Il parlamento si svegli davanti a questa offensiva delle mafie

Annunciata circa un mese fa, è stata depositata l’11 maggio l’ordinanza (la n. 97 del 2021) con cui la Corte costituzionale ha rinviato al 10 maggio dell’anno prossimo l’udienza per decidere se il divieto di concedere la liberazione anticipata, all’ergastolano mafioso che non si pente, sia legittima. Nel leggere la pronuncia, a me che sono nata nella cintura di Milano e che lontanissimo dal lago di Como non abito, mi è sembrato di essere Renzo di fronte all’Azzeccagarbugli. In pratica, il provvedimento dice che – sì – le mafie sono un pericolo terribile per la collettività e che la sicurezza pubblica è un interesse che il Parlamento fa bene a tutelare. Però la Costituzione impone di dare una chance persino a un assassino, condannato all’ergastolo, il quale potrebbe ben collaborare con la giustizia ma si rifiuta di farlo perché la sua cultura (si fa per dire) gli impone l’omertà. Secondo la Corte costituzionale, esigere sempre e comunque il pentimento da questi malfattori non sarebbe conforme ai nostri principi. Quindi la stessa Corte avrebbe dovuto dichiarare l’ergastolo “ostativo” illegittimo: ma siccome se lo avesse fatto sic et simpliciter avrebbe prodotto per le mafie un vantaggio eccessivo, allora rimanda la faccenda e rimette al Parlamento il compito di trovare una soluzione intermedia. Si allarghino le ipotesi nelle quali gli ergastolani mafiosi possono ottenere benefici penitenziari ma non si indebolisca la lotta alla criminalità organizzata. Un bel latinorum, non c’è che dire. Resto convinta, invece che la Costituzione stia dalla parte delle persone oneste e non la si possa contrapporre alla lotta alle mafie, contro cui bisogna fare una guerra senza quartiere. Colpire i mafiosi negli uomini e nelle cose, metterli in galera e confiscare loro tutti i soldi. Questo ci hanno insegnato Dalla Chiesa, Pio La Torre, Falcone e Borsellino. Il motivo per cui questa via di lotta al crimine e allo schifo della mafia debba concedere qualcosa a nobili concetti alla Cesare Beccaria, che i mafiosi non conoscono, mi è sempre sfuggito. La rieducazione del condannato funziona per molti reati ma non per quelli di mafia. A Reggio Calabria il tribunale dei minori toglie i figli alle famiglie di ‘ndrangheta perché la suzione del metodo mafioso comincia in età tenerissima e non c’è percorso educativo in carcere che possa scalfire l’impianto ideologico delle mafie, fatto di violenza, sopraffazione e omertà. Come ripete instancabilmente Maria Falcone, dalla mafia si esce solo pentendosi o morti. Che fare ora? Bisogna studiare una modifica dell’art. 4-bis della legge n. 354 del 1975 in cui si dica che – anche in caso di mancata collaborazione – al mafioso possono darsi benefici penitenziari a patto che si possa accertare altrimenti che i legami con la cosca di appartenenza sono cessati e non ci sia possibilità di ripristinarli (così dice l’ordinanza n. 97). Bisognerà stabilire che il giudice potrà concedere i benefici solo in presenza di sicuri indici di cessato collegamento con l’associazione, come – per esempio – se essa sia stata già sgominata per intero o se essa abbia perso i suoi beni. Sarà il caso di scrivere anche che – dato il carattere familistico ed ereditario delle cosche – i benefici non potranno mai essere concessi se, nel frattempo, parenti e affini sono stati a loro volta condannati per mafia o sottoposti a misure di prevenzione antimafia. Spero che in Parlamento si rompa il silenzio dei partiti, i quali elogiano Mattarella, un giorno sì e l’altro pure, per il suo limpido profilo antimafioso ma poi sono presi dall’afasia di fronte all’offensiva degli avvocati delle cosche. Spero che le prossime commemorazioni per la strage di Capaci (23 maggio) siano non una parata ipocrita, ma l’occasione per iniziare la ricerca di una soluzione rigorosa, che ci tenga al riparo dalla minaccia mafiosa, così ascoltando il grido di allarme che da molte parti si è levato (da ultimo, Luca Tescaroli sul Fatto, 8 maggio 2021).

 

Palamara e Davigo a parti ribaltate

Confesso di avere una visione piuttosto sempliciotta della giustizia. Ovverosia, da una parte ci sono i ladri e dall’altra le forze dell’ordine che li acchiappano e li consegnano ai giudici che poi emettono le sentenze.

Forse sarò un po’ giustizialista, ma giuro che quando vedo un avvocato vorrei abbracciarlo, ricordando la mole di richieste di risarcimento che mi affligge come ex direttore (quasi sempre per querele infondate, ma vai a sapere). Tuttavia, il banale schemino dei buoni e dei cattivi è completamente saltato da quando i dibattiti nei talk sul tema assai in voga della “giustizia malata” (a cui mi abbevero avidamente evitando comparsate incompetenti) sono egemonizzati da due toghe, entrambe ex sia pure per motivi diversi: Piercamillo Davigo e Luca Palamara. Anche qui devo ammettere che mentre nei confronti del primo ho sempre nutrito un certo timore reverenziale, fino dai tempi dell’inchiesta di Mani Pulite di cui egli fu un pilastro, davanti alle disavventure del secondo ci sono rimasto male. Sì, da quando ho letto della sua grande generosità nel favorire un numero imprecisato di colleghi che gli sono debitori di consistenti scatti di carriera, promozioni a lungo anelate, ambizioni finalmente soddisfatte.

E dunque, mentre Palamara rappresenta l’amico che tutti vorrebbero avere, quello che si fa in quattro, che non dice mai di no, che risponde sempre al cellulare (ehm, forse causando qualche problemuccio a chi lo chiamava, ma sempre per altruismo), ammetterò che di telefonare a Davigo per chiedergli dei biglietti omaggio per lo stadio oppure, che so, un sconticino per un weekend termale in dolce compagnia, ecco non mi è mai venuto in mente.

Ciò detto, benché radiato dalla magistratura (penso per le solite invidiuzze), Palamara si è trasformato nel guru, nel faro, ma che dico nella stella polare dei più ascoltati conduttori (da Porro a Giletti) desiderosi di una salda guida morale per orientarsi negli oscuri meandri della magistratura correntizia e ritrovare infine la giusta via.

Ciò detto, l’altra sera per poco non cadevo dal divano quando ho udito, con queste orecchie, Alessandro Sallusti affermare da Floris che Davigo meritava di essere arrestato. Ora, non chiedetemi perché (si tratta di materia assai intricata – su una certa loggia Ungheria a quanto si dice piena di zozzoni – che non mi azzardo a districare), ma la cattedra della severa sentenza non poteva essere sottaciuta. Il direttore del Giornale ha infatti scritto con il sempre disponibile Palamara un best-seller che, tuttavia, a seguito della eccessiva suscettibilità di alcuni magistrati incautamente tirati in ballo, perde le pagine con la stessa velocità con cui (mi perdoni il simpatico Sallusti) lui ha perso i capelli.

Improvvisamente, insomma, la mia bussola era come impazzita: Davigo non era più il buono e rischiava anzi la galera mentre Palamara, altro che cattivo, aveva preso le sembianze televisive di un accigliato giureconsulto (Giustianano o Papiniano, fate voi).

Ancora scombussolato mi interrogo inutilmente sulla composizione della loggia Ungheria, da cui nasce questo ribaltamento dei ruoli. Poiché in un mondo normale, dopo aver sviscerato tutte le possibili violazioni di forma (chi ha dato le carte a chi), l’interesse pubblico dovrebbe essere quello di conoscere se una nuova cricca P2 di magistrati, politici, imprenditori, editori di giornale aveva deciso, attraverso oscure manovre e sordidi ricatti, di avvelenare la democrazia repubblicana. Oppure no. Ah saperlo.

 

Fedez, la Rai, la censura e il soccorso reazionario di intellettuali e artisti

Il protocollo rodato del sistema vigente di sorveglianza e punizione, con cui in Italia si impedisce che un intellettuale e/o un artista scantonino dall’attività consentita nei media di massa, per poi danneggiarlo se ci riesce lo stesso, è completato dal soccorso reazionario degli intellettuali e/o artisti che fanno parte del sistema. Dopo la bomba satirica sganciata da Fedez (la denuncia delle pressioni dissuasive degli organizzatori del Concertone e della Rai, l’attacco alla Lega che si oppone al ddl Zan, e la chiusa sull’ipocrisia del Vaticano che ha investito milioni di euro in un’azienda che produce la pillola del giorno dopo), sono comparse in tutta fretta, su giornaloni e tv, interviste a protagonisti della comunicazione concordi nel derubricare la censura tv a “linea editoriale”. Meglio chiarire, a scanso d’equivoci interessati: è giusta la richiesta delle tv di esaminare in anticipo il materiale da trasmettere, un editore deve cautelarsi da grane legali. E, ovvio, può anche non piacergli il materiale: ma se il materiale non contiene nulla di illegale (per esempio roba razzista), e la decisione di cassarlo è motivata solo da ragioni ideologiche e/o da corbellerie come il vincolo del contraddittorio con chi ha pronunciato la frase “Se avessi dei figli gay li brucerei nel forno”, la legittima linea editoriale diventa illegittima censura. Il protocollo rodato serve anche a far confusione su questo punto. E allora Repubblica stampa un intervento dell’editore Laterza, da cui estraggo queste frasi: “Cos’è infatti la Rai se non un editore? Si può discutere delle scelte di un editore ma è suo diritto farle. Per quanto riguarda Fedez, in nome della libertà di espressione, si è messa in questione la possibilità stessa della Rai di discutere contenuti e modalità della sua performance. Vogliamo che la Rai si trasformi in una piattaforma di lancio di qualunque messaggio, senza alcun filtro editoriale?” No, vogliamo che la tv di Stato non censuri per motivi ideologici contenuti leciti, poiché la censura non è una linea editoriale. E allora il Foglio intervista Angelo Guglielmi: “Mi risponde che, prima di Fedez, dire di no non era censura, ma linea editoriale. Lei a chi ha detto di no? ‘A Ettore Scola. Veltroni mi aveva chiesto di riceverlo. Scola voleva che gli producessi un documentario di sua figlia e una sua sceneggiatura. Entrambi i casi ho dovuto dire di no perché erano lavori che non mi convincevano.’ Censura? ‘Si sarebbe vergognato lui per primo a definirla censura.’” Certo, perché in questo caso non lo è: il caso Fedez è del tutto diverso, è stato un tentativo di censura, e non c’entra con il discorso della linea editoriale. E allora Open, il giornale online fondato da Enrico Mentana, intervista Carlo Freccero: “La Rai ha detto che è normale leggere prima i copioni. ’Ma no, il massimo che capita è che ti chiama il Comitato di Vigilanza e ti chiede di dare la parola a chi è stato attaccato. I cantanti non si possono mai controllare. L’arte è come la satira, non puoi pensare di mettere i paletti’.”. Tutti Je suis Charlie, a parole, ma quando Freccero, due anni fa, annunciò che voleva riportarmi in Rai (shorturl.at/tFJX9), e ci incontrammo in presenza del mio avvocato, espresse come prima cosa la sua esigenza di “controllo editoriale”. Proposi una soluzione che tutelava la Rai e me: avrei consegnato la registrazione della puntata il giorno prima della messa in onda, Freccero avrebbe potuto tagliare a piacere, e al posto delle parti tagliate avrei messo un riquadro nero con la scritta “materiale satirico giudicato non idoneo alla messa in onda”. Il programma, ovviamente, saltò, ed è molto interessante vedere come si mosse il micidiale protocollo di sistema. (8. Continua)

 

Rousseau Il declino della piattaforma dipende (anche) da Casaleggio jr.

 

 

“Vi dico la verità: non conosco nessuna persona senziente che sia minimamente interessata al destino della piattaforma Rousseau”. Esordisce così Marco Travaglio a Otto e mezzo il 6 maggio. Noi siamo alcune delle persone senzienti interessate al destino di Rousseau, piattaforma digitale del MoVimento 5 Stelle. A oggi, gli iscritti al M5S che possono utilizzarne gli strumenti sono quasi 200 mila. Noi siamo tra quelli.

Forse anche per nostra colpa, spesso si parla di questa piattaforma senza conoscerne la consistenza. Cos’è una piattaforma digitale? È un’infrastruttura in grado di connettere tra loro sistemi diversi ed esporli agli utenti attraverso interfacce integrate. In particolare, una piattaforma politica come la Rousseau non è soltanto un service tecnologico dedicato alla raccolta dei voti online, bensì un “ecosistema” che nel tempo è in grado di evolversi e modellarsi assecondando le esigenze dei suoi utenti/cittadini.

“La tecnologia non è neutra”, ammoniva Giuseppe Conte nel suo discorso di presentazione all’Assemblea dei 5 Stelle. Infatti Rousseau fornisce un’infrastruttura informatica all’avanguardia facendosi garante di quella neutralità necessaria per rendere possibile la libera espressione politica del MoVimento 5Stelle; fornisce programmi e applicazioni per la creazione di contenuti politici, civici e sociali esplicitamente orientati alla democrazia digitale, con l’ambizione di sperimentare gradualmente la democrazia diretta in tutti gli ambiti nei quali le nuove tecnologie la rendono possibile. È la democrazia rappresentativa in crisi a dichiarare guerra alla democrazia diretta? Sembrerebbe proprio di si. O, per lo meno, sembrerebbe che il problema, reso attualissimo dalle nuove opportunità offerte dal progresso tecnologico, sia inspiegabilmente trascurato.

Un recente rapporto del Solonian Democracy Institute evidenzia come Rousseau rappresenti una delle migliori piattaforme mondiali in grado di fornire un percorso costruttivo per la governance digitale di massa e per dare un potere più ampio ai cittadini. Svilire o sostituire questo strumento, azzerando con un clic la sua storia decennale, potrebbe minare alle fondamenta il M5S e le sue trasformazioni future. Perciò dobbiamo conservare scrupolosamente il patrimonio digitale che il fondatore Gianroberto Casaleggio costruì in modo così lungimirante.

M. Mirolla, M.M. Ferranti, F.Iovino, P. Nugnes, I. Mercuri, C. Molinaro, F. Pisano, S. Pancioni, D. Diomedi, M. Ifarajimi, C. Novelli, G. Cifinelli, M. Romano, M. G. Romagnolo, D. Castiglione, R. Marino, F. Pieroni, M. Fraenza, M. Simonelli, P. Morosini, M. A. Morello, G. Molinari, S. Hutchinson

 

 

Cari amici, temo che a disperdere quel prezioso patrimonio abbia contribuito Davide Casaleggio con le sue intromissioni nella linea politica del M5S senza avervi alcun titolo, essendo un semplice fornitore. Quanto alla piattaforma, pagata con i soldi dei parlamentari e degli amministratori del M5S, non è una sua proprietà privata. Così come i dati degli iscritti.

Marco Travaglio

Mail box

 

Su “Non è l’Arena” ha ragione Intrieri

Prendo spunto dall’ottimo articolo di Cataldo Intrieri sui “tele-processi” per evidenziare, a mio avviso, l’aspetto più dannoso di una trasmissione molto seguita, quale è Non è l’Arena. È davvero insostenibile assistere alla degenerazione ai minimi termini della professione giornalistica che mette in scena ogni domenica il sig. Giletti. Abile a mascherare con la scusa del giornalismo d’inchiesta l’unico suo obiettivo: alimentare il proprio ego ed eventualmente gli ascolti, asfaltando letteralmente qualsiasi cosa o persona si frapponga al suo scopo, senza alcuna etica e senza alcuna utilità o servizio per la corretta informazione. Non sono tanto le scelte degli argomenti trattati (altro aspetto comunque discutibile), ma il modo con cui vengono affrontati dal conduttore e dagli ospiti/comparse, che è molto più vicino ai programmi della D’Urso o De Filippi, le quali ambiscono legittimamente all’intrattenimento e non all’informazione come vorrebbe far credere il sig. Giletti.

Luca Battistini

 

Per le grandi emergenze sono inutili nuove leggi

Ogni giorno e anche da fonti autorevoli (forse interessate?) sento parlare dei disastri ambientali causati nel passato e di come devono cambiare le cose, gli studi, l’avvento del “green” etc. Ebbene se continuiamo a cercare quello che già abbiamo non risolveremo mai niente e faremo solo “arricchire” le televisioni e i giornalisti con i talk show! Alcuni esempi: – le morti bianche non hanno bisogno di nuove leggi (la solita scusa per buttarla in fumo!) ma solo di applicare il “libro rosso” della 626 e farlo rispettare, è compito del Parlamento! – chiunque progetti un impianto di qualsiasi tipo individua (parlo dei professionisti non degli pseudotali!) oltre alle componenti specifiche anche come gestire gli effetti sull’ambiente, indicando tutte le azioni necessarie da mantenere nel tempo, e quindi sorvegliare la loro applicazione è compito del Parlamento ! – lo Stato deve far parte di tutte le aziende strategiche (farmaceutiche, di comunicazione, siderurgiche…) ma deve solo controllare che venga fatto quello che è in linea con il bene comune a cui tutti partecipano con le loro tasse, e questo è compito del Parlamento ! – lo Stato deve far pagare le tasse a tutti in modo proporzionale come sancisce la Costituzione e perseguire gli evasori sia civilmente che penalmente come avviene nei paesi “democratici” e questo è compito del Parlamento ! E potrei continuare! Come vedete non c’è bisogno di fare cose nuove ma solo di applicare quello che c’è senza cercare novità che non servono, se non a rinviare sempre! Nel nostro Paese a democrazia parlamentare quello che non funziona è il Parlamento: il popolo continua a essere tifoso e non elettore!

Raffaele Fabbrocino

 

Juventus, un demolitore potrebbe tornare utile

Caro direttore Travaglio, ormai abbiamo capito che Pirlo è inadeguato ad allenare la nostra Juventus. Lo sappiamo da tempo ma resta sempre al suo posto. Lei che ha un notevole seguito perché non propone agli Agnelli di mettere l’Innominabile nel cda? Magari riusciranno a fare fuori anche Pirlo.

Antonello Lupiani

 

E a ingaggiare un allenatore saudita.

M. Trav.

 

Una lettrice affezionata si complimenta con noi

Sono una lettrice da anni del Fatto Quotidiano. Confesso che mentre prima mi limitavo a una lettura abbastanza superficiale, da inizio pandemia mi gusto scrupolosamente ogni articolo. Grazie per il servizio che rendete a questo povero Paese dove si fa a gara a foderarsi gli occhi e le orecchie di prosciutto. Per favore fate i complimenti a tutta la squadra. Mi piace ricordare in modo particolare Massimo Fini e Pino Corrias che con le loro astute birichinate mi rendono piacevole la giornata.

Pasqualina Libutti

 

Serve più coraggio sul salario minimo

Bene la Catalfo sul salario minimo, ma facciamo due conti: 9 euro all’ora x 8 = 72 euro al giorno x 22 giorni al mese = 1.584 euro al mese. E sono lordi: vuol dire circa 1.100 euro al mese netti. Le sembrano sufficienti se solo di affitto, se va bene, se ne andrà almeno la metà? Bisogna avere più coraggio e portare i 9 euro almeno a 12 euro all’ora, più o meno come propose Obama “altro comunista”. Quindi suggerisco alla Catalfo di osare di più: ne va del bene di chi sta più male di lei e di noi.

Raffaele Fabbrocino

Ave Bongiorno, avvocata nostra

Ricordate Matteo Salvini baciare rosari a favor di telecamera durante i propri comizi? Chi aveva pensato alla deriva definitiva del catto-leghismo non aveva ancora contemplato ciò che Libero ha partorito ieri, celebrando sulle sue pagine la senatrice avvocato Giulia Bongiorno. Una che, ci informa direttamente Renato Farina alias Agente Betulla, assurge ormai al ruolo di Madonna: “L’avvocata nostra e pure regina”. D’altra parte, ai suoi clienti fornisce “una protezione insieme elettrica e materna”, “lascia che il racconto del suo patrocinato le entri nelle ossa, si mescoli al midollo della sua scienza giuridica”. Dice Farina: “Non mi risulta abbia mai perso una causa, ha portato tutti all’assoluzione”. E per quanto l’esperienza diretta abbia reso Betulla grande intenditore di avvocati e processi, il resoconto è generoso proprio sul caso Andreotti, non assolto ma semplicemente prescritto (e pure riconosciuto colpevole fino al 1980) per associazione a delinquere. Poco importa: “Mettiamoci nei panni di chi si trova ad avere per avvocato Giulia Bongiorno. Cosa prova? Sicurezza”. Ricordatelo pure a Salvini, la prossima volta che chiede l’immunità al Parlamento per salvarsi dai processi.

“Il Ponte di Messina è inutile e soprattutto irrealizzabile”

La relazione della Commissione del Mims, incaricata di verificare la possibilità di realizzare il Ponte sullo Stretto di Messina, ha riaperto un dibattito che sembrava chiuso definitivamente. Ho letto con attenzione il documento, che a mio parere non può costituire una base solida per decidere di affrontare una spesa di oltre 10 miliardi, risorse che potrebbero essere utilizzate in altri modi. La relazione è carente di molte informazioni tecniche e soprattutto socio-economiche. Non è riportata alcuna stima dei costi e così come non c’è alcun rilievo di analisi costi/benefici.

Da un punto di vista tecnico però, come professore ordinario di Geomorfologia all’Università di Siena, mi preme rimarcare come la nuova soluzione, che vorrebbe il ponte realizzato a tre campate con due piloni poggianti a circa 90 metri di profondità sul fondale, è sicuramente insostenibile. I motivi sono presto detti: il fondale, a una semplice analisi geomorfologica della carta batimetrica, appare interessato da un complesso di frane di oltre 3 km di larghezza, e lunghezza con spessori che superano il centinaio di metri. Frane che si sviluppano sia verso est sia verso ovest, senza soluzione di continuità. Non esistono, a oggi, soluzioni ingegneristiche in grado di ovviare con certezza a questi movimenti. Si tratta di frane attive, o comunque quiescenti, vale a dire che si possono riattivare in ogni momento. E in un’area sismica tra le più critiche d’Italia.

Le frane sono state generate da faglie anch’esse attive, responsabili della genesi del terribile terremoto di Messina del 1908, uno dei più forti del secolo scorso, con circa 7,1 di magnitudo Richter. Quell’evento sismico rase al suolo Reggio Calabria e fece danni immani in tutta l’area, anche per l’attivazione di una onda di maremoto di oltre 7 metri di altezza. Non ci sarebbe dunque alcuna garanzia di sicurezza nel poggiare dei pilastri su un terreno così potenzialmente mobile. Si dovrebbe tornare alla soluzione a campata unica, come nel progetto presentato in passato, ma che presenta anch’essa enormi problemi. La campata unica più lunga al mondo arriva a 1900 metri, mentre a Messina supererebbe i 3,5 km. Questo perché i versanti dei due lati sono anch’essi interessati da frane. Si dovrebbe dunque decidere di realizzare un ponte ampiamente sperimentale, in un’area sismica con venti di notevole intensità. Personalmente credo che il buon senso ci dovrebbe far scartare questa ipotesi.

Data l’attuale impossibilità di realizzare un ponte con tutti i criteri di sicurezza, la soluzione più idonea, in attesa che l’avanzamento delle tecnologie porti nuove soluzioni, sarebbe potenziare il servizio traghetti e uscire finalmente da una gestione obsoleta dell’attraversamento, rafforzamento che il ministro Giovannini e i vertici di Rfi hanno già messo in cantiere. Tra l’altro, a complemento del ponte, bisognerebbe realizzare tutta una serie di nuove infrastrutture di cui nessuno parla. Decine di chilometri di gallerie con impatti notevoli, e ancora non valutati a livello ambientale e sulle risorse idriche.

Per una gestione oculata delle risorse finanziarie, verrebbe inoltre da chiedersi se gli oltre 10 miliardi stimati possano avere destinazioni migliori. Gli edifici pubblici delle due sponde dello stretto sono in larga parte privi di criteri antisismici, e sebbene con il governo Conte si sia investito per la loro messa in sicurezza, molto rimane da fare. Ci sono tanti altri “piccoli” problemi legati al dissesto idrogeologico, in quello che è uno dei territori più fragili del Mediterraneo, con miriadi di frane su cui intervenire. Il Sud inoltre soffre di una cronica carenza idrica, e non sono certo sufficienti i fondi stanziati per il completamento dei numerosi bacini artificiali incompiuti.

Un’ulteriore criticità si affaccerà a breve in quei territori, perché i numerosi edifici in cemento armato costruiti con il boom economico degli anni 60 stanno andando a fine vita. L’intera area necessiterà di un massiccio investimento per la messa in sicurezza/ricostruzione. Avendo a disposizione oltre 10 miliardi un buon amministratore darebbe la priorità a una singola opera, tra l’altro di complicatissima realizzazione e senza certezza sulla sicurezza, o sceglierebbe di investire nella creazione di misure economiche efficaci che garantirebbero ingenti investimenti anche dei privati? La Sicilia e la Calabria hanno tesori architettonici e culturali, non sempre valorizzati. Mi chiedo come si possa decidere a priori di realizzare questa opera così piena di interrogativi e che oltretutto ha già generato uno sperpero immane di risorse pubbliche che continuiamo a pagare, nonostante la Società Stretto di Messina sia in liquidazione da otto anni.

Il giallo del super regalo fiscale a chi si accollerà l’istituto in crisi

Va bene che il MontePaschi in crisi va accollato a un salvatore il prima possibile, ma la pressione del ministero dell’Economia (e di Palazzo Chigi) sta creando qualche problema. S’intende l’ultima modifica al rialzo del regalo fiscale che il governo, già all’epoca del Conte 2, ha confezionato per oliare le fusioni bancarie. Nelle bozze del decreto Sostegni, slittato alla prossima settimana, la norma per ora non compare.

Breve riepilogo. L’esecutivo giallorosa ha previsto un beneficio fiscale per le banche che si fondono consentendo, a chi le ha, di trasformare le imposte differite attive (Dta) in crediti fiscali. A essere trasformati sono le Dta della banca più piccola delle due che si fondono. La norma era valida per le fusioni deliberate entro il 2021. La modifica inserita nel nuovo decreto proroga la scadenza a giugno 2022 e alza il bonus. Se una grande banca si accollerà Mps, avrà in dote un bonus fiscale da 4,4 miliardi lordi. La principale indiziata è Unicredit, dove si è appena insediato l’ad Andrea Orcel che non ha chiuso a eventuali fusioni. I grandi azionisti dalla banca sono però contrari all’ipotesi Mps ed è per questo che si è ipotizzato di alzare il regalo fiscale permettendo a Orcel di convincere i soci riottosi. Tra le modifiche c’è anche quella che permetterebbe di usare fin dal primo anno parte del bonus fiscale ed è questo uno dei nodi che ha bloccato la norma, che peraltro deve essere autorizzata dall’Antitrust europeo.

A ogni modo, se passasse, il regalo fiscale non sarebbe solo per l’acquirente del Montepaschi. Anche BancoBpm garantirebbe una “dote” fiscale da 5,5 miliardi in caso di fusione con un gruppo di maggiori dimensioni; l’altro istituto nei rumors su un possibile risiko bancario è Bper, che ha in pancia un potenziale bonus da 3,9 miliardi lordi. Negli ambienti finanziari circola anche l’ipotesi di una fusione a tre Unicredit-Mps e una delle altre due banche. L’unica cosa certa, al momento, è che qualunque operazione avverrà sarà accompagnata da un regalo a carico dello Stato.

MPS & sponsor: 593 milioni per il consenso

Negli undici anni che hanno preceduto il baratro, dal 2002 al 2012, il Monte dei Paschi di Siena ha dilapidato la bellezza di 593,3 milioni tra sponsorizzazioni, pubblicità e promozioni. In media sono 54 milioni di euro all’anno, la metà dei quali investita in sponsorizzazioni sportive. Un mare di soldi se si considera che la maggior parte delle squadre di calcio, basket e altri sport erano team di città di provincia, molte delle quali storiche roccaforti del Pd. In questo contesto si inseriscono anche gli 800mila euro l’anno al Viadana Rugby e i legami con la Lega di cui abbiamo già scritto settimane fa, a proposito delle nuove piste su cui i magistrati stanno indagando a partire dalla morte del manager Mps David Rossi.

 

I legami con la politica

I collegamenti tra la politica e Mps erano vari e abbastanza trasversali. E a gestire questo portafoglio, sforbiciato in modo drammatico proprio nell’anno della sua morte, era David Rossi. Era stato Giuseppe Mussari ad affidare a Rossi il controllo delle sponsorizzazioni. Il suo compito era quello di gestire il budget con cui foraggiare squadre e media, cioè i soldi per comprare consenso e silenzio, mentre la banca andava a rotoli. È un fatto che il 2013 segni uno spartiacque. L’avvicendamento dei vertici voluto da Bankitalia (fuori Mussari e Vigni, dentro Fabrizio Viola e Alessandro Profumo) impone il taglio netto di quelle spese: il budget per pubblicità e sponsorizzazioni viene dimezzato. Nello stesso anno, Mps viene travolta dal terremoto giudiziario e Rossi precipita dal suo ufficio. Una morte archiviata per due volte dalla Procura di Siena come suicidio, tesi cui la famiglia non ha mai creduto. Una terza indagine, condotta a Genova, ha acceso i riflettori sui possibili depistaggi legati alla presunta ricattabilità di alcuni magistrati toscani, un fascicolo archiviato e mandato al Csm per valutare eventuali profili disciplinari. Ma il caso, ancora oggi, rimane talmente controverso da aver portato alla creazione di una Commissione parlamentare d’inchiesta (come si legge nel pezzo a sinistra), che dovrebbe ripartire proprio dal tracciamento dei movimenti finanziari. Quello stesso ambito esplorato di recente dalla Procura di Siena, che nel 2019 ha aperto un nuovo fascicolo. Gli accertamenti – che il Fatto ha raccontato – riguardano il mistero di un numero “4099009” che qualcuno digitò sul telefono del manager dopo che era già volato dalla finestra. Secondo uno dei testimoni sentiti, quella serie di cifre non sarebbe un numero di telefono ma un conto bancario. E potrebbe corrispondere a un certificato al portatore che collegherebbe il sistema delle sponsorizzazioni sportive alla Lega. Un’ipotesi tutta da verificare.

 

I bilanci del gruppo

I bilanci del gruppo Mps raccontano nel dettaglio quanto fosse delicato il compito di Rossi, incaricato di gestire un portafoglio che, come detto, negli undici anni di dominio di Giuseppe Mussari – prima presidente della Fondazione Mps, socio di controllo della banca, poi al vertice del gruppo finanziario – ha raggiunto una media di 54 milioni di euro l’anno. È il doppio di quanto il gruppo sborsava, ad esempio, per i servizi di pulizia di tutte le sue 2.500 filiali. Segno che Mussari considerava molto importanti queste spese di comunicazione, aumentate proporzionalmente ai rischi finanziari che la banca si è assunta. Dal 2007, anno della sciagurata operazione Antonveneta, fino alla fine del 2011, quando Mussari è stato sostituito con Profumo, il budget per la comunicazione non è mai sceso sotto i 57 milioni di euro, toccando l’apice nel 2010 con 66,1 milioni di euro (si veda la tabella a lato, ndr). Sebbene in pubblicità su giornali, radio e tv l’ex presidente di Mps non abbia mai lesinato, è sulle sponsorizzazioni sportive che ha puntato più forte. Sui 58 milioni spesi nel 2011, solo un terzo è andato in pubblicità: quasi tutto il resto – 35,6 milioni – è stato investito in sponsorizzazioni, soprattutto sportive.

I rendiconti finanziari non forniscono le cifre precise elargite alle singole squadre, ma danno l’idea di quale fosse la strategia della banca: sponsorizzazioni a pioggia, su società locali, quasi esclusivamente in territori dove la banca aveva già quote di mercato importanti. “Investivamo un sacco di denaro in zone in cui in teoria non ne avevamo bisogno, non almeno dal punto di vista commerciale”, racconta un top manager di Mps chiedendo l’anonimato.

 

La lista delle società

L’elenco delle società sportive “foraggiate” è lungo: A.C. Siena, Mens Sana Basket, A.C. Arezzo, U.S. Virtus Poggibonsi, Mantova Calcio, Viadana Calcio, Viadana Rugby, Basket Bancole, Top Team Volley Mantova, GEAS Basket femminile Milano, Associazione sportiva Calcio Femminile Siena, Federazione Italiana Canoa e Kayak, Fidal Toscana, Roma Polo Club, Federazione Italiana Golf Sezione Toscana, Federazione Italiana Tennis Sezione Toscana.

Perché spendere così tanti soldi per società sportive della Toscana, la regione in cui Mps aveva già una quota di mercato superiore al 40%? Un indizio è già emerso dalle carte dell’inchiesta sulla banca condotta dalla Procura di Siena. In un’intercettazione pubblicata dal Corriere della Sera, Mussari parlava con Giuliano Amato. Oggetto: uno scambio di favori. Amato s’impegnava a sostenere la candidatura di Mussari a presidente dell’Abi, l’associazione bancaria italiana, e il numero uno di Mps prometteva che la sponsorizzazione al Circolo tennis Orbetello, di cui il politico del centrosinistra era presidente onorario, sarebbe rimasta invariata.

Di certo la maggior parte dei soldi stanziati da Mps per le sponsorizzazioni sportive andava a due realtà di Siena: la squadra di calcio, l’Ac Siena, e quella di basket, la Mens Sana. Prendiamo il caso dell’Ac Siena. Nella stagione 2010/2011, quando militava nel campionato di serie B, il club ha ricevuto da Mps 8 milioni di euro come sponsorizzazione. Tanto per avere un metro di paragone, nella stessa stagione l’Inter, club di fama internazionale che aveva appena vinto il triplete, incassò 12,1 milioni dal suo principale sponsor (Pirelli). I crac del Siena Calcio e del Mens Sana Basket sono oggetto di procedimenti giudiziari. Nel secondo, in particolare, i pm ipotizzano la creazione sistematica di fondi neri.

 

Il ruolo del manager

La morte di Rossi è avvenuta proprio nell’anno in cui la coppia dei nuovi manager Profumo e Viola subentra a Mussari e Vigni, tagliando di netto questi investimenti. Dai 42,7 milioni del 2012, il budget dedicato a pubblicità e sponsorizzazioni passa di colpo a 18,6 milioni. Un contesto ritenuto interessante dalla Commissione parlamentare d’inchiesta, se mai dovesse partire.

Le manovre Pd per prendersi la commissione

Alla Commissione d’inchiesta su David Rossi, Walter Rizzetto, ex M5S ora Fratelli d’Italia, ci lavora da almeno un paio d’anni. Ma i lavori non riescono a partire: i componenti sono stati resi noti il 30 aprile, la presidenza è stata oggetto di una battaglia piuttosto feroce che ha fatto slittare le votazioni (previste per oggi) alla settimana prossima. In origine, doveva andare allo stesso proponente, Rizzetto. Ma il Pd si è messo di traverso. Debora Serracchiani, la capogruppo, su input del Nazareno, ha condotto una battaglia durissima per ottenere la presidenza per i dem. Una mossa che non è piaciuta agli altri partiti (della maggioranza e non): la Commissione dovrà evidentemente indagare sulle questioni bancarie, a partire da Mps, feudo della finanza rossa. Vicende alle quali il Pd è storicamente e instrinsecamente legato.

Tra i componenti, c’è una folta rappresentanza di toscani: dal senese Luca Migliorino dei Cinque Stelle a Susanna Cenni e Luca Sani del Pd. Anche Claudio Borghi (Lega) è una conoscenza della città e della provincia: nel collegio Toscana XII ha corso contro Padoan a marzo 2018. E se Leu ha puntato su Federico Fornaro, Italia Viva ha scelto Cosimo Maria Ferri, altro toscano, ex magistrato, al centro di alcune delle trame nel Csm degli ultimi anni. Scelte del territorio che non sono indifferenti, visto il peso di Mps.

Raccontano che sia stato Luca Lotti a chiedere al segretario Enrico Letta di insistere sulla presidenza. Letta reagisce addirittura stupito: sostiene di non aver parlato mai dell’argomento con Lotti. Anche se conferma di aver chiesto ai gruppi parlamentari di lavorare per le presidenze delle Commissioni in gioco: del pacchetto fanno parte non solo quella dedicata a David Rossi, ma anche una su Bibbiano e sulle fake news. Mentre ieri è stata istituita anche quella sulla Moby Prince. Va detto che i voti di Lotti sono stati determinanti per portare la Serracchiani alla presidenza del gruppo di Montecitorio: l’interlocuzione tra i due è dunque diretta. Per quanto anche lei ci tiene a smentire pressioni. Esiste anche un nome per il quale i dem avrebbero insistito: Franco Vazio, ligure, ex renziano di ferro, ora lottiano.

Per ora, però, l’operazione non è riuscita. La seduta prevista per oggi per l’elezione è stata spostata alla settimana prossima. Il motivo ufficiale è che si cerca un accordo complessivo su tutte e 4 le presidenze e che nel pacchetto ci sarebbe anche il Copasir. Cosa, quest’ultima, che complica il gioco: da quando è nato il governo Draghi, il presidente leghista, Raffaele Volpi, dovrebbe lasciarla per cederla a Fratelli d’Italia, ma la Lega resiste a tutti i costi.

Alla fine, per evitare troppi conflitti, il posto potrebbe finire a uno dei tre componenti di Forza Italia (Cristina Rosello, Guido Pettarin e Pierantonio Zanettin). Ma la settimana è lunga e c’è ancora tempo per ulteriori manovre.

Sabato scorso, intanto, Antonella Tognazzi, vedova di Rossi, si era esposta con un post su Facebook: “Sono molto contenta che il prossimo giovedì 13 maggio si insedi la Commissione di inchiesta su David. Sono stati anni difficili, molto impegnativi in cui abbiamo costantemente cercato una sola cosa: la verità”. E poi si augurava che a presiederla fosse lo stesso Rizzetto: “Spero fortemente che Walter Rizzetto, colui che, a mio avviso, più di tutti ha posto in essere le basi di questa Commissione, la guidi da Presidente, con la forza, la coerenza, e con la determinazione che lo hanno contraddistinto da sempre. Sarebbe il giusto e meritato riconoscimento al suo determinante impegno”. Per ora, questa speranza sembra destinata a morire. Ma per evitare che la guida andasse al Pd sono state fatte le barricate. Da capire se avranno davvero effetto.