Poche strategie, tanto piccolo cabotaggio

Affidare la stesura del Recovery plan a una burocrazia di piccolo cabotaggio, italiana o europea che sia, produce un piano di piccolo cabotaggio. Il Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) consegnato a Bruxelles non è stato costruito con il Parlamento, nemmeno nella versione finale, né ha visto coinvolte associazioni e portatori di interessi della società civile. Resta un prodotto sostanzialmente “ministeriale”. Per questo leggere rapporti come quello pubblicato ieri dal Forum Disuguaglianze, che raccoglie decine di associazioni, guidato dall’ex ministro Fabrizio Barca aiuta a comprenderne limiti e potenzialità.

Il dossier di fatto boccia il piano che disegna la politica economica e sociale del Paese per i prossimi anni: 190 miliardi e dispari, 6 missioni, 16 componenti, 70 riforme. Il tutto senza un’idea di cambiamento della società. L’esempio più eclatante è che non viene disegnato un welfare migliore: resta quello costruito nell’idea reazionaria di “aiutare i perdenti della competizione”, non evitare che il gioco sia truccato. Se va bene si recupera il gap economico e si torna alla “normalità” di prima.

Il dossier conferma i limiti del piano del governo Conte. Promuove a pieno solo due modifiche fatte da quello Draghi: il miglioramento nelle ambizioni di recuperare il deficit della P.A. e dei servizi per anziani non autosufficienti (con risorse salite a 3 miliardi). Restano molti punti negativi e diversi peggioramenti. Nel complesso, spiegano gli esperti del Forum, il piano è “opaco” nei risultati attesi, non ha un sistema di vera valutazione degli obiettivi e il meccanismo di monitoraggio e raccolta dei dati (“ReGis”, in uso alla Ragioneria) non è aperto al pubblico. La riforma della concorrenza auspica nei servizi pubblici un “pericoloso” obbligo a motivare il mancato ricorso al mercato, come fosse sinonimo di efficienza, senza promuovere forme di autogoverno nelle comunità; quella fiscale invece è sprovvista di ambizione, limitandosi a una sistemazione dell’Irpef “preservando la progressività”, che invece è assente e andrebbe potenziata (se a farla sarà questa legislatura sarà un’occasione persa). E ancora: la transizione digitale è costruita come se la digitalizzazione fosse un obiettivo in sé e non il miglioramento ultimo dei servizi (promosso invece il taglio del cashback), quella ecologica non è ambiziosa, non spiega quale sia il tasso “green” dei singoli progetti ed è modesta nelle ambizioni. Perfino gli obiettivi sul clima sono inferiori a quelli europei (51% di riduzione di Co2 al 2030, contro il 55% Ue) mentre i fondi per l’efficienza energetica vengono dimezzati (da 30 a 15 miliardi), specie per l’edilizia pubblica, né è previsto un meccanismo per evitare che il Superbonus finisca soprattutto ai più ricchi. La parte “ricerca” non ha una visione strategica ma è soprattutto quella sull’occupazione a deludere: “L’attenzione alla qualità del lavoro e dei posti di lavoro è pressoché inesistente”, spiega il dossier, “è uno dei segnali gravi di un piano che non riesce a uscire dalla cultura perdente dell’ultimo trentennio”. Ignora, per dire, la sicurezza sul lavoro e la povertà lavorativa.

L’elenco dei difetti è lungo e per questo, spiegano dal Forum, senza modifiche in corsa il Pnrr “resterà un’occasione storica mancata di cambiamento”. Le speranze sono poche, non a caso quelle maggiori sono riservate quantomeno a rendere davvero trasparente il monitoraggio. Magra consolazione.

C’è una sola certezza: sarà il Pnrr del lavoro precario

Nonostante l’allarme del Quirinale sia arrivato in tutte le redazioni, i ritardi nella definizione di aspetti fondamentali del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) non sembrano, a differenza dei mesi scorsi, interessare più i media. La sveglia del Colle, però, è suonata a Palazzo Chigi che ieri ha fatto circolare l’intenzione di portare in Consiglio dei ministri uno o due decreti (governance e semplificazioni) entro giovedì prossimo: un vero tour de force – tanto più che martedì o mercoledì è prevista anche l’approvazione (in ritardo) del decreto Sostegni bis da 40 miliardi – che finirà per ridurre (di nuovo) il Parlamento al ruolo di passacarte, situazione che potrebbe peggiorare quando – tra giugno e luglio – arriveranno i ddl delega sulla giustizia, la concorrenza e, forse, il fisco.

In realtà, l’annuncio del governo al momento è più un’intenzione che un cronoprogramma, visto che di testi veri e propri non ce ne sono: eppure si tratta di decreti che, per regolamento, la Commissione Ue dovrà valutare e approvare come fossero parte integrante del Pnrr. Ci torneremo, ma ora va chiarita l’unica certezza riguardo al Piano di ripresa: sarà all’insegna del lavoro (pubblico) precario. Mercoledì – spiegano fonti di governo – è stata definita la delega al ministero della Funzione pubblica per le migliaia di assunzioni connesse all’attuazione del Pnrr: siccome tra mali endemici e protocolli anti-Covid si ritiene di non poter fare i concorsi in tempo, si apre la porta a tutte le forme di “flessibilità” possibili.

In cima alla lista ci sono i dirigenti esterni, che potranno essere presi a chiamata diretta dalle singole amministrazioni per tre anni più altri tre in deroga a qualunque norma. Poi c’è la truppa e qui la delega predisposta è una sorta di catalogo del precariato: via libera ai moduli per l’apprendistato, ai contratti di formazione, ai temporanei e pure agli stage se dovesse servire. Nel frattempo, è l’idea, si fanno i concorsi ordinari. Per fare più in fretta, proprio due giorni fa, Renato Brunetta – che aveva annunciato un suo “decretone” entro aprile – ha provato a inserire questa delega come emendamento al primo dl Sostegni, appena arrivato alla Camera dopo il via libera del Senato: respinto con perdite dalla sua stessa maggioranza, sarà inserita nei decreti per il Pnrr.

La fretta, d’altra parte, è scusata: è la natura stessa del Next Generation Eu a imporla, ma molti Paesi, Francia in testa, hanno da tempo scelto il loro sistema progettuale e iniziato a prepararsi come se il Piano fosse già approvato: sempre per regolamento, infatti, dev’essere chiaro fin da subito per ogni singolo programma di spesa chi firma e con quali guarentigie, quale modello di progettazione ed esecuzione, con quali tecnici e quanto personale, quali norme (codice degli appalti, codice ambientale, etc.) vanno modificate per spendere i soldi in tempo.

Tutto questo in Italia non è stato ancora deciso nonostante le pressioni di Bruxelles: d’altra parte non è facile, la nostra macchina pubblica non è abituata e non è pronta a lavorare così. Ma i ritardi che agitano Mattarella non sono dovuti solo alle difficoltà tecniche. La variegata maggioranza del governo Draghi litiga anche al suo interno. Ad esempio, stabilito che il comitato tecnico è al Tesoro, chi partecipa alla cabina di regia a Palazzo Chigi? Il premier la vorrebbe snella e solo coi ministri di peso (quelli a cui risponde al telefono), solo che rimarrebbero fuori M5S e Pd…

E ancora: come scriviamo da settimane, è in corso una sorta di duello muto tra Brunetta e il ministro della Transizione ecologica Stefano Cingolani sulle semplificazioni. Quest’ultimo ha predisposto un suo decreto (l’unico vero testo esistente) per tutte quelle di sua competenza, ma Brunetta pretende che ne indichi tre o quattro al massimo da inserire nel “suo” decretone e per il resto si vedrà. Non solo: le semplificazioni di Cingolani tendono, tra le altre cose, a togliere potere alle Soprintendenze nei processi autorizzativi e la cosa non piace al ministero di Dario Franceschini (e poco anche allo Sviluppo economico di Giancarlo Giorgetti). Infine, ma solo per questioni di spazio, la larga deregulation ambientale di Cingolani (dal superbonus al 110% in giù) non è esattamente nelle corde dei grillini. E questo senza che giustizia, liberalizzazioni e fisco – temi su cui potrebbe persino cambiare il perimetro della maggioranza – siano ancora sul tavolo.

Gli inutili idioti

Appena nacque il governo Draghi, M5S, Pd e Leu annunciarono un intergruppo parlamentare per affrontare compatti la sfida ai neoalleati forzati di centro-destra (Lega, FI, Iv e altri centrini sfusi). Poi, siccome era un’ottima idea, la lasciarono cadere. Risultato: i forzaleghisti fanno il bello e il cattivo tempo, ottenendo da Draghi quasi tutto quel che vogliono. Le teste di Arcuri, di Borrelli, di metà dei membri del Comitato tecnico-scientifico. Poi le riaperture premature il 26 aprile all’insaputa del nuovo Cts. E l’altroieri il licenziamento del capo del Dis, generale Vecchione. Pezzo per pezzo si sta smontando l’esperienza giallo-rosa, come se la maggioranza di Draghi potesse esistere senza M5S, Pd e Leu. La domanda è semplice: quousque tandem subiranno in silenzio? Che aspettano a coordinarsi in un intergruppo che restituisca loro un’influenza sul governo pari al peso parlamentare? Il caso 007 è emblematico: nessuno discute le capacità della nuova direttora Belloni, beatificata dai soffietti dei giornaloni come estranea alla politica, come se non navigasse alla Farnesina nel sistema dei partiti dalla notte dei tempi e l’avesse portata la cicogna. La verità la conoscono tutti: Vecchione ha l’unica colpa di essere stato nominato da Conte, dunque dava noia ai due Matteo. Infatti è l’unico a saltare, senza uno straccio di spiegazione, mentre i capi di Aise e Aisi, trasversalmente protetti, restano. E resta incredibilmente pure il caporeparto del Dis Mancini, malgrado l’incontro carbonaro con l’Innominabile, o forse proprio per quello.

La situazione è aggravata da due fatti. 1) Draghi ha affidato la delega dei Servizi a Gabrielli, tutt’altro che neutrale nella partita, essendo stato il capo del Sisde e dell’Aisi e avendo ricevuto incarichi tanto da destra e da sinistra (altro che estraneo alla politica). 2) Il presidente del Copasir, che per legge dev’essere dell’opposizione e va preventivamente consultato sulle nomine degli 007, è il leghista Volpi, esponente della maggioranza. Così, sul nuovo capo del Dis, il premier e Gabrielli hanno consultato un alleato del loro governo, ovviamente favorevole. Tutto in famiglia. E su queste vergogne non s’è levata una sola voce di protesta. Così come quando Draghi ha glissato in Parlamento sul sottosegretario leghista al Mef Durigon, che non dovrebbe restare al suo posto un minuto di più dopo aver detto che l’ufficiale della Guardia di Finanza che indaga sulla Lega “l’abbiamo messo noi” (la Gdf dipende dal Mef). Resta da capire quale sia la funzione di M5S, Pd e Leu, le tre forze maggioritarie che sostengono Draghi: a parte quella degli (in)utili idioti che tacciono e acconsentono, ingoiano e votano tutto.

Diritti, Germano, Loren, Zalone: i David del “cinemino” nostrano

Vince, anzi, stravince Volevo nascondermi di Giorgio Diritti, e perdono tanti ai 66esimi David di Donatello. Sette statuette, tra cui film, regia e attore protagonista (Elio Germano), per il biopic del pittore Ligabue, che nel titolo invero disattende i desiderata del cinema italiano qui e ora: riconquistare la scena, e la sala, dopo la congiuntura pandemica.

I David catalizzano la volontà, ma anche l’impotenza: manca uno star system, sicché l’Accademia presieduta da Piera Detassis per onorare la diretta di Rai1 deve imbarcare volti nazionalpopolari, i David – invero poco – speciali Diego Abatantuono e Monica Bellucci e Sandra Milo alla carriera. Per fortuna, c’è l’emozionatissima Sophia Loren, che vince sul campo per La vita davanti a sé, ma non basta: il pubblico di Rai1 esige il riconoscimento facciale, che i vari Pierfrancesco Favino, Germano e Valerio Mastandrea non garantiscono irrefutabilmente, sicché tocca ospitare Enrico Brignano per celebrare il maestro Gigi Proietti. Si capisce, il problema non è Brignano, ma un comparto che ha bisogno di Brignano per uscire dall’anonimato.

Perde il cinemino nostro, dunque, e perdono alcuni dei suoi più o meno estemporanei alfieri: i fratelli D’Innocenzo di Favolacce, e Gucci che li veste; il loro produttore Agostino Saccà, che rimane digiuno pure con Hammamet di Gianni Amelio e Favino; le donne, segnatamente le registe Susanna Nicchiarelli (Miss Marx) ed Emma Dante (Le sorelle Macaluso), eccetto la produttrice Marta Donzelli, fresca nominata al Centro Sperimentale; Laura Pausini, che rosica e licenzia un “mi cago sotto in Italia”; Checco Zalone, beneficiato del David dello Spettatore per gli incassi di Tolo Tolo e di quello alla canzone Immigrato, a spese della Pausini, laddove ambiva a miglior regista esordiente; la Mostra di Venezia, che nell’irrilevanza in palmares ribadisce la difficoltà a intercettare tendenze e valori tricolori, ovvero un’influenza sull’award season americana più che sulla nostra; Notturno di Gianfranco Rosi, invano candidato dall’Italia agli Oscar e giubilato agli Oscar nazionali.

Chi vince? Emma Torre che ritira nomen omen il premio alla sceneggiatura per Figli del compianto padre Mattia; il ministro Dario Franceschini in modalità comizio; il produttore di Volevo nascondermi Carlo Degli Esposti (Palomar); Rai1, non tanto per gli ascolti medi (2.525.000 spettatori, 11,6 per cento di share), ma per lo sprezzo del pericolo nell’esibire l’involontario blackface del conduttore Carlo Conti (e Abatantuono).

“Voglio solo donne ‘Belve’: la Celentano mi ha stupita”

“Belve” come aggettivo dai toni positivi, o quantomeno intriganti: “In questo caso è un atteggiamento rispetto alla vita, dedicato alle donne che hanno deciso di non risultare delle gregarie”.

Belve è anche il programma di Francesca Fagnani in onda da domani su Rai2, in seconda serata; davanti a lei, per dieci puntate, avrà artiste, sportive, politiche e due uomini: “Uno sarà Marco Travaglio, l’altro ancora non lo posso rivelare; (sorride) sono le mie quote azzurre”.

Hai le quote?

Perché sono contraria a quelle rosa: per me le donne devono arrivare per merito e non in quanto categoria protetta.

Quindi?

Per provocazione ho inserito due uomini.

Le caratteristiche di una “belva”…

O una personalità fuori dal comune, o un vissuto straordinario: sono donne che, magari, hanno utilizzato bene la loro intelligenza o male la loro ambizione; comunque donne che hanno giocato all’attacco.

Spesso le belve sono over 50…

Quasi sempre è così; le più giovani, quando poi le ho davanti, non hanno la stessa statura, solo le sportive si differenziano: hanno la competizione nel Dna; (ci ripensa) ogni tanto provo a svecchiare, ma è complicato.

Quando l’intervistata ti rivela qualcosa di importante, come reagisci?

(Sorride, anzi ride) Vado in brodo di giuggiole, mi verrebbe voglia di baciarla in bocca per esprimere un “grazie”; in realtà assumo un’espressione neutra come di chi non ha colto certe parole.

I giocatori d’azzardo la definirebbero “poker-face”

Eppure dentro di me sento il Carnevale, sono a Rio, ma non mollo.

Sei una belva?

Nelle due stagioni precedenti mi sono definita “aspirante”, adesso devo fare un salto in avanti.

Quindi?

Se qualcuno mi definisce così, non mi dispiace, lo trovo un complimento, un atteggiamento rispetto alla vita.

Test da “belva”: stai con Ginko o con Diabolik?

(Silenzio) A turno.

Cowboy o pellerossa?

Antipatici entrambi.

La pistola di Callaghan o la testa di Maigret?

(Con sospiro) Eh, credo la pistola.

L’attenzione del Guerrieri di Carofiglio o l’irruenza dello Schiavone di Manzini?

Schiavone. Senza dubbio.

Quello del giornalista non è un mestiere per donne, spesso viene detto…

Non è così, la chiave è differente: a pari ruolo i colleghi uomini hanno un trattamento economico migliore, per il resto non trovo differenza.

Cosa hai imparato dai tuoi maestri di giornalismo?

Ho iniziato con Minoli, e mi ha insegnato che andare in video è l’ultima fase di un processo ben più complesso: prima bisogna capire il montaggio, le luci, come si usa la telecamera, il linguaggio e infine arriva il video.

E poi?

Santoro mi ha trasmesso la non soggezione davanti a un intervistato o a una vicenda, e di trattare allo stesso modo un politico come uno studente, un criminale come uno qualsiasi.

Con chi avresti delle remore?

Forse solo con Santoro, con lui non riuscirei a essere una belva.

Le prime ospiti?

Saranno Arisa e Rosalinda Celentano; nella seconda Bianca Berlinguer e Sabina Began.

L’“ape regina”, un’altra era…

Già nel soprannome c’è qualcosa da belva, e con lei è interessante verificare come siamo cambiati noi. O lei.

Chi ti ha particolarmente colpito?

Rosalinda Celentano: la sua ferocia è rivolta verso se stessa, e in maniera pazzesca; (ci pensa) eppure trova il comico nella tragedia, con lei si passa dal dramma del racconto a sorridere per una battuta.

Temi la censura in Rai?

Il direttore della rete non mi ha chiesto neanche la lista degli ospiti, eppure avrò anche delle esponenti politiche.

Chi sei?

E che sei matto a presentarti con una domanda del genere?

È il rito finale.

Posso rispondere dopo le prime due puntate?

Quelle bestie naziste

Certo che il regime ha fatto anche cose buone: per gli orsi. Come amano i nazisti gli animali nessuno mai: davvero bestiali. “Noi tedeschi siamo gli unici al mondo ad avere un atteggiamento decente verso gli animali… questi animali umani”, così si vanta Heinrich Himmler nel 1943. E ha ragione: gli esseri umani, non più considerati tali, possono pure finire nei forni, ma gli orsetti no, per carità.

Bestiario nazista – il primo esaustivo saggio sugli “animali nel Terzo Reich” di Jan Mohnhaupt – si apre con questa scena: orsi che giocano allegramente nel giardino zoologico di Buchenwald, un’oasi naturale per bestie selvatiche a dieci passi dai forni crematori del lager. Dove i nazisti si dotano anche di una “falconiera delle Ss” e recinti per lupi, cervi e cinghiali. Questi zoo curatissimi servono da area ricreativa per gli aguzzini che lavorano nel campo: un po’ di relax tra uno sterminio e l’altro, magari con i figli e le mogli, è necessario ai nervi. A Buchenwald si possono ammirare rinoceronti, scimmie e volatili, mentre a Treblinka sono ospitate gabbie per volpi e piccionaie. Che svago, che pace. A fare da guardiani agli animali sono i deportati, soprattutto sinti e rom perché ottimi addomesticatori; chi sgarra, invece, viene dato direttamente in pasto agli orsetti. Gli ultimi e unici a ricevere il cibo nel 1944, mentre nel lager si muore anche di fame.

Sensibili animalisti, i gerarchi hanno bisogno di scaricare lo stress da lavoro – deportare, torturare, ammazzare esseri umani – con bestiole da compagnia: ottimi i cavalli, simbolo di forza e spirito di sacrificio, ovunque venerati. Il Führer si circonda di sculture equine, ma evita accuratamente di incontrarli perché li teme o ritiene stupidi. Come stupida sarà la morte di molti di questi quadrupedi, mandati al macello in guerra, abbandonati, uccisi dal nemico e infine buoni per sfamare i soldati quando tutto è perduto: la fame viene prima dell’animalismo.

Il culto per gli animali infiamma sin i vertici del partito nazionalsocialista: Hitler ha, in vita, oltre tredici cani “ufficiali”, cui dà spesso lo stesso nome (Blondi e Wolf, su tutti). Tiene alla purezza del pedigree: ama in primis i pastori tedeschi, ma detesta i bulldog e i boxer (esclusi dai lager perché troppo disobbedienti come aiutanti delle guardie), respinge bassotti e barboncini perché svegli e indipendenti e mal sopporta gli “scopini” di Eva Braun, due scottish terrier. “Da quando conosco gli uomini, amo i cani”: è il motto di Adolf. Che adora anche i lupi, registrandosi in albergo come Herr Wolf, Mister Wolf, Signor Lupo.

Il regime venera i predatori aggressivi; tuttavia Hitler – vegano convinto e radicale per ragioni etiche e salutistiche: oggi sarebbe un crudista o un fruttariano – odia la caccia e i cacciatori “massoni verdi”, a dispetto del suo vice Hermann Göring, “guardiacaccia del Reich”. Pistolero professionista, il gerarca colleziona trofei, cervi soprattutto, e alleva cuccioli di leone. Anche Mussolini si fa fotografare con lui e il felino, mentre il segretario fuori casa grida: “Non suonate! Il leone s’innervosisce!”.

I nazisti sono i primi a promulgare una legge di protezione degli animali all’avanguardia in tutto il mondo: le Ss minacciano addirittura di mandare i “vivisezionisti in campo di concentramento; cosa che rappresenta, tra l’altro, uno dei primi riferimenti ufficiali ai lager”. Sono pionieri anche dell’ambientalismo con tecniche di riciclaggio del cibo ante litteram per sostenere l’industria del maiale. Intanto, stanziano i primi provvedimenti antisemiti, proibendo prima la macellazione kosher perché “aperta, brutale e crudele”, poi il possesso di animali domestici ai soli ebrei. Tra questi, il più temuto e odiato è il gatto, “bestia ebraica, perfida, indomabile e asociale”.

La tutela degli animali e l’ideologia nazista sono intimamente legate; il filo rosso è la selezione della razza: esistono animali umani e umani declassati a parassiti, dai pidocchi alle dorifere, dalle cavallette alle cimici, dai bacilli ai fuchi… Del regno degli insetti e altri piccoletti si salva solo il baco da seta, indispensabile per la produzione di paracaduti della Wehrmacht. Nel nazi-animalismo etologi e zoologi hanno un ruolo e un peso fondamentali: sono intellettuali influentissimi, con la loro visione e divisione del mondo in razze e specie utili (?) e non, evolute (?) e non, pure (?) e non… Al popolo sano – scrive il nazistissimo Konrad Lorenz, futuro Nobel – serve “un’eliminazione rigorosa dei soggetti etologicamente inferiori”. Gli fa eco Himmler: “L’antisemitismo è come lo spiddochiamento. Non è una questione filosofica, è una questione di igiene”. La banalità del male? Chiedere al veterinario.

Stati Uniti. Biden si sveglia tardi, Trump lo attacca

Nell’ennesimo capitolo del conflitto tra israeliani e palestinesi, il primo da quando lui s’è insediato alla Casa Bianca, Joe Biden è frenato dalla consueta ambiguità delle Amministrazioni democratiche in Medio Oriente: critiche verso lo Stato ebraico, ma fedeli al principio che “Israele ha diritto di difendersi”. Risultato: né gli israeliani né i palestinesi sentono di potere davvero contare sugli Stati Uniti. Certo, Biden non è l’interlocutore favorito di Benjamin Netanyahu, che rimpiange Donald Trump, ma non è neppure disposto a mettere in discussione l’alleanza con Israele, pur tornando a insistere sulla soluzione dei due Stati che il suo predecessore aveva messo in soffitta. Per guadagnare tempo, più che per ottenere risultati, il Segretario di Stato Usa Antony Blinken, d’intesa con Biden, spedisce in Israele l’inviato per il conflitto israelo-palestinese Hady Amr: deve incontrare le parti e tentare di innescare una de-escalation delle violenze, la cui intensità preoccupa Washington. La presenza di Amr, vice-assistente del Segretario di Stato per gli affari israelo-palestinesi, serve pure a sopperire al fatto che gli Usa sono diplomaticamente sguarniti nell’area: Biden, infatti, deve ancora scegliere l’ambasciatore a Gerusalemme. La Casa Bianca ha ieri assicurato che la nomina avverrà “nelle prossime settimane”. Dell’imbarazzo di Biden ha subito profittato Trump. “Quando ero in carica, eravamo conosciuti – scrive sul suo blog – come la presidenza della pace, perché gli avversari di Israele sapevano che stavamo con Israele e che ci sarebbe stata una rapida punizione se Israele fosse stato attaccato. Sotto Biden, il mondo sta divenendo più violento e più instabile: la sua debolezza e la mancanza d’appoggio a Israele causano nuove aggressioni contro i nostri alleati”, che sono “sotto attacco terroristico.” Le parole di Blinken sono più articolate ma meno efficaci: “C’è una differenza tra i terroristi di Hamas che lanciano razzi contro civili e la risposta di Israele, che si difende dai terroristi che tirano razzi. Ma quando ci sono vittime civili, specie bambini, credo che Israele abbia l’onere in più di fare tutto quello che può per evitare vittime civili, anche nel diritto a difendersi”. Il tema sarà probabilmente evocato nell’incontro fra Blinken e il ministro degli Esteri russo Serghei Lavrov, a Reykjavik il 20 maggio.

“Bombe, esplosioni, sirene: io mi affido a una piantina fiorita”

Primo giorno. È ben strana questa guerra. Una guerra contro i civili, e non contro un esercito. Alle 21, aveva annunciato da Gaza Mohamad Deif (o forse era Ismail Haniyeh), noi iniziamo a lanciare razzi verso il centro di Israele. Preparatevi. E sapevamo bene che avrebbero mantenuto la promessa. Abraham e io ci siamo preparati sedendoci davanti alla televisione in salotto, tanto la nostra casa a Tel Aviv appena dietro piazza Dizengoff, una palazzina di quattro piani costruita con grande ottimismo negli anni Quaranta, è molto graziosa ma totalmente sprovvista di rifugio o di “stanza sicura”. Da Gaza hanno anticipato. Il primo allarme è partito ululando alle 20 e 45. Poi sono arrivati i colpi: bum bum bum, bum, e ogni bum il cuore perdeva un colpo.

I razzi sembrava cadessero intorno a noi, sotto di noi, sopra di noi. Ben 110 solo verso Tel Aviv. E non sai se abbiano colpito e dove e come e se invece siano stati intercettati dalla “cupola di ferro”, l’invenzione geniale dell’ingegnere Dani Gold di cui ci siamo tutti innamorati molti anni fa, ai tempi dei razzi Kassam. Siamo usciti e ci siamo seduti sui gradini delle scale, considerate luogo sicuro in mancanza d’altro. C’erano anche i vicini. Tutti più giovani di noi, tutti tesi, tutti preoccupati. Il vicino del piano terra era preoccupato per la figlia che era a un compleanno, quello del parterre, proprietario di un bar, era appena tornato di corsa a casa, tanto dal bar erano andati via tutti. E si chiedeva come sarebbero andati adesso gli affari che si erano appena ripresi così bene dopo la crisi del Covid. Lentamente hanno cominciato ad arrivare le informazioni, chi e dove e come. I morti, i feriti, le case colpite. Le piccole e grandi tragedie di ogni guerra. E anche le notizie delle dimostrazioni violente di giovani delinquenti musulmani col viso coperto che stanno cercando di distruggere il tessuto di delicata convivenza nelle città miste, a Haifa, Lod, S. Giovanni d’Acri. Ma io lo so che non ci riusciranno. Su questo non ho dubbi. Alle 23 arriva tutto sudato nostro nipote Omri, soldato ventenne. Si prende una fetta di pizza, se la scalda nel microonde e riparte correndo per la sua base militare. Sua sorella, ufficiale in marina, si era congedata dall’esercito due giorni prima. A mezzanotte andiamo a dormire. Alle tre di notte iniziano di nuovo a ululare le sirene. Abraham ha dovuto svegliarmi, io non me ne ero neanche accorta. E di nuovo sembrava che tutti i razzi fossero intorno a noi, vicino a noi, contro di noi, e di nuovo sono iniziate le telefonate. Anche da voi? Tutto bene? avete sentito? a che ora? Come va? E i bambini? Questa mattina sono scesa a comprarmi una piantina fiorita. Giusto così, per tirarmi su il morale. Molti negozi erano chiusi, i bar erano mezzo vuoti, regnava uno strano silenzio, denso e pesante.

Mi sono comprata un pigiama nuovo, che non si sa mai. Sembra impossibile, ci siamo dette con un’amica mentre tornavamo a casa, che il cosiddetto homo sapiens continui a credere nella violenza simmetrica, pur sapendo che non serve assolutamente a nulla e che alla fine di ogni giro di guerra si torna sempre al punto di partenza, solo con armi più potenti, con più morti e più sofferenza, da una parte come dall’altra. Per Israele i morti per ora sono sei. Di cui uno era un soldato, due, un padre e una figlia, arabi israeliani (o palestinesi israeliani). Vorrei concludere dicendo che spero siano gli ultimi. Ma non mi illudo. So bene che non lo saranno.

72 morti sui due fronti non bastano per la tregua

Da ieri quello tra Israele e Hamas è ufficialmente il conflitto più pesante dal 2014. Si contano 72 morti – 65 a Gaza, 7 in Israele – tra cui 15 bambini tra l’una e l’altra fazione. Centinaia gli attacchi aerei israeliani, il cui esercito ha rafforzato la presenza lungo il confine, e ha aperto il fuoco di artiglieria sulla Striscia di Gaza colpendo 500 siti militari compreso un palazzo di 10 piani. Uccisi 7 ufficiali del capo dell’ala militare di Hamas – le Brigate Al Qassam – Mohammed Deif. Più di 1.200 i razzi palestinesi in risposta sono caduti sul centro di Israele, uccidendo un ufficiale di 21 anni e ferendone altri due; 15 in direzione di Dimona, dove c’è un sito nucleare, e le autorità hanno invitato i residenti a stare in casa, vicino ai rifugi antiaerei.

Chiuse le scuole, mentre gli scontri tra polizia e manifestanti si sono diffusi nelle città arabe dell’interno. A Lod, dopo l’uccisione di un uomo e di sua figlia, è stato istituito il coprifuoco notturno e il divieto d’ingresso ai non residenti. Ma in serata sono ripresi gli scontri quando gli ebrei hanno affrontato i residenti dei quartieri arabi vicino alla tenda del lutto allestita dalla famiglia di Moussa Hassouna, uccisa martedì sera da un residente ebreo. Almeno 20 persone sono state arrestate. A Umm al- Fahm, un diciassettenne è stato gravemente ferito da un agente di polizia antisommossa. A Eshkol sirene a razzo hanno suonato al Consiglio regionale. A Sderot, un bambino di sei anni è in condizioni critiche per un razzo che ha colpito la sua casa. Il presidente Reuven Rivlin ha condannato i “pogrom” e le “rivolte della folla araba”. Il secondo giorno di escalation ha preoccupato la comunità internazionale. Il Consiglio dell’Onu si è riunito d’urgenza. “La guerra potrebbe allargarsi e la situazione sfuggire al controllo”, ha spiegato Guterres.

Per il premier israeliano Benjamin Netanyahu in effetti l’uccisione dei leader terroristici di Hamas e della Jihad islamica – quattro i morti confermati da Hamas – “è solo l’inizio. Li colpiremo con scioperi che non hanno mai immaginato. Fermeremo l’anarchia e riporteremo la sovranità alle città di Israele con il pugno di ferro, se necessario”. Il ministro della Difesa, Benny Gantz, ha chiesto di prolungare lo stato di emergenza di due settimane, segno che gli attacchi non cesseranno a breve. Ma questo potrebbe incidere anche sulla formazione del nuovo governo: il leader del partito islamista Mansour Abbas ha chiesto che i colloqui riprendano solo a combattimenti finiti facendo sentire il peso della Lega dei partiti arabi. “Nessun governo può sorgere senza di noi”. Ma ha invitato “tutti ad agire in modo responsabile”. Dall’Egitto una delegazione si sarebbe riunita con i leader di Hamas per trattare una tregua, e secondo quanto riferito da Haaretz, un alto funzionario avrebbe detto che il gruppo islamista è pronto a fermare gli attacchi contro Israele su “base reciproca”. Intanto il presidente turco Recep Tayyip Erdogan continua a incendiare gli animi dei musulmani invocando una guerra da lui capeggiata contro “lo Stato terrorista di Israele”, coinvolgendo le controparti in Maghreb e Giordania, Pakistan, Iran e il suo “amico”, il presidente russo Vladimir Putin.

L’Afghanistan teme la variante Isis

Sono state sepolte ieri le 85 studentesse, tra le quali bambine di appena 8 anni, uccise nello sconvolgente attentato contro una scuola femminile di Kabul. Le ragazze erano tutte di religione musulmana sciita, la minoranza più popolosa dell’Afghanistan a maggioranza sunnita. L’attacco, assieme a un altro avvenuto il giorno successivo contro un bus nel sud del Paese con 11 vittime accertate, è l’ennesimo da quando l’anno scorso sono iniziate realmente le trattative tra il governo centrale e i talebani.

A dare la spinta decisiva a questo negoziato, ancora incompiuto, è stata l’Amministrazione Trump allo scopo di propiziare l’uscita definitiva delle truppe statunitensi e Nato dal Paese dopo vent’anni dall’inizio della guerra contro il leader di al Qaeda, Bin Laden, ospitato e protetto al confine con il Pakistan dai talebani. Ora che i soldati Usa e Nato stanno lasciando il devastato terreno afghano su ordine del presidente Joe Biden, ecco riemergere il terzo attore finora sottovalutato: il gruppo Khorasan, versione locale dell’Isis nonché rivale dei talib nel nuovo conflitto interno. Una guerra tra questi due movimenti islamisti che interpretano diversamente, seppur entrambi in modo oscurantista, l’Islam sunnita sembra ormai avvicinarsi e questa serie di attentati ne sono forse un’anticipazione mostrandone tutta la pericolosità per la popolazione. Il governo ha fatto sapere che non crede all’innocenza dei talebani riguardo questi attentati ma molti analisti ritengono che i mullah non siano stati effettivamente gli autori. Anche l’Isis, come i talebani, infatti, combatte l’emancipazione femminile, a partire dalla scolarizzazione. Dopo aver aumentato il controllo sui distretti orientali dove si sono formati nel 2014, i terroristi di Khorasan oggi si sentono in grado di sfidare sia i talebani che il governo riconosciuto dalla Comunità Internazionale persino nella capitale.

Il gruppo Khorasan rappresenta una seria minaccia per i talebani per l’adesione sempre più massiccia dei giovani salafiti. Questo inquietante sviluppo è il risultato di una continua trasformazione del panorama religioso afghano, della frammentazione della comunità musulmana sunnita e della crescente importanza dei social media, del denaro e delle idee transnazionali nel plasmare le economie politiche locali in un mondo globalizzato. Nel dicembre di sette anni fa, i terroristi del Khorasan hanno cacciato i talebani dalla provincia meridionale di Nangarhar e all’inizio del 2015 Abu Bakr al-Baghdadi ha riconosciuto Hafiz Saeed come governatore della cosiddetta “provincia di Khorasan”. Alla fine del 2015, e dopo una serie di vittorie militari contro i talebani, Khorasan si era stabilito nella provincia afghana orientale di Nangarhar facendo brevi apparizioni anche nel resto del paese. Se la leadership del gruppo era costituita da ex membri dei talebani pachistani, i ranghi di Khorasan erano composti in misura significativa da jihadisti salafiti e studenti religiosi che avevano precedentemente operato sotto la bandiera dei talebani. Questa base sociale e lo sfruttamento delle spaccature e delle rivalità sulla leadership all’interno dei talebani dopo l’annuncio della morte del leader Mullah Omar nel 2015, hanno fornito punti di ingresso per Khorasan come formazione politica e militare. Il sistema di propaganda di Khorasan, ovvero videoclip, canzoni, immagini pubblicate sui social media, e il simbolismo come stile di abbigliamento, bandiera nera, head band, immagini di uomini che cavalcano indomiti si sono rivelati molto attraenti agli occhi dei giovani afghani. Un elemento centrale del messaggio ideologico di Khorasan in Afghanistan è la “purificazione” del paese dalle influenze corruttive. Questa strategia mirava ad alcune pratiche religiose fortemente radicate nella società afghana ma che le autorità religiose di Khorasan considerano idolatria e tradimento. I messaggi dei terroristi islamici alle comunità locali per screditare i talebani si basano soprattutto sulla diffamazione.

I membri del gruppo affiliato all’Isis accusano i talebani di essere dei narcotrafficanti dato che questi si finanziano anche con la vendita dell’oppio prodotto nelle zone rurali sotto il loro dominio, e di essere dei burattini dell’Inter-Service Intelligence (Isi) pachistano, che ha creato e protetto i talib. Al contrario dei talebani, Khorasan ha espresso un’ambizione politica più ampia che va oltre i confini nazionali includendo Pakistan, Iran e i paesi dell’Asia centrale. Nelle file del gruppo Khorasan militano anche molti stranieri, soprattutto asiatici delle ex Repubbliche sovietiche confinanti con l’Afghanistan.