È il 1968. Nel Regno Unito è la stagione della libertà, della trasgressione, della rottura con la tradizione, dell’avanzamento di diritti civili e sociali. A novembre il Parlamento approva la seconda parte del Race Relations Act, la legislazione avviata nel 1965, che mette fuori legge qualsiasi discriminazione razziale. Il provvedimento prevede la costituzione della Commission for Racial Equality, la Commissione permanente sull’Eguaglianza fra le razze creata per vigilare sull’osservanza delle nuove regole.
L’iniziativa politica è del primo ministro laburista James Callaghan, che vuole estendere ai luoghi di lavoro e domestici il raggio d’azione della legge di tre anni prima, riservata ai luoghi pubblici. Il primo Race Relations Act ha avuto un fortissimo impatto simbolico, ma non ha eradicato il razzismo e la discriminazione più rilevanti, quelli legati all’indipendenza economica e alla dignità dei lavoratori di colore. Vuole quindi costituire il Race Relations Board, una agenzia di vigilanza che esamini denunce di discriminazione e abbia il potere di portare in tribunale singoli o società razziste.
Callaghan pensa di poter evitare il passaggio stretto del “consenso” del monarca. Una prerogativa che la Corona definisce come formale, ma che per decenni ha consentito a Buckingham Palace di intervenire a proprio vantaggio, e nella massima riservatezza, sull’autonomia del Parlamento. Malgrado le speranze del leader laburista, succede anche stavolta. A febbraio, quando la legge è ancora allo stadio di proposta, Lord Tyron, direttore amministrativo della Corona britannica, informa i suoi referenti nella pubblica amministrazione che “non è consuetudine della famiglia reale assumere immigrati di colore o stranieri per ruoli amministrativi”. Hanno però il permesso di lavorare come domestici. Lord Tyron chiarisce che Buckingham Palace è disposta ad accettare il disegno di legge a condizione che si applichi una esenzione specifica già prevista per i diplomatici: la possibilità di respingere candidature di persone residenti nel Regno Unito per meno di 5 anni. Un escamotage che permette e giustifica un certo arbitrio, discreto, nella selezione. Una esenzione provvidenziale, perché permetteva alla Corona, in caso di sospette pratiche razziste, di evitare i tribunali. Grazie a questo trattamento eccezionale, il Race Relations Board, infatti, avrebbe dovuto condividere le proprie verifiche solo con il ministro degli interni, non con dei giudici indipendenti. È così che a marzo 1968, secondo i documenti, si trova l’accordo per il consenso della Regina. Se non si fosse trovato, la Corona avrebbe posto il veto?
L’esclusiva è, di nuovo, del Guardian, unico quotidiano britannico con la forza, la credibilità e il seguito per intaccare la favola della Corona benevola: torna alla carica e riprende la sua inchiesta sulle interferenze dei Windsor nella politica del Regno Unito. Scava negli archivi, riporta alla luce documenti da cui emerge che, malgrado la linea ufficiale di non ingerenza, funzionari della Casa Reale avrebbero negoziato, modificato, posto limiti e condizioni al percorso e al dettato di disegni di legge che avrebbero potuto ridimensionare le prerogative o avere un impatto sugli affari dei Reali. Le ultime rivelazioni si colorano di razzismo, se davvero la risposta reale alla sempre tardiva legge anti-razzismo è stata indicare la linea da non oltrepassare, chiarire in un carteggio ufficiale che a quella discriminatoria ‘consuetudine’ la Corona non era disposta a rinunciare. Una vicenda dolorosa ma superata, una impostazione culturale vergognosa e antiquata ma poi finalmente rivista? No: nel 1997, ricorda il Guardian, Buckingham Palace aveva ammesso di non aver verificato il rispetto delle linee guida ufficiali previste per garantire pari opportunità ai suoi lavoratori.
E quella esenzione è stata estesa anche in tempi recenti, quando nel 2010 l’Equality Act ha sostituito ed esteso la legislazione precedente. Non è un mistero che, in un paese fortemente interculturale e, ufficialmente, fiero di esserlo, nei palazzi reali abbiano sempre lavorato pochissimi neri, asiatici o membri di minoranze etniche, specie nei ruoli più a contatto con i reali.
Ma oggi, garantisce al Guardian un portavoce della Corona, a Palazzo si rispetta l’Equality Act, “in linea di principio e in pratica, e questo si riflette nella diversità, inclusione e dignità delle regole d’ingaggio della famiglia reale”.