e due le correzioni. Sulla prima, lo sbaglio del nome, c’è poco da discutere, e me ne scuso con lei e con i lettori. Anche la seconda è esatta, Guardiola non ha vinto una Champions ma due, sempre col Barcellona. Qui il fatto è che vado a memoria e non uso compulsivamente Internet. Ma Internet, benché io lo detesti, serve. Però… però una mia giovane amica, Vittoria, 22 anni, laureanda in Filosofia, mi ha detto: “Internet è uno strumento ambiguo. A furia di consultarlo mi sono accorta che ho perso la memoria perché mi sono abituata a non usarla”. Io la mia personale memoria preferisco mantenerla, a costo di fare qualche inevitabile errore. Mi auguro di risentirla, come telecronista ovviamente, magari nella finale degli Europei con l’Italia di Mancini in campo.

Un cordiale saluto.

Massimo Fini

Caro Salvini “Io emigrato in Svizzera le spiego com’è subire il razzismo”

 

 

Lettera aperta per Matteo Salvini: egregio senatore, lei ancora non era nato nel 1967 quando il sottoscritto, insieme alla mia mamma e altri tre fratelli (mio padre era emigrato nel 1957), siamo emigrati in Svizzera. Questo suo slogan “prima gli italiani”, razzista e xenofobo, l’ho già sentito tanti anni fa, esattamente nel 1970: l’allora anti-straniero svizzero si chiamava James Schwerzenbach, anche lui era per “prima gli svizzeri”. Indisse un referendum per mandare via un bel po’ di italiani perché “avevano chiesto braccia ed erano arrivati uomini” (Max Frisch). Anche allora gli anti-stranieri svizzeri, come adesso lei e gli anti-stranieri italiani, dicevano che gli emigrati erano il problema. Invece si son rivelati la soluzione per costruire case, strade, gallerie, ecc., sviluppo economico e finanziario e sociale e civile. In quegli anni quando eravamo noi i “selvaggi” come quelli che sbarcano adesso in Italia, i nostri connazionali, diciamo, meno illetterati, hanno usato bidoni d’inchiostro per chiedere il diritto a una casa e il ricongiungimento della famiglia per i loro connazionali emigrati. È vero che si dormiva nelle baracche, però niente di simile all’accoglienza disumana che l’Italia riserva ai poveracci dell’Africa schiavi dell’opulenta Europa. Senatore Salvini, il principale compito del senatore è quello di discutere, modificare, presentare, emendare e approvare le leggi. Non fare il populista da strapazzo per qualche voto in più. Lei sa bene meglio di me che, di fronte a questi grandi problemi di mancanza di lavoro e di redistribuzione delle risorse finanziarie le chiacchiere da osteria non portano da nessuna parte. Finché in Italia mancheranno, perché nessun governo d’Italia le ha sapute creare, le condizioni economiche, prima, le condizioni morali, lavoro per tutti e le regole di civile convivenza, poi, non potrà mai il nostro Paese parlare di accoglienza e di integrazione.

Non pensi di distogliere l’attenzione del cittadino sulla maxi truffa ai danni dello Stato di 49 milioni sui rimborsi elettorali… Se voi politici rubaste meno, se faceste a meno dei privilegi, se rinunciaste a un po’ di stipendio da nababbi, se invece di votare a favore del vitalizio ai pregiudicati e delinquenti, apriste un centro di aiuti per la povera gente, questo sì sarebbe un gesto degno, onesto, meritevole, stimabile e nobile. Lei, senatore Salvini, mi sembra inferiore alle esigenze del Paese Italia e un ostacolo alla democrazia… Ma mi faccia il piacere! Si dimetta e vada a lavorare.

Franco Avantaggiato

Così Salvini rende la fede pacchiana

Se mi occupassi della comunicazione di Matteo Salvini (Dio me ne scampi e liberi!) lo esorterei a non insistere – come è tornato a fare – con l’ostentazione di rosari e altri simboli religiosi (compresa l’accensione di ceri votivi in favore di telecamera). Perché poco produttivi elettoralmente. Infatti, se lo scopo è quello di corteggiare i cattolici cosiddetti identitari, e seguaci di Radio Maria, quei voti lui ce li ha già. Mentre ai credenti che vivono la fede convintamente, evitando pacchiane esibizioni, quelli che testimoniano il Vangelo pensando al prossimo, e non come un autospottone, be’ tutto ’sto sbaciucchiare crocifissi e genuflettersi bacchettone crea notevole fastidio. Ebbe a dirglielo Giuseppe Conte nel famoso discorso al Senato del 20 agosto 2019 (che concluse l’esperienza del governo gialloverde) quando suggerì all’ex ministro di “evitare durante le manifestazioni di accostare agli slogan politici i simboli religiosi”. “Sono atteggiamenti che hanno a che vedere non con la coscienza, ma con l’incoscienza religiosa”, aggiunse il premier dimissionario, “perché rischiano di offendere il sentimento dei credenti e il principio di laicità fondamento dello Stato moderno” (con il leghista in formato bigotto reduce dalle sfrenatezze del Papeete, che infastidito alzava gli occhi al cielo).

Per un po’ Salvini sembrava essersi contenuto, ma ultimamente (forse preoccupato dall’avanzata delle armate meloniane, Dio, Patria e Famiglia) c’è ricascato trasformando la visita al Santuario della Madonna di Fatima in un grottesco film Luce, autoprodotto. Nel commentare l’uso propagandistico della fede (Otto e mezzo di mercoledì scorso), Tomaso Montanari ha opportunamente citato il Vangelo laddove c’è scritto “che sono i farisei che chiedono i primi posti nelle sinagoghe, che fanno suonare le trombe prima di fare gli atti di pietà e di devozione”. Quindi ha spiegato che “usare il cristianesimo come una clava identitaria nazionalista è proprio la negazione più assoluta dei valori evangelici”. Tuttavia, poiché la presunzione di buona fede va concessa perfino a Salvini, insisto: quando, tra mille anni, saremo al cospetto dell’Altissimo garantirò per lui. A patto che nei prossimi talk sappia recitare a memoria tutti i misteri (gloriosi, gaudiosi, dolorosi e della luce) del Santo Rosario, nonché l’elenco completo delle litanie alla Madonna. In latino.

Altro che autostrade pubbliche: ora lo Stato studia il regalo a Gavio

I contratti di concessione prevedono che le autostrade vengano ammortizzate nel corso della concessione e poi alla scadenza devolute “gratuitamente” allo Stato concedente. In Spagna hanno stabilito che alla scadenza delle concessioni non faranno nuove gare, i pedaggi verranno aboliti e lo Stato gestirà la manutenzione come per il resto della rete stradale. In Italia invece le concessioni sono in pratica perpetue, vuoi per le continue proroghe vuoi perché a scadenza vengono rimesse in gara. Lo Stato rimette a gara anche autostrade già ammortizzate per continuare così a condividere con i concessionari i pedaggi imposti agli utenti. Una forma di tassazione occulta che grava sulla mobilità.

Queste gare rischiano d’altronde di essere solo formali. I concessionari uscenti sono molto avvantaggiati rispetto a eventuali concorrenti, in primis perché questi dovrebbero pagar loro immediatamente gli indennizzi di subentro, cioè la parte non ancora ammortizzata di investimenti che i concessionari concentrano negli ultimi anni di contratto proprio per massimizzare gli indennizzi e scoraggiare la concorrenza. L’esborso per chi intendesse subentrare è poi accresciuto dal fatto che le gare vengono confezionate in “pacchetti” che includono varie tratte dello stesso concessionario. Considerando poi gli stringenti requisiti richiesti, gli elevati costi di preparazione delle offerte, l’alta probabilità di ricorsi legali che si trascinano per anni, qualunque concorrenza è fortemente scoraggiata.

Per questo ha fatto scalpore l’episodio relativo al rinnovo delle concessioni delle tratte autostradali A21 Torino-Piacenza, A5 Torino-Quincinetto, la Bretella di collegamento A4/A5 Ivrea-Santhià, la diramazione Torino-Pinerolo e il Sistema autostradale tangenziale torinese (Satt), tutte del gruppo Astm, cioè il gruppo Gavio. Questo si era aggiudicato la gara a novembre scorso, ma è stato poi escluso “per mancanza dei requisiti da parte della capofila concessionaria”, la Salt, Società Autostrada Ligure Toscana, anche se i requisiti erano posseduti dalle imprese mandanti (Itinera, Euroimpianti, Sinelec e Proger). Il Consiglio di Stato ha respinto il ricorso presentato dalle società del gruppo Astm contro l’esclusione dalla gara e le concessioni che potrebbero dunque passare da Gavio all’unico altro offerente, il Consorzio SIS, gruppo italo-spagnolo controllato dalla torinese famiglia Dogliani. Sarebbe la prima volta in Italia che un concorrente vince una gara contro il concessionario uscente. Ma non è chiaro come andrà a finire.

Sembra che il ministero delle Infrastrutture stia considerando l’eventualità di annullare la gara per la A21 perché l’offerta del consorzio SIS genererebbe minori introiti per lo Stato per circa €750 milioni. Viene così messo in evidenza il fatto che i pedaggi non servono solo a coprire i costi delle autostrade ma anche, e soprattutto, a generare cassa per lo Stato. Un’imposta occulta, forse incostituzionale perché decisa dal governo. C’è da chiedersi se i punteggi delle gare attribuiscono un peso maggiore a chi offre di applicare pedaggi più bassi o a chi offre di stornare maggiori proventi allo Stato. Quest’ultimo mira a massimizzare i suoi incassi o a tutelare i pedaggiati?

Un’eventuale decisione di annullare la gara per la A21 solleverebbe anche altre questioni. Se l’offerta del consorzio SIS è ritenuta insoddisfacente, perché è stata ammessa alla gara in primo luogo? I timori non riguardano la SIS, che avrà i suoi bravi avvocati, ma il messaggio che verrebbe trasmesso dal ministero: chiunque pensi di concorrere in gare contro i concessionari uscenti non ha alcuna chance. Soprattutto se, una volta annullata questa gara, il ministero riproponesse una nuova gara per le stesse concessioni, che certamente verrebbe riaggiudicata alla Astm, magari in assenza di concorrenti.

Il ministero potrebbe uscire da questa brutta vicenda dando attuazione a quanto previsto dal contratto, cioè riprendendosi l’autostrada senza alcun obbligo di rimetterla in gara.

La gestione potrebbe essere svolta in house, senza gara, come già fatto per la Autobrennero, affidando la gestione all’Anas o ad altro ente pubblico. I pedaggi potrebbero essere aboliti, o ridotti a coprire i soli costi. Sarebbe un primo passo cruciale per un cambiamento di politica che tenda ad abolire le concessioni man mano che scadono. L’indennizzo di subentro dovuto all’Astm è poco più di un centinaio di milioni, briciole per uno Stato che progetta di spendere 27 miliardi per l’Alta velocità Salerno-Reggio Calabria.

“La cabina era bassissima per poco non ci ha prese”

Sono passate poche ore dalla strage del Mottarone e nella caserma dei carabinieri della compagnia di Verbania si presentano tre testimoni. Ciò che hanno da raccontare è molto importante. In particolare, la testimonianza ritenuta più interessante è quella di Marcella Pepice, escursionista abituale della zona che in quel momento è appena arrivata in vetta con una coppia di amici, Renzo Libanoro e la moglie Marianna Ceglia: “Poiché sono solita fare questa passeggiata, già altre volte mi era capitato di vedere la cabina in fase di arrivo. Tuttavia questa volta ho notato un particolare strano. Infatti mi pareva che la cabinovia fosse troppo bassa rispetto al solito. In virtù di ciò allertavo la mia amica Marianna, dicendole di spostarsi altrimenti la cabina le sarebbe passata troppo vicina”.

Le parole della donna sono già state trasmesse dalla Procura al consulente tecnico Giorgio Chiandussi. Perché la cabina viaggiava a un’altezza “più bassa del solito”? È possibile, si chiedono gli inquirenti, che questo particolare indichi un cedimento avvenuto per sfilacciamento del cavo traente, che forse non è stato tranciato? Il dettaglio può aiutare a capire le cause della rottura?

È indicativo, infatti, il lasso temporale che passa dal passaggio della vettura fino allo schianto: “Una volta passata – ricorda ancora la testimone – la cabina è entrata normalmente. Dopo circa 30 secondi ho sentito un fruscio, come se una carrucola scendesse velocemente, una specie di rumore metallico secco. A quel punto ho guardato in alto verso la funivia e ho visto che la cabina dondolava, sembrava quasi si fosse appoggiata al terreno. Poi ha preso a scendere e non l’ho più vista, perché coperta dalle piante.

Il racconto viene confermato dagli amici. “Marcella, mi avvisava che la cabina era quasi sulla mia testa – racconta Marianna Ceglia – Io non me ne sono accorta perché stavo guardando il panorama. In quell’istante ho alzato lo sguardo verso la stazione della funivia del Mottarone e ho visto la cabina con all’interno alcune persone. Era proprio dentro la stazione. Pochi secondi dopo ho udito un forte rumore, come delle frustate. La cabina ha cominciato a dondolare, rimanendo poi appesa a un cavo. In quegli istanti mentre tornava giù, ha colpito il terreno. Dopo qualche istante ho notato la presenza di un solco dovuto al colpo che probabilmente ha dato il cavo d’acciaio che si è staccato. Mi tremavano le gambe dalla paura. Ero scossa, credo di aver incontrato un ragazzo che lavorava in quella stazione. Aveva una radio. Mi ha chiesto dove fosse il punto d’impatto”. Questo il resoconto del marito, Renzo Libanoro: “Ho visto che la parte finale del cavo era collegata a qualcosa di dimensioni di circa mezzo metro, non sono riuscito a capire se fosse qualcosa di metallico o di cemento, la velocità era davvero elevata. Questo cavo ha tracciato un solco a qualche metro dalla mia posizione. Sentendo le urla ho capito che stava succedendo qualcosa di grave”.

Sono tre al momento gli indagati per il disastro: il capo servizio Gabriele Tadini, l’uomo che si è autoaccusato di aver disinnescato i cosiddetti “forchettoni bloccafreni”, e che ha coinvolto poi i suoi superiori (è difeso dall’avvocato Marcello Perillo); Marcello Perocchio, direttore d’esercizio, e Luigi Nerini, amministratore della concessionaria Ferrovie del Mottarone srl (scarcerati dal gip Donatella Banci Buonamici, e assistiti dai legali Andrea Da Prato e Pasquale Pantano). Ieri il legale di Tadini ha presentato una richiesta di incidente probatorio sulle cause che hanno provocato la rottura della fune e sulla centralina dei freni, che secondo Tadini avrebbe manifestato anomalie. L’istanza è stata motivata con il rischio di deterioramento dei materiali e della prova.

“Il ponte, una pistola carica” Aspi cacciò i tecnici sgraditi

È il 21 settembre 2017. A una riunione fra rappresentanti di Autostrade per l’Italia e Spea Engineering, la controllata per la manutenzione, si parla del Ponte Morandi. A quel tavolo c’è Carmelo Gentile, docente del Politecnico di Milano incaricato di valutare lo stato del viadotto: “È una pistola carica”, dice, e potrebbe finire “in mano a un bambino”. Quelle parole sono registrate di nascosto da uno dei presenti, Massimiliano Giacobbi, dirigente Spea. Gli audio sono stati trovati nel suo pc dalla Guardia di finanza e oggi sono diventati una delle prove, appena depositate dopo la conclusione delle indagini, per dimostrare che tutti sapevano del rischio crollo. Anche l’ex ad di Aspi Giovanni Castellucci, che già nel 2010 proponeva di “anticipare” la ristrutturazione del ponte. Il 28 febbraio 2019 il pm Walter Cotugno interroga Gentile”: “Intendevo dire che il ponte aveva dei problemi – chiarisce – e il mio compito sarebbe stato quello di risolverli prima che qualcuno si facesse male. Ho detto: aiuterò a scaricarla, quella pistola”.

Va in un altro modo : Aspi silura Gentile. Prima di lui era accaduto ad altri consulenti, colpevoli di trarre conclusioni “sgradite”: la ditta romana Edin (professor Fabio Brancaleoni) e la torinese Cesi. “La cosa che accomuna tutti – scrive il pm Cotugno – è che sono stati troncati da Aspi anzitempo. Tanto da far pensare che nessuno di loro si fosse reso abbastanza gradito al committente, con i suoi consigli, le sue segnalazioni o raccomandazioni”. Cesi consegna dati allarmanti sugli stralli, i tiranti in acciaio, il cui cedimento è all’origine della strage. E come reagiscono Aspi e Spea? Lo suggerisce un biglietto ritrovato dalla Finanza, un manoscritto con la calligrafia di Emanuele De Angelis, collega di Giacobbi: “Se i dati sono giusti non c’è nulla di buono. Al 20% la struttura non funziona. All’80% sono sbagliate le indagini”. Tradotto: c’è una possibilità su cinque che quei dati siano corretti e che il ponte possa cadere. Inizialmente anche Gentile è scettico sui metodi di Cesi. Ma le sue controverifiche, alla fine, confermano “anomalie agli stralli”, proprio “sulla pila 9”. Quella crollata. Come risposta Aspi gli contesta di aver sbagliato i calcoli. “Ogni volta che si toccava l’argomento della tenuta strutturale – ricorda lui – Spea svicolava”. E a tutti i consulenti è chiaro un diktat: “Aspi diceva che non si poteva fermare il traffico e non si potevano fare analisi diurne”. Gentile (inascoltato) consiglia un sistema di sensori (nessuno leggeva più i risultati dal 2014) e una “visita ravvicinata agli stralli”, “mai fatta dal 1967”.

Ma come veniva calcolata la stabilità del viadotto? Il pm lo chiede il 10 aprile 2021 a Giacobbi, nel corso di un lungo interrogatorio, trascritto in 64 pagine, a tratti surreali. Giacobbi, responsabile del progetto di retrofitting del Morandi, ammette di “non aver letto le relazioni sulla sicurezza” e di “non aver mai visto il disegno originale del viadotto”. “Ci basavamo sulle prove riflettometriche”, aggiunge. Rilievi che, scrive un sottoposto di Giacobbi a incidente avvenuto, “erano già considerati inattendibili dal 1997” e “non erano in grado nemmeno di stabilire se i cavi di ferro analizzati erano rotti”. Si tratta di analisi qualitative che, per il pm, sono trasformate “in modo ridicolo” in “quantitative” per rassicurare il ministero che la corrosione dei cavi “è nel range di legge del 20%”, cioè lo stesso livello “in cui erano state trovate 24 anni prima”. “Erano dati orientativi”, precisa Giacobbi. “Lei salirebbe su un ponte con un cartello che dice che la sicurezza è calcolata in modo orientativo?”, gli domanda Cotugno.

C’è un altro audio clandestino, registrato sempre da Giacobbi, il 5 luglio 2017. Si sente la voce del consulente Alberto Lodigiani: “I sensori sono stati mangiati dai topi – dice – e senza controlli il calcestruzzo potrebbe esplodere”. Al summit è presente anche l’ex capo della manutenzione di Aspi, Michele Donferri Mitelli: “I cavi non sono iniettati”, dice a proposito dei lavori a cui aveva partecipato negli anni Novanta sulle pile 10 e 11. È un passaggio che per l’accusa smonta la principale difesa di Aspi: “il vizio occulto” di costruzione, secondo i pm ben noto alla società. Lodigiani viene scelto come consulente al posto di Francesco Pisani, ex collaboratore di Morandi. Al ministero, Aspi dichiara che Pisani “è deceduto”. Un’altra bugia: è vivo e vegeto.