“Lega, i soldi ai commercialisti ricompensa per rischiosi servizi”

Otre due anni dopo l’inizio dell’inchiesta e a dieci mesi dagli arresti, ieri il giudice milanese Guido Salvini ha condannato i contabili della Lega, Alberto Di Rubba e Andrea Manzoni, rispettivamente a cinque anni e a quattro anni e otto mesi per il caso della fondazione regionale Lombardia Film Commission (Lfc). Per la Procura, rappresentata dall’aggiunto Eugenio Fusco e dal pm Stefano Civardi, è certamente una grande vittoria, dopo un’indagine condotta con professionalità e ostinazione. Il giudice ha aumentato la pena per entrambi di quattro mesi, rispetto alle richieste formulate dai magistrati.

Il tribunale, è scritto nel dispositivo della sentenza letta ieri poco prima delle 13 a porte chiuse (il processo si è celebrato con rito abbreviato), ha disposto il sequestro di due villette all’interno del Green Residence Sirmione a Desenzano del Garda per un valore complessivo di oltre 300mila euro. Secondo la ricostruzione dell’accusa, quelle ville furono comprate con parte del denaro pubblico pagato da Lfc per acquistare un capannone a Cormano. Di Rubba e Manzoni, interdetti in perpetuo dai pubblici uffici e sospesi dalla loro attività di commercialisti per i prossimi quattro anni, erano imputati a vario titolo per turbata libertà nella scelta del contraente, per peculato e concorso in peculato. Prima di loro hanno patteggiato il prestanome Luca Sostegni a 4 anni e 10 mesi e il commercialista milanese Michele Scillieri a 3 anni e 8 mesi, che dopo l’arresto ha iniziato a collaborare con i pm. Con rito ordinario si sta svolgendo il processo a carico dell’imprenditore bergamasco Francesco Barachetti, anche lui imputato per concorso in peculato e destinatario di parte del denaro frutto del peculato.

Secondo il procuratore aggiunto Eugenio Fusco, “l’intero progetto criminoso – come si legge nelle sue note depositate in aula – viene realizzato grazie a strettissimi rapporti personali, professionali e di comune militanza politica, in parte occultati, in parte coperti dai controllori”. La vicenda Lfc è legata all’acquisito di un capannone a Cormano da adibire a nuova sede. Valore: 800mila euro. Prima dell’acquisto, il capannone stava in pancia alla società Paloschi che nel 2016 correva verso il fallimento. Entrano così in gioco Scillieri e il cognato. Paloschi venderà l’immobile alla società Andromeda sempre riferibile alla cerchia dei commercialisti leghisti che poi venderà a Lfc. Tutta la vicenda sarà costruita a tavolino dal 2016 e cioè oltre un anno prima del preliminare di vendita. Il tesoretto, che comprende la prima vendita da Paloschi ad Andromeda (dove non è contestato il peculato) e la seconda a Lfc, hanno dimostrato le indagini della Finanza coordinate dal maggiore Felice Salsano, sarà poi frazionato: una parte finirà in Svizzera e un’altra andrà a Manzoni, Di Rubba e Barachetti attraverso un risiko societario.

L’intera vicenda dunque si è giocata sotto l’ombrello della Lega. Scrive Fusco: “L’asse, per sé penalmente irrilevante ai fini di questa porzione di indagine, è ben ricostruito dallo stesso Manzoni: Matteo Salvini posiziona Giulio Centemero nella carica di tesoriere del partito e Centemero si avvale della collaborazione dello stimato amico e collega Manzoni, che a sua volta gli introduce Di Rubba”.

L’indagine Lfc dove “nulla è come sembra” resta solo un capitolo di un romanzo ancora da scrivere. Altre indagini sono in corso sul fronte dei soldi al partito. Tra queste, una per bancarotta dove è indagato Manzoni. Per l’accusa l’intera vicenda si è snodata “attraverso un’accorta apparecchiatura di mezzi, istanze, atti pubblici, fatture, contratti, consulenze, perizie”. Il tutto per uno scopo: “Impossessarsi di danaro pubblico (…) quasi inteso come ricompensa dovuta di più complessi e rischiosi servizi”. Quali che siano questi altri “rischiosi servizi” lo sta verificando la Procura. Per la quale “una cosa è certa: la molteplicità di legami, leciti e illeciti che accomunano Centemero, Manzoni, Di Rubba e Scillieri: dal servizio di domiciliazione per la nuova Lega (nello studio di Scillieri) al sistematico ritorno economico a Di Rubba e Manzoni degli emolumenti relativi agli incarichi ricevuti da Scillieri nella Lega”.

Il silenzio è d’oro

Nel dibattito dadaista sulla scarcerazione di Giovanni Brusca dopo 25 anni di galera, si dice che è uno scandalo liberare chi ha ucciso Falcone e altre cento persone, tra cui un bambino sciolto nell’acido: peccato che a liberarlo sia una legge voluta da Falcone, senza la quale non sapremmo che Brusca ha ucciso Falcone e altre cento persone, fra cui un bimbo sciolto nell’acido. In un Paese serio, anziché di Brusca, tutti si preoccuperebbero delle sentenze della Cedu e della Consulta contro l’ergastolo “ostativo” (che poi è l’ergastolo vero, ma nel Paese della giustizia finta occorre specificare), che stanno per liberare non i mafiosi che hanno parlato, ma quelli che stanno zitti. I quali non avranno più alcun motivo per parlare. Ora però i garantisti alla vaccinara si sono inventati un nuovo mantra: “Brusca non ha detto tutto”. Possibile. Ma che hanno in mente per fargli dire tutto: la tortura? Un modo civile ci sarebbe: imitare gli Usa. Lì, se un criminale collabora, non ottiene sconti di pena: non viene proprio processato. E può parlare quando gli pare.

Invece noi, furbi, grazie a una legge criminogena del 2000 voluta dal centrosinistra, diamo ai pentiti sei mesi per dire tutto. Se si ricordano qualcosa dopo, non vale. Il che rende ridicola l’accusa a Brusca di “non aver detto tutto”: anche se avesse altro da dire, essendo i suoi sei mesi scaduti da 24 anni e mezzo, non potrebbe più dirlo. E, se lo dicesse dimostrerebbe di non aver detto tutto e rischierebbe di perdere i benefici e tornare dentro. Qualcuno vuole che dica il resto? Cancelli la regola dei sei mesi. Poi però il rischio è che Brusca abbia davvero altro da dire. E lo dica. Per esempio sui mandanti esterni delle stragi, sulla trattativa Stato-mafia (che svelò un anno prima che la confermassero Mori e De Donno), sul ruolo di B. e Dell’Utri che l’ha visto sempre reticente. Perché un mafioso pentito, soprattutto all’inizio, non dice tutto? Per due motivi: il desiderio di proteggere i suoi amici o parenti; e il timore di inimicarsi qualche rappresentante dello Stato che lo protegge e firma con lui il contratto di collaborazione. Gaspare Spatuzza smontò il depistaggio su via D’Amelio, scagionò il falso pentito reo confesso Scarantino, dimostrò di essere l’autore della strage: e fin lì applausi scroscianti. Poi però fece i nomi di B. e Dell’Utri sui rapporti del boss Graviano durante le stragi. Napolitano tuonò contro le “rivelazioni più o meno sensazionalistiche di soggetti, diciamo così, piuttosto discutibili”. Il governo B. gli levò la protezione. E Spatuzza non disse più una parola. Se davvero qualcuno vuole scucirgli la bocca, rimuova la regola dei sei mesi dalla legge sui pentiti e Forza Italia dal governo. Secondo voi, così a naso, lo faranno?

“Quante belle donne dai fianchi discinti, colli lunghi e cuori addolorati e anemici”

Le scale erano così buie, così buie, che afferrai con le due mani le due falde della lunga redingote del mio ebreo. Gli scalini erano ripidi. L’ebreo si inerpicava senza fermarsi! Il suo respiro era affannoso. Mi portava su appeso dietro di lui. Saliva, e intravedevo davanti a lui, a tratti, quando non era nascosta dalla sua grande persona nera, una sagoma rossa che agitava, leggera come un papavero, un grazioso scialle sangue di bue che svolazzava per le scale. Il mio ebreo continuava ad arrampicarsi nella mia visione. Alla fine, posai le mani sulle sue spalle, saltai al di sopra e mi ritrovati dietro una porta chiusa, in ginocchio, sotto i due più teneri occhi che siano mai caduti dal cielo sulla terra.

“O lunghi sguardi che vanno più lontani della terra, i corpi inchinati come in preghiera, l’abbandono, la sera, mani magre sulle terrazze, contemplazioni silenziose su città addormentate, le ampie pieghe che ricadono intorno a fianchi discinti, gli ovali reclini di Vergini dal collo lungo, passi inclinati e molli che sfiorano la terra, come passi di ombre, il sorriso pensoso di labbra serie appena socchiuse. O adorabili languori, celesti pallori di donna, melanconia divina della sua beltà cristiana, siete voi i miei amori, e sei tu, Zita, la mia prediletta! Tu, la donna dalla fronte ornata di sogni, tu la donna dal cuore addolorato e anemico, dove nascono tenerezze immateriali, tu, che hai una bellezza più bella della bellezza della forma, tu, novella Venere, tu, giovane fisionomia moderna, tu, ascensione dell’anima nella tua linea, tu, questa incantatrice che Dio non ha fatto, né con una linea, né con un colore, ma che si direbbe creata come dall’irraggiamento ideale preso al suo volto sorridente e crocifisso! Ti conosco: sei la vergine madre del genio di Carpaccio! Il dolce poema di quel mondo rischiarato dall’oro pallido dei crepuscoli, io lo rivedo in te! La leggenda e le fantasticherie di questa generazione prosternata, il fascino pio e la grazia dolente di questo secolo, dove il corpo sembra cedere sotto il peso di un pensiero di adorazione spirituale, abitano tutti interi in uno solo dei tuoi sguardi! Tu sei la donna, tu sei l’ispiratrice, tu sei l’angelo di tutti questi antichi maestri, che Venezia conserva nei suoi antichi quartieri, come si conservano nel cuore dei popoli le vecchie poesie! Zita! Ti amo!”.

Balestrini e la fine del mito del proletariato nel romanzo

Cinquant’anni fa, nel 1971, uscì il romanzo di Nanni Balestrini (1935-2019) Vogliamo tutto (Feltrinelli). Raccontava la storia di un operaio dai mille mestieri. Proveniente dal Sud, emigra a Nord, nel periodo più caldo della lotta operaia. “All’operaio non piace il lavoro, è costretto a lavorare”.

Fino ad allora l’operaio era stato dipinto dagli scrittori come un onesto e sincero interclassista. Dopo il Sessantotto diventa violento, non ha coscienza ma istinto di classe; disobbedisce innanzitutto ai padroni e poi ai sindacati e ai partiti che vogliono imbrigliare la lotta.

L’operaio di Balestrini è irrecuperabile. Non assomiglia affatto agli operai di Paolo Volponi o di Vasco Pratolini. È selvaggio, violento, egocentrico. E finisce alla fine anche con espropriare Balestrini dai compiti di scrittore.

Nanni non aveva fatto altro che registrare e pulire la voce di un operai vivo, Alfonso Natella, e aveva composto il romanzo in piccole lasse, somiglianti a poemetti in prosa. Aveva visto come lavorava, ritagliando pezzi di giornale e sistemandoli sul suo tavolo nella casa vicino a Campo de’ Fiori a Roma. Non credo che abbia mai scritto un rigo di suo pugno.

Una volta incontrai Natella, che Nanni ospitava nella sua Cinquecento, felice di aver prestato la sua voce al famoso scrittore . Balestrini era di Potere Operaio, un gruppuscolo extraparlamentare che aveva a capo Franco Piperno, mentre io ero del manifesto.

Vogliamo tutto era la scritta che gli operai-massa scrivevano sui muri della fabbrica, scandalizzando i borghesi.

Nell’inferno di Mirafiori, Alfonso Natella viene a contatto con gli studenti dei vari gruppuscoli al di fuori del Partito comunista e organizza con loro gli scioperi selvaggi, diventando un militante. Volantina, partecipa alle assemblee e alle grandi lotte della primavera a Mirafiori, ma anche nelle altre fabbriche milanesi, fino a raccontare la furiosa battaglia di corso Traiano a Torino con la polizia nel 1969.

Nella società odierna dell’operaio-massa è scomparsa perfino l’ombra minacciosa. È forse traslocato nei neri che combattono nelle campagne per non essere trattati come schiavi. Loro però non vogliono tutto, ma puntano a un contratto dignitoso, abbandonando l’abito degli schiavi. Anche il mito del proletariato, ancora vivo negli anni Settanta, è scomparso. Ogni tanto compare qualche romanzo dedicato ai capannoni delle fabbriche riutilizzati come discoteche o supermarket. E gli operai in televisione sono quelli che muoiono sul posto di lavoro. Eppure quel mito, almeno presso gli scrittori, era cominciato con Alessandro Manzoni.

Dedicai un lungo saggio che uscì per Garzanti nel 1977 al “mito del proletariato nel romanzo italiano”, che andava dal romanzo rusticale a quello scapigliato, al romanzo socialista, da quello strapaesano a quello neorealista, dal romanzo d’avanguardia fino a quello post-sessantottino.

Con il ritorno del romanzo di consumo negli anni Ottanta, a cominciare da Il nome della rosa di Umberto Eco, che ancora dura oggi sotto specie di “autofiction”, tutto quel mondo di “rebelles” è scomparso. Allora, su libri come Vogliamo tutto, si accendevano dibattiti nelle Università occupate, nelle radio libere, proprio come accadde al mio romanzo d’esordio, Cani sciolti, che però aveva come protagonisti due insegnanti alle prese con la cultura agro-pastorale delle scuole di provincia, che il Movimento non aveva messo nemmeno in conto. Detto tutto, il romanzo di Balestrini è ancora vivo.

Un sogno chiamato Venezia. I Goncourt e la città “magica”

“A proposito, Lei è sicuro che Venezia esista? Forse è una città immaginaria, costruita per le esigenze dei drammi”. Così scriveva Jules de Goncourt in una lettera del 1855, poco prima di partire egli stesso, insieme al fratello Edmond, per un viaggio di sette mesi in Italia che fruttò un taccuino di appunti corredato da una serie di sapidi schizzi. Pittori e diaristi (celebre il loro puntuto Journal), i Goncourt scelgono come punto di svolta del loro percorso di autori proprio l’Italia, quella terra ormai mitica e un po’ trita che nella coscienza dei viaggiatori si velava di malinconia emergendo dalle plaghe della memoria, chiusa nella conservazione di un insormontabile passato e punteggiata di ombre di città defunte.

È in Italia che i due consolidano e rilanciano la dimensione fantaisiste della loro scrittura, se fantaisie vuol dire, nel senso caro a Théophile Gautier, la “facoltà di formare immagini della realtà, di combinare e ricomporre ricordi”: ben consapevoli dell’incombere dei luoghi comuni, dell’onnipresenza delle idee precostituite, i Goncourt espungono la storia, il paesaggio, le “cose viste”, e partono dal pittoresco e dall’insolito per elaborare unicamente la suggestione del tutto soggettiva che i luoghi producono su di loro, sconfinando nell’onirico, nel nostalgico, nel surreale. Il manoscritto che ne risultò, L’Italie la nuit, fu letteralmente dato alle fiamme a seguito della pessima accoglienza dell’unico suo frammento apparso a stampa nel 1857 (peraltro proprio sulla rivista di Gautier, L’Artiste), dal titolo Venise la nuit – rêve, ora riproposto in italiano da Carlo Alberto Petruzzi per la piccola casa editrice Damocle.

Qui la Venezia “reale” è al più una quinta, “un teatro di Shakespeare”: il racconto scorre come una fantasmagoria alla Goya, alla E.T.A. Hoffmann, un sogno che prende spunto dai litigi tra verdurai, dai piccioni di San Marco o dagli ambigui sorrisi delle donne di Cannaregio per costruire scene sempre più improbabili e surreali, carnevalesche, funamboliche. Con una scrittura sovraccarica e barocca, densa di raffinati italianismi e di interminabili cataloghi, i Goncourt raccontano un rocambolesco furto della Venezia trionfante del Veronese dal soffitto di Palazzo Ducale, che poi conduce l’io narrante dentro un Giudizio universale simile a quello di Torcello, quindi nel corso di una seduta del Consiglio dei Dieci e dell’Inquisizione, infine tra le tombe dei Frari, in mezzo alle maschere della Commedia dell’Arte in un allucinato Carnevale, e in un continuo rimpallo visionario fra Tintoretto e Gaspara Stampa, fra Lepanto e il Ghetto, fra Aldo Manuzio e Maria Malibran. Finché l’ultima metamorfosi cangia tout court il narratore nel leone di San Marco, affumicato dalla sigaretta di un soldato francese e da un colpo di cannone – trasparente allusione alla fine della Serenissima nel 1797.

La Venezia di questo sogno è una città morta da decenni, la città delle maschere e dei libri, dell’opera, del teatro e dei pittori, quella città stereotipata che trova la sua apoteosi nel Settecento: non a caso, personaggi del racconto sono Carlo Gozzi, Pietro Longhi, il libraio Pasquali. Ma soprattutto – conformemente all’immagine consolidata della città nell’Ancien Régime – Venezia è la città dell’amore e della voluttà, delle margherite che si sfogliano e delle promesse infrante, dei tramonti in deliquio, degli abiti alla moda e delle cortigiane ai balconi: ecco dunque l’irrompere in questa fantasmagoria senza tempo della leggendaria cortigiana e poetessa cinquecentesca Veronica Franco, e dell’irresistibile Zita.

Tramite questa tempesta di colori, tutta libresca e memoriale, i Goncourt cercano di rianimare ciò che vedono, ovvero “la Venezia grigia delle acqueforti di Canaletto: una città imbrattata di segni, offuscata di linee, con orizzonti brulicanti di campanili, di terrazze, e di camini svasati, e tutta piena d’ombre dalle apparenze inquiete, di sagome confuse e rumorose… I passanti non erano più che grumi d’inchiostro in movimento, e vedevo, nella notte del giorno, Guardi tenere una tavolozza dove c’era soltanto del bianco e del nero”. Sembrano già gli spettri che Giorgio Agamben ravvisa nella Venezia di oggi, “città postuma” quant’altre mai.

Il decisionista Draghi s’impantana sulla Rai: nomine rinviate a luglio

Sembravacosa fatta. Con velocità ed efficienza. Così com’è accaduto su Dis, Cdp e altre occasioni. E, invece, Mario Draghi s’è impantanato sulla Rai. Pure lui, come tutti gli altri. Ed è stato costretto a rinviare di un mese le nomine per il nuovo vertice.

L’assemblea dei soci, convocata in prima battuta l’8 giugno e in seconda il 14, è stata rinviata al 30 giugno in prima convocazione e al 12 luglio in seconda. Questo significa che fino a quest’ultima data, la tv di Stato non avrà una nuova governance. Verrà solo eletto il consigliere dei dipendenti, che si voterà in azienda il 7 giugno. E stop. Perché al momento non è stata nemmeno fissata la data per il voto sui quattro consiglieri di nomina parlamentare. Che però, visto il calendario, a questo punto avverrà a ridosso del 30 giugno. Ma perché questo rinvio? A quel che si dice, il premier non ha ancora individuato il nuovo amministratore delegato. Ha in testa due o tre nomi, ma non ha ancora deciso. Ma l’impasse è soprattutto sul presidente, su cui l’accordo politico ancora non c’è. Già, perché se per l’ad il governo può decidere in autonomia, il presidente dev’essere il frutto di una precisa intesa con le forze politiche, prodromica all’ottenimento, poi, del via libera in commissione di Vigilanza con una maggioranza di due terzi. Che l’accordo non ci sia lo dimostra pure l’assordante silenzio degli esponenti politici sul rinvio. Segno che lo slittamento va bene a tutti. Anzi, magari è stato chiesto proprio dai leader consultati, uno per uno, sull’argomento dallo stesso Draghi. L’ultimo nome saltato fuori come possibile presidente col sì di Pd e 5 Stelle è quello di Milena Gabanelli, che però non incontra il favore del centrodestra. “Il rinvio fa male alla Rai e si spiega solo con l’esigenza di partiti e governo di avere più tempo per trovare la quadra su come occupare e lottizzare. Questo ritardo lascerà nel pantano l’azienda per altri 2 mesi almeno”, ha fatto notare l’Usigrai insieme all’Fnsi. Per Michele Anzaldi, unico esponente politico a parlare, “il rinvio è gravissimo”, mentre “questo vertice se ne deve andare subito”.

Tutti gli altri, invece, muti. Così come muto è rimasto il premier. E un mese cambia parecchio le cose. Significa, ad esempio, che i palinsesti autunnali e i relativi contratti saranno decisi ancora da Fabrizio Salini e Marcello Foa. Ragion per cui ora potrà essere finalmente fissata la data della presentazione dei palinsesti, appuntamento cruciale per gli investitori pubblicitari. Evento che dovrebbe tenersi al massimo entro le prime due settimane di giugno. Ora, infatti, non c’è più motivo di restare appesi alle scelte di Palazzo Chigi. Dove si sono presi un mese in più per decidere.

La “Netflix” di Franceschini: pochi contenuti, prezzi più alti

Era stata annunciata in diretta su Rai3 nell’aprile del 2020, ma ha conosciuto un lancio in sordina. La “Netflix della cultura italiana”, voluta dal ministro Dario Franceschini che ha investito 10 milioni nel progetto (altri 9 sono di Cassa Depositi e Prestiti), è stata svelata al pubblico il 31 maggio. In ritardo rispetto al lancio previsto tra febbraio e marzo. La piattaforma si chiama ItsArt, come la società nata a dicembre e partecipata al 51% da CdP e al 49% da Chili Tv, partner commerciale dell’operazione, selezionato dopo una ben poco pubblicizzata manifestazione di interesse agostana. Chi si aspettava una piattaforma innovativa è rimasto deluso. Il sito replica stile e funzionamento di Chili Tv, che vende singoli contenuti senza abbonamento.

Sono proprio i contenuti a sollevare dubbi: “più di 700” secondo quanto riportato dal comunicato stampa, di cui solo 29 esclusivi (di questi, 6 sono eventi non ancora disponibili). Per il resto si tratta di materiali prodotti da grandi istituzioni pubbliche (teatri d’opera e musei autonomi) o di produzioni Rai già disponibili su Facebook, Youtube o RaiPlay. Ci sono, poi, una limitata selezione di film d’autore italiano, già disponibili su Chili TV, e un’ampia selezione di documentari prodotta da “Italiana”, una nuova piattaforma del ministero degli Esteri che produce contenuti culturali con budget ambizioso (51 milioni di euro l’anno a partire dal 2023). Il resto è più che altro materiale d’archivio.

Anche i prezzi lasciano perplessi: 13 euro per un concerto online di Claudio Baglioni e quasi 5 euro per il noleggio di film degli anni 60 disponibili su Chili Tv a un prezzo più basso. Ma da ItsArt fanno sapere che è “normale riscontrare differenze di prezzo”, influenzate da diversi fattori, e rivendicano l’esistenza di un catalogo già ricco.

Da gennaio, il sito di ItsArt, vuoto, chiedeva di inviare contenuti. La società eredita il personale e il know-how di Chili, con esperienza nella sola distribuzione cinematografica. E traspare soprattutto una difficoltà a reperire inediti, dovuta probabilmente alle modalità di pagamento proposte: ItsArt si limita a distribuire contenuti, ma non a produrli, trattenendo però per sé dal 10 al 50% dei ricavi del contenuto culturale venduto. Il rischio per il produttore – che dovrebbe sobbarcarsi i costi senza neppure avere il controllo sui ricavi – a queste condizioni è enorme. Non stupisce che si sia optato per la pubblicazione di materiale d’archivio spesso disponibile altrove, anche per evitare di ritardare ulteriormente il lancio. Per ora ItsArt è disponibile solo in Italia e Regno Unito. Contattato dal Fatto, ItsArt considera “un successo” il lancio dopo soli cinque mesi, spiegando di guardare ben più in là dell’estate: “È stata una scelta dettata dal desiderio di alzare ulteriormente la qualità dei prodotti offerti e dal numero di contratti con le istituzioni”, a conferma di un problema di contenuti.

Non è chiaro quanto ItsArt riuscirà a monetizzare vendendo concerti, clip museali e film a simili prezzi, con un format che ha già mostrato i suoi limiti (Chili TV, vendendo “per singolo evento”, ha accumulato perdite per oltre 50 milioni). L’esclusione di RaiPlay, voluta da CdP e ministero, resta inspiegabile: lo stesso investimento poteva consentire alla Rai di acquistare più contenuti culturali, favorendo lavoro e produzione. Anche lo stesso Franceschini, cambiando linea, il 2 marzo ha detto di ritenere “utile” e “auspicabile” un coinvolgimento della Rai, dopo averla estromessa da una piattaforma che vende contenuti a pagamento (la Rai come servizio pubblico non può farlo): la commissione di vigilanza Rai ha bocciato la risoluzione che imporrebbe all’azienda l’ingresso in ItsArt. Chissà se il lancio del 31 maggio ora imporrà una revisione delle priorità.

Herzog nuovo presidente Lapid, il governo parte male

Una giornata ambivalente quella di ieri per gli israeliani: col fiato sospeso fino all’ultimo sull’esito del mandato esplorativo affidato al capo dell’opposizione, il centrista Yair Lapid, per formare un nuovo governo senza Benjamin Netanyahu, mentre la Knesset sceglieva l’undicesimo presidente. Con un voto a scrutinio segreto, i 120 membri dell’assemblea legislativa (monocamerale) hanno scelto il sessantenne Isaac Herzog, detto “Bougie”, che il 9 luglio subentrerà a Reuven Rivlin. L’avvocato ed ex leader laburista ha ottenuto una maggioranza schiacciante: 87 voti contro i 26 della rivale, la preside di liceo e attivista politica Miriam Peretz che ha subito la perdita di due figli in guerra. “Bougie” andrà a ricoprire per almeno sette anni la carica che fu del padre Chaim dal 1983 al 1993. Il ruolo di presidente è limitato, essendo Israele una repubblica parlamentare. Resta il fatto che il presidente non è solo una figura simbolica perchè può esercitare la cosiddetta moral suasion orientando scelte e comportamenti dei politici su temi sensibili. Il moderato Herzog, che in veste di segretario del partito laburista non brillò e fu accusato di non avere carisma né la natura genuinamente di sinistra per riportarlo in auge, ha commentato il risultato sottolineando la propria intenzione di “costruire solidi ponti e accordi tra di noi” e con i nostri fratelli e sorelle della diaspora”. Il presidente eletto ha quindi ricordato le prove più difficili che il paese sta affrontando: la ricerca di un modus vivendi con I palestinesi in seguito alla recente guerra e quindi tregua con Hamas e le difficoltá interne per formare un governo stabile dopo 4 elezioni in soli 2 anni. “Le sfide sono grandi e non devono essere sottovalutate. Dobbiamo difendere la posizione internazionale di Israele e il suo buon nome tra le nazioni”, ha affermato Herzog, citato dal quotidiano Haaretz- Sul fronte della “coalizione del cambiamento”, non si può dire che tutto fili liscio; fino a ieri sera liti per alcune cariche fra il partito Yamina di Bennett e il Labor, e ancora frizioni interne dentro Yamina con minacce di dimissioni e di non votare la coalizione. Per Lapid una gran fatica.

L’industria dei rapimenti: la gang dei “400 Mawozo”

I ‘400 Mawozo’ seminano il terrore nella località di Croix-des-Bouquets, vicino a Port-au-Prince. Si finanziano tramite traffici illeciti e furti di automobili, ma soprattutto sequestri di persona. Non guardano in faccia a nessuno, ricchi e poveri, gente del posto e stranieri, ma gli stranieri sono moneta di scambio più ricercata, perché si possono chiedere riscatti più alti. Secondo fonti locali, sarebbe stata questa gang a rapire martedì l’ingegnere Giovanni Calì, 74 anni, e un suo socio haitiano. Sono stati prelevati entrambi sul cantiere dove Calì, in passato anche assessore ai Lavori pubblici alla provincia di Catania, lavorava per conto della ditta romana Bonifica.

I rapitori avrebbero preso contatto con la famiglia del socio di Calì per chiedere un riscatto di 500 mila dollari. Il gruppo è senza scrupoli. Il 3 dicembre 2020 aveva sparato su uno scuolabus e rapito una quindicina di bambini. La polizia li aveva ritrovati nel covo della gang e messi in salvo. Non si è mai saputo quanti soldi sono stati versati. Alcune settimane dopo, il presidente Jovenel Moïse aveva annunciato un blitz della polizia a Croix-des-Bouquets e l’arresto di una quindicina di banditi. Ma nessuna arma era stata sequestrata e i veri boss erano rimasti liberi. L’11 aprile scorso sette religiosi, tra cui un prete e una suora francesi, erano stati rapiti nella stessa zona e liberati dopo venti giorni: era stato pagato un milione di dollari. Il primo ministro Joseph Jouthe si era dimesso definendo i fatti “una pagina nera del nostro paese”. La chiesa cattolica aveva a sua volta proclamato uno “sciopero”, denunciando la “discesa all’Inferno della società haitiana”. I ‘400 Mawozo’ sono solo una delle cento bande attive ad Haiti da una trentina d’anni. Nel quartiere Bel-Air di Port-au-Prince sono i Krache dife a dettare legge e a spargere sangue. Ad aprile, Éric Sauray, politologo franco-haitiano, aveva spiegato alla stampa francese: “Nei loro ranghi figurano ex agenti di polizia, talvolta agenti in servizio, e militanti politici, per lo più legati a personaggi politici. È impossibile immaginare che, in un paese così piccolo le autorità non riescano a smantellare queste gang se lo volessero davvero. Sia chi è al potere che l’opposizione dispone di sue gang”. Da dati delle Nazioni Unite, nel 2020 il numero dei rapimenti è triplicato in un anno: 234 contro 78 del 2019.

Ma per le Ong sarebbero tre volte di più. Haiti è uno dei paesi più poveri del mondo. Sei haitiani su dieci vivono con due euro al giorno. Il paese non si è mai ripreso dal terremoto del 2010, in cui morirono più di 200 mila persone, e dall’epidemia di colera che seguì. Da allora le gang si sono fatte più forti. Si ricorda il massacro di La Saline, una bidonville di Port-au-Prince, in cui 71 persone furono uccise il 13 novembre 2018 dai machete e i fucili degli uomini di una gang, sospettata di essere vicina al potere. Diverse migliaia di persone sono scese in strada nei mesi scorsi per contestare il regime di Moïse, che ha rifiutato di lasciare il potere il 7 febbraio, data di fine mandato. Moïse intende invece restare alla guida del Paese ancora un anno e ha promesso di indire elezioni entro febbraio 2022. Si aggiunge poi un’ondata di casi di Covid-19 che sta colpendo il Paese proprio in questi giorni. L’ospedale di Port-au-Prince è saturo. Martedì Moïse ha prolungato lo stato di emergenza.

Alaska, Biden ferma le trivelle che Trump aveva scatenato

L’Amministrazione Biden prende un’altra misura contro l’energia fossile e tira un tratto di penna, l’ennesimo, su una controversa decisione dell’Amministrazione Trump: da ieri, sono sospese le licenze per le trivellazioni alla ricerca di petrolio e di gas nell’Arctic National Wildlife Refuge, un’area naturale protetta nella zona nord-orientale dello Stato dell’Alaska. L’ordine, emanato dalla segretaria all’Interno Deb Haaland, una nativa americana, attua quanto già anticipato il giorno dopo l’insediamento di Biden alla Casa Bianca: prima di procedere, c’è voluta un’attenta revisione delle basi giuridiche – giudicate “carenti” – delle decisioni di Trump prese in base a una legge del 2017 del Congresso e in radicale contrasto con le scelte dell’era Obama. La disposizione di Biden, che potrà essere contestata in sede giudiziaria fino alla Corte Suprema, ridà corpo allo scontro politico su un’area remota che ospita orsi polari, caribù, lupi e altre specie selvatiche, fra cui uccelli migratori provenienti da tutti i continenti, ma che è pure ricca di petrolio e di gas. L’area è sacra ai Gwich’in, nativi locali, che, con gruppi verdi e altre tribù, cercavano da tempo di bloccare le licenze. La messa in vendita delle concessioni era avvenuta il 6 gennaio, il giorno dell’assalto al Congresso da parte dei sostenitori di Trump, due settimane prima dell’entrata in carica di Biden; e venne resa pubblica solo il 19 gennaio, il penultimo giorno del mandato di Trump. L’interesse degli industriali del settore è però stato tiepido, forse perché tutti sapevano che le licenze erano a rischio. In campagna elettorale, Biden s’era opposto alle trivellazioni. E gli ambientalisti ora s’aspettano una protezione permanente per quell’area. Il governatore dell’Alaska Mike Dunleavy, all’unisono con i due senatori e il deputato dello Stato, tutti repubblicani, hanno criticato la revoca delle licenze. Per Trump due delusioni: oltre all’Alaska la decisione di chiudere dopo meno di un mese il suo blog From the Desk of Donald J. Trump; doveva essere l’alternativa ai social che lo hanno bannato.