Contagi, sintomi e decessi quasi a zero. I vaccini funzionano (nessuno escluso)

I primi dati raccolti dall’Istituto superiore di Sanità avevano già mostrato un crollo dei contagi tra il personale sanitario immunizzato. Ora una ricerca condotta dall’Università di Ferrara e dall’azienda sanitaria di Pescara, che ha coinvolto 37.500 vaccinati, conferma l’efficacia dei sieri contro il Covid-19. Gli immunizzati hanno avuto il 95% dei contagi in meno rispetto a coloro ai quali non è stata ancora fatta la somministrazione. Inoltre, i casi di malattia con sintomi sono stati il 99% in meno rispetto ai non vaccinati.

Lo studio ha preso in esame gli immunizzati che avevano già sviluppato gli anticorpi dal mese di gennaio ad aprile. Quindi le persone che hanno ricevuto Pfizer-BioNTech, Moderna o Vaxzevria di AstraZeneca (il vaccino di Johnson&Johnson non era ancora in distribuzione). Nessun calo di efficacia significativo si è manifestato nemmeno quando i richiami venivano fatti in ritardo, per carenza di dosi. Né con Pfizer né con Moderna, anche quando la seconda dose veniva somministrata dopo dieci o più giorni rispetto ai 21 e ai 28 suggeriti.

Mentre AstraZeneca ha funzionato anche solo con l’iniezione della prima dose: ha ridotto i contagi e le morti del 95%. Sul campione preso in esame si è registrato un solo decesso, una donna di 96 anni, che però aveva altre gravi patologie. “Un lavoro impegnativo che ha coinvolto sette ricercatori: abbiamo dovuto pulire tutti i database – spiega Lamberto Manzoli, epidemiologo dell’ateneo emiliano e coordinatore dello studio –. Di solito, prima di divulgarli, aspettiamo che i risultati di una ricerca vengano pubblicati su una rivista scientifica. Ma abbiamo pensato che fosse bene diffonderli subito per rassicurare la popolazione sull’efficacia dei vaccini”. I dati dello studio sono anche in linea con quelli delle poche altre ricerche condotte nel mondo fino a oggi, in Israele, nel Qatar, negli Stati Uniti e nel Regno Unito. Nel frattempo, mentre le evidenze scientifiche confermano l’efficacia della vaccinazione, varie Regioni procedono con gli Open Day dedicati a Vaxzevria. La Regione Lazio ha predisposto la app (Ufisrt) dove fissare la data per la somministrazione della prima dose del vaccino anglo-svedese, il prossimo fine settimana. Le vaccinazioni saranno aperte dalle 18 o dalle 20, a seconda dell’hub vaccinale, fino alle 24. Tutte rivolte agli over 40, con la disponibilità di oltre 20 mila slot.

La app genererà un ticket virtuale da presentare insieme alla tessera sanitaria, ticket che consentirà di spostarsi anche dopo il coprifuoco. Iniziativa che, sulla carta, dovrebbe avere successo, visti i risultati raggiunti in Campania con gli Open Day a Napoli, Salerno e Caserta. In quest’ultima città, nella caserma Ferrari Orsi, l’Astra Day è durato 41 ore rispetto alle 24 previste all’inizio. Con quasi settemila somministrazioni a giovani con una età media di 29 anni. Un successo. Tanto che l’azienda sanitaria sta pensando di organizzarne un altro. “Si percepisce la voglia di vaccinarsi per ritornare alla normalità”, ha detto il governatore della Campania Vincenzo De Luca –. Ovviamente il problema resta la quantità di vaccini che arrivano in Campania, ancora oggi siamo a 200 mila in meno rispetto a quelli che dovremmo avere in base alla nostra popolazione”.

Proprio il siero di AstraZeneca è il vaccino sul quale si è indirizzata la diffidenza maggiore. Il 12 maggio, in base all’ultimo report della fondazione Gimbe, ne era stato somministrato poco più dell’80% delle dosi consegnate. Più di Moderna. Ma molto meno di Pfizer (97,4%) che viene utilizzato di più anche perché le consegne adesso sono regolari e permettono una migliore pianificazione. La situazione cambia comunque da regione a regione. Sicilia, provincia di Trento, Basilicata, Calabria e provincia di Bolzano sono quelle dove Vaxzevria viene somministrato di meno. A differenza di Molise e Lombardia, dove il tasso di utilizzo è al 95%.

Salvini, Meloni e Renzi: il flop delle mozioni “no coprifuoco”

Per il momento è una battuta di arresto nei confronti di Lega, Forza Italia e Italia Viva che chiedevano al governo di impegnarsi a riaprire tutto e subito e abolire il coprifuoco. Lunedì, quando si riunirà la cabina di regia e saranno valutati i dati, si vedrà. Il Consiglio dei ministri che approverà il nuovo decreto si terrà mercoledì: l’ipotesi più concreta è che il coprifuoco non sarà abolito ma allungato alle 23 o alle 24. Intanto però le mozioni che erano state presentate in pompa magna dal centrodestra più i renziani alla fine, per non spaccare la maggioranza, sono state ritirate e ieri il Senato ha approvato un ordine del giorno annacquato. Che si differenzia dalle mozioni iniziali con due termini precisi: “progressive riaperture”. Se infatti la richiesta di Lega, FI e Iv era quella di abolire subito il coprifuoco, riaprire i locali al chiuso, i centri commerciali nel week end e far ripartire subito gli eventi e il settore dei matrimoni, l’ordine del giorno approvato ieri invece impegna il governo a farlo in maniera più graduale, come ha spiegato il premier Mario Draghi. La maggioranza ha chiesto di “prevedere ogni azione utile a superare progressivamente il regime del cosiddetto coprifuoco” e di proseguire “con le progressive riaperture delle attività più colpite dalle restrizioni”. Approvato con 131 voti favorevoli e i 16 astenuti di Fratelli d’Italia.

Per far tornare sui propri passi il centrodestra e i renziani è servita una riunione con i capigruppo di maggioranza, il ministro dei Rapporti col Parlamento Federico D’Incà e il sottosegretario M5S alla Salute Pierpaolo Sileri che ha spiegato come le riaperture debbano avvenire con “gradualità” e monitorando continuamente i dati. Un messaggio che Sileri ha ripetuto ieri in Aula: “È vero che i dati sono migliorati ma le riaperture devono essere graduali per non fare passi indietro”. Anche Pd, LeU e M5S hanno attaccato il centrodestra che vorrebbe “riaprire tutto” e “tornare indietro di 15 mesi”. Alla riunione, una volta raggiunto l’accordo, Lega e FI però avevano garantito che avrebbero votato contro la mozione di Fratelli d’Italia, ma alla fine non è stato così. Troppo forte la voglia di Matteo Salvini di non concedere nemmeno un centimetro sulle riaperture alla concorrente Giorgia Meloni. E così il voto sulle mozioni ha spaccato l’alleanza di centrodestra ma soprattutto la maggioranza. FdI ha presentato una mozione per abolire subito il coprifuoco ed eliminare l’obbligo di indossare le mascherine all’aperto.

“Gli amici del centrodestra votino la nostra mozione se vogliono riaprire” ha detto in Aula il senatore meloniano Andrea De Bertoldi. Ma il capogruppo della Lega Massimiliano Romeo ha chiesto agli alleati di “non fare entrare la politica su questi temi”. Non è stato così. Alla fine la mozione di FdI è stata bocciata grazie ai 78 voti contrari di Pd, M5S e LeU mentre i 48 senatori di FI e Lega si sono astenuti. “Il governo vuole aprire solo a parole” ha attaccato Meloni. Ora la palla passa a Draghi.

Lady Isabella sfascia Bologna la Rossa

Se sarà regina, Isabella lo saprà presto. A Bologna infatti il voto che conta si terrà il prossimo 20 giugno, la data che il Partito democratico ha scelto per dare prova di esistenza in vita. Le primarie, cioè, diranno se Bologna, già rossa e opulenta, dai fianchi larghi come una donna di Botero, cambia o conferma, tradisce o ripara. Se cioè, come dice la professoressa Nadia Urbinati, anche qui il partito è ridotto “a un gas perché nemmeno lo stato liquido è adeguato a illustrarne l’evanescenza”, oppure qualcosa del suo tessuto ancora rimane tra le mura.

Bologna può essere patibolo per Enrico Letta, la sorgente velenosa della disarticolazione renziana, di una sorta di infiltrazione intestinale con la quale Matteo Renzi gioca la sua partita permanente con il partito che detesta di più: quello cioè che ha guidato da segretario. Qui in Emilia ha trovato sulla sua strada una fortuna: un Guazzaloca, dal nome del primo sindaco che sfilò a Botteghe Oscure la città, al femminile. Isabella Conti è sindaca conosciuta e apprezzata di San Lazzaro, grande centro della prima periferia. Una donna che ha amministrato bene il suo comune e si è fatta conoscere tenendo testa alle mire della Coop, il pilastro del sistema, la forza economica propulsiva della regione, azionista di riferimento del partito, che ambiva a vedersi concedere un po’ di metri cubi di cemento. La Conti, col suo no, ha dato all’ambientalismo un senso e anche un luogo dove praticarlo, una misura per governarlo, chiudendo le porte al Grande Fratello e al suo partito, decidendo di trasferirsi in Italia Viva.

Perciò quando Virginio Merola, il sindaco uscente, ha aperto la sua successione chiamando alla gara “i miei migliori assessori”, è spuntata lei, un minuto dopo che il suo Matteo ne aveva deliberato l’investitura. Da quel momento, cioè da aprile in avanti, il partito bolognese vive una condizione di maretta perenne, di oscillazioni perpetue, oggetto di quelle che i sismografi chiamano scosse predittive, lo sciame sismico che annuncia il boato potente e distruttivo.

Perché di settimana in settimana le mura di questa casa andavano infittendosi di crepe, alcune clamorose, e nomi di prima linea lasciavano la casa madre per trasferirsi alla corte di questa donna giovane e brillante, ma renziana, purtroppo per lei aggettivo sinonimo di maleficio. “Abbiamo fermato Salvini e fermeremo anche Renzi” ha infatti sintetizzato Matteo Lepore, il candidato ufficiale, il nome dell’apparato, del potere costituito e anche, c’è da dire, di una fetta importante, radicata, impegnata e riconosciuta della città. Lepore è un assessore uscente che conta nella gerarchia dem, con un cursus honorum rispettabile e una prova di governo, da assessore al Turismo, di tutto rispetto. Perché con lui la città, prima che la pandemia la svuotasse, ha conosciuto visitatori mai visti prima, gli alberghi una floridezza straordinaria, e le case vacanze, i b&b fioriti al punto di trasformare questa catena della produzione industriale e del commercio all’ingrosso, ricca delle sue fiere e delle sue aziende, in una maxi-Rimini. Matteo Lepore è scorza dura. “È di sinistra, e io voto a sinistra”, ha detto Stefano Benni, scrittore amatissimo. E quando Andrea Papini, ex deputato della cinta prodiana, si è espresso per Isabella Conti, il capostipite della grande muraglia, cioè Romano Prodi, ha reso pubblica una nota nella quale si afferma che Papini “era stato” prodiano: era, “al passato cioè”. Per dire che lui non ha scelto. E certo al Professore qualche sospetto sulla forza destabilizzante di Isabella sarà venuta quando, mesi fa, nel nome della candidata ha avviato trattative il fantasmagorico Ernesto Carbone, quello del ciaone, lo scudiero renziano noto per la disinvoltura più che per la ponderazione. E a seguire quando Base riformista, la piattaforma correntizia dell’ex rottamatore fiorentino dentro il Pd, ha scelto di sostenere alle primarie la Conti invece che Lepore. E poi Elisabetta Gualmini, europarlamentare già vice di Bonaccini in Regione, si è dichiarata per lei, guarda un po’, e non per lui. E prima della Gualmini c’è stato Alberto Aitini, uno dei figliocci di Merola, assessore alla Sicurezza, anch’egli voglioso di correre in prima persona, stoppato prima della partenza proprio dallo sprint della Conti e ora suo stratega.

Tutti con Isabella. Perfino il rappresentante dell’Ascom, i commercianti, il nocciolo conservatore dell’altra Bologna, ha annunciato che si presenterà da elettore ai banchi di giugno del centrosinistra, lui politicamente dentro la coalizione opposta. “Voterò Isabella Conti. Se però non ce la farà non è detto che non mi candidi io stesso nell’altro schieramento”.

“Un papocchio inammissibile, queste primarie sono state organizzate con l’idea scellerata di convocare i cittadini prima di aver fatto una coalizione. Hanno sovvertito la logica e il Pd ne pagherà le conseguenze”, dice la Urbinati. Mentre il politologo Gianfranco Pasquino attende il suo turno: “Voglio andare a votare, vorrei andare cioè, sempre ammesso che mi facciano votare, perché non è ancora chiaro se avrò titolo. Ma quel che so è che c’è una candidatura che sovverte il principio costituito del partito decidente e onnipotente in cui ogni attività viene immessa nel forno ufficiale, e magari agevolata o ostruita a seconda dell’affiliazione, certificata o meno. Isabella Conti rompe questo schema, e questa è già in sé una buona cosa”.

“In ogni casa c’è una crepa, ma è da lì che filtra la luce” dice Marco Lombardo, il terzo assessore in qualche modo chiamato a gareggiare e il primo che ha deciso di sterzare verso Isabella. Cita una frase dello scrittore Cohen per dimostrare la bontà della rivoluzione gentile, l’assenza del pozzo avvelenato: “Isabella è una donna libera, riformatrice, autonoma. Legarne l’immagine alle mosse di Renzi è un sopruso all’intelligenza sua e nostra”.

“O noi o Renzi”, dice invece Lepore per chiamare a raccolta le truppe. E all’eremo di Ronzano sono saliti quelli dell’Arci e le Sardine, con Mattia Santori che annuncia la nuova marcia verso il municipio e il traghettamento di questo giovane assessore al soglio del primo cittadino. “Progressista, di sinistra”, dice di sé il candidato.

I mille comuni Italiani, le grandi città come Roma, Napoli, Torino e Milano voteranno in autunno. Solo a Bologna si decide tutto tra un mese. Con la pandemia che lascia in eredità 40mila disoccupati, la cifra dei lavoratori in cassa integrazione e quelli ancora tutelati dal divieto di licenziamento, c’è Isabella che attende di essere incoronata regina e un altro Matteo (non c’è due senza tre!) intenzionato a mandarla in esilio.

Pd, Letta rischia grosso se perde a Roma e Napoli

Enrico Letta sa che se il Pd perde le Amministrative, la sua segreteria potrebbe essere già finita. E di sconfitta si parlerà se cadono Roma e Napoli. Proprio le due città dove è fallito all’ultimo minuto il tentativo dei vertici dem di chiudere su Nicola Zingaretti (nella Capitale) e Roberto Fico (nel capoluogo partenopeo). Due candidati che al Nazareno erano considerati vincenti. Ora, la coalizione è di fatto esplosa, nonostante le rassicurazioni da parte del Nazareno che il progetto va avanti. Sono cambiati i toni, le modalità, le aspettative. A Roma, Roberto Gualtieri correrà contro Virginia Raggi. Nell’accordo finale ci sarebbe la garanzia di reciproco appoggio al ballottaggio. Letta però ha capito che non può affrontare una campagna elettorale in questo modo. E dunque, ora sta dicendo che il Pd non voterà il candidato dei Cinque Stelle che dovesse eventualmente arrivare al ballottaggio, né a Roma, né a Torino. D’altra parte, Chiara Appendino, sindaca uscente nella città della Mole, sta dicendo lo stesso.

Nel capoluogo sabaudo sono già previste le primarie: in campo Stefano Lo Russo, capogruppo in consiglio comunale, Enzo Lavolta, vice presidente del Consiglio comunale, il civico, Francesco Tresso e forse un esponente di sinistra. Non esattamente nomi di primo piano, che dovranno poi vedersela con un candidato Cinque Stelle.

Se è per Napoli, il Pd ci tiene a dire che regge la coalizione: ma per ora non è neanche ufficiale il nome di Gaetano Manfredi, ex ministro dell’Università (nella foto). Aspetta l’investitura da Giuseppe Conte, dicono, ma intanto gli altri si organizzano.

Mentre a Bologna Isabella Conti alle primarie può mettere in difficoltà Matteo Lepore, il dem sostenuto da un big 5S come Bugani.

Ma è l’esperienza fatta su Roma e Napoli quella che più preoccupa il segretario. In questi giorni, il Nazareno riflette soprattutto su un punto: non è chiaro se Giuseppe Conte può garantire la tenuta degli accordi con il Movimento, se davvero è il capo politico riconosciuto da tutti. Per ora, viene considerato più un leader in pectore. Questione non secondaria di fronte al progetto di un’alleanza organica. Per cercare di prevenire il più possibile i guai, Letta ha convocato una direzione del partito in streaming per stamattina. Ordine del giorno: “Analisi della situazione politica”. Un tentativo di blindare la propria linea e farsela approvare da tutti, a futura memoria. Tentativo – sia detto per inciso – che non è riuscito mai a nessun segretario del Pd: non c’è stata votazione o documento che abbia tenuto, rispetto alla volontà di far fuori un leader.

Perché è chiaro che a due mesi dall’ elezione di Letta i nodi stanno già arrivando al pettine, con tutto il partito che lo aspetta al varco. Primo obiettivo, dunque, sarà chiarire che il Pd è il centro di ogni eventuale coalizione. Con buona pace di progetti più organici alla Goffredo Bettini. Le Amministrative saranno il cuore degli interventi. Promessi atti di disturbo da parte di Base Riformista (Andrea Marcucci ha già annunciato il suo sostegno alla Conti). Si parlerà anche di governo. E di legge elettorale. Con l’alleanza che zoppica, un sistema che molti promuovono.

Ma per restare sulle Amministrative, c’è un ulteriore tema Roma. Monica Cirinnà era pronta a correre, ma si è ritirata. Dopodiché è scattata la corsa alla ricerca di una donna. Tanto da far dire a Marianna Madia: “Spero che si stoppi questa farsa: non è ammissibile la ricerca della candidatura di una donna come figurante”. In realtà c’è chi chiede – Roberto Morassut in testa – di annullare le primarie, considerate a questo punto solo un’incoronazione di Gualtieri. Insomma, la strada per Letta è tutta in salita. E intanto lui annuncia l’uscita di un libro per il 27 maggio. Si chiamerà “Anima e cacciavite. Per ricostruire l’Italia”. Un altro tentativo di lasciare il segno.

Assenze del 40%: Matteo al Senato non va quasi mai

“E chi lo vede più, Matteo…”. La voce dal sen fuggita viene da un senatore molto vicino a Matteo Renzi che ormai, secondo molti anche dentro Italia Viva, ha intrapreso una strada diversa da quella di parlamentare della Repubblica: per adesso si ferma, per così dire, alle conferenze e alle “missioni” in giro per il mondo (dall’Arabia Saudita al Senegal), ma il sospetto sempre più concreto anche tra i suoi parlamentari è che punti a un incarico internazionale di rilievo. E in prospettiva a liquidare Italia Viva, partito nato nel settembre 2019 per imitare “En Marche” di Emmanuel Macron ma che ora veleggia sotto il 2% nei sondaggi. Il disinteresse di Renzi dai lavori del Senato si ricava anche dai numeri: secondo l’ultimo rapporto di Openpolis, l’ex premier infatti è il quinto senatore più assenteista di Palazzo Madama in occasione delle votazioni. Infatti, dall’inizio della legislatura, il senatore di Scandicci non ha partecipato a 2.581 votazioni sulle 6.485 totali a Palazzo Madama (le volte in cui era “in missione” non contano nel conteggio finale). Un tasso di assenteismo del 39,8%. Peggio di lui hanno fatto, oltre ai senatori a vita che però non fanno testo, solo il senatore dem Tommaso Cerno (78% di assenze), l’avvocato di Silvio Berlusconi Niccolò Ghedini (71,4%), il vicepresidente di Fratelli d’Italia Ignazio La Russa (59%) e il senatore del Maie Adriano Cario (45%).

Secondo i dati di Openparlamento aggiornati alla scorsa settimana, solo prendendo in considerazione i voti finali dei provvedimenti, l’ultima volta che Renzi è risultato presente per un voto è stato il 30 marzo scorso quando il Senato ha approvato in via definitiva il provvedimento sull’assegno unico proposto dalla ministra renziana Elena Bonetti. Il senatore di Scandicci invece è stato assente, per fare solo qualche esempio, nel voto finale sulla conversione del decreto sugli esami per avvocati (31 marzo), sul dl che rinviava le elezioni amministrative (7 aprile), sulla mozione di sfiducia di Fratelli d’Italia contro il ministro della Salute Roberto Speranza (28 aprile, unico assente del suo gruppo), ma anche sull’ultimo decreto Covid convertito dal Senato il 5 maggio. Non un bel messaggio da un senatore che proprio sullo “svuotamento” dei poteri del Parlamento aveva iniziato ad aprire le prime fratture nel governo Conte-2. Ieri intanto Renzi ha definito “molto utile” la proposta dei referendum di Matteo Salvini e i Radicali sulla giustizia.

Il rapporto di Openpolis fotografa il tasso di assenteismo dei parlamentari da inizio legislatura di Camera e Senato. Se la media delle assenze nelle votazioni è pari al 14%, ci sono 147 parlamentari che hanno un tasso di assenteismo superiore al 25% delle votazioni. Quindi il 16% dei parlamentari nei tre anni di legislatura non ha partecipato a oltre un voto su quattro. Al Senato il tasso di presenza è molto più alto di quello di Montecitorio: a Palazzo Madama solo 21 parlamentari sono stati assenti a oltre il 25% delle votazioni mentre alla Camera sono 103 tra il 25 e il 50% e 23 addirittura non hanno partecipato a più di una votazione su due.

Proprio tra questi ultimi ci sono volti molto noti: a Montecitorio la più assenteista è la forzista Michela Vittoria Brambilla con il 99% delle assenze, il re delle cliniche private Antonio Angelucci con il 95,4% e Vittorio Sgarbi con il 77,7%. Sei di questi appartengono a Forza Italia. Tra i deputati meno presenti c’è anche la leader di Fratelli d’Italia Giorgia Meloni assente in 6 votazioni su 10.

Tensione Conte-Draghi. La battaglia sui Servizi

L’eco della sua ira rimbomba ancora, dentro il M5S. “Giuseppe Conte era davvero furioso”, confermano 5Stelle di governo e non. Mercoledì era furibondo, l’ex premier, per la nomina dell’ex segretario generale della Farnesina Elisabetta Belloni a direttore generale del Dis, il Dipartimento che coordina i servizi segreti, al posto di un uomo di sua fiducia, Gennaro Vecchione.

Perché la sostituzione di Vecchione è un rumoroso atto di discontinuità con la sua presidenza, da cui il nuovo premier aveva già preso simbolicamente le distanze rimuovendo da commissario all’emergenza Domenico Arcuri, altro nome legato a doppio filo al leader del M5S. D’altronde tutti i pezzi dell’era Conte stanno venendo tolti dalla scacchiera di governo, uno dopo l’altro. E non a caso il primo nemico, quel Matteo Renzi che l’ha disarcionato da palazzo Chigi, ieri sera celebrava su Zapping: “Dove c’era Arcuri c’è Figliuolo, mentre alla Giustizia c’era Bonafede e ora c’è Cartabia. E poi la Belloni al posto di Vecchione”.

E al di là della propaganda, è evidente come l’avvocato abbia vissuto il cambio al vertice dei Servizi come uno strappo, da quel Draghi per cui ufficiosamente non stravede, ma a cui ufficialmente aveva aperto la strada offrendo il suo sostegno e quello del Movimento. “Conte aveva chiesto al suo successore garanzie sulla permanenza di Vecchione” dicono ora fonti di peso del M5S. Ma invece è arrivato il cambio. Letto dall’ex premier anche come un favore alla Lega, e non a caso mercoledì sera alcuni grillini sono usciti reclamando l’assegnazione a Fratelli d’Italia della presidenza del Copasir, tuttora occupata dal leghista Volpi. E pazienza se voci trasversali di Palazzo sussurrano che il Quirinale non fosse di certo contrario alla sostituzione di Vecchione. E non ha fatto differenza, la telefonata dello stesso Draghi a Conte per spiegare la scelta. Una chiamata, dicono, prevista per prassi istituzionale ma sollecitata al premier anche dal ministro degli Esteri Luigi Di Maio, che ovviamente conosce benissimo Belloni avendoci lavorato a stretto contatto per due anni. Di Maio, informato subito da Draghi, aveva pre-avvertito Conte. E per telefono aveva raccolto tutto il suo disappunto. Quello che ha sentito in viva voce lo stesso Draghi in un lungo e teso colloquio con l’ex presidente del Consiglio, mercoledì, in cui Conte ha difeso Vecchione. Inutilmente.

Via libera al cambio, che ha alimentato altre discussioni su pesi e contrappesi nel M5S dove Conte è un leader ancora prossimo venturo e Di Maio un porto tornato attrattivo per tanti grillini. La nomina di Belloni non può essere sgradita, all’ex ministro: comunque il baricentro, per i 5Stelle che vedono già in bilico l’alleanza con il Pd, isterico per il naufragio della candidatura di Nicola Zingaretti a Roma. “Di Maio è molto preoccupato” dicono grillini di vario ordine e grado.

Perché vede uno scenario troppo friabile, per il nuovo M5S in costruzione. E per Conte, di cui hanno tutti estremo bisogno, lui compreso. Il deflagrare della nomina di Vecchione rappresenta l’ultima grana, ma anche un punto di domanda, su cos’era e cosa potrà essere il M5S. “Dobbiamo ammettere che finora abbiamo sottovalutato il tema dei Servizi” sostenevano ieri un paio di deputati della vecchia guardia. Ma Conte no, non l’ha mai sottovalutato. Sa quanto contano quelle caselle. E magari adesso comincia a chiedersi quanto sia alto il prezzo pagato al governo Draghi.

Il Copasir ora vuole indagare sull’incontro tra Renzi e Mancini

La prima grana per la appena nominata direttrice del Dis (l’agenzia dei servizi segreti italiani) Elisabetta Belloni potrebbe arrivare proprio dal Copasir. Ieri il Comitato parlamentare che ha una funzione di controllo sull’operato degli 007, ha messo sul tavolo una proposta che potrebbe investire l’ufficio ispettivo del Dis chiamato a svolgere un’indagine interna sulle presunte manovre di Marco Mancini, caporeparto di quella sezione, finito al centro di una puntata di Report. E in quella sede allo 007, con una lunga carriera alle spalle, potrebbero essere chiesti chiarimenti anche sull’incontro con Matteo Renzi, avvenuto il 23 dicembre scorso in un autogrill di Fiano Romano. La procedura proposta dal Copasir è prevista dall’articolo 34 della legge sull’intelligence (la 124 del 2007): prevede che l’organismo parlamentare, “qualora (…) deliberi di procedere all’accertamento della correttezza delle condotte poste in essere da appartenenti o da ex appartenenti agli organismi di informazione e sicurezza, può richiedere al presidente del Consiglio dei Ministri di disporre lo svolgimento di inchieste interne”. Con l’ok del premier Mario Draghi dunque l’ufficio direttivo del Dis potrebbe dare vita a un’indagine interna. Ma questi saranno, in caso, i passi successivi. Quella avanzata ieri dal Copasir è per ora solo una proposta che potrebbe dunque essere votata nella prima riunione del Comitato che si terrà con probabilità già la prossima settimana. L’iniziativa non sembra però condivisa da tutti i componenti del Copasir: “Perché affidare al Dis accertamenti che possono essere svolti autonomamente dal Comitato, programmando una serie di audizioni?”, si domandano.

La proposta di un’indagine interna nasce dopo la puntata di Report dello scorso 3 maggio. In video appare Cecilia Marogna, manager cagliaritana ritenuta vicina al cardinale Angelo Becciu, ex sostituto della segreteria di Stato. A Giorgio Mottola che dice: “Lei era un servizio segreto parallelo”, la Marogna risponde: “in interazione con gli altri servizi segreti paralleli internazionali”. La donna racconta di aver cooperato con i servizi segreti “in diversi tipi di operazioni” riguardanti anche casi di sequestri di persona; racconta poi di aver avuto in passato una corrispondenza con Luciano Carta, ex direttore dell’Aise ora presidente di Leonardo Spa, e aggiunge anche che a un certo punto si sarebbe rivolta a Giuliano Tavaroli (ex Sismi). “Volevo capire – dice la Marogna – se un altro funzionario dei servizi avrebbe avuto per lo meno interesse…” E fa il nome di Marco Mancini. Nel corso dell’intervista dice anche che l’intenzione era di “far fuori Carta (…) perché disturbava, in senso figurato devi essere la ghigliottina per Becciu, Bergoglio e il generale Carta”. Chi avrebbe fatto questa allusione? “Tavaroli”, risponde la Marogna. Tavaroli ha negato che tutto questo sia accaduto.

L’indagine ispettiva che il Copasir sembra aver intenzione di proporre dunque potrebbe puntare a chiarire se davvero c’è stata una sorta di guerra interna ai servizi segreti e quali sono stati i ruoli svolti dagli 007. Ma potrebbe anche allargarsi all’ormai noto incontro tra Renzi e Mancini.

Agente del Dis, con alle spalle una brillante carriera nel Sismi (ora Aise) di cui diventa capo della Divisione controspionaggio, Mancini è l’uomo che il 5 marzo 2005 riporta in Italia la giornalista del manifesto Giuliana Sgrena liberata dopo il suo sequestro in Iraq. A febbraio del 2013 viene poi condannato in primo grado a 9 anni per sequestro di persona (l’imam Abu Omar, rapito a Milano dalla Cia), condanna poi definitivamente annullata dalla Cassazione dopo una pronuncia della Corte costituzionale che interviene allargando i confini del segreto di Stato.

Oggi Mancini è caporeparto al Dis. Durante il governo Conte, per qualche tempo, ha puntato a una funzione più operativa, dentro l’Aise o l’Aisi (i servizi segreti per l’estero e per l’interno), o alla nomina di vicedirettore del Dis. Per alcune settimane, ha anche buone possibilità, sembrerebbe con il sostegno del capo del Dis Gennaro Vecchione (appena sostituito) e i 5 Stelle non ostili. Il 23 dicembre all’autogrill di Fiano Romano Mancini incontra Renzi. Su questo episodio nei giorni scorsi al Copasir è stato sentito Vecchione. Ora il rischio è che, se il Comitato formalizzera la proposta e Draghi darà l’ok, un’ipotetica indagine ispettiva del Dis potrebbe svolgere approfondimenti anche su quell’appuntamento.

Google multata sull’auto elettrica

Cento milioni di euro di multa a Google, anzi 102, dall’Antitrust italiana. L’accusa è di abuso di posizione dominante, in particolare nei confronti di Enel, ritenuta inaccettabile all’alba dell’era della mobilità elettrica.

L’accusa rivolta a Google è di aver impedito a Enel X, ramo della mobilità elettrica di Enel, di inserire la propria applicazione per la ricerca e la prenotazione delle colonnine di ricarica delle auto – JuicePass – nel sistema intelligente “Android Auto” presente a bordo. Google, prosegue l’Antitrust, avrebbe così ingiustamente limitato le possibilità per gli utenti di utilizzare la app. Ma cosa ci guadagna Google? Le 156 pagine del provvedimento dell’Antitrust spiegano nel dettaglio il contesto in cui si opera, sottolineando l’attuale estensione del mercato di Mountain View, la totale assenza di una valida alternativa (ci sono altri sistemi operativi, ma produttori e sviluppatori vi rinunciano perché resterebbero fuori dal mercato) e quindi anche la potenziale futura espansione.

In estrema sintesi, il fatto che la app di Enel X dia anche la possibilità di prenotare e pagare in anticipo la sessione di ricarica alle colonnine potrebbe essere alla base del rifiuto. Se infatti Google Maps già prevede l’indicazione dei punti di ricarica sulla mappa (e questo per l’Agcm costituisce una “concorrenza effettiva”) Big G. potrebbe un giorno voler incardinarvi ulteriori funzioni, tra cui quelle per prenotazione e pagamento (“concorrenza potenziale”) e dunque a poco servirebbe dimostrare – come Google fa – di non aver ancora sviluppato adeguati template per le app di prenotazione o di non aver ancora previsto, per policy, altre funzioni oltre quelle di “media” e “messaging”.

Tanto più nel momento in cui con alcune aziende si è scelto di effettuare delle collaborazioni per realizzare versioni beta di app con altre funzioni, proposte anche a Enel, che però non avrebbero fornito certezza alcuna sulla pubblicazione della app specifica. Aspetto ritenuto critico dall’Antitrust in un momento di forte crescita del mercato dell’auto elettrica, dal quale Enel sarebbe rimasto escluso – a causa di questa querelle – per oltre due anni. “Siamo rispettosamente in disaccordo con la decisione dell’Agcm, esamineremo la documentazione e valuteremo i prossimi passi – ha commentato un portavoce di Google –. La priorità numero uno di Android Auto è garantire che le app possano essere usate in modo sicuro durante la guida”. Così, anche quando gli sviluppatori chiedono aiuto per realizzarla, ottengono dinieghi o la proposta di integrare le informazioni su Google Maps o attraverso altre funzioni di Google. O ancora, di stringere direttamente accordi con le case di produzione automobilistiche per lo sviluppo. “Abbiamo linee guida stringenti sulle tipologie di app supportate, sulla base degli standard regolamentari del settore e di test sulla distrazione al volante” conclude Google.

Così le regole Ue consentono i trucchi fiscali di Amazon&C.

Dopo Apple nel 2020, salvata dall’obbligo di rimborsare 13 miliardi all’Irlanda, mercoledì è arrivata un’altra batosta per la Commissione europea, con la sentenza della Corte di giustizia Ue che ha annullato la decisione della Commissione sui presunti aiuti di Stato ad Amazon: 250 milioni di tasse risparmiate dal colosso digitale tra il 2006 e il 2014 grazie a un accordo fiscale con il Lussemburgo. Lo strumento del controllo sugli aiuti di Stato, utilizzato negli ultimi anni dalla commissaria europea alla Concorrenza Margrethe Vestager, si è rivelato un boomerang per la lotta ai paradisi fiscali e alle pianificazioni fiscali aggressive delle multinazionali.

Il problema è evidente. Con forti differenze nelle aliquote effettive di tassazione, continua ad essere troppo forte l’incentivo a spostare artificialmente i profitti nei paesi a fiscalità agevolata utilizzando il “transfer pricing”, la tecnica di spostare reddito tra un paese e un altro con operazioni infragruppo di vendita di beni e servizi, pagamento di interessi, royalties etc.. Il problema non è Amazon, che ha creato una struttura fiscale in Lussemburgo concedendo i diritti sulla proprietà intellettuale sviluppata negli Stati Uniti a una società del Granducato senza dipendenti ed esente da tassazione in Lussemburgo. Il problema è il sistema di fiscalità che ha permesso a una società senza ufficio né dipendenti di essere considerata ai fini fiscali come società responsabile di controllare e sviluppare proprietà intellettuale, avere funzioni strategiche e rischio d’impresa e quindi attribuirsi profitti. Sono le stesse regole che permettono alle multinazionali digitali di vendere prodotti in Italia senza creare una stabile organizzazione e di spostare profitti dai paesi dove sono generati. Finora Bruxelles ha combattuto gli accordi fiscali segreti con i colossi come aiuti di Stato, senza scalfire le regole che ne sono alla base. Una strategia insufficiente.

A regole à la carte si aggiunge la malsana competizione fiscale tra paesi, una corsa al ribasso a chi offre aliquote più basse. Competizione che premia solamente i paesi piccoli (Lussemburgo, Olanda, Irlanda, Malta), che hanno un vantaggio nell’abbassare la propria tassazione perché la piccola perdita di gettito sui profitti delle società già operanti nel paese è più che compensata dall’afflusso di investimenti dal resto del mercato comune. Una strategia non replicabile da paesi grandi come l’Italia. Ci guadagnano loro, ci perde l’Italia e l’Unione nel suo insieme (ogni anno 50-70 miliardi di mancato gettito).

L’unica soluzione è affrontare la questione in modo strutturale e su questo va dato atto alla Commissione d’aver creato lo spazio politico per una riforma globale della tassazione, che passa necessariamente attraverso l’introduzione di una tassazione minima globale per rendere ininfluente dove le multinazionali decidono di spostare i loro profitti.

È grazie anche agli sforzi della Commissione che questa misura è finalmente in fase di negoziazione all’Ocse su mandato del G20. L’amministrazione Biden ha riaperto la partita negoziale – aperta dal 2013 ma bloccata sotto l’amministrazione Trump – il mese scorso proponendo un accordo su una tassazione minima globale al 21%. Con questa misura, i profitti di multinazionali americane o italiane in Lussemburgo e Olanda sarebbero quindi tassate almeno al 21%, con la tassazione minima applicata dal paese dove risiede la controllante sulla differenza tra imposta effettiva nel paradiso fiscale e il 21%. È sufficiente che questa misura sia introdotta dai paesi del G20 (che rappresentano più del 90% dei profitti globali delle multinazionali) e che l’aliquota sia almeno del 21% per ridurre drasticamente la concorrenza tra paesi e far venir meno la ragion d’essere dei paradisi fiscali.

L’Italia ha la presidenza del G20 ed è su questo tema che il prossimo 9 luglio, a Venezia, dovrà trovare un accordo. Finora il governo italiano non si è espresso a favore della proposta americana e la reazione di Francia e Germania è stata tiepida. Come su altri fronti (l’apertura alla sospensione temporanea dei brevetti sui vaccini) l’Europa oggi deve inseguire la leadership Usa. C’è bisogno invece di un cambio di marcia e il governo italiano dovrebbe dichiararsi pubblicamente a favore della proposta di un’aliquota minima globale e usare il suo peso per convincere gli altri paesi del G20. Serve affinché tutti contribuiscano alla ripresa post Covid, ma anche a legittimare il governo italiano nella lotta contro l’evasione. Se non si contrasta l’elusione delle multinazionali, è difficile poi avere legittimità per ridurre l’evasione individuale.

Dopo l’ultima sconfitta, la Vestager ha detto che la battaglia per un sistema fiscale più giusto “è una maratona, non uno sprint”. Per fare i prossimi passi, c’è bisogno che anche l’Italia faccia la sua parte.

 

Draghi: il trust inglese, la società in Georgia e le due case a Londra

Dove è finito il trust di Draghi? Questa è la domanda che in tanti si sono posti ieri leggendo sui giornali le notizie sulle dichiarazioni dei redditi e patrimoni del premier. In questo articolo c’è la risposta a questa domanda e ci sono anche altre notizie sul conto da 611 mila euro a Francoforte, sulla società con sede in Georgia (stato Usa considerato per alcuni aspetti un paradiso fiscale) e sulla casa a Londra da due milioni di sterline.

Da dove nasce la curiosità per il trust nei palazzi romani? Quando fu nominato nel gennaio 2006 Governatore della Banca d’Italia, Draghi era lo strapagato Vice Chairman e Managing Director della banca Goldman Sachs. Il 18 gennaio del 2006 annunciò di aver venduto le azioni Goldman Sachs e di aver conferito i ricavi, insieme ad altri beni, in un “blind trust”, un fondo cieco gestito da un amministratore che non gli comunicava gli investimenti per evitare conflitti di interessi. Che fine hanno fatto i soldi e gli immobili conferiti nel trust?

In ambienti politici e giornalistici gira voce da mesi che il trust di Draghi fosse basato in un paradiso fiscale come Jersey. Voce falsa, assicurano fonti vicine a Draghi, alimentata probabilmente da un caso di omonimia con un riccone a cui è intitolato un trust a Jersey: si chiama come il padre defunto di Draghi ma non è parente.

C’è però un legame reale tra un paradiso fiscale e i beni della famiglia: Draghi il 4 novembre del 2006 ha girato la proprietà di una casa londinese a una società con base in Georgia, Stato americano che vanta una bassa fiscalità e una bassa trasparenza. Attenzione: non stiamo parlando della casa londinese dichiarata da Draghi di cui tutti hanno già parlato ieri, quella del valore di 495 mila euro dichiarata al fisco nella dichiarazione 2020 per i redditi 2019 ‘depositata’ sul sito di Palazzo Chigi. Da due giorni quella sta nel quadro RW della dichiarazione sul sito insieme al conto corrente in Germania, cointestato con la moglie, sul quale a fine 2019 giacevano 611 mila euro. Serviva per incassare lo stipendio dalla Bce ma, spiegano fonti vicine a Draghi, “è stato chiuso quest’anno”. C’è anche un conto da 15 mila euro in Usa e uno in Gran Bretagna. Argent de poche per le spese minime. Poi ci sono i redditi dichiarati nel 2020: 583.470 euro lordi guadagnati nel 2019 sui quali Draghi ha pagato imposte per 243mila euro per un netto residuo di 300 mila euro annuo.

Non c’è traccia nelle dichiarazioni della seconda casa più bella che Mario Draghi ha comprato molti anni fa a Londra, scovata dal Fatto. Si trova nella zona esclusiva di Knightsbridge e vale oggi circa due milioni di sterline.

La casa è stata girata da Draghi il 2 novembre del 2006 a una società americana, la SFG International LLC, che ha sede in uno Stato che per alcuni aspetti è definito ‘un paradiso fiscale’: la Georgia. La sede è a Fulton, mentre l’ufficio amministrativo è a Albany, Stato di New York. Così Sebastiano Garufi, docente alla Bocconi in un suo libro sui paesi a ‘regime fiscale privilegiato’ descrive la forma usata dai Draghi: “le LLC costituite in Georgia, Delaware e New York sono le tipiche strutture che consentono la massimizzazione dei redditi. Mantenendo in questi stati un registered office o registered agent della LLC, l’unico documento che deve essere mantenuto nei registri è il certificate of incorporation. Non vi è alcun obbligo di dichiarare i beneficiari e l’imposta federale può essere evitata al ricorrere di determinate condizioni”.

Effettivamente Il Fatto non ha trovato negli archivi della Georgia un bilancio né i soci. Abbiamo scoperto la LLC americana grazie a un autonomo lavoro investigativo ma fonti vicine alla famiglia Draghi (che evidentemente non si è opposto mostrando trasparenza) hanno arricchito il quadro così: “La SFG International LLC è della moglie di Draghi. Paga le imposte nel Regno Unito perché l’immobile, che non è locato e non genera reddito, è a Londra. La società ha solo un obbligo di ‘reporting’ negli Usa, assolto regolarmente”.

E le iniziali dei nomi di battesimo dei due figli (F e G, oltre alla S della moglie di Draghi)? “Forse perché – spiegano le stesse fonti – inizialmente le quote della società, e quindi la casa di Londra, erano del trust. Poi alla dissoluzione del trust è stato scelto di attribuire la casa solo alla moglie non ai figli”. Insomma, sembra probabile dalle risposte delle fonti del Fatto, che Draghi nel 2006 abbia creato il trust prevedendo come beneficiari sua moglie e i figli. Poi allo scioglimento avrà girato alcuni beni solo alla prima e altri magari ai figli. Questa è una nostra deduzione ovviamente ma basata su quel che solitamente accade con i trust. A questa domanda il premier, legittimamente, non risponde. Le solite fonti spiegano: “Il trust creato nel 2006 con i proventi delle vendite delle azioni GS, le altre attività e le quote della LLC con l’immobile di Londra, poi sciolto nel 2020, era regolato dalle norme britanniche non da quelle vigenti in paesi come Man, Jersey, Guernsay ecc…”. Niente a che fare dunque con paradisi fiscali della Corona. Non solo: “Dal punto di vista fiscale – prosegue la stessa fonte vicina a Draghi – il trust era residente in Italia e ha pagato in Italia tutte le imposte alla fonte su tutti i redditi”. Secondo le fonti vicine al premier il trust non è servito ad avere benefici fiscali: “Anche i trasferimenti ai beneficiari sono stati tassati in Italia con aliquote ordinarie”. Il trust viene fatto poco prima dell’ingresso in Banca d’Italia “per evitare decisioni in conflitto potenziale di interesse. Per questo Draghi si è completamente spogliato della gestione già nel 2006. Nel 2020 il trust si è sciolto e le attività sono state attribuite ad altri soggetti”. Probabilmente potremmo vedere qualcosa di più sulla sorte dei beni se i familiari avessero prestato il consenso a mostrare i loro redditi e patrimoni. Il Decreto Legislativo n. 33 del 2013 però permette ai figli e alla moglie di Draghi di negare il consenso.

Resta la domanda chiave: perché la famiglia Draghi, quando Mario era già Governatore di Bankitalia da quasi sei mesi, il 26 giugno del 2006, crea in Georgia una LLC in un ‘paradiso fiscale’ per gestire una casa a Londra? Secondo un manager londinese che ha anche una società immobiliare unipersonale si usa questa formula “perché è molto difficile scoprire il proprietario”. Il professore che ha consigliato la scelta a Draghi allora, il luminare di diritto tributario internazionale Guglielmo Maisto, al Fatto spiega: “I trustee (cioè i gestori dei trust) non gradiscono gestire immobili intestati a persone fisiche e così fu creata la LLC. L’immobile non è affittato e non c’è alcun reddito e quindi non c’è stato nessun vantaggio fiscale”.