Csm, sorteggio e porte girevoli: la riforma riparte in salita

Bastano degli spifferi sulla riforma dell’ordinamento giudiziario e del Csm ad agitare – per motivi diversi – M5S e Forza Italia. I primi sono sul piede di guerra dopo la lettura delle anticipazioni secondo le quali la Commissione tecnica della ministra Marta Cartabia non propone, a differenza della riforma Bonafede, un blocco assoluto delle porte girevoli per le toghe che, entrate in politica, vorranno tornare a fare i magistrati, ma solo qualche paletto. Per il M5S, che vuole tenere il punto, una volta che un magistrato entra in politica, deve appendere la toga al chiodo. Invece, FI non digerisce l’esclusione del sorteggio come metodo di elezione dei togati Csm. Stamattina le proposte ufficiali, quando la ministra e la Commissione tecnica presieduta dal costituzionalista Massimo Luciani, si confronteranno con i deputati della commissione Giustizia che sono fermi su una riforma penale e del Csm in attesa della sintesi politica di Cartabia.

Non ci sarà alcuna proposta di sorteggio per eleggere i togati del Consiglio, ma una proposta di voto “singolo trasferibile”. In cosa consiste? Il magistrato-elettore può esprimere diverse preferenze, al di là delle liste, ma la prima vale più delle altre, sarà poi il meccanismo di calcolo di queste preferenze a determinare l’elezione dei consiglieri. Questa è anche una proposta di Enrico Costa di Azione. Ma “per limare le unghie una volta per tutte alle correnti”, dichiara il capogruppo di FI, Pierantonio Zanettin, ex laico del Csm, ci vuole il sorteggio temperato e su questo potrebbe esserci un’asse con M5S: era un suo cavallo di battaglia, sacrificato per equilibri interni al vecchio governo e sostituito nella riforma Bonafede da un voto a doppio turno basato su più preferenze in piccoli collegi. Secondo la Commissione, inoltre, non si devono sorteggiare – a differenza di quanto prevede il ddl Bonafede per evitare accordi fra correnti – neppure i membri delle Commissioni del Csm, ma propone, come il ddl dell’ex ministro, delle incompatibilità per chi è della sezione disciplinare e la riduzione da 4 a 2 dei possibili cambi di funzione per pm e giudici, ma il resto della maggioranza vuole la separazione delle carriere.

Il Garante insiste: Casaleggio dia i dati entro lunedì

Il Garante della privacy boccia la richiesta di Davide Casaleggio e ribadisce quanto già sancito dalla sentenza di inizio settimana: a Rousseau restano 48 ore per consegnare i dati degli iscritti al Movimento 5 Stelle.

La pronuncia arriva dopo che il proprietario della piattaforma web aveva contestato la pronuncia dell’Autorità scrivendo una lettera per chiedere che il termine della consegna degli elenchi fosse prorogato a 30 giorni – invece che gli iniziali cinque – e che lo stesso Garante facesse chiarezza su quale soggetto, all’interno del Movimento, sarebbe stato titolato a ricevere gli elenchi. Una sottigliezza a cui Casaleggio si era aggrappato fin dalle ore immediatamente successive alla sentenza, non riconoscendo né Vito Crimi come rappresentante legale del Movimento né tantomeno Giuseppe Conte come leader politico.

Ieri però il Garante ha risposto al figlio di Gianroberto ribadendo quanto già scritto nella sentenza: “L’Autorità non può che confermare integralmente il contenuto e le indicazioni di cui al precedente provvedimento” e “confermare che dovrà essere adempiuto nei termini già fissati”. Tradotto: non è il Garante a poter stabilire chi, all’interno del M5S, dovrà dicevere i dati, ma gli elenchi devono essere consegnati “nelle forme e secondo le modalità indicate dal Movimento”. E questo nonostante già due giorni fa Casaleggio avesse rifiutato di incontrare Crimi e un perito forense per la consegna. Alla luce delle novità, non è detto che nelle prossime ore ci possa invece essere un ammorbidimento delle posizioni in tal senso, magari con qualche margine per una trattativa sul divorzio definitivo tra M5S e Rousseau, ormai atteso da mesi.

Anche perché adesso Rousseau potrebbe opporsi agli obblighi stabiliti dal Garante soltanto facendo ricorso in Tribunale, ma un’eventuale rifiuto di consegnare i dati entro i termini fissati esporrebbe comunque Casaleggio a conseguenze penali, oltreché a pesanti sanzioni.

D’altra parte il M5S ha fretta e Conte ha bisogno di chiudere il prima possibile la partita con la piattaforma per avere piena legittimità politica come nuovo leader dei 5 Stelle. Anche perché i tavoli aperti sono parecchi e la tornata elettorale di ottobre si avvicina. Non a caso ieri l’ex premier, nonostante le difficoltà a trovare accordi col Pd nelle città, ha lanciato un appello per salvare l’asse giallorosa almeno per le Regionali in Calabria. L’idea è quella di “un patto tra le forze progressiste” che porti alla candidatura di un esponente “della società civile”. I tavoli in Calabria vanno a vanti da tempo, ma finora hanno prodotto poco: “Adesso occorre compiere un decisivo scatto in avanti, nel segno del coraggio e della determinazione: il Movimento 5 Stelle chiede a tutte le forze progressiste di dar vita a un patto di ampio respiro programmatico”. E se il profilo ideale è quello di un civico, va da sé che Conte non intende seguire il Pd nel corteggiamento di Nicola Irto, appena ritiratosi dalla corsa dopo essere stato il più probabile candidato dei dem.

Più facile che si vada su un profilo come Enzo Ciconte, come anticipato nei giorni scorsi, anche se per il momento Conte preferisce concretizzare il perimetro dell’alleanza prima di esporsi sui nomi. Tutto ciò al netto del nodo Luigi De Magistris, il sindaco di Napoli già in campo da tempo e senza alcuna intenzione di ritirarsi per far posto a un altro nome giallorosa.

Nello stesso giorno delle Regionali in Calabria, peraltro, si voterà anche per le suppletive del collegio uninominale di Roma Primavalle alla Camera. Il seggio sarà lasciato libero dalla 5 Stelle Emanuela Del Re, appena nominata rappresentante speciale dell’Ue per il Sahel e dunque con le valigie pronte. Secondo il Corriere della Sera, il Movimento potrebbe candidare proprio Conte a Primavalle, ora che l’ex presidente del Consiglio non ha incarichi né indennità politici e, per ovvi motivi, non ha ripreso l’attività di avvocato che svolgeva prima di diventare premier. Il nome di Conte era già uscito riguardo alle suppletive di Siena – si voterà per un posto in Senato – ma poi l’ipotesi era saltata anche per colpa del mancato accordo tra i giallorosa.

Giustizia & C.: Le affinità elettive Lega-pd

Non c’è pace sotto al cielo del Partito democratico. E così, mentre Enrico Letta cerca di mettere in campo una strategia dialogante anche con la Lega di Matteo Salvini, dopo i primi mesi passati ad attaccare all’arma bianca il leader del Carroccio, tocca a Goffredo Bettini fare la mossa che spiazza tutti. In una lettera al Foglio (come aveva già fatto Luigi Di Maio una settimana fa, chiedendo scusa all’ex sindaco di Lodi, Simone Uggetti, dopo l’assoluzione), nel nome del fatto che la giustizia va radicalmente trasformata, si schiera a favore dei referendum dei Radicali e della Lega. Che prevedono la responsabilità civile dei magistrati, la separazione delle carriere, la custodia cautelare, l’abrogazione della legge Severino (in modo che non ci sia nessun automatismo per quanto riguarda i termini di incandidabilità, ineleggibilità, decadenza per parlamentari, consiglieri, governatori regionali, sindaci, amministratori locali), l’abolizione della raccolta firme per la lista dei magistrati che vogliano candidarsi al Csm, l’abrogazione della norma sui consigli giudiziari.

Dice Bettini: “Non credo affatto sia giusto che questo tema sia un po’ pelosamente impugnato solo da quella destra populista, come la Lega, che amava esibire il cappio nelle aule parlamentari”. La mossa di uno degli uomini che è stato centrale nell’esperienza del governo giallorosso ha più livelli di lettura. Il primo si può raccontare attraverso le reazioni a questa uscita, all’insaputa di tutti, anche quelli a lui più vicini. Si arrabbia Letta, si arrabbiano parlamentari, membri delle Commissioni Giustizia soprattutto. Perché stanno lavorando sulla riforma Cartabia, che, per inciso, va fatta con la Lega. E dunque, quella di Bettini viene vista come l’azione di uno che non conta più come prima e dunque agita le acque, complica giochi già complessi di loro. Lo dicono tutti tra i dem, da Franco Mirabelli, capogruppo in Commissione Giustizia al Senato a Alfredo Bazoli, capogruppo alla Camera a Anna Rossomando, responsabile Giustizia dem, che le proposte della Cartabia sono più radicali. E soprattutto che arriveranno prima dei referendum. E dunque, quello di Bettini pare un assist alla propaganda di Salvini, al leader di lotta e di governo, che cerca un suo spazio, con Giorgia Meloni che glielo toglie, un giorno dopo l’altro.

“Qual è la vera posizione di Salvini? Quella di chi dice sì alla custodia cautelare o quella di chi voleva far marcire i detenuti in carcere, buttando la chiave?”, si chiedono non a caso al Nazareno.

C’è però un secondo livello di lettura. Ed è quello che alla fine Bettini apre la strada a una revisione di un certo tipo del dibattito sulla giustizia di questi ultimi 20 anni. Andando a toccare non solo il cosiddetto giustizialismo, che non è mai stato nelle corde dei dem, ma anche andando ad abbattere qualche tabù. Come, ad esempio, la revisione della legge Severino, che aveva portato alla incandidabilità di Silvio Berlusconi. D’altra parte, in una giornata densa per le tematiche della giustizia, non si sentono particolari voci di attacco verso i contabili della Lega condannati.

Si legge nella premessa alle proposte sulla giustizia del Pd: “Sotto il profilo della giustizia, la presenza di un presidente del Consiglio e di una ministra della Giustizia dalla preparazione e dalla autorevolezza inattaccabili può consentire al Paese di voltare pagina. Possiamo davvero chiudere per sempre la stagione delle contrapposizioni politiche sulla giustizia, e consegnare all’Italia un sistema più efficiente, che garantisca il rispetto della legalità insieme alla certezza del diritto e dei diritti dei cittadini, anzitutto quello di ottenere giustizia in tempi rapidi”. Eccola qui, scritta nero su bianco, la volontà di Letta di mediare con tutti, anche con la Lega. Inevitabile, d’altronde, visto che le riforme del Pnnr sono necessarie per avere i fondi europei. E poi, se si parla di ritorno della prescrizione, è più facile pensare che si possa fare asse con il Carroccio che con i Cinque Stelle.

Di certo, negli ultimi giorni, qualcosa è cambiato. Salvini ha dato ragione al Pd sulla proroga del blocco dei licenziamenti. Il Nazareno ha consegnato una replica secca al vice segretario, Peppe Provenzano, che evidenziava la giravolta, ma è un fatto che Letta ultimamente abbia ammorbidito i toni. “Dobbiamo fare le riforme con la Lega, a partire da quelle della giustizia e del Fisco”, ha detto e ridetto. Che cosa è successo?

Prima di tutto, c’è stato l’ennesimo confronto con il premier, Mario Draghi. E il segretario del Pd ha voluto smettere di offrire il fianco a chi lo cominciava a dipingere come il picconatore del governo. “Se non ora, quando?”, ha ribadito ieri sera, da Bruno Vespa, a proposito delle riforme. Senza la Lega, le riforme non si fanno. E il Pd parte da una debolezza prima di tutto numerica, nelle truppe parlamentari. Dunque, Letta non può che cercare dei punti di convergenza, una volta che ha visto fallire il tentativo di spingere Salvini a uscire dal governo e dar vita alla maggioranza Ursula. In questa fase magmatica della vita politica italiana, poi, si assiste a una convergenza di fragilità: i partiti contano sempre meno, rispetto alla forza personale del premier e dei suoi tecnici, ai moniti di Sergio Mattarella, persino alle raccomandazioni europee, rispetto a specifici provvedimenti. Così gli estremi, pur rimanendo estremi, si toccano.

Senza contare che nelle Commissioni parlamentari leghisti e dem si parlano di continuo, senza problemi di comunicazione. Dato di realtà che fa dire alla Rossomando: “Salvini si fidi di più dei suoi parlamentari, invece di fare azioni propagandistiche”. Ma in questa confusione di ruolo e di obiettivi, va anche detto che i dem aspettano con ansia di vedere gli emendamenti leghisti alla riforma Cartabia. La scommessa che si possa lavorare insieme la fanno, si aspetta la controprova della realtà. A proposito di rapporti di forza.

Richiedenti asilo a casa loro: centri fuori dall’Europa

I migranti richiedenti asilo in Danimarca potranno essere accolti in centri allestiti anche fuori dall’Europa. La legge, approvata ieri, proposta dal Partito socialdemocratico del premier Mette Frederiksen e appoggiata dai liberali di Venstre, permette di trasferire in aereo i richiedenti asilo in altri Stati dove dovranno attendere l’esito della loro domanda. Si tratterebbe, secondo il quotidiano Jyllands Posten, di Paesi come Ruanda, Tunisia, Etiopia ed Egitto, ma non ci sono ancora piani concreti. I richiedenti dunque non dovranno recarsi in Danimarca, ma dovranno restare nel Paese in cui hanno sottoposto la loro domanda. La legge è stata immediatamente criticata dall’agenzia Onu per i rifugiati (Unhcr) in quanto “in contraddizione con i principi su cui si basa la cooperazione internazionale”, ha dichiarato Henrik Nordentoft, rappresentante dell’Unhcr per gli Stati nordici e baltici che ha spiegato di temere un effetto domino. Contraria anche la Commissione europea che condivide “le preoccupazioni dell’Unhcr”, anche perché “il patto proposto dalla Commissione si basa sull’asilo come diritto fondamentale garantito dalla Carta europea”, ha fatto sapere il portavoce, Adalbert Jahnz. Secondo ActionAid Denmark la Danimarca sta deludendo i suoi partner europei. “I rifugiati cercheranno asilo in Germania, Francia e Svezia. La legge non li scoraggerà ad attraversare il Mediterraneo, ma non arriveranno in Danimarca, che in un certo senso abdica alle sue responsabilità”, ha detto il segretario dell’Ong, Tim Whyte. E a proposito di esempio ed effetto domino: “Bene ha fatto la Danimarca. Dopo i respingimenti spagnoli e le frontiere chiuse della Francia, un altro governo Ue ci dà lezioni. Invitiamo il Viminale a prendere nota”, ha commentato il leader della Lega, Matteo Salvini.

Cene al chiuso, il 6 vince sull’8. I posti a tavola come la morra

Quttro! Sei! Otto! Alla fine la disputa sul numero di commensali consentiti al chiuso in zona bianca si è risolto in una specie di morra. E ancora non è chiaro se il provvedimento nato dal “tavolo tecnico” tenutosi ieri al ministero della Salute sarà contenuto in un’ordinanza ad hoc. Quel che pare certo è che, in zona bianca, il limite dei quattro commensali a tavola – “incautamente” stabilito dal ministro Speranza lo scorso primo giugno – cadrà del tutto all’aperto, mentre al chiuso il limite di quattro (come da Dpcm), verrà portato a 6 persone (ma nella maggioranza c’era chi premeva per alzare fino a otto). La misura dovrebbe valere per le prossime due settimane per poi essere cancellata. Per quanto riguarda i ristoranti al chiuso in zona bianca – nell’ambito del limite di sei persone al tavolo – sarà previsto che i commensali appartengano a un massimo di due nuclei familiari. Il presidente della Conferenza delle Regioni Massimiliano Fedriga avrebbe inoltre rilanciato sull’opportunità di valutare l’abolizione di limiti all’aperto anche per le zone gialle e, a tal proposito, si sarebbe impegnato a coinvolgere il tavolo tecnico nazionale.

Tra martedì e mercoledì, nei primi giorni di riapertura dei posti a sedere al chiuso, il limite ai commensali in zona bianca ha creato attriti e liti all’interno del governo e persino all’interno del ministero della Salute. Tutta colpa di un’interpretazione opposta tra le Regioni e l’esecutivo, che ha innescato la presa di posizione della ministra degli Affari Regionali Mariastella Gelmini. E anche il sottosegretario alla Salute, Pierpaolo Sileri, aveva chiesto la cancellazione del limite. Così alla fine il governo ha deciso di porre rimedio con un tavolo tecnico che ha deciso di rivedere le regole stabilite nei precedenti decreti dando nuovamente il via libera alle tavolate. Per il momento, solo in zona bianca.

Fontana ha la memoria Covid corta

“Diciamola tutta: siamo stati messi sotto tiro per ragioni politiche. Non è stata una pagina gloriosa per i nemici delle autonomie, e per chi in particolare voleva demolire l’immagine di una Lombardia efficiente. Per fortuna la storia presenta il conto…”.

Così ieri il presidente lombardo Attilio Fontana gongolava in un’intervista a Repubblica, una smaccata autocelebrazione nata dalla campagna vaccinale finalmente a regime negli ultimi tempi. Quello dipinto da Fontana è l’affresco idilliaco di una regione dove tutto ha funzionato perfettamente e nella quale “le abbiamo azzeccate tutte”.

Ironia della sorte, proprio ieri l’ex presidente (dimissionato, come tutto il Cda) dell’Agenzia degli acquisti regionali Aria, il forzista Francesco Ferri, riferiva a Palazzo Lombardia della fallimentare piattaforma vaccinale, raccontando di come “le indicazioni della politica (cioè di Fontana&C.) andassero in una direzione non realizzabile dal punto di vista tecnico”. L’ammissione che i ritardi, gli inconvenienti e i disagi patiti dai lombardi hanno avuto dei responsabili: Fontana, Moratti e Bertolaso, che a tutti i costi hanno voluto quella piattaforma prima di optare per Poste. Cercando comunque di schivare le responsabilità e di prendersi tutti i meriti.

Del resto, a demolire l’immagine della “Lombardia efficiente”, ci avevano già pensato da soli, l’Attilio e compagni, senza bisogno di alcun aiuto. Non a caso la giunta, in meno di un anno, ha visto cambiare due assessori al Welfare (Giulio Gallera e Letizia Moratti) e tre direttori generali. Tutti travolti dalle inefficienze e da scelte irragionevoli: le mancate zone rosse; la riapertura dell’ospedale di Alzano non sanificato; la delibera che poneva i malati Covid nelle Rsa; le fabbriche aperte nella Bergamasca con gli operai costretti a “sanificarsi” col Vetril; la mancanza delle Usca; il collasso del contact tracing; l’insistente richiesta di riaprire ristoranti e impianti sciistici, nonostante l’avanzata della terza ondata; i fragili e fragilissimi che non potevano prenotare il vaccino perché i loro documenti cartacei non erano stati digitalizzati; gli acquisti fatti senza controlli (vedi l’affare Dama-camici); l’Ospedale in Fiera che “vantava” l’80% dei guariti – “la percentuale più alta d’Europa”, strillava Il Giornale – salvo poi scoprire che in quel (non) ospedale venivano ricoverati solo i pazienti “senza patologie o fragilità particolari oltre all’infezione da Sars-Cov-2”, mentre quelli “gravi” li curavano negli ospedali “veri”, per fortuna. Per tacere poi delle 13 gare per il vaccino antinfluenzale, dosi pagate fino a otto volte il loro costo, che il Pirellone non è stato neanche in grado di somministrare. E, infine, il dato peggiore: i 33.630 morti. Vien da chiedersi quanti se ne sarebbero evitati se la macchina delle vaccinazioni avesse funzionato da subito? Ha ragione, presidente Fontana, “la storia presenta sempre il conto”. Fossimo in lei, non staremmo tanto tranquilli.

Vaccini, obiettivo 500mila. 13 volte nel mese di maggio

Il record è arrivato il 28 maggio: oltre 580 mila somministrazioni in un giorno. Poi la soglia del mezzo milione auspicata dal commissario all’emergenza generale Francesco Paolo Figliuolo, è stata raggiunta e superata altre 12 volte. Non sempre, quindi, non come auspicato (e annunciato) da Figliuolo. A maggio la campagna vaccinale ha proceduto a singhiozzo. Con un ritmo altalenante le Regioni non sono riuscite a centrare l’obiettivo nemmeno il 50% delle volte. Avrebbe dovuto essere un mese di transizione, come detto più volte dallo stesso Figliuolo, in attesa di giugno e di quella “spallata” che dovrebbe essere assicurata dalla fornitura di oltre 20 milioni di dosi.

E così è probabilmente stato: un periodo di transizione altalenante. Va ricordato, notano dallo staff della struttura commissariale, che in maggio sono arrivate alle Regioni 17 milioni di dosi. E che di queste il 6-7% doveva essere accantonato per assicurare le seconde somministrazioni quando previste. “Al netto delle giacenze è stato somministrato tutto quello che è stato consegnato – dicono i collaboratori di Figliuolo –. Il buon andamento è dato da quanto è stato utilizzato rispetto a ciò che si aveva”.

Ora Figliuolo ha dato il via libera alla vaccinazione di massa (a partire dai 12 anni), di fronte alla quale ancora una volta – come raccontato ieri dal Fatto – le Regioni si muovono in ordine sparso. Da rilevare che tra i giovani si temeva il flop e invece gli open day attivati finora sono stati presi d’assalto. Ma mancano all’appello ancora tanti appartenenti alle classi di età più a rischio. Tra i 70 e i 79 anni solo il 35,9% è immunizzato completamente. Tra i 60 e i 69 anni la percentuale scende al 29,2%. Ed è questo a preoccupare maggiormente Figliuolo, che insiste con le Regioni sulla necessità di raggiungere chi ancora non è stato coinvolto, o perché ancora titubante o perché non scolarizzato dal punto di vista informatico, o perché difficilmente raggiungibile.

In pratica, quasi 2,2 milioni di over 60 (oltre 3, secondo la Fondazione Gimbe). Ancora tanti, troppi, ragiona Figliuolo. Che ai governatori ha indicato di cercarli, “sia attraverso i loro team mobili sia attraverso quelli della Difesa”.

Nel frattempo, l’idea di garantire la seconda dose nei luoghi di vacanza perde consistenza. “Si può fare solo in casi eccezionali”, hanno stabilito gli assessori regionali alla Salute, guidati dal nuovo coordinatore Raffaele Donini (Emilia Romagna). E la nota per Figliuolo e il governo, che devono autorizzare, è già pronta. In pratica, solo per chi farà vacanze molto lunghe si potrebbe prospettare questa soluzione. “E resta il punto fermo che la vaccinazione è meglio farla dove si risiede – spiega Donini, che ha preso il posto del suo collega del Piemonte Luigi Icardi da poche settimane –. Noi diamo una possibilità, ma sarebbe bene programmare le vacanze in funzione della vaccinazione, considerata anche la flessibilità della data del richiamo, che per Pfizer e Moderna tutte le Regioni sono orientate a fare dopo 35 giorni”. La vaccinazione in vacanza non è quindi una priorità, anche se lo stesso Figliuolo ha chiesto di garantire flessibilità, per evitare che i cittadini saltino il richiamo perché in ferie. Diverso il caso di chi lavora o studia fuori regione. E che tende a ricongiungersi con i propri familiari per le vacanze. Secondo le Regioni, si può e si deve fare. “Questo – conferma Donini –, è un tema prioritario”.

Bye bye Mancini, lo 007 dell’incontro con Renzi

L’uscita di Marco Mancini dai servizi di intelligence di questo Paese rappresenta la fine di un’epoca. Quella legata agli uomini del vecchio Sismi (ora Aise, i servizi segreti per l’estero) di Nicolò Pollari, che in parte hanno già lasciato le agenzie. Marco Mancini negli 007 è tra i nomi più noti. Di recente è tornato agli onori della cronaca per l’incontro con Matteo Renzi in un autogrill di Fiano Romano. A luglio, con il raggiungimento dell’età pensionabile, però Mancini lascerà il Dis, l’agenzia che si occupa di coordinare Aisi e Aise, i servizi segreti per l’interno e per l’estero e di cui è caporeparto.

Dopo esser stato travolto dalle critiche per l’incontro con Matteo Renzi in un autogrill di Fiano Romano, secondo quanto risulta al Fatto, Mancini pare aver scelto l’opzione della pensione: a ottobre di quest’anno il dirigente compierà 61 anni, avrebbe potuto prolungare per altri cinque anni il proprio lavoro, magari con un altro incarico. La scelta di andare in pensione è stata concordata con l’amministrazione, che in questo modo si toglierà anche dall’imbarazzo di dovergli trovare un ulteriore incarico, evitando le polemiche sorte ogni qualvolta si parlava di una sua nuova promozione. Proprio Il Fatto aveva rivelato la possibilità, durante il governo Conte, di una nomina di Mancini, poi sfumata nonostante lo 007 fosse appoggiato da molti (anche tra 5stelle).

Intorno alla sua pensione adesso ruotano alcune questioni: il passato ritenuto da alcuni ancora ingombrante, gli incontri con i politici, e pure le vicende legate a conflitti interni alle agenzie soprattutto per una differente visione sulla gestione dei fondi di cui Mancini era responsabile.

Il passato, dunque. Mancini ha alle spalle una brillante carriera nell’ex Sismi (ora Aise) guidato da Nicolò Pollari. Nel 2005 arriva per lui una forte esposizione mediatica quando il 5 marzo di quell’anno viene fotografato a Ciampino mentre fa scendere dall’aereo la giornalista del manifesto Giuliana Sgrena, liberata dopo il suo sequestro in Iraq e dopo una corsa all’aeroporto di Baghdad che costa la vita al collega, Nicola Calipari. Nel 2006 viene arrestato due volte (poi rilasciato), per il sequestro dell’imam Abu Omar a Milano da parte della Cia e per lo spionaggio alla Telecom, in cui fu coinvolto il suo amico Giuliano Tavaroli che patteggiò: in entrambi i casi Mancini ne esce pulito anche grazie al segreto di Stato.

Di recente si è parlato di lui per l’incontro con Renzi – di dicembre scorso in un autogrill di Fiano Romano – rivelato da Report. Poi anche Salvini ha confermato alla trasmissione di Rai3 di aver visto Mancini “più volte, da ministro”. La vicenda ha creato qualche imbarazzo, seppur nei servizi per tutti si trattava di circostanze lecite. Poi l’autorità delegata per l’intelligence Franco Gabrielli ha emanato una direttiva per regolare gli incontri fra politici e 007. Ora Mancini potrebbe uscire di scena.

Impaccio e paura tra i fedelissimi: “Matteo sapeva?”

All’ora di pranzo, quando le agenzie battono la notizia della sentenza di condanna nei confronti dei due revisori contabili della Lega Alberto di Rubba e Andrea Manzoni, nelle chat dei parlamentari del Carroccio l’imbarazzo è palpabile. Il problema non riguarda tanto i legami dei commercialisti con il tesoriere Giulio Centemero (non indagato) né le responsabilità penali della vicenda. A spaventare i fedelissimi di Matteo Salvini è il risvolto politico, visto che Di Rubba e Manzoni erano incaricati di controllare i conti dei gruppi di Camera e Senato: “Saranno sempre visti come i commercialisti della Lega anche se nessuno dei vertici del partito è coinvolto” dice a mezza bocca un fedelissimo del segretario che negli ultimi anni ha costruito il suo successo politico prendendo le distanze dagli scandali dell’era Bossi-Maroni. E allora, dopo che fonti leghiste si limitano a spiegare che Di Rubba e Manzoni “sono innocenti fino a sentenza definitiva”, la linea ufficiale che viene data dallo staff di Salvini è semplice: guai ad accostare la vicenda al partito (“che è del tutto estraneo”) e ai suoi fondi. Restano però le domande aperte a cui nessuno vuole rispondere: cosa sapeva Salvini della questione? Come fu gestito il passaggio dalla vecchia Lega bossiana (“su un binario morto” scriveva in una email il tesoriere Centemero nel 2017 come rivelato dal Fatto) alla nuova Lega salviniana?

Resta il fatto che ieri nel Carroccio prime e seconde file volevano tenersi ben lontani dal commentare la sentenza. Di Rubba e Manzoni sembravano due sconosciuti e fonti parlamentari leghiste spiegavano che la vicenda giudiziaria “non c’entra niente con i conti dei gruppi parlamentari che sono tutti pubblici e controllati”. Anche il sempre loquace Claudio Borghi diceva di non saperne niente: “Non ho approfondito la questione e non conosco gli atti, però la prudenza mi impone di andarci con i piedi di piombo su vicende come questa”. Ma, dietro alle prese di distanza, tra i fedelissimi del segretario filtrava la “preoccupazione” per un nuovo “assalto della magistratura” che potrebbe verificarsi nei prossimi mesi. Con il rischio di azzoppare la corsa di Salvini verso Palazzo Chigi. “Nelle prossime settimane ogni passo falso andrà a vantaggio della Meloni” è la tesi di una fonte qualificata nel Carroccio. Perché non c’è solo la sentenza di ieri o l’indagine che va avanti tra Genova e Milano sui 49 milioni di euro, ma raccontano che Salvini sia sempre più preoccupato dal processo a Palermo sul caso Open Arms che lo vede imputato per sequestro di persona. Il leghista continuerà a usarlo come argomento di propaganda ma un’ipotetica sentenza, anche di primo grado, potrebbe danneggiare la sua agibilità politica. Per non parlare di una ipotetica, quanto lontana, condanna definitiva che potrebbe far scattare la legge Severino. Una bella spada di Damocle.

Anche se ieri la giustizia amministrativa ha fornito un assist a Salvini che vuole tenersi a un palmo non solo dalla storiaccia dei famigerati 49 milioni incassati indebitamente dal Carroccio (e che per questo è stato semi-rottamato), ma anche da tutte le altre grane. Tanto da ribellarsi alle linee guida della Commissione di garanzia per la trasparenza e il controllo dei rendiconti dei partiti politici che dal 2020 prevedono che la rappresentanza legale debba spettare al solo capo politico. Quando invece lo statuto del Carroccio l’attribuisce all’amministratore federale, ossia Centemero, che è pure tesoriere della Lega per Salvini premier oltreché patron dell’associazione “Più voci” attraverso cui, secondo i pm milanesi, sarebbe stata finanziata illecitamente la vecchia Lega. Il Tar ha dato ragione al Carroccio che aveva minacciato fuoco e fiamme pur di mantenere l’assetto previsto, arrivando a teorizzare l’incostituzionalità delle regole dettate dalla Commissione da cui dipende l’accesso per i partiti al 2 per mille dei contribuenti. Con cui i leghisti stanno ripagando in comodissime rate il debito da 49 milioni con lo Stato.

“Quel giro di bonifici che porta ai 49 milioni”

L’indagine della Procura di Milano sulla Lombardia Film Commission, che ha portato ieri alle condanne in primo grado di Alberto Di Rubba e Andrea Manzoni, è solo un pezzo di un’inchiesta più ampia, quella che punta a fare chiarezza sul principale tallone d’Achille della Lega: la sparizione dei 49 milioni di euro, soldi – secondo gli inquirenti – frutto di truffa ai danni dello Stato, che per questo dovrebbero essere restituiti ai cittadini italiani, ma che non si trovano più. Su questo punto i magistrati milanesi stanno ancora indagando insieme ai colleghi della Procura di Genova, ma alcuni fatti sono già certi. Lo dicono le carte depositate per il processo sulla Lombardia Film Commission. Secondo i calcoli della Guardia di finanza di Milano, una parte consistente dei 49 milioni è stata trasferita dalla Lega ad alcune società di proprietà di Di Rubba e Manzoni. Risultato: quando il Tribunale di Genova ha ordinato il sequestro del malloppo, a fine 2018, sui conti del partito sono state trovate solo le briciole.

La linea difensiva di Salvini finora è sempre stata la stessa: “I 49 milioni sono stati spesi in anni e anni di iniziative elettorali”. I documenti giudiziari raccontano una storia diversa. Tra il 2015 e il 2018 tre società di Di Rubba e Manzoni hanno ricevuto dalla Lega 1,7 milioni di euro. Si chiamano Studio Dea Consulting, Studio Cld e Non Solo Auto. Nulla sembrano avere a che fare con le “iniziative elettorali”: le prime due si occupano di fornire servizi di contabilità, la terza affitta automobili. Tutte e tre devono il proprio fatturato in buona parte ai bonifici fatti dalla Lega Nord e dalle sue società collegate. Scrivono ad esempio gli investigatori a proposito di Non Solo Auto: “I ricavi iscritti nei bilanci degli esercizi 2016 e 2017 sono pari a 175.089 euro e 268.734 euro e i bonifici ordinati dalla Lega Nord, relativi a fatture emesse nei predetti esercizi, ammontano rispettivamente a circa 154.000 euro e 183.000 euro”. Poi c’è la Barachetti Service, azienda edile controllata da Francesco Barachetti, anche lui imputato per la vicenda della Lombardia Film Commission ma processato separatamente da Di Rubba e Manzoni. Sempre tra il 2015 e il 2018 l’azienda di Barachetti riceve dalla Lega bonifici per 1,6 milioni di euro. Pure in questo caso, vista l’attività svolta dall’impresa (installazione di impianti idraulici), non dovrebbe trattarsi di denaro speso per iniziative elettorali. Sommando i soldi trasferiti dalla Lega a Barachetti Service, Studio Dea, Studio Cld e Non Solo Auto si arriva a un totale di 3,3 milioni di euro.

Secondo gli investigatori tutte queste aziende, che hanno incassato ricchi pagamenti da parte della Lega prima del sequestro dei conti da parte del Tribunale di Genova, “si pongono come mero tramite, rendendo conseguentemente dubbia l’effettività, oggettiva e soggettiva, delle prestazioni rese”. La procura sospetta dunque che il partito abbia usato le imprese intestate a Di Rubba, Manzoni e Barachetti come casse parallele, necessarie per spostare il denaro dai conti ufficiali per evitarne il sequestro. Un’ipotesi avvalorata dalla notizia pubblicata nei giorni scorsi dal Fatto: un’email inviata dal tesoriere Giulio Centemero nel gennaio del 2017 per informare Di Rubba e Manzoni che la Lega Nord “verrà messa su un binario morto giusto per stare in giudizio fino al terzo grado”. Per verificare i sospetti, i magistrati dovranno ora incrociare le fatture emesse dalle varie aziende con i servizi effettivamente forniti al partito.