Niente incarichi alle etnie. Il razzismo regna a corte

È il 1968. Nel Regno Unito è la stagione della libertà, della trasgressione, della rottura con la tradizione, dell’avanzamento di diritti civili e sociali. A novembre il Parlamento approva la seconda parte del Race Relations Act, la legislazione avviata nel 1965, che mette fuori legge qualsiasi discriminazione razziale. Il provvedimento prevede la costituzione della Commission for Racial Equality, la Commissione permanente sull’Eguaglianza fra le razze creata per vigilare sull’osservanza delle nuove regole.

L’iniziativa politica è del primo ministro laburista James Callaghan, che vuole estendere ai luoghi di lavoro e domestici il raggio d’azione della legge di tre anni prima, riservata ai luoghi pubblici. Il primo Race Relations Act ha avuto un fortissimo impatto simbolico, ma non ha eradicato il razzismo e la discriminazione più rilevanti, quelli legati all’indipendenza economica e alla dignità dei lavoratori di colore. Vuole quindi costituire il Race Relations Board, una agenzia di vigilanza che esamini denunce di discriminazione e abbia il potere di portare in tribunale singoli o società razziste.

Callaghan pensa di poter evitare il passaggio stretto del “consenso” del monarca. Una prerogativa che la Corona definisce come formale, ma che per decenni ha consentito a Buckingham Palace di intervenire a proprio vantaggio, e nella massima riservatezza, sull’autonomia del Parlamento. Malgrado le speranze del leader laburista, succede anche stavolta. A febbraio, quando la legge è ancora allo stadio di proposta, Lord Tyron, direttore amministrativo della Corona britannica, informa i suoi referenti nella pubblica amministrazione che “non è consuetudine della famiglia reale assumere immigrati di colore o stranieri per ruoli amministrativi”. Hanno però il permesso di lavorare come domestici. Lord Tyron chiarisce che Buckingham Palace è disposta ad accettare il disegno di legge a condizione che si applichi una esenzione specifica già prevista per i diplomatici: la possibilità di respingere candidature di persone residenti nel Regno Unito per meno di 5 anni. Un escamotage che permette e giustifica un certo arbitrio, discreto, nella selezione. Una esenzione provvidenziale, perché permetteva alla Corona, in caso di sospette pratiche razziste, di evitare i tribunali. Grazie a questo trattamento eccezionale, il Race Relations Board, infatti, avrebbe dovuto condividere le proprie verifiche solo con il ministro degli interni, non con dei giudici indipendenti. È così che a marzo 1968, secondo i documenti, si trova l’accordo per il consenso della Regina. Se non si fosse trovato, la Corona avrebbe posto il veto?

L’esclusiva è, di nuovo, del Guardian, unico quotidiano britannico con la forza, la credibilità e il seguito per intaccare la favola della Corona benevola: torna alla carica e riprende la sua inchiesta sulle interferenze dei Windsor nella politica del Regno Unito. Scava negli archivi, riporta alla luce documenti da cui emerge che, malgrado la linea ufficiale di non ingerenza, funzionari della Casa Reale avrebbero negoziato, modificato, posto limiti e condizioni al percorso e al dettato di disegni di legge che avrebbero potuto ridimensionare le prerogative o avere un impatto sugli affari dei Reali. Le ultime rivelazioni si colorano di razzismo, se davvero la risposta reale alla sempre tardiva legge anti-razzismo è stata indicare la linea da non oltrepassare, chiarire in un carteggio ufficiale che a quella discriminatoria ‘consuetudine’ la Corona non era disposta a rinunciare. Una vicenda dolorosa ma superata, una impostazione culturale vergognosa e antiquata ma poi finalmente rivista? No: nel 1997, ricorda il Guardian, Buckingham Palace aveva ammesso di non aver verificato il rispetto delle linee guida ufficiali previste per garantire pari opportunità ai suoi lavoratori.

E quella esenzione è stata estesa anche in tempi recenti, quando nel 2010 l’Equality Act ha sostituito ed esteso la legislazione precedente. Non è un mistero che, in un paese fortemente interculturale e, ufficialmente, fiero di esserlo, nei palazzi reali abbiano sempre lavorato pochissimi neri, asiatici o membri di minoranze etniche, specie nei ruoli più a contatto con i reali.

Ma oggi, garantisce al Guardian un portavoce della Corona, a Palazzo si rispetta l’Equality Act, “in linea di principio e in pratica, e questo si riflette nella diversità, inclusione e dignità delle regole d’ingaggio della famiglia reale”.

I giornali e i camerieri fannulloni: “Ma offrono 300 euro al mese…”

Icamerieri non vogliono lavorare, i cuochi se ne vanno all’estero, i lavoratori degli hotel sono spariti: a leggere i giornali in questi giorni di prime riaperture post-Covid sembra di vivere in un Paese di nullafacenti per scelta. Ieri, ad articoli quasi unificati, è arrivato l’ennesimo allarme degli imprenditori che non trovano forza lavoro, soprattutto nel settore turistico e della ristorazione, che ha urgenza di ristrutturarsi per affrontare l’estate. Il sottotesto è un misto di incredulità e di colpevolizzazione dei sussidi (come il Reddito di cittadinanza) che terrebbero i lavoratori ancorati al divano. O, ancora, mancherebbero le professionalità , le cosiddette “skill”: dal servizio alla cucina, all’assistenza degli ospiti. Nei giorni scorsi, con dati ufficiali dell’Istat e delle imprese, Il Fatto ha sfatato il mito della scarsità dei braccianti nei campi, mostrando come in realtà non solo sia aumentata la produzione agricola in molte Regioni, ma anche come parallelamente sia cresciuto il lavoro illegale. E nel mondo della ristorazione, le dinamiche non sono tanto diverse.

Parliamo con Gianluigi Alessio, direttore amministrativo dell’istituto alberghiero Amerigo Vespucci di Roma. Conferma ciò che è chiaro a chiunque abbia contatti, anche indiretti, con la realtà turistica e della ristorazione: “La nostra scuola è all’avanguardia – spiega – formiamo professionisti sia per la sala che per la cucina. Gli imprenditori cercano tra i nostri studenti perché sono formati, dei professionisti insomma. Eppure ai nostri diplomati, più o meno recenti, arrivano per lo più proposte con contratti miseri…”.

Racconta che a un ormai ex studente è stato offerto un lavoro come chef a Miami. “Non ha esitato ad accettare – spiega Alessio – e quando gli ho chiesto come mai vuole partire, mi ha risposto che qui in Italia gli era stato offerto solo un posto con un contratto da stagista”. Uno stagista che avrebbe dovuto lavorare otto-dieci ore al giorno per poco meno di 400 euro. “In America gli offrono 2.500 dollari di paga iniziale, vitto e alloggio, prospettiva di contratti professionistici e un corso di inglese accelerato. Perché mai dovrebbe restare?” La fuga dei cervelli è anche questa. E rischia di aumentare.

“Gli imprenditori non danno dignità a questo lavoro”, continua Alessio. E cosa significa? “Molto semplicemente, un contratto regolare che riconosca il lavoro e la professionalità. Che abbia adeguate tutele e che sia un investimento sul lavoratore, non mero sfruttamento”.

Qui si arriva al punto: nel turismo e nella ristorazione, infatti, si ricorre al nero e a contratti anomali come modus operandi. Questi lavoratori non sono considerati “strutturali”, nessuno li fa crescere, li fidelizza, li inserisce in una squadra. “La mentalità di buona parte degli imprenditori è sintonizzata solo sul guadagno immediato per l’imprenditore stesso. L’imprenditore crede di fare un favore al lavoratore, di dover ricevere gratitudine perenne e a qualsiasi costo per le paghe da fame che elargisce. Sono padroni dispotici, non manager lungimiranti. È ovvio che le persone scappano. Non sono nullafacenti: spesso sono professionisti, ora in difficoltà più che mai, stanchi di essere sfruttati”.

La trasparenza fiscale Ue? A misura di multinazionale

Era la tarda serata di martedì quando i negoziatori dei governi dell’Ue e del Parlamento europeo hanno raggiunto un (controverso) accordo: un compromesso che punta a obbligare le società multinazionali a rivelare dove – e se – pagano le imposte sulle società. A fare, in pratica, una rendicontazione pubblica Paese per Paese (country by country reporting). Le aziende che operano in Europa e hanno un fatturato di oltre 750 milioni di euro dovranno comunicare – con dettaglio annuale e geografico – i dati sui ricavi, gli utili, il numero dei dipendenti e le imposte sul reddito pagate: il report dovrà avere un modello comune in tutta Europa ed essere in formato elettronico: un vero tesoro di dati per economisti, Ong e giornalisti.

“D’ora in poi i riflettori saranno puntati sulle aziende che evadono sistematicamente le tasse”, dice Sirpa Pietikäinen, eurodeputato finlandese, che ha negoziato l’accordo per il gruppo del Ppe (i popolari europei). Secondo le stime della Commissione Ue, il trasferimento degli utili delle multinazionali verso Paesi con tassazione favorevole sottrae all’Ue circa 70 miliardi di euro all’anno: con la nuova rendicontazione pubblica, questi trasferimenti diventeranno evidenti e aumenterà la pressione sulle aziende.

Eppure l’accordo non soddisfa chi chiede maggiore “giustizia fiscale”. Transparency International ha chiesto ai parlamentari e ai governi dell’Ue di bocciare il compromesso perché l’Europarlamento – a suo giudizio – si è arreso alle richieste del Consiglio europeo su un punto di maggior conflitto: la portata geografica della nuova legislazione europea.

Un breve riassunto. Il Parlamento europeo aveva adottato la sua posizione 5 anni fa, chiedendo che tutti i Paesi fossero coperti dal tax ruling reporting: sarebbe stato obbligatorio, ad esempio per Ikea, dichiarare le proprie tasse sulle vendite e sulle società anche nel Regno Unito e negli Stati Uniti. I governi dell’Ue, che invece hanno preso posizione solo a febbraio, avevano chiesto una portata minore. Nell’ultimo round di negoziati, il governo francese ha sostenuto che per i Paesi extra-Ue le aziende avrebbero dovuto pubblicare solo i dati aggregati: in seguito, si è scoperto che il documento di sintesi del governo Macron era stato redatto dalla Confindustria francese (Medef).

Martedì sera, l’Europarlamento ha accettato quasi tutte le richieste del Consiglio Ue. L’accordo prevede che la comunicazione sia obbligatoria solo nei Paesi dell’Unione e in quelli che sono contenuti nella black list europea dei paradisi fiscali o che sono da almeno due anni di seguito nella “lista grigia”.

La lista nera – ufficialmente “la lista delle giurisdizioni fiscali non cooperative” – è stata creata nel 2017 e viene regolarmente aggiornata, l’ultima volta a febbraio e oggi include 12 Paesi piccoli e poco rilevanti: Samoa americane, Anguilla, Dominica, Figi, Guam, Palau, Panama, Samoa, Trinidad e Tobago, Isole Vergini americane, Vanuatu e Seychelles. Nella lista grigia ce ne sono invece 9: Australia, Barbados, Botswana, Eswatini, Giamaica, Giordania, Maldive, Thailandia e Turchia. Con l’accordo di martedì, saranno quindi rese pubbliche le informazioni fiscali di soli 46 Paesi: i 27 dell’Unione, i 12 nella black list e sette tra quelli della lista grigia, inclusa la Turchia. “Questo accordo permette a più dell’80% degli Stati del mondo – inclusi famosi paradisi fiscali come Bahamas, Svizzera e Isole Cayman – di non pubblicare alcuna informazione”, spiega Manon Aubry, eurodeputata francese e negoziatrice del gruppo Gue/Ngl (sinistra).

Sugli effetti di questa normativa c’è un acceso dibattito. Sostiene ad esempio l’eurodeputato dei Verdi, Sven Giegold, che l’accordo avrà un impatto reale perché la maggior parte delle tasse evase o eluse in Europa in realtà resta nei paradisi fiscali dell’Ue: i ricercatori delle Università di Berkeley e Copenaghen hanno stimato che circa l’80% di quei profitti va in Paesi come Irlanda, Lussemburgo e Paesi Bassi. Transparency International teme invece che l’obbligo di rendicontazione solo per i Paesi Ue possa semplicemente spingere le multinazionali a spostare i loro profitti fuori dall’Unione: “Questo approccio limitato fornisce un perverso incentivo alle grandi multinazionali a ristrutturare alcune attività al di fuori dell’Ue per evitare gli obblighi di pubblicazione”, hanno spiegato in una lettera aperta numerose Ong, da Oxfam alla Confederazione europea dei sindacati. Un altro punto di frizione tra Parlamento e Consiglio europeo è stata la cosiddetta “clausola di salvaguardia”, che consente alle aziende di non segnalare, per un certo tempo, informazioni ritenute “commercialmente sensibili”, per poi farlo con effetto retroattivo: nell’accordo finale la clausola varrà per cinque anni, il Consiglio ne aveva chiesti sei.

Ora questo accordo di compromesso dovrà essere formalmente adottato da entrambi i legislatori europei e, nonostante le molte perplessità, è probabile che non ci saranno ostacoli: l’intesa ha un ampio sostegno nell’europarlamento. Passata a livello Ue, i singoli Paesi avranno 18 mesi di tempo per recepire le nuove norme. Poi, dopo quattro anni, la Commissione dovrà analizzare gli effetti della direttiva.

 

Non sono riforme, ma cure palliative

La relazione della Commissione di studio per elaborare proposte di riforma in materia di processo e sistema sanzionatorio penale, nonché in materia di prescrizione del reato, del ministero della Giustizia ha individuato alcuni punti essenziali della crisi della giustizia penale.

Si legge nella relazione: “È noto da sempre che la chiave del successo di un impianto accusatorio è rappresentata da un efficace compendio di riti alternativi, in grado di assorbire un’elevata percentuale di procedimenti, per riservare il dibattimento, articolato e ricco di garanzie, a un numero circoscritto di casi. È altrettanto noto che questa previsione – espressamente formulata dal legislatore del 1988 – è quella risultata maggiormente inattuata negli oltre trent’anni di applicazione del nuovo codice di procedura penale (…). Nel quadro di una riforma ispirata proprio al recupero di effettività dell’amministrazione della giustizia penale, l’ampliamento dello spazio applicativo soprattutto dei riti premiali rappresentava un percorso obbligato, che è stato declinato attraverso due principali interventi, in tema di applicazione della pena su richiesta delle parti e di giudizio abbreviato”. Quindi la Commissione riconosce che la condizione essenziale per il funzionamento del processo accusatorio è che questo abbia luogo in pochi casi, dovendo trattare in modi diversi dal rito ordinario la maggior parte dei procedimenti. Era la speranza anche degli estensori del codice del 1988, ampiamente smentita dai fatti. La Commissione propone ora modifiche all’applicazione di pena su richiesta delle parti – il cosiddetto patteggiamento – prevedendo la riduzione della pena fino alla metà (rispetto all’attuale riduzione fino a un terzo). L’idea è quella che, aumentando la misura dello sconto di pena, si possano incentivare i patteggiamenti. Il problema è che metà della pena è sempre di più di nessuna pena, risultato facilmente conseguibile se si ripristinano o si introducono forme di prescrizione, sostanziale o processuale, che consentano all’imputato colpevole di farla franca. Il risultato sarà che nei procedimenti in cui sarà difficile raggiungere l’agognata prescrizione (come nei giudizi con rito direttissimo conseguenti ad arresto in flagranza) ci saranno patteggiamenti a pena stracciata, mentre in tutti gli altri nessuno patteggerà.

Adam Smith, padre della moderna economia politica, aveva insegnato che “non è dalla bontà del fornaio, del macellaio e del birraio che dobbiamo attenderci il nostro pranzo, ma dalla considerazione per il proprio interesse”. Se è così, occorre certamente prevedere sconti di pena per chi accetta di patteggiare, ma senza svilire il sistema sanzionatorio e soprattutto chiudendo vie di fuga dalla pena quale la prescrizione. La legislazione penale, con poche eccezioni, contiene infatti tuttora previsioni di pene edittali elevatissime, a fronte di pene, effettivamente inflitte e poi concretamente eseguite, ben distanti dalle comminatorie legali contenute nelle norme incriminatrici. Il Codice penale promulgato con regio decreto il 19 ottobre 1930, n. 1398, tuttora in vigore (seppure con notevoli modifiche), prevede infatti pene edittali molto severe (nei massimi), ma che in concreto arrivano a livelli ben diversi. Anzitutto le fattispecie incriminatrici prevedono una forbice edittale in cui le pene vanno da un minimo a un massimo e mentre i massimi sono molto elevati, i minimi sono di entità ridotta. In secondo luogo, la legge penale prevede circostanze aggravanti (che determinano un aumento della pena) e circostanze attenuanti (che riducono la pena). Le circostanze si distinguono fra quelle a effetto speciale (che indicano in modo autonomo l’aumento o la diminuzione della pena) e a effetto normale (che determino l’aumento o la diminuzione della pena fino ad un terzo). Quando concorrono circostanze aggravanti e attenuanti il giudice deve procedere a un giudizio di comparazione: se prevalgono le aggravanti si applicano solo gli aumenti di pena, se prevalgono le attenuanti si applicano solo le diminuzioni di pena, se sono considerate equivalenti non si applicano né le une né le altre.

Dopo il periodo fascista, ritenendo che, in generale, le pene fossero troppo severe, furono introdotte le circostanze attenuanti generiche, cioè qualunque altra circostanza (diversa da quelle tipizzate nella legge) che il giudice ritenga tale da giustificare una diminuzione della pena.

È largamente discrezionale sia il riconoscimento delle attenuanti generiche sia il giudizio di prevalenza o equivalenza fra circostanze aggravanti e attenuanti. Come vi è da aspettarsi, tale discrezionalità viene per lo più utilizzata nel senso di attestare le pene verso i minimi edittali, ciò anche in ragione dei diversi gradi di giudizio e del progressivo trascorrere del tempo (che da solo fa sembrare i fatti meno gravi) e della frequente assenza delle vittime nei giudizi di Appello e di Cassazione. Vediamo l’effetto di tale modifica. Il Codice penale prevede pene elevatissime per i furti aggravati. Per un furto d’auto ricorrono di norma due aggravanti a effetto speciale nell’art. 625 n. 2 e n. 7 del Codice, cioè quella dell’esposizione del bene alla pubblica fede (essendo di norma le auto posteggiate sulla pubblica via) e quella del mezzo violento o fraudolento (per aprire e avviare il veicolo). La pena prevista è da 3 a 10 anni di reclusione (oltre alla multa). Se l’autore del reato sottrae tre o più autovetture in esecuzione di un medesimo disegno criminoso, la pena massima può arrivare a 30 anni di reclusione (oltre alla multa), ai sensi dell’art. 81 del Codice penale. Chi legge il Codice potrebbe immaginarsi che nessuno sia così folle da rubare autoveicoli in Italia, ma soccorrono le attenuanti generiche. Se il giudice riconosce le attenuanti generiche con giudizio di prevalenza sulle menzionate aggravanti (ad esempio perché l’imputato è giovane, perché incensurato, perché socialmente emarginato o altre infinite ragioni), la pena minima (quella del furto semplice dal momento che si escludono le aggravanti) diventa di 4 mesi e 2 giorni di reclusione oltre alla multa.

Di fronte a una tale situazione normativa la riduzione di pena fino alla metà per il patteggiamento diviene sostanzialmente irrilevante: un conto è partire da una pena minima di tre anni di reclusione, che (se ridotta della metà) consentirebbe la sospensione condizionale della pena, un conto è una riduzione da quattro mesi e due giorni a due mesi e un giorno. Per rendere appetibile il patteggiamento si dovrebbe abolire il giudizio di comparazione fra attenuanti generiche e aggravanti a effetto speciale.

Il secondo punto dolente è che nella proposta della Commissione permane il giudizio abbreviato, cioè la possibilità per l’imputato di chiedere di essere giudicato allo stato degli atti ottenendo una riduzione di pena di un terzo (o fino a un terzo in ipotesi di abbreviato condizionato a richiesta di integrazione probatoria) e con l’ulteriore riduzione di pena di un sesto in caso di mancata proposizione dell’appello. Il giudizio abbreviato in realtà non assicura un effettivo risparmio di attività processuali perché frequentemente accade che in un processo con molti imputati una parte di loro chieda il giudizio abbreviato e altri vengano giudicati con rito ordinario. Sarebbe opportuno abolire il giudizio abbreviato ed estendere il patteggiamento a qualsiasi reato senza limiti di pena. Per far ciò sarebbe però necessario introdurre, quale condizione per il patteggiamento, la dichiarazione dell’imputato di essere colpevole. Attualmente vi è, nel Codice di procedura penale, la stravaganza che un imputato possa patteggiare pur negando di essere colpevole. Evidentemente i legislatori si sono dimenticati che mentre il diritto dell’imputato al silenzio è da lui rinunciabile, la libertà personale è diritto indisponibile (altrimenti uno potrebbe vendersi come schiavo). Perciò devono poter patteggiare solo i colpevoli e non gli innocenti. La dichiarazione di colpevolezza (prevista negli ordinamenti da cui l’istituto del patteggiamento è stato copiato) trasformerebbe la attuale sentenza di applicazione di pena in una sentenza di condanna, semplificando gli effetti della stessa nei giudizi civili e disciplinari. In definitiva potrebbe contribuire a far diventare la giustizia penale una cosa seria.

Se si mantiene invece la strada intrapresa le cure proposte saranno solo palliative.

Ecco perché si indignano: Brusca parla

Oltre la naturale repulsione per la figura di Giovanni Brusca, colpisce, dopo la sua scarcerazione, l’immediato scatenamento per chiedere l’“immediata riforma” della legislazione sui collaboratori di giustizia. Orchestrato da una precisa parte politica (vedremo quale), con la consueta fanfara “garantista” al seguito. Coglie il punto Gian Carlo Caselli quando a proposito di chi obietta che “i mafiosi ‘pentiti’ sono figure eticamente negative”, avverte: “Guai però a sottintendere che lo sono perché ‘parlano’, poiché così applicheremmo il codice dell’omertà dei boss” (La Stampa). Noi che preferiamo pensare male (e magari azzeccarci), siamo abbastanza convinti che certe avversioni contro il pentitismo nascondano, anche, la voglia “di non fare luce sui troppo inquietanti misteri di matrice politico-mafiosa per evitare di rimanervi coinvolti” (Giovanni Falcone citato da Caselli). Frasi che sollecitano qualche domanda. Come mai le voci indignate che usano come leva contro i pentiti e le loro confessioni il disgusto verso un macellaio che scioglieva i bambini nell’acido, si alzano soprattutto dalla destra politica, giornalistica e televisiva? C’entrano qualcosa, per esempio, il processo a Giulio Andreotti, la condanna a Marcello Dell’Utri e le inchieste che hanno coinvolto Silvio Berlusconi, tutte vicende che hanno come matrice le dichiarazioni di esponenti di Cosa Nostra? Detto che il pentitismo se non rigorosamente riscontrato può generare mostri (le false accuse contro Enzo Tortora) se davvero i trent’anni comminati a Brusca (poi diventati 25 a norma di legge, come non sa o fa finta di non sapere Claudio Martelli) facevano tanto ribrezzo, non sarebbe stato più coerente stracciarsi le vesti al momento della sentenza? Oppure allora faceva più comodo inneggiare alla sconfitta della mafia e ai successi dello Stato (senza dimenticare che se poi lo Stato non mantiene gli impegni presi con chi collabora, addio confessioni e successi)? Non c’è qualche imbarazzo a trovarsi in compagnia di Totò Riina che, ricorda Caselli, già nel 1994 si scagliava contro la Procura di Palermo parlando di “pentiti manovrati” e chiedendo di cancellare la legge sui collaboratori? Infine, il “cancro della democrazia” (Sallusti) vale soltanto per Brusca o è anche applicabile agli stragisti Graviano, a Leoluca Bagarella, ai Biondino, ai Madonia? Tutti irriducibili che con l’abolizione dell’ergastolo ostativo richiesto dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, e all’esame della Consulta, potrebbero uscire di galera con le stesse modalità del loro compare macellaio. O anche qui vale solo “il garantismo a targhe alterne” (Lorenzo Giarelli)?

Buon 2 giugno: i fratelli Rosselli

Ieri era la festadella Repubblica e dunque auguri, in ritardo, a lei e a tutti. È curioso che per festeggiare questa istituzione “fondata sul lavoro” molti giornali abbiano voluto puntare sui camerieri che non si trovano più, perché, signora mia, preferiscono vivere di sussidi. Certo non pensava alla scarsità di schiavi Pietro Calamandrei quando scrisse che la nostra Costituzione è anche “una protesta contro la situazione presente”, un programma, una battaglia a cui tutti siamo chiamati. Per questo, mentre celebriamo la Repubblica, ci piace ricordare che quella battaglia è stata a volte, spesso, persa. E fin dall’inizio: Carlo e Nello Rosselli erano due fratelli, socialisti, riparati in Francia per sfuggire alla galera di Mussolini e furono uccisi quasi 84 anni fa (il 9 giugno 1937) da fascisti francesi su mandato dei servizi segreti del Duce. Da documenti e testimonianze risultò che l’ordine era partito (almeno) dalla triade Ciano (ministro degli Esteri), Anfuso (suo principale collaboratore), Roatta (generale e all’epoca capo del servizio militare). La storia del processo è complicata, ma l’Alta Corte per i crimini fascisti riuscì comunque a condannare i responsabili già nel marzo 1945. Proprio nel giugno 1946 in cui gli italiani scelgono la Repubblica, e nonostante quelle sentenze fossero inappellabili, la Cassazione annullò tutte le condanne (Roatta era già stato fatto evadere e svernò sereno in Spagna). La conclusione, siamo nell’ottobre 1949, fu una sentenza di assoluzione per tutti. C’era scritto questo: sì, tutte le prove sono contro gli imputati, “però la Corte non può dissimularsi un dubbio: che nel torbido mondo del fuoruscitismo internazionale, in Francia potessero fermentare oscure tragedie e che vittima di una di queste possa essere stato Carlo Rosselli. Non è dato cioè di escludere che si svolgesse, magari all’insaputa di Emanuele e Navale (due imputati, ndr), qualche attività criminosa parallela alla loro e che essi abbiano potuto credere che all’opera loro, in seguito alla coincidenza del tempo, l’uccisione si dovesse: in modo da arrogarsene, come hanno fatto, il merito”. È il primo delitto “all’insaputa di”, formula che poi avrà una certa fortuna nella Repubblica a cui auguriamo buon compleanno.

Depressione e Covid: c’è legame diretto?

Come accade dopo uno tsunami, quando la pandemia ci lascerà (non credo il virus) non solo rimarrà il dolore per tanti nostri cari deceduti, ma anche molte ferite nei sopravvissuti. Pochi giorni fa è stato pubblicato sulla rivista Lung Diseases and Respiratory Health, un interessante lavoro scientifico dal titolo Half of COVID Survivors StruggleWith Depression (Metà dei sopravvissuti al Covid sono afflitti dalla depressione). Il dr. Roy Perlis, uno degli autori, professore di Psichiatria alla Harvard Medical School e capo della ricerca nel Dipartimento di psichiatria del Massachusetts General Hospital, a Boston, riferisce di aver intervistato 3.900 persone, che sono state ammalate tra maggio 2020 e gennaio 2021 e di aver rilevato che oltre il 52% di loro ha sofferto, anche dopo la guarigione, di sintomi di depressione grave. Certamente la prima causa è da individuare nel cocktail costituito dallo stress della pandemia, dall’esserne colpiti e possibili vittime, dall’interruzione dei rapporti sociali. I più colpiti risultano essere i giovani, di sesso maschile e che erano stati affetti da Covid-19 nella forma più grave. Molti altri ricercatori hanno confermato queste evidenze scientifiche, ma si sono anche posti il problema se la depressione sia un effetto diretto della patologia Covid, legata alla patogenesi del virus o uno indiretto, esclusivamente psicologico. Anche se ancora non è stata confermata una relazione di tipo causa (Covid-19) ed effetto (depressione), è stato osservato, durante il decorso di Covid-19, un legame tra il mal di testa e un rischio più elevato di depressione. Fra le spiegazioni, è possibile che coloro che hanno affermato di soffrire di depressione abbiano avuto i loro sintomi prima di avere il Covid-19, o che fossero più lenti a riprendersi dalla depressione, dopo essere stati malati o che fossero più a rischio per Covid-19, in primo luogo. A favore della tesi che attribuisce al Covid la diretta responsabilità della depressione, sono stati pubblicati alcuni lavori che hanno trovato una connessione tra depressione e perdita dell’olfatto e del gusto, segni ormai confermati essere conseguenza diretta dell’attività patogena del virus su alcune terminazioni nervose. Dopo quasi un anno e mezzo che si studia questa patologia ancora restano dubbi da chiarire.

*Direttore microbiologia clinica e virologia del “Sacco” di Milano

Sanità, la Moratti non ha imparato nulla dalla tragedia

Una cosa, almeno, la pandemia ce l’ha fatta capire: il sistema sanitario non era pronto ad affrontare un’emergenza che rischia di diventare una normalità. Ora, lo dobbiamo ai morti di Covid: cambiare sistema, renderlo più capace di far fronte alle pandemie, per non farci trovare di nuovo impreparati la prossima volta. Tanto più in Lombardia, che è stata l’area con più morti al mondo.

Abbiamo imparato qualcosa da questa tragedia? Pare di no. Lo dimostra la via intrapresa da Letizia Moratti, assessore e vicepresidente della Regione Lombardia, che ha presentato una specie di bozza di riforma sanitaria regionale. Cambiare è certamente necessario: lo dimostrano non soltanto il tracollo del sistema sanitario davanti al Covid, ma anche il pasticcio della riforma del 2015 di Roberto Maroni, che alla supremazia del privato introdotta da Roberto Formigoni ha aggiunto la debolezza della sanità territoriale, sacrificata in nome della iper-ospedalizzazione del sistema. Cambiare è ora anche possibile, perché arrivano i soldi europei del Pnrr. Ma bisogna cambiare bene, altrimenti la riforma si risolverà nell’ennesima controriforma all’italiana.

E dunque: il primo problema da affrontare è lo spezzettamento delle regole e dei sistemi. Venti sanità regionali, che viaggiano ciascuna sui suoi binari, non fanno un buon servizio alla salute dei cittadini. È emerso chiaramente nei mesi della pandemia e ora deve essere posto come il primo dei problemi: i venti sistemi, se proprio non si possono unificare in un’unica sanità nazionale (di cui, confesso, provo nostalgia), devono almeno essere coordinati, raccordati, resi uniformi e non contraddittori. Poi le linee guida, per tutti, devono essere quella del rafforzamento reale della medicina di territorio, del rafforzamento della sanità pubblica rispetto a quella privata e della semplificazione dei rapporti tra territorio e ospedale. Ebbene, partiamo male.

Moratti promette investimenti nella sanità territoriale per 700 milioni di euro. Vedremo se e come saranno realizzati. Sul rafforzamento del pubblico, invece, silenzio: è prevedibile che i privati continuino a crescere a scapito del pubblico. Moratti promette anche il consolidamento del ruolo di guida dell’assessorato e della direzione generale Welfare, per sanare lo spezzettamento degli interventi delle Ats (le aziende sanitarie territoriali) ora lasciate senza una regia unitaria. C’era chi aveva proposto l’unificazione delle Ats in un’unica Ats regionale, ma la proposta è stata lasciata cadere. Essenziale sarà comunque rendere chiari i compiti rispettivi di Ats e Asst (le aziende ospedaliere) e i rapporti tra loro, oggi pasticciati e fonte di inefficienze. Alle Asst, secondo la proposta Moratti, spetterà l’erogazione dei servizi sanitari, mentre le Ats si occuperanno di controlli, accreditamenti, acquisti, programmazione, contratti. Ma saranno davvero sciolti i nodi che oggi rendono farraginosi i rapporti Ats-Asst? Non sembrerebbe, se è vero che le Asst continueranno a gestire sia la sanità ospedaliera che quella territoriale, perpetuando la confusione di ruoli e funzioni. Per rafforzare il territorio, saranno creati i Distretti (già annunciati ma non realizzati dalla riforma Maroni): uno ogni 100 mila abitanti, serviranno a valutare il bisogno locale, la programmazione territoriale e l’integrazione tra medici di medicina generale, pediatri di libera scelta, specialisti, infermieri, assistenti sociali, con un uso centrale della telemedicina. Nasceranno le Case della comunità (una ogni 50 mila abitanti: ma il Pnrr non ne prevede una ogni 20 mila?), le Centrali operative territoriali (per coordinare la presa in carico dei pazienti fragili e i servizi domiciliari) e gli Ospedali di comunità (strutture per i ricoveri brevi, una per ogni Asst). La strada è tutta in salita.

 

Ora il pericolo non è brusca, ma smontare il “lodo” falcone

La scarcerazione dopo 25 anni di reclusione di Giovanni Brusca, il “boia” di Capaci e del piccolo Santino Di Matteo, collaboratore di giustizia, ha suscitato violenti reazioni strumentali a fini di propaganda politica, da parte di esponenti della destra. Salvini ha tuonato di una “vergogna per l’Italia”, mentre la Meloni parla di “schiaffo morale a tutti i caduti nella lotta al crimine organizzato”. Le uniche esternazioni corrette sono state del senatore di “Leu”, l’ex Procuratore nazionale antimafia, Pietro Grasso: “Con Brusca lo Stato ha vinto tre volte; ha vinto quando lo ha arrestato perché era e resta uno dei peggiori criminali della nostra storia. Ha vinto quando l’ha convinto a collaborare, ha vinto quando ne ha disposto la liberazione dopo 25 anni di carcere mandando un segnale ai mafiosi”. Solo chi è in mala fede può non riconoscere che senza i collaboratori di giustizia non sarebbero stati raggiunti i risultati importanti contro il crimine organizzato. In realtà, il problema è costituito dalle decisioni della Corte costituzionale con sentenza n° 253/2019, la Consulta – presieduta dall’ex magistrato della Corte di Cassazione Giorgio Lattanzi – ha riconosciuto che anche i condannati all’ergastolo per delitti di mafia e terrorismo potranno ottenere permessi-premio, pur non avendo mai collaborato con la giustizia, dichiarando incostituzionale l’art. 4 bis dell’Ordinamento penitenziario che stabiliva il divieto assoluto per gli ergastolani – che non avevano fornito una collaborazione utile a norma dell’art. 58 ter L. n° 354/1975 – di accedere ai benefici e alle misure alternative. Si è trattato di una pronuncia dalle devastanti conseguenze che di fatto apriva un varco pericoloso a future declaratorie di incostituzionalità anche in riferimento agli ulteriori benefici quale la liberazione anticipata. A tale ultimo proposito, è intervenuta l’ordinanza n° 97 dell’11 maggio 2021 con la quale, la Consulta ha ritenuto illegittima la presunzione assoluta di pericolosità per chi non collabora e ha statuito che serve una legge per approntare una nuova disciplina; ha, così, rinviato al 10 maggio 2022 la nuova discussione sulle questioni di legittimità costituzionale sollevate dalla Corte di Cassazione, assegnando al Parlamento un congruo periodo di tempo per modificare la normativa vigente (con l’evidente sottinteso che, ove il Parlamento non provveda, l’attuale normativa sarà dichiarata incostituzionale). In sostanza, con tali interventi, la Corte costituzionale – che, peraltro, nel 2003 aveva stabilito che “subordinare i benefici alla collaborazione con la giustizia non è incostituzionale” – sta demolendo una normativa (voluta da Giovanni Falcone) che, incentivando i mafiosi alla collaborazione, si è rivelata strumento fondamentale nel contrasto alla criminalità organizzata. Legittimamente, quindi, il legislatore, ai fini di contrastare la criminalità mafiosa, è da tempo intervenuto, con la normativa in questione, per differenziare il regime esecutivo dell’ergastolo, prevedendo benefici per chi ha fornito una effettiva e decisiva collaborazione. Tale diversità di trattamento corrisponde a una scelta di politica criminale adottata in considerazione dell’elevato grado di pericolosità sociale dimostrata da chi ha riportato condanna all’ergastolo per essersi reso colpevole di azioni criminose di particolare gravità e allarme sociale quali i reati di criminalità organizzata e di terrorismo. Alla base, quindi, dell’ergastolo ostativo vi sono principi di rango primario quali quelli di prevenzione e di difesa sociale. Sicché deve ritenersi legittima la presunzione assoluta di pericolosità sociale del reo nel caso di sua mancata collaborazione che rappresenta l’unica ipotesi, certa, effettiva e concreta, di rottura dei collegamenti con l’organizzazione criminale di provenienza.

 

Salvini è un perdente (ma ancora non lo sa)

La Bestia un tempo feroce (minorenni additate per il linciaggio, selfie sorridenti con Venezia alluvionata sullo sfondo e “chi si ferma è perduto”, “me ne frego” in abbondanza), adesso in post-produzione monta musica di chiesa. “Che posto straordinario! Si apre il cuore”, dice Salvini apparendo alla Madonna di Fatima, video-selfandosi in panoramica.

Indossa una mascherina mezza nera e mezza tricolore recante stampigliato il motto “A testa alta” (ma contro chi? Davanti a quale sfida?), e sorprende sempre come anche il minimo oggetto possa emanare tanta contundente fascitudine, nell’estetica, nel lettering, nei colori, anche se il cencio è un ibrido tra il riuso social della bandierina-emoticon e il vecchio celodurismo, ma col cuore tenero. Ora la mascherina Salvini la porta anche nella piana deserta di un santuario per parlare affannato a sé stesso dentro lo schermo del telefono, un anno fa rifiutava di indossarla tra la folla alitante e ai convegni in Senato (convegni sul virus, peraltro, al tempo clinicamente morto, come da rassicurazione di medici d’area, che però poi ha fatto altri 90 mila morti). Come negazionista ha fallito, la sua gente s’è accorta che era grullaggine. Accanto alla scritta littoria svetta la sagoma di Alberto da Giussano, già Loro Signore delle spillette, protettore del nord che l’ha presa in quel posto per far posto al Salvini governista nazionale, oggi poco più che eroe da fumetto tra gli altri. Come questa Madonna, per gli amici “Maria”: “Ho pregato per i miei cari e per il bene di tutte le italiane e gli italiani”: politicamente corretto, ma nazionalista: non è patriottico sprecare pensieri per tutti gli esseri umani, africani compresi, quando c’è un problema di allocazione delle risorse della grazia divina. È una disintermediazione: Matteo si reca al cospetto di Maria “da peccatore” (non per i peccati che gli riconoscono le persone perbene), della quale già ha benedetto il Sacro Cuore da Barbara D’Urso e baciato il rosario, alternandolo coi culatelli, perché non si fida del Papa – terzomondista, pauperista, immigrazionista, marxista, vaccinista, pro-invasione e pure pro-gender. Attinge alla fonte, laddove si vanno a chiedere miracoli per mali incurabili, tibie spezzate, sondaggi a picco.

“Prima di ripartire per l’Italia e rimmergermi nel lavoro ho desiderato essere qua”. Che lavoro fa Salvini? Non lo diciamo tanto per noi, che pure lo manteniamo, quanto per i leghisti: non doveva ripristinare la lira? Non era in missione per il popolo contro i banchieri? Non si è rimangiato tutto per stare al governo, a tenere caldi i voti dello zoccolo duro col suo faccione pubblicitario, evitandosi di fatto qualunque presa di posizione per non mettere in difficoltà Giorgetti? È per lo sblocco dei licenziamenti, per la proroga del blocco, per lo stop alla proroga del blocco. Non ha più un programma, non ha idee; era per riaprire tutto, e adesso che Draghi riapre tutto non sa dove sbattere la testa; era contro i poteri forti, adesso li adula. “La vita, la politica, l’amore, il futuro, gli auspici hanno tutti un’altra dimensione, se tocchi con mano, se respiri con mano (sic) quel che c’è qua a Fatima”. Forcaiolo, pro-castrazione chimica, citofonatore a “spacciatori” su soffiata, e poi iper-garantista e referendario radicale. Si affida alla mozione degli affetti: “Vi voglio bene”. Al ralenti, lancia un bacio a noi, al nulla. La distinzione che Elias Canetti fa in Massa e potere tra masse “rapide”, ad esempio sportive o belliche, e masse “lente”, dedite alla devozione e ai pellegrinaggi, con Salvini decade: lui consuma tutto nell’attimo, è intercettatore di masse rapidissime, ore di volo per fare un video di un minuto in cui brucia tutto, la devozione e il bigottismo reazionario, per sempre più esigue congreghe connesse. Brucia l’aporia fondamentale delle sue professioni di fede: il cinismo con cui da ministro-gendarme respingeva navi piene di esseri umani esausti, tra cui bambini, rinnegando i comandamenti cristiani e pure, in nome della “nostra identità”, nell’ignoranza più totale, la nostra radice antica di filoxenia, che è il dovere-piacere di dare ospitalità allo straniero.

“Sono cattolico e anticristiano”, diceva Mussolini; e certo Salvini, benché tenti grottescamente di imitarlo, non è Mussolini. Molti elettori adesso voterebbero la Meloni, che gliene ha rubati 4,5 milioni: lui è visto come una macchietta. È un perdente, l’unica cosa che da quelle parti non perdonano. Ma lui ancora non lo sa. Galeazzo Ciano così riportava nel diario le parole del “Mascellone e Culone” (Gadda): “Sembra che il Papa abbia fatto ieri un nuovo discorso sgradevole sul nazionalismo esagerato e sul razzismo. Il Duce si propone di dare un ultimatum: ‘Se il Papa continua a parlare, io gratto la crosta agli italiani e in men che si dica li faccio tornare anticlericali”. Ecco, Salvini di lavoro gratta la crosta