Annunciata circa un mese fa, è stata depositata l’11 maggio l’ordinanza (la n. 97 del 2021) con cui la Corte costituzionale ha rinviato al 10 maggio dell’anno prossimo l’udienza per decidere se il divieto di concedere la liberazione anticipata, all’ergastolano mafioso che non si pente, sia legittima. Nel leggere la pronuncia, a me che sono nata nella cintura di Milano e che lontanissimo dal lago di Como non abito, mi è sembrato di essere Renzo di fronte all’Azzeccagarbugli. In pratica, il provvedimento dice che – sì – le mafie sono un pericolo terribile per la collettività e che la sicurezza pubblica è un interesse che il Parlamento fa bene a tutelare. Però la Costituzione impone di dare una chance persino a un assassino, condannato all’ergastolo, il quale potrebbe ben collaborare con la giustizia ma si rifiuta di farlo perché la sua cultura (si fa per dire) gli impone l’omertà. Secondo la Corte costituzionale, esigere sempre e comunque il pentimento da questi malfattori non sarebbe conforme ai nostri principi. Quindi la stessa Corte avrebbe dovuto dichiarare l’ergastolo “ostativo” illegittimo: ma siccome se lo avesse fatto sic et simpliciter avrebbe prodotto per le mafie un vantaggio eccessivo, allora rimanda la faccenda e rimette al Parlamento il compito di trovare una soluzione intermedia. Si allarghino le ipotesi nelle quali gli ergastolani mafiosi possono ottenere benefici penitenziari ma non si indebolisca la lotta alla criminalità organizzata. Un bel latinorum, non c’è che dire. Resto convinta, invece che la Costituzione stia dalla parte delle persone oneste e non la si possa contrapporre alla lotta alle mafie, contro cui bisogna fare una guerra senza quartiere. Colpire i mafiosi negli uomini e nelle cose, metterli in galera e confiscare loro tutti i soldi. Questo ci hanno insegnato Dalla Chiesa, Pio La Torre, Falcone e Borsellino. Il motivo per cui questa via di lotta al crimine e allo schifo della mafia debba concedere qualcosa a nobili concetti alla Cesare Beccaria, che i mafiosi non conoscono, mi è sempre sfuggito. La rieducazione del condannato funziona per molti reati ma non per quelli di mafia. A Reggio Calabria il tribunale dei minori toglie i figli alle famiglie di ‘ndrangheta perché la suzione del metodo mafioso comincia in età tenerissima e non c’è percorso educativo in carcere che possa scalfire l’impianto ideologico delle mafie, fatto di violenza, sopraffazione e omertà. Come ripete instancabilmente Maria Falcone, dalla mafia si esce solo pentendosi o morti. Che fare ora? Bisogna studiare una modifica dell’art. 4-bis della legge n. 354 del 1975 in cui si dica che – anche in caso di mancata collaborazione – al mafioso possono darsi benefici penitenziari a patto che si possa accertare altrimenti che i legami con la cosca di appartenenza sono cessati e non ci sia possibilità di ripristinarli (così dice l’ordinanza n. 97). Bisognerà stabilire che il giudice potrà concedere i benefici solo in presenza di sicuri indici di cessato collegamento con l’associazione, come – per esempio – se essa sia stata già sgominata per intero o se essa abbia perso i suoi beni. Sarà il caso di scrivere anche che – dato il carattere familistico ed ereditario delle cosche – i benefici non potranno mai essere concessi se, nel frattempo, parenti e affini sono stati a loro volta condannati per mafia o sottoposti a misure di prevenzione antimafia. Spero che in Parlamento si rompa il silenzio dei partiti, i quali elogiano Mattarella, un giorno sì e l’altro pure, per il suo limpido profilo antimafioso ma poi sono presi dall’afasia di fronte all’offensiva degli avvocati delle cosche. Spero che le prossime commemorazioni per la strage di Capaci (23 maggio) siano non una parata ipocrita, ma l’occasione per iniziare la ricerca di una soluzione rigorosa, che ci tenga al riparo dalla minaccia mafiosa, così ascoltando il grido di allarme che da molte parti si è levato (da ultimo, Luca Tescaroli sul Fatto, 8 maggio 2021).