Clooney e altri fantasmi: sbarchi sul lago di Como

Pur se lontani, addirittura dell’altra sponda, io e i miei concittadini apparteniamo pur sempre al mondo del lago e ne condividiamo sciagure e lieti eventi. A proposito di questi ultimi quindi non mi sono stupito di aver colto in questi giorni, sia durante qualche fermata al bar, sia nel corso di qualche passaggio in piazza, brani di conversazione in cui si celebravano i sessant’anni di George Clooney, il cui arrivo sul lago di Como suscitò ai tempi ondate di entusiasmo a volte non prive di vero e proprio isterismo. Nel coro prevalentemente femminile che ha commentato il genetliaco del fu pediatra ho colto però anche una voce dissonante. Maschile, accompagnata da un non riferibile parere e uno scrollare di spalle, a segno di un’indifferenza assoluta di fronte a ciò che riguarda altri o altro. E poiché questa voce mi ha raggiunto nei pressi dell’imbarcadero, la memoria mi ha riportato a un siparietto cui anni fa assistetti. Giornata di mezza primavera, lunedì, nuvole basse e scure in cielo, bighellonavo in piazza, la cosa più vivace era il battello che si avvicinava dal quale disperavo di vedere scendere qualcuno, invece… Proprio mentre cominciava a piovere, dopo aver aperto l’ombrellino di cui ero fortunosamente dotato, vidi scendere un unico passeggero: elegante, vestiva un completo beige, con tanto di borsa di pelle stretta in una mano. Lo giudicai un viaggiatore di commercio. La pioggia s’era fatta intensa, lui era fermo sotto la pensilina in fremente attesa. Mi offrii così di dargli riparo quel tanto per consentirgli di attraversare la strada e raggiungere una calzoleria che in vetrina esponeva anche un cilindro da cui spuntavano manici di ombrelli al prezzo di cinquemila lire cadauno. Era chiusa, ma dentro il proprietario stava sistemando cose. Bussammo per attirarne l’attenzione. Il proprietario ci guardò, dopodiché ci giunse la sua voce soffocata: “È chiuso”, disse. Il viaggiatore, il cui vestito chiazzato andava assumendo un vago aspetto di pelle di leopardo, reagì d’istinto, alzando la voce per far notare che stante la pioggia intensa aveva assoluta necessità di uno di quegli affari. Ma il proprietario, conscio di avere diritto all’indifferenza rispetto ai guai altrui, ribadì che il negozio era chiuso. Non solo, roteando l’indice destro e scandendo bene la parola disse, “Domani”, intendendo comunicare che il giorno dopo sarebbe stato aperto. Al che il povero viaggiatore ormai slozzo poiché l’acqua spinta da un po’ di vento veniva al traverso, sbottò in un grido esasperato. “E se domani c’è il sole?”.

Ma il negoziante non si scompose. Sempre sillabando, “Il prezzo non cambia”, rispose. E la faccenda si chiuse lì.

Se l’illustre ospite del nostro lago non fosse giunto in questi giorni alla soglia dei sessanta suscitando commenti, il fatto di cui sopra non mi sarebbe tornato alla memoria. E il viaggiatore?, si dirà. Be’, si riparò in un bar in attesa che la pioggia smettesse, il vestito si asciugasse un po’. Forse si beccò anche un raffreddore. Una cosa mi pare certa: di quel giorno, forse dell’intero paese non si portò via un gran bel ricordo.

Liti, scioperi e Frattini: la lotta di classe si fa a Palazzo Spada

È guerra aperta tra mandarini della giustizia amministrativa dove uno non vale uno. Perché ci sono i Consiglieri di Stato di serie A. E poi altri considerati, nonostante tutto, figli di un dio minore: hanno il dente avvelenato dopo che Franco Frattini – nuovo numero due di Palazzo Spada in corsa per la successione a Filippo Patroni Griffi (e pure per un posto alla Corte Costituzionale se quest’ultimo non dovesse candidarsi) – ha preso carta e penna per apporre la sua firma in cima a un appello in cui viene ribadito lo status gerarchico: sopra lui e gli altri suoi pari che al Consiglio di Stato sono arrivati per concorso o per nomina governativa come la renzianissima Antonella Manzione promossa nonostante non avesse neppure l’età minima per l’incarico. Poi vengono tutti gli altri, ossia quelli che vi sono arrivati dalla magistratura “inferiore” dei tribunali amministrativi regionali, al secolo Tar. Che adesso si sono stancati di essere penalizzati nella carriera e minacciano di fare un macello, persino uno sciopero che sarebbe il primo in 190 anni di storia.

Ma che sta succedendo? L’altro giorno, nella seduta dell’organo di autogoverno, era all’esame una duplice questione: il riconoscimento dell’intera anzianità ai consiglieri di Tar all’atto del loro passaggio al Consiglio di Stato e la contestuale richiesta del sindacato Conma che li rappresenta di porre fine a un privilegio riservato dal 1982 ai soli consiglieri di Stato vincitori di concorso al fine della loro nomina a presidente di sezione: un bonus che vale un paio di anni in più in termini di anzianità di servizio.

Questioni non da poco dal momento che al Consiglio di Stato anche pochi mesi in più riconosciuti all’uno o negati all’altro possono precludere scatti di carriera o spalancare le porte a favolose promozioni: come è successo allo stesso Frattini che, nonostante l’aspettativa di circa vent’anni per far politica al fianco di Silvio Berlusconi, è riuscito a spuntarla per la nomina a presidente aggiunto facendo valere la maggiore anzianità rispetto a quella di altri candidati. E che fa Frattini? Appena assurto ai vertici della giustizia amministrativa si è messo alla guida del fronte intenzionato a dare battaglia per ribadire che certe differenze di status vanno mantenute. Con un’iniziativa che il sindacato Conma che rappresenta la quasi totalità dei consiglieri provenienti dal Tar e per questo guardati dall’alto verso il basso da Frattini&C., ha definito di “estrema gravità”. Anzi di più: si è trattato di una “improvvida pressione sull’organo di autogoverno” con una “oggettiva ingerenza, attraverso la spendita impropria della qualifica presidenziale” che fa a cazzotti con il tentativo di limare gli aspetti maggiormente distorsivi e discriminatori che ancora persistono nella Giustizia amministrativa.

Un’iniziativa per conservare i benefit come la retrodatazione di anzianità che ha fatto deflagrare definitivamente il malessere: il sindacato ha proclamato lo stato di agitazione e la categoria minaccia di incrociare le braccia per protesta. Data l’aria, l’organo di autogoverno presieduto da Patroni Griffi ha rinviato le pratiche su cui si rischia lo scontro frontale gravido di ulteriori conseguenze: tra pochi mesi l’intero corpo dei consiglieri di Stato, siano essi di classe A o di (presunta) classe B dovranno eleggere il loro rappresentante alla Consulta. In un clima da guerra totale. Durante l’ultimo plenum, tanto per dire, c’è chi ha provato a mostrare i muscoli sindacando i curriculum di alcuni magistrati di Tar in corsa per otto posti da consigliere di Stato: a un certo punto si pretendeva di fare le pulci al numero e pure alla qualità delle sentenze che avevano vergato i candidati per testarne l’idoneità. Prima ancora si era scatenata una polemica al vetriolo sulla legittimazione di un magistrato di Tar per un posto in Commissione parlamentare di vigilanza su Cassa depositi e prestiti: a dispetto dell’equiparazione delle due qualifiche, si insisteva a dire che l’incarico doveva toccare per forza a un consigliere di Stato in base a prerogativa prevista da una legge del 1913. E così qualcuno alla fine è sbottato, come il consigliere Leonardo Spagnoletti: “Sullo status dei consiglieri di Stato è in corso un tentativo di restaurazione da ancien régime”.

Orlando commissaria l’agenzia del lavoro. Via il presidente Mimmo Parisi dall’Anpal

La permanenza di Mimmo Parisi come presidente dell’Anpal ha le ore contate. Il professore messo nel 2018 a capo delle politiche attive del Lavoro da Luigi Di Maio, riceverà il benservito con il decreto Sostegni bis: una norma prevederà l’azzeramento dei vertici e il commissariamento dell’agenzia che sarà retta da Raffaele Tangorra, segretario generale del ministero che un anno fa aveva firmato una dura lettera sui rimborsi spese dei viaggi di Parisi. Così, il ministro Andrea Orlando pone le basi per una riforma complessiva della struttura dell’Anpal, che – come costruita dal Jobs Act – non ha mai funzionato.

L’orientamento sembra essere sostituire la figura del presidente con un direttore, come nelle agenzie fiscali. Tra l’altro, il governo Renzi volle che il presidente fosse per legge anche amministratore unico della società in house Anpal Servizi, dunque sia attuatore che controllore dei progetti europei. Chiamato a sostituire l’uscente Maurizio Del Conte, Parisi promise il lancio di una piattaforma per l’incrocio di domanda e offerta di lavoro, da mettere a disposizione dei beneficiari del reddito di cittadinanza. Inoltre, sostenne l’arruolamento dei navigator, che nei piani dovevano essere almeno 6 mila ma poi furono ridotti a 3 mila in virtù di un accordo con le Regioni. L’app non è mai arrivata e, in questi due anni, non sono mai stati diffusi i dati su quanti beneficiari della misura anti-povertà abbiano trovato lavoro grazie ai centri per l’impiego e ai navigator. Certo, ci sono molte attenuanti: il 72,3% della platea ha massimo la terza media, e pochi mesi dopo l’ingresso dei 3 mila operatori è scoppiata la pandemia con relativo crollo delle assunzioni. Parisi, però, è stato bersaglio di critiche soprattutto per i suoi continui viaggi – a carico dell’Anpal – negli Usa, dove vive la sua famiglia e ha rapporti di lavoro con l’università. Inoltre, era da tempo entrato in guerra con il direttore generale. Già l’ex ministra Nunzia Catalfo aveva tentato ad aprile 2020 di ridimensionare il ruolo dell’Anpal, facendo tornare al ministero la funzione di coordinamento dei programmi finanziati dal Fondo sociale europeo; la norma però fu stralciata. Negli ultimi mesi del Conte 2, l’ex ministra aveva approntato una riorganizzazione che creava due nuove direzioni generali (politiche attive e sicurezza del lavoro) che trasformavano l’agenzia nel braccio operativo del ministero. È da questa che probabilmente partirà Orlando, per cancellare l’impalcatura messa a punto nel 2016.

Grandi navi fuori da Venezia, il decreto c’è. Manca l’accordo politico su come attuarlo

Con il favore quasi totale della Camera, il decreto per tenere le Grandi Navi fuori dalla Laguna di Venezia è diventato una realtà. Quella che manca è l’indicazione delle modalità operative con cui verrà affrontata la fase di transizione fino al momento in cui gli attracchi avverranno in un porto off-shore, al largo dell’isola del Lido. A Montecitorio il voto della maggioranza è stato compatto, 370 favorevoli, 16 contrari (L’Alternativa c’è) e 29 astenuti (Fratelli d’Italia). Il decreto, già approvato in Senato a fine aprile, prevede che l’approdo sia possibile solo all’esterno delle acque protette e affida all’Autorità del sistema portuale del Mare Adriatico Settentrionale il compito di avviare, entro 60 giorni, un “concorso di idee” per individuare le proposte più adeguate, riferite non solo alle navi da crociera, ma anche alle portacontainer. Non c’è data di scadenza, né l’indicazione di un percorso successivo alla scelta dell’idea migliore.

È un punto fermo, anche se il futuro resta indefinito. Per arrivare a questa decisione si è dovuto però passare attraverso una mediazione che riguarda la questione cruciale della fase “provvisoria”. Il centrodestra, infatti, aveva preparato un ordine del giorno che impegnava il governo “a mantenere la centralità della Stazione Marittima” per le navi medio-piccole e a individuare gli approdi a Porto Marghera, per l’attracco delle navi provenienti da Malamocco. È la linea del sindaco Luigi Brugnaro e del governatore leghista Luca Zaia, che ha già dato vita a un bando dell’Autorità Portuale per il progetto di una nuova stazione di arrivo sul Canale nord della Zona industriale. Nicola Pellicani per il Pd ha replicato con un ordine del giorno alternativo, contenente il divieto “a scavare nuovi canali” (come invece volevano fare i leghisti) e il mantenimento a Marittima solo delle navi medio-piccole. I 5stelle hanno fatto da mediatori e i due ordini del giorno, che avrebbero spaccato la maggioranza, sono stati ritirati. Si profila una futura risoluzione comune in commissione. Il problema operativo però rimane. Il decreto Clini-Passera, che vietava il transito delle navi con più di 40 mila tonnellate davanti a San Marco fu approvato nel 2012, ma è inapplicato. In attesa che il concorso di idee per l’off-shore produca progetti realizzabili, la soluzione provvisoria di Marghera rischia quindi di diventare definitiva.

La Spezia, cede un pistone: crolla il ponte nel porto

Nel porto di La Spezia, il ponte Pagliari, struttura mobile di accesso in Darsena (inaugurato nel 2010) è collassato. Non ci sono stati feriti. Non è crollata la parte in muratura di cemento, la parte mobile, quella che si apre e si chiude per far passare le barche. La struttura è gestita dall’Autorità portuale del Mar Ligure orientale. Il ponte si è aperto per far passare una imbarcazione che doveva uscire dalla Darsena, ma al momento di richiudersi è crollato.

“C’è stato il cedimento di un pistone del meccanismo di apertura e chiusura dello stesso. Dopo il passaggio di una barca, mentre si stava richiudendo”, ha spiegato il presidente della Liguria, Giovanni Toti. “Continuiamo ad assistere a una situazione di costante rischio per la sicurezza stradale a tutti i livelli, sia sulle grandi infrastrutture, sia sulle più piccole, riservate alla viabilità cittadina”, ha detto Secondo Sandiano, presidente di Assotrasporti. “La più importante opera pubblica che necessita il nostro Paese si chiama manutenzione”, ha twittato Alessandro Di Battista (M5s).

Stoccaggio CO2: tutti in piazza contro il piano Eni

Lo definiscono “irrazionale e impraticabile”, oltre che “pericoloso per una possibile riattivazione di faglie silenti” (Parents for Future). Ma anche “basato su una tecnologia non consolidata ed energivora” (Extinction Rebellion). Contro il progetto dell’Eni di stoccaggio di Co2 nel Mare Adriatico – Ccs (Carbone Capture and Storage) – sono scese in piazza ieri pomeriggio a Ravenna le principali associazioni che si battono per il clima – tra le altre, oltre le citate, Legambiente, Fridays For Future, Rise Up 4 Climate Justice, Noocs il futuro non si Stocca – per la manifestazione nazionale “Il futuro non si (s)tocca! – No Ccs”. E sempre ieri mattina, davanti al Palazzo di Eni a Roma, Greenpeace ha organizzato un presidio di protesta, insieme ai Fridays for Future ed Extinction Rebellion, in occasione dell’assemblea degli azionisti dell’azienda, con tanto di finto iceberg nel laghetto dell’Eur, bidoni di petrolio con scritto “fake green” e un enorme striscione di protesta montato sul palazzo di fronte: “Eni killer del clima”.

Il tumore battuto dal covid-19

Per noi ricercatori, SARS CoV2 sarà ricordato come il virus che non ha finito mai di stupire. Abbiamo studiato la sua singolare patogenesi, i danni procurati in diversi organi, le conseguenze a lungo termine, ma non avevamo mai ipotizzato che potesse essere addirittura un virus “terapeutico”.

È quello che si evince da una recente pubblicazione nella quale un gruppo di oncologi del Pascale di Napoli riferisce di come siano rimasti stupiti dagli effetti constatati in un gruppo di pazienti che avevano contratto l’infezione. Tali pazienti, affetti da tumore al colon metastatico e trattati con terapia convenzionale, hanno visto regredire la malattia dopo essere risultati positivi al Covid-19.​ I ricercatori di Napoli dichiarano che è la prima volta al mondo nel cancro del colon, che si evidenzia tale risultato. La spiegazione potrebbe essere che le cellule tumorali del cancro del colon presentino la proteina Ace2, responsabile dell’ingresso del virus. Quando i pazienti hanno contratto l’infezione, il loro sistema immune ha cominciato a produrre anticorpi contro tale proteina, eliminando anche quella presentata dalle cellule tumorali. I dati pubblicati sono preliminari e vanno quindi consolidati con uno studio più ampio. La cautela è d’obbligo. La letteratura presenta numerosi lavori, fra loro discordanti. Molti studi dimostrano che Covid-19 aumenta le complicanze e il rischio complessivo di morte nei pazienti con cancro, poiché alcuni trattamenti contro il cancro sopprimono le altre cellule in rapida crescita, come i globuli bianchi, compresi i linfociti T e B nel midollo osseo, e possono indebolire il sistema immunitario, con un rischio maggiore di contrarre infezioni frequenti e il Covid-19, nella forma più grave.

 

La famiglia Petaccinel cuore del duce

Erano un’antica famiglia di aristocratici, i Petacci. La madre Persichetti si vantava di essere una lontana parente di Pio XI, mentre il medico pontificio Francesco Saverio aveva come antenato Anselmo Petazzi o Pettazzi, che nel 1384 si era fatto notare per il suo coraggio da Leopoldo d’Austria.

Circa cento anni dopo un altro nobile si era conquistato il castello di San Servolo vicino a Trieste. Per sottolineare le blasonate ascendenze, Myriam, attrice esordiente a Venezia, adotterà il nome di Miria di San Servolo, facendo sbellicare dalle risate la platea della Mostra internazionale d’arte cinematografica dal momento che l’isola lagunare di San Servolo ospitava il manicomio.

Sebbene frequentasse il Duce da pochissimo tempo, Clara era già consapevole che la sua relazione non sarebbe stata solo un legame sentimentale ma che si sarebbe sviluppata come un fitto intreccio di interessi e di affari. Come reagiva il professor Petacci di fronte a una possibile ingerenza del presidente del Consiglio nel processo in cui era coinvolto? Il medico che lavorava Oltretevere era un gentiluomo all’antica, di maniere molto ossequiose, taciturno e severo professionista. Sembrava più interessato alla religione e alla dottrina di Esculapio che non ai profitti. In casa Petacci, più determinata appariva la mamma. Un donnone, così la descrive sua nuora Zita Ritossa, “sempre vestita di nero, dal colorito cadaverico, dal naso adunco e molto autoritaria”. Comandava a bacchetta Clara che si consultava con lei su tutto, persino sull’abbigliamento più consono alle varie occasioni. Il padre però, nonostante il suo riserbo e il mutismo a volte esasperante, era desideroso di prebende ed era dotato di una volontà tenace e ostinata. Si era trovato in un contenzioso giuridico che lo opponeva alle Figlie di Nostro Signore al Monte Calvario (come registrano i documenti di archivio) presso la cui clinica Villa del Sole aveva lavorato per anni. Clara, nonostante non avesse ancora una assidua frequentazione con Ben, non ebbe alcuna remora nè ́pudore nel cercare di coinvolgere il presidente del Consiglio nonché capo del fascismo nei complicati affari privati di suo padre. Voleva far inclinare la bilancia della giustizia a favore del professore a scapito delle suorine. Di fronte al diniego di Mussolini di prender le parti del papà, Clara non si perse d’animo. Continuò a insistere perché il capo del governo ne sposasse la causa: “Le accludo la lettera di papà, che l’E.V. con tanto generoso interessamento ha richiesto…”. Alla fine di dicembre del 1932, Mussolini, non avendo nessuna intenzione di determinare il risultato del processo, cercò però di trovare nuove fonti di guadagno per il professore: la segreteria del Duce inviò una serie di istanze perentorie alla Cassa nazionale per gli infortuni sul lavoro, alla Cassa nazionale per le assicurazioni sociali (che con regio decreto legge del 27 marzo 1933 sarà trasformata in Istituto nazionale fascista della previdenza sociale, Infps, di cui il primo presidente fu Giuseppe Bottai) e infine alla Croce Rossa italiana. La segreteria invitava tutti e tre gli enti a “trovare un incarico di consulenza o di altro” al dottore Francesco Saverio Petacci. Dalle direzioni degli enti arrivarono cortesi ma fermi dinieghi. La spiegazione? Non riuscivano a trovare un posto adeguato in organico. La burocrazia opponeva resistenza alle richieste della segreteria del Duce. Mussolini trovò alla fine un incarico per il professore: si trattava di una collaborazione con Il Messaggero. Gli sarebbero stati pagati ben due articoli al mese, ciascuno retribuito in un primo momento con mille lire, che poi saliranno a duemila nel1941. Era appena iniziata questa ben remunerata attività del professor Petacci quando un giovane cronista de Il Messaggero, arrivando nella sede del quotidiano romano in via del Tritone, chiese ad alta voce “di chi fosse quella pappardella che era stata pubblicata sul giornale il giorno prima”. Nella stanza dei redattori vociante e rumorosa scese il silenzio, i colleghi abbassarono la testa picchiando con forza sui tasti delle Olivetti Lettera 42. Lo sprovveduto giornalista fu portato in un angolo e sottovoce fu informato da chi fosse firmato l’articolo che aveva definito pappardella. Il responsabile della gaffe si precipitò a prodigarsi immediatamente in grandi elogi nei confronti dell’autore. Non sapeva che, senza volerlo, aveva colpito una personalità ben più altolocata e prestigiosa del professor Francesco Saverio. Con il suo giudizio poco lusinghiero sull’articolo aveva offeso il Duce in persona. A intervenire, correggendo gli articoli del medico nei suoi esordi giornalistici, infatti fu lo stesso Mussolini. Ne rivedeva i testi: “Ho avuto un allievo, tuo padre. Gli correggo, tolgo le frasi di troppo, lo educo al giornalismo. Sono tanto contento di questo”, confessò a Claretta. E promise: “Voglio fare senatore tuo padre… gli farò fare delle conferenze. Bisogna che si svegli”. Sul giornale capitolino il papà di Clara si schierò con dovizia di argomenti dalla parte del suo protettore e i suoi articoli affrontavano lo scabroso argomento della razza italiana e si spendevano in difesa del soldato italiano: “L’italiano di oggi dal polso fermo e dalla volontà di acciaio, ha di molto superato per la castigatezza e la temperanza le altre razze”, scriveva offrendo fondamenti pseudoscientifici alle ideologie razziste. “Ogni accoppiamento tra una negra e un bianco è fonte di degenerazione” e il matrimonio tra “ebrei e ariani può risultare poco fecondo”, infatti “la razza ebrea è stata indebolita da matrimoni tra consanguinei”. Nei suoi interventi giornalistici sosteneva, sempre con motivazioni pseudoscientifiche, che il sacramento del matrimonio era indissolubile [entrambe le sue figlie si erano separate dai rispettivi consorti dopo pochi mesi dalle nozze. Claretta poi ottenne l’annullamento in Ungheria]. Il papà ripetutamente deplorava “che le donne moderne si siano allontanate dalla sacra missione della maternità arrendendosi a un nevrotico istinto di piacere e nell’ansia di vivere”. Condannava gli appetiti femminili rivolti fuori dalle mura domestiche che facevano dimenticare alle donne i loro doveri di madri [entrambe le sue figlie avevano relazioni extraconiugali e non erano madri]. Durante la seconda guerra mondiale, il professore, pur essendo molto religioso, non denunciò mai stragi e violenze ed esaltò sempre l’operato bellico di Mussolini, come l’invasione della Grecia: “Perché nessuno più di un medico può apprezzare l’estensione e la grandezza di questa vittoria della civiltà riportata dal genio italico impersonato dal Duce”. Mentre incoraggiava e sosteneva l’affettuoso rapporto di papà con il presidente del Consiglio, Clara introdusse a Palazzo Venezia anche mamma Giuseppina e suo fratello Marcello.

 

Chi porta la kefiah che conoscevi tu?

Ora che il conflitto israelo-palestinese torna all’attenzione del mondo c’è una domanda che – almeno allo specchio e canticchiando a un’interlocutrice immaginaria – non si può non farsi: ma la kefiah che conoscevi tu, la porta addosso mio fratello ancora? Come molti giovani occidentali nei decenni passati, anche chi scrive ha avuto al collo la sua, finita chissà dove ben prima che Hamas, al Qaeda e soci sequestrassero la causa palestinese ai fini loro e di chi li finanzia: scelte di abbigliamento a parte, com’è successo che una vicenda che aveva dominato l’immaginario e le cronache del 900 sia diventata così indifferente alle nostre vite? Una domanda che rivolgiamo, di nuovo, soprattutto allo specchio, spinti dalla coerenza un po’ rude di persone come Moni Ovadia: “La politica di questo governo israeliano è il peggio del peggio – ha detto all’Adnkronos – Non ha giustificazioni, è infame. Vogliono cacciare i palestinesi da Gerusalemme est, ci provano in tutti i modi e con ogni sorta di trucco, di arbitrio, di manipolazione della legge. È una vessazione ininterrotta che ogni tanto fa esplodere la protesta dei palestinesi, che sono soverchiamente le vittime, perché poi muoiono loro”. Ora, magari non è vero, ma qui si dà per scontato di essere tra brave persone che sanno che la situazione è ingarbugliata, che tifano per una pace equa, due popoli-due Stati in piena sicurezza eccetera. Ecco – tra noi e allo specchio – va riconosciuto che il silenzio che da un paio di decenni le opinioni pubbliche occidentali riservano a quanto avviene tra Israele e Palestina ha consentito ai loro governi, che non aspettavano altro, di far finta di nulla su molto (il disastro umanitario a Gaza, le bombe del 2014) e di dare una mano alla violenza ogni tanto (Trump e la questione Gerusalemme). Se guardiamo all’Italia, non solo il governo è muto, ma i media sono schiacciati sul Likud e Bibi Netanyahu assai più di quelli israeliani. Eppure quante volte in questi anni abbiamo sentito lo slogan “restiamo umani”? Vittorio Arrigoni, ucciso ormai dieci anni fa, chiudeva così le sue corrispondenze da Gaza con parole e toni non dissimili da quelli che Ovadia usa oggi: la kefiah può senz’altro fare la fine dell’eskimo, il giudizio morale no.

L’arcangelo Gabriele scenderà a chiamare Albertini sindaco?

A Milano c’è il Candidato Unico; e c’è il candidato che c’è e non c’è. Il primo, si sa, è Giuseppe Sala, che ci ha messo un sacco per decidere di gettare il cuore oltre l’ostacolo, ma dopo un lungo, ciclistico surplace – in cui si è guardato in giro per vedere se c’erano posti migliori in politica, al governo o ai vertici di una bella azienda pubblica o privata – ha infine deciso che quello di sindaco “è il mestiere più bello del mondo” (per quanto malpagato). Il candidato che c’è e non c’è, invece, è Gabriele Albertini. A lui hanno pensato, disperati, i leader del centrodestra che non sanno chi diavolo contrapporre a Sala, che da un lustro occupa la scena mediatico-politica milanese tra applausi e squilli di trombe e trombette, senza un’increspatura, una critica, non dico un fake-checking, ma almeno una domandina indiscreta. Il centrodestra non ha uno straccio d’uomo o di donna da contrapporgli, forse anche perché lo spazio del centrodestra lo occupa già lui. In questi chiari di luna, Albertini è l’usato sicuro, l’ex sindaco che ha iniziato i progetti che Sala ha portato verso il compimento e che è perfettamente in grado di concludere, magari con qualche rigore morale in più. Non è leghista, ma Matteo Salvini – che sa che nessun leghista potrebbe oggi vincere a Milano – l’ha corteggiato e proposto come candidato sindaco. Il corteggiamento è stato lungo, ma alla fine Albertini ha detto no: perché ha sentito, da una parte, che l’entusiasmo di Giorgia Meloni per lui è simile a quello che prova un valdostano che non sa nuotare e soffre di mal di mare costretto alla traversata a vela dell’Atlantico sotto una bufera nel triangolo delle Bermude; dall’altra, ha sentito pure il calore del suo amico Silvio Berlusconi, simile a quello riservato a Veronica Lario quando gli chiese 3 milioni al mese di alimenti. Niente da fare: quell’Albertini lì, da sindaco la prima volta, era diventato troppo amico del procuratore Francesco Saverio Borrelli per poter piacere davvero a Silvio. Certe cose non si dimenticano, nemmeno con l’età. Ad Albertini, che si sente un generale – seppur di condominio – non hanno fatto granché effetto le reazioni dei colonnelli di Fratelli d’Italia (Ignazio La Russa e Daniela Santanché) che lo conoscono come troppo autonomo per portarselo nei salotti dei loro amici o al Billionaire: lui, se deve mettersi in mutande, lo fa in proprio. Ma comunque anche i colonnelli hanno contribuito a creare un clima generale in cui è diventata determinante la volontà della moglie, Giovanna, che dice: “Gabriele, no: hai già dato”.

E lui ha detto no. Dal centrodestra – senza alternative se non Maurizio Rolex Lupi – hanno provato a insistere. Lui ha risposto cominciando a esibire toni biblici: “La mia decisione non è modificabile neanche se i tre re magi vengono a propormi di rifare il sindaco. Se anche si mettono d’accordo tra di loro, sono cose loro”. Ma che doni potrebbero portare, stavolta, i tre re magi Salvini, Meloni e Berlusconi?

Sempre con toni biblici, riapre uno spiraglio, ma invocando direttamente il soprannaturale: “Se il mio omonimo Arcangelo Gabriele mi apparisse in sogno e mi dicesse di candidarmi per il bene di Milano, chissà, magari mia moglie Giovanna si convincerebbe e io con lei, ma in assenza di questo intervento soprannaturale credo sia molto difficile un ripensamento”. Poi fanno saltar fuori un sondaggio (Eumetra) in cui – udite udite – Albertini sarebbe tre punti avanti rispetto a Sala: 50 a 47. E lui, sornione, a chi gli chiede se il suo no è definitivo, risponde: “Di definitivo c’è solo la morte”. Ma la Bibbia insegna: dopo la morte c’è la resurrezione. Ci sarà anche per Albertini?