Amazon non è stata aiutata sul fisco

Nuova beffa e nuova sconfitta per la Commissione europea nei confronti delle multinazionali che sfruttano i regimi fiscali vantaggiosi. Ieri la Corte di giustizia europea ha annullato la decisione dell’Ue sui presunti aiuti di Stato ricevuti da Amazon in Lussemburgo. Bruxelles nel 2017 ha definito il regime fiscale concesso alla multinazionale di Jeff Bezos un aiuto di Stato, imponendo alla società di restituire 250 milioni di euro di benefici indebiti ottenuti grazie a un contratto riservato (il cosiddetto tax ruling) stipulato con il Granducato che, tra il 2006 e il 2014, ha garantito alla società un’imposizione fiscale più generosa del normale. Ma ora, secondo la Corte, non solo Amazon non ha beneficiato di un vantaggio specifico, non è neanche tenuta a risarcire i benefici che ne sono derivati alle filiali europee del colosso di Bezos.

Se il governo del Lussemburgo si è “rallegrato della sentenza” spiegando “di aver realizzato negli ultimi anni numerose riforme per combattere l’evasione fiscale e la frode”, alla commissaria della Concorrenza Ue, Margrethe Vestager, non è restato che annunciare ricorso. “Il tax ruling – ha commentato – ha consentito ad Amazon che i tre quarti dei profitti realizzati con tutte le vendite di Amazon nell’Ue fossero esenti da tasse fino al 2014. Studieremo attentamente la sentenza e rifletteremo sui possibili prossimi passi”.

Una nuova minaccia da parte delle istituzioni europee per mettere un freno alla grande elusione con il Lussemburgo considerato da Bruxelles uno dei paradisi fiscali da combattere. Eppure la società operativa lussemburghese di Amazon – che gestisce le vendite delle filiali di Francia, Germania, Italia, Regno Unito, Paesi Bassi, Polonia, Spagna e Svezia – è appena riuscita nell’impresa di fatturare 43,8 miliardi di euro nel 2020, 12 miliardi più dell’anno prima, ma di non versare nemmeno un euro di imposte. Merito degli altissimi costi della società lussemburghese (in buona parte infra-gruppo), che hanno portato il bilancio in rosso per 1,2 miliardi. Insomma, zero utili e zero tasse.

La sconfitta della Commissione Ue segue quella del 2019 quando la Corte Ue ha rigettato la richiesta di restituzione di imposte a favore dell’Olanda da parte di Starbucks (30 milioni di euro). Mentre nel 2020 è stata la volta di Apple che non ha pagato 13 miliardi di tasse in Irlanda. Il Paese per anni ha tassato il colosso di Cupertino con un’aliquota inferiore all’1%.

Bruxelles ora spera che la proposta della Segretaria al Tesoro americano, Janet Yellen, di fissare un’aliquota globale minima per i redditi societari al 21% possa fare breccia anche in Europa.

Mediaset, B. ci riprova: ora vuole rifare il processo

La notizia è emersa per caso in un’udienza camerale davanti a un Gip di Napoli. Silvio Berlusconi ha presentato istanza di revisione del processo Mediaset per frode fiscale concluso con la condanna a 4 anni. L’istanza è stata rubricata al numero 69/2020 presso la Corte d’Appello di Brescia, come documentato dalla stampa di una pec spillata a una memoria finita sulla scrivania del gip e catalogata come “allegato 1”. L’informazione era infatti seminascosta tra le carte della disputa legale tra il giudice Antonio Esposito e Giovanni Fiorentino, Domenico Morgera e Michele D’Ambrosio, tre dipendenti di un albergo dell’isola d’Ischia. I tre, impiegati in una struttura del senatore di Forza Italia, Domenico De Siano, hanno accusato Esposito di aver insultato Silvio Berlusconi durante brevi vacanze sull’isola verde con frasi del tipo “bella chiavica Berlusconi e il vostro padrone”. Sarebbe avvenuto in anni precedenti alla sentenza di Cassazione con cui il collegio feriale presieduto da Esposito, il 1 agosto 2013, rese definitiva la condanna del Cavaliere di Arcore. Di quel collegio faceva parte anche il giudice Amedeo Franco, scomparso nel 2019, che nei mesi successivi a quella sentenza chiese e ottenne attraverso il parlamentare ed ex consigliere del Csm Cosimo Ferri un appuntamento con Berlusconi, lo incontrò e in colloqui registrati di nascosto definì la sentenza “una porcheria” frutto “della malafede del presidente del collegio”.

Gli ambienti legali vicini a Berlusconi confermano: l’istanza di revisione è stata depositata nel novembre 2020, “con testimoni, prove e documenti nuovi o non valorizzati nel primo processo”. La vicenda del giudice Franco è presente nell’istanza, “ma trattata solo incidentalmente”. Sono i dati e le prove nuove a costituire il cuore della richiesta di un nuovo processo. I giudici di Brescia potranno ora dichiararla inammissibile, oppure firmare un decreto che fissi la prima udienza del nuovo dibattimento. Nel primo caso, la difesa di Berlusconi tenterà comunque il ricorso in Cassazione.

La difesa di Berlusconi considera ormai preminente il ricorso avanzato presso la Cedu, la Corte europea dei diritti dell’uomo, in cui gli audio del giudice Franco sono stati depositati già nel 2016, con l’intento di dimostrare la non terzietà dei giudici che condannarono Berlusconi. Il governo italiano dovrà rispondere ai quesiti posti dai legali del leader di Forza Italia entro il 15 settembre 2021. Poi, nella primavera 2021, sarà fissata l’udienza oppure chiuso per sempre anche questo tentativo di ribaltare la condanna.

Intanto ieri mattina si è celebrata l’udienza camerale chiamata a discutere della richiesta di archiviazione, formulata dal pm di Napoli Mariella Di Mauro, degli esposti del magistrato in pensione contro i tre dipendenti dell’albergo “Villa Svizzera”. L’esito di questo contenzioso – il giudice Vinciguerra si è riservato – si riverbererà sulla tenuta della ‘teoria del complotto’ e della mancata terzietà dei giudici. Esposito, che sta difendendo coi denti la correttezza del suo operato, ha scritto una opposizione articolata che vede tra i destinatari anche l’avvocato Bruno Larosa, legale dell’entourage di Berlusconi che nel 2014 raccolse le dichiarazioni dei tre lavoratori in verbali di ‘indagini difensive’ poi allegati al ricorso Cedu. Ed è questo uno dei motivi degli ‘strali’ di Esposito, secondo il quale Larosa non poteva raccogliere quei verbali, perché consentiti solo in un perimetro procedurale che ricomprende impugnazioni e istanze di revisione, ma non il ricorso alla Cedu. Larosa, che prima di interrogare i tre lavoratori di Ischia aveva ricevuto da Berlusconi un mandato finalizzato anche a un’eventuale istanza di revisione, attraverso i suoi legali ha depositato una memoria con la quale, per respingere un assunto di Esposito secondo il quale Berlusconi non avrebbe mai fatto istanza di revisione e quindi quei verbali a maggior ragione sono illegittimi, ha rivelato che invece l’istanza di revisione è stata fatta. La memoria ne comunica solo l’esistenza. E non il contenuto. Ovviamente: oppure sarebbe andato in pasto al giudice che firmò la condanna.

Il “corvo” sardo. Pranzo proibito, ci sono foto e video

“Foto e documenti estremamente interessanti”. Così la consigliera regionale M5S della Sardegna, Desirè Manca (in foto), descrive il contenuto della lettera anonima ricevuta ieri. Una missiva, la seconda in un mese, che alimenta il mistero sul famigerato “pranzo di Sardara”, la grande mangiata del 7 aprile in un hotel termale (vietata perché la Sardegna era in zona arancione), alla quale avevano preso parte politici, dg della Regione, manager della sanità e militari. Un festeggiamento “rovinato” dall’arrivo della Finanza. La sorpresa contenuta nella busta numero due è una memory card “che conteneva materiale molto, molto, interessante! Ma non posso rivelarne il contenuto, perché è materia di indagine”, dice Manca. Anche la card, come il primo messaggio, è stata consegnata alla Procura di Cagliari. La procuratrice Maria Alessandra Pelagatti e il sostituto Giangiacomo Pilia hanno già iscritto 5 persone al registro degli indagati. L’ipotesi di peculato, per l’uso dell’auto di servizio, è stata formulata per il comandante del 151° Reggimento della Brigata Sassari, colonnello Marco Granari e il suo vice, il tenente colonnello Mario Piras, per il dg dell’agenzia regionale Forestas, Giuliano Patteri, e per il dg dell’Azienda ospedaliero-universitaria, Giorgio Sorrentino. Su Gennari indaga anche la Procura Militare di Roma per peculato e tentata truffa militare. Omissione di atti d’ufficio è invece l’ipotesi per il comandante della Forestale, Antonio Casula, il capo del corpo che in Sardegna deve fare i controlli anticovid ed evitare assembramenti. Avrebbe sviato il peculato, pur avendo usato l’auto di servizio, perché avrebbe dimostrato di essersi fermato a Sardara di ritorno da una missione ad Alghero.

Ma nell’affaire, pur non indagato, è coinvolto anche il braccio destro del presidente Christian Solinas, Mauro Esu, il cui nome è sparito dal portale della Regione: nelle scorse settimane era stato ascoltato, assieme a una ventina di altri presenti a Sardara, come persona informata dei fatti. Ascoltato anche suo fratello, Stefano, consulente della Regione, anch’egli presente al pranzo.

Reithera, un flop made in Italy ma lo Spallanzani non lo molla

L’Aifa, l’Agenzia italiana del farmaco, ha dato il via libera a luglio 2020. E già a gennaio 2021 il presidente dell’Agenzia Giorgio Palù, a Sky Tg24 dava per molto probabile l’arrivo di milioni di dosi dopo l’estate. Un ottimismo che almeno per adesso appare azzardato. ReiThera, l’azienda di Castel Romano che sta mettendo a punto il vaccino italiano – GRAd-COV2, a vettore virale come AstraZeneca e Johnson&Johnson – in base al piano industriale presentato a Invitalia (l’Agenzia per lo sviluppo d’impresa di cui è ad l’ex Commissario all’emergenza Domenico Arcuri) dovrebbe avviare la produzione entro ottobre.

Un paletto fissato con il contratto di sviluppo, l’incentivo governativo per sostenere gli investimenti produttivi delle aziende in Italia che le ha permesso di accedere a una finanziamento di circa 49 milioni della stessa Invitalia (a fronte di un investimento industriale e di ricerca da 81 milioni) e a cui si sono aggiunti altri cinque stanziati dalla Regione Lazio e 3 dal Cnr. Non solo per lo sviluppo del vaccino ma anche, con la realizzazione di un nuovo stabilimento per la produzione di farmaci. Solo che la scadenza è prossima. E non è ancora iniziata la fase 3 della sperimentazione del preparato. Fase che è tra l’altro la più impegnativa e costosa, come ammette Reithera: dovrà adattarsi a un contesto sanitario, epidemiologico e sociale in rapida evoluzione e confrontarsi anche con l’eventuale impossibilità di condurre studi a fronte dell’avanzamento della campagna vaccinale. Ieri l’azienda, controllata al 100% dal gruppo svizzero Keires, ha comunque incassato la riconferma della partnership con l’Istituto Spallanzani di Roma che sembrava sfumata dopo le parole del direttore scientifico Giuseppe Ippolito, in un servizio di Fuori dal coro di Mario Giordano, su Rete 4: “Non abbiamo fatto la fase 2”, ha detto. Ieri lo stesso Ippolito ha precisato che “lo Spallanzani non si è sfilato dallo studio. La fase 1 è iniziata il 24 agosto 2020, ha dato buoni risultati. La fase 2 – prosegue Ippolito –, è stata condotta con successo con l’arruolamento di circa 1000 volontari in oltre 20 centri del Paese, con un principal investigator dello Spallanzani”. Tutto a partire dal 15 marzo, in 26 centri clinici italiani. “L’Istituto era uno dei centri per lo studio di fase 2 – spiega a sua volta l’azienda – e il coordinating investigator è una figura dello Spallanzani che ha contribuito alla redazione del protocollo”. Il trial, assicura adesso ReiThera, va avanti. Le vaccinazioni sono state tutte eseguite “e il monitoraggio della sicurezza e dell’immunogenicità del vaccino sta proseguendo secondo i piani”. L’azienda poi fa sapere di non voler abbandonare il progetto nemmeno se dal governo arrivasse la richiesta di produrre i vaccini basati sull’mRna. Resta in ogni caso il fatto che la fase 2 non è ancora stata completata e che la fase 3 dovrebbe coinvolgere qualcosa come 10mila persone.

Nel frattempo la diffidenza nei confronti dei sieri a vettore virale non scoraggia i più giovani. In settemila sono stati vaccinati all’Astra Day promosso dall’azienda sanitaria di Caserta. Il prossimo fine settimana sarà la volta del Lazio, con l’Open Day del vaccino anglo-svedese rivolto agli over 40: 21 i centri vaccinali coinvolti solo a Roma.

Rt in soffitta, colore in base a incidenza e tamponi fatti

Il parametro fondamentale per le future restrizioni, che tutti sperano di evitare, sarà l’incidenza, cioè i nuovi casi negli ultimi 7 giorni ogni 100 mila abitanti, che oggi sono 102 a livello nazionale. Sopra i 250 si andrà in rosso, tra 150 e 249 in arancione, tra 50 e 149 in giallo e sotto i 50 in bianco. La novità è che ci sarà un limite minimo di tamponi a seconda delle fasce di rischio, altrimenti basta non fare i tamponi per non avere casi. Altro parametro fondamentale sarà quello degli ospedali: il livello d’allerta scende dal 30 al 20% per le terapie intensive e dal 40 al 30% per i reparti ordinari. Diminuisce il peso di Rt, l’indice di riproduzione del virus che preoccupa le Regioni, ma i tecnici del ministero hanno ottenuto che non scompaia: l’Istituto superiore di sanità prepara il nuovo algoritmo, probabilmente varrà anche l’Rt ospedaliero (basato sulla variazione dei ricoveri) insieme all’Rt calcolato su tutti gli infetti sintomatici che è quello utilizzato finora.

Ieri i ministri Roberto Speranza e Mariastella Gelmini hanno incontrato Massimiliano Fedriga e i presidenti delle Regioni e hanno discusso del lavoro portato avanti dai tecnici nei giorni scorsi. “Il modello usato in questi mesi ha funzionato – ha detto Speranza – ora possiamo adeguarlo dando più centralità a incidenza e sovraccarico degli ospedali”. Non è chiaro se i parametri cambieranno fin da questa settimana, ma è possibile. È improbabile che si decida subito sul coprifuoco alle 23 o alle 24: la cabina di regia è fissata per lunedì anche se oggi in Senato saranno votate le mozioni del centrodestra che vuole abolirlo. Ieri alla Camera il premier Mario Draghi, parlando dei matrimoni, ha spiegato che serve “gradualità” per evitare “nuove impennate nei contagi”. La Lega, che voleva riaprire tutto già la prossima settimana, si accontenta di una data per discuterne. Intanto ieri al Senato è stato approvato un emendamento al dl Covid che limita la responsabilità penale agli operatori sanitari solo in caso di colpa grave. E sul fronte vaccini, il commissario all’emergenza Francesco Figliuolo ha dato via libera alle prenotazioni per gli over 40 da lunedì. Alla Salute intanto arriva il nuovo segretario generale, cioè il numero uno della struttura amministrativa. È Giovanni Leonardi, finora direttore generale dell’Innovazione e della Ricerca, 58 anni, laureato in Scienze politiche, al ministero dagli anni 90, già docente a contratto alla Sapienza di Roma e a Ca’ Foscari a Venezia. Sostituisce Giuseppe Ruocco, che va in pensione. Ruocco, da decenni alla Salute, era stato anche il rappresentante italiano nel pool dei negoziatori dei vaccini della Commissione europea e al centro delle polemiche sul mancato aggiornamento del piano pandemico risalente al 2006. In passato era entrato in contrasto con il viceministro Pierpaolo Sileri per la gestione iniziale della pandemia. E proprio Sileri ieri ha commentato: “Finalmente un cambio di passo”.

Rousseau. Crimi diffida: “Consegni i dati entro 5 giorni”

Il passaggio formale, che nel Movimento sperano sia decisivo, è arrivato ieri: Vito Crimi ha inviato a Davide Casaleggio la diffida “ad astenersi da qualsiasi trattamento dei dati degli iscritti, che non sia finalizzato alla consegna dei medesimi dati al Movimento entro 5 giorni”. C’è quindi un ultimatum piuttosto netto nei confronti dell’associazione Rousseau, che si rifiuta da settimane di consegnare i dati degli attivisti, ritenendo di esserne l’unica titolare, nonché non riconoscendo il ruolo di Crimi come capo politico reggente, in linea con quanto sostenuto da un pronunciamento del Tribunale di Cagliari. La diffida è stata inviata contestualmente al Garante della Privacy, con questa specifica: “Qualsiasi diversa attività di trattamento lo espone alle conseguenze previste dalla legge per i trattamenti illegittimi dei dati”. Un avvertimento che ribalta la tesi espressa nelle scorse ore dallo stesso Casaleggio, il quale sosteneva di non voler consegnare i dati per non rischiare sanzioni. Ieri, intervistato da La7, il socio dell’associazione Rousseau si è riservato di “capire quali sono i poteri del curatore legale” (ovvero l’avvocato nominato dal tribunale di Cagliari che ha “scomunicato” Crimi). “La proprietà dei dati – ha proseguito Casaleggio – è sempre in carico al singolo iscritto che deve essere coinvolto. Solo con il consenso degli iscritti si potrà fare quello che è necessario fare”. Infine, un giudizio tranchant sull’ex premier Giuseppe Conte, leader in pectore del M5S: “Ignoro che idee abbia, per ora ha solo mediato tra M5S, Pd e Lega. Non si è mai intestato una battaglia politica”.

“Il mio M5S ormai non c’è più. Di Draghi seppi già in agosto”

Alessandro Di Battista è l’uomo dell’addio che potrebbe stingere in un arrivederci, l’ex che non puoi maledire perché troppo ingombrante e non troppo ex. “Non me sono andato sbattendo la porta” rivendica. Però sbatte, sempre più spesso, contro pensieri e atti di un Movimento che va in un’altra direzione dalla sua, e che soprattutto sta nel governo di Mario Draghi, a cui lui ha detto no. “Si è trattato di non perdere la stima di me stesso” assicura l’ex deputato in Contro!, il suo nuovo libro in uscita per PaperFirst.

Dopo tre mesi di governo Draghi, sempre certo della sua scelta? Sono successe tante cose nel frattempo…

Assolutamente convinto, questo governo ha accumulato un ritardo colossale sui ristori e soprattutto non si parla più di politica. La pax draghiana l’ha distrutta.

C’è una pandemia ancora in corso. Pesa, no?

C’è un livello di conformismo nel Paese che non c’era neanche con Berlusconi. Dappertutto si adora Draghi. E poi le banche hanno occupato la politica, ormai. Negli Stati Generali del M5S dello scorso novembre avevo posto come tema prioritario il tema del conflitto d’interessi tra politica e istituti finanziari.

Beppe Grillo ha detto sì all’ex presidente della Bce Draghi, e lo ha definito un grillino.

Non mi spiego come abbia potuto dirlo.

Poteva chiederglielo. Quando vi siete sentiti l’ultima volta?

Ogni tanto con Beppe ci scriviamo. Ma sono fatti personali.

Nel suo libro lei scrive: “Fu Luigi Di Maio a dirmi, a fine novembre 2020, che la crisi del governo Conte ci sarebbe stata”. Cosa le disse esattamente?

Luigi mi disse che Matteo Renzi non si sarebbe fermato.

Parlaste anche della possibilità di Draghi premier?

Fonti istituzionali, non del Movimento, mi parlarono per la prima volta di questa eventualità già a metà agosto. Pochi giorni dopo, l’attuale presidente del Consiglio parlò al Meeting di Comunione e Liberazione. Tenne un discorso ordinario, ma che venne commentato con toni di adorazione, neanche fosse Martin Luther King. Per questo scrissi un articolo definendolo “apostolo delle élite”.

Lei racconta anche che, in prospettiva di un Conte ter, le offrirono il ministero delle Politiche giovanili, e che avrebbe accettato. Poi è andata diversamente. Ma il M5S come avrebbe fatto a dire no a Draghi, a prendersi questa responsabilità?

Ero molto dubbioso anche quando dicemmo sì al governo con il Pd. Ma in quel caso, come era avvenuto nell’esecutivo con la Lega, avevamo ancora la maggioranza relativa in Consiglio dei ministri, ovvero il M5S poteva porre il veto a ciò che non voleva. Ora invece nel governo di tutti è minoranza. E questo è un nodo politico.

E il Ponte di Messina, che nodo è? Ieri sul Fatto anche Giuseppe Conte è stato possibilista: “Ho una posizione laica, bisogna studiare le carte”.

Io no. Ogni volta che leggo qualche 5Stelle parlarne mi sento più lontano dal M5S. Mi indigna che si discuta di più del Ponte sullo Stretto che della strage del Ponte Morandi. Ma per fortuna è contraria anche una buona parte del M5S.

Con Conte vi sentite? Dicono che la rivorrebbe nel M5S.

A volte ci scriviamo. E lui sa bene che ciò che conta per me sono le proposte politiche.

Senta, ma il Movimento esiste ancora?

Quello di prima, quello di cui facevo parte, ormai non c’è più. Si sta trasformando, legittimamente, in qualcosa d’altro. E saranno gli elettori a valutarlo.

Conte lo immagina con una sede centrale e filiali territoriali.

Mi interessano più le proposte che le questioni organizzative.

Nel M5S si parla di continuo dei due mandati e di soldi.

Mi dispiace leggere queste cose. Io restituii il cento per cento dell’assegno di fine mandato, e fu un atto di giustizia sociale.

Quando deciderà se rientrare nel M5S?

Come ho già detto, a settembre deciderò se continuare a scrivere in totale libertà o se tornare in politica. Ma è chiaro che potrei riavvicinarmi al Movimento solo se uscisse dal governo Draghi.

Ora partirà la campagna elettorale per le Comunali. Lei sarà con Virginia Raggi, giusto?

Se Virginia vorrà io la sosterrò. Le ho consigliato di rivendicare le tante cose buone che ha fatto a Roma.

Dica la verità, il M5S sosterrà Raggi anche perché aveva paura che la sindaca e lei passaste con Davide Casaleggio…

Il M5S non deve avere paura di me, io sono fuori.

Appunto. Quanti ex 5Stelle la chiamano regolarmente?

In diversi, sia ex che eletti ancora dentro. Ma io non sto facendo operazioni politiche.

Di certo non è favorevole all’alleanza giallorosa. “Il bipolarismo uccide la volontà di cambiamento” scrive.

Se fai parte di una coalizione non puoi criticare i tuoi alleati. Guardi Giorgia Meloni, che tace sul caso dei voli della Casellati.

Non si governa da soli.

Un conto è governare, un’altra è un’alleanza strutturale. E io sono contrario.

“GdF amica”: SuperMario difende e salva Durigon (Lega)

Nessuna intenzione di andare allo scontro con la Lega e quindi no alla revoca delle deleghe al sottosegretario all’Economia Claudio Durigon. Mario Draghi, nel suo primo question time alla Camera, ha deciso di glissare sul caso che riguarda il leghista che, come documentato da Fanpage.it, era stato ripreso a parlare dell’inchiesta sui 49 milioni della Lega dicendo: “Quello che indaga della Guardia di Finanza… il Generale… lo abbiamo messo noi”. Ma di fronte all’interrogazione degli ex grillini di “L’Alternativa c’è” a prima firma Andrea Colletti in cui si chiedevano le dimissioni di Durigon, il premier non ha mai citato questa possibilità e spiegato che delle indagini si sono occupati “ufficiali con il grado di colonnello” e “nessun ufficiale generale”. Poi ha detto che il 29 aprile scorso “la Procura di Milano ha confermato piena fiducia ai militari della Guardia di Finanza, evidenziandone la professionalità, il rigore e la tempestività negli accertamenti loro delegati”.

Nella sua risposta all’interrogazione, il premier non ha mai fatto riferimento alla Lega. D’altronde Durigon è un fedelissimo di Salvini e un portatore di voti in Lazio tant’è che, almeno fino all’inchiesta, il suo era il nome in pole per correre da candidato governatore del centrodestra nel 2023. E quindi il premier non può permettersi di aprire una frattura nella maggioranza. L’intervento di Draghi però non è piaciuto a Colletti che gli ha risposto duramente accusandolo di “complicità”: “In quale Paese civile un sottosegretario rimarrebbe al suo posto nonostante quello che è successo?” ha chiesto l’ex M5S. Ora resta in piedi la mozione del M5S sulla revoca dell’incarico a Durigon ma non è ancora stata calendarizzata e difficilmente lo sarà nel breve periodo: la maggioranza si spaccherebbe.

Redditi: per Draghi 581mila euro, Colao 2 milioni di sterline

Redditi che superano abbondantemente il mezzo milione. Con un imponibile per la precisione di 581 mila euro nel 2019 di cui 176 mila e 322 mila da lavoro dipendente o assimilati e altri 82 mila euro e spicci da attività di lavoro autonomo “non esercitato abitualmente”. È l’importo dichiarato l’anno scorso al fisco dal presidente del Consiglio Mario Draghi e pubblicato a 24 ore dalla scadenza di legge sul sito del governo insieme al curriculum che ripercorre la sua carriera fino a novembre del 2019 quando ha lasciato la Banca centrale europea, dove era arrivato nel 2011 dopo l’incarico di cinque anni come governatore della Banca d’Italia.

Prima di Palazzo Koch, l’incarico dal 2002 al 2005 in Goldman Sachs dopo essere stato direttore Generale del Tesoro (1991-2001), presidente del Comitato economico e finanziario della Comunità Europea (2000-2001) e presidente del Working Party 3 dell’Ocse (1999-2001). Dal 1984 è direttore esecutivo della Banca Mondiale fino al 1990 quando terminò anche il suo incarico di professore di Economia all’Università di Firenze. Oltre ai prestigiosi incarichi, di tutto rispetto pure la situazione patrimoniale: il premier ha nel suo portafoglio 10 fabbricati, tre in proprietà esclusiva (di cui 1 a Londra), 5 di cui è proprietario al 50 per cento e due al 33 per cento. E 6 terreni in Italia e di cui è comproprietario al 33 per cento. Ha inoltre 1 quota da 10mila euro nella società per azioni semplice “Serena”. I suoi familiari non hanno consentito, com’è loro facoltà, alla pubblicazione dei loro redditi e patrimoni. Per l’incarico a Palazzo Chigi, Draghi ha dichiarato il 5 maggio di non percepire alcun compenso.

Il suo uomo macchina, il sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio dei ministri con funzioni di segretario del Consiglio medesimo, Roberto Garofoli ha pure lui rinunciato al compenso: ha infatti optato per continuare a percepire quello da magistrato che gli viene erogato dal Consiglio di Stato. L’anno scorso ha dichiarato al fisco oltre 212mila euro di reddito complessivo. Anche lui è proprietario di diversi beni immobili: 8 fabbricati, di cui 5 al 100 per cento, 1 al 50 per cento e due nude proprietà sempre al 50 per cento. Ha inoltre nel suo portafoglio 875 azioni di Snam, 2625 di A2A, 973 di Enel, 1500 di Terna 503 di Telecom 175 di Italgas e 70 di Tiscali.

È di “soli” 191 mila euro invece il reddito dichiarato dall’ex capo della Polizia è oggi sottosegretario con delega ai Servizi, Franco Gabrielli che nel 2020 ha dichiarato un reddito imponibile di 191 mila euro: nel suo patrimonio anche un immobile e un terreno a Castiglione d’Orcia (più uno scooter 150). Anche lui ha dichiarato di non percepire alcun compenso connesso all’incarico a Palazzo Chigi.

Tra le dichiarazioni sul sito del governo anche quella di Vittorio Colao, ministro per l’Innovazione tecnologica e la transizione digitale che anche lo scorso anno ha dichiarato redditi di tutto rispetto. Le tasse Colao nel 2019 le ha pagate prevalentemente a Londra: per l’incarico di ceo di Vodafone ha denunciato al fisco inglese un lordo di oltre 2 milioni di sterline a cui si aggiungono circa 5mila euro di imponibile dichiarati in Italia. Corposa anche la situazione patrimoniale: 12 fabbricati di cui è proprietario (o comproprietario) o ha l’usufrutto oltre a tre terreni. Infine due auto, una in Italia (una Volskwagen Touran del 2014) e una a Londra (una Mini Countryman del 2020).

Vecchione via e Mancini resta. Il premier fa felici i due Matteo

A Palazzo Chigi assicurano che l’audizione di martedì davanti Copasir, durante la quale Gennaro Vecchione ha difeso il suo caporeparto Marco Mancini e minimizzato l’incontro all’autogrill con Matteo Renzi rivelato da Report, non ha avuto alcun peso. Certo non ha fatto salire le quotazioni del direttore del Dis, il Dipartimento per le informazioni e la sicurezza che coordina le agenzie di intelligence, che era stato nominato da Giuseppe Conte e sarebbe scaduto tra un anno. Ma insomma, secondo diverse fonti qualificate il destino di Vecchione era segnato fin da quando Mario Draghi si è insediato alla Presidenza del Consiglio e ha scelto Franco Gabrielli, ex capo della polizia e del Sisde poi mutato in Aise, come sottosegretario delegato ai Servizi: doveva essere a giugno, alla scadenza del mandato del numero uno dell’Aise Mario Parente, che è stato già confermato ieri per un altro anno. E invece lunedì Draghi ha fatto sapere che avrebbe accelerato e ieri è arrivato l’addio a Vecchione, prefetto e prima generale di divisione della Guardia di Finanza, che poi era l’ultimo vicino a Conte rimasto in una posizione di rilievo.

Lo stesso direttore del Dis aveva già capito da un pezzo, tanto più quando Gabrielli all’inizio di inizio aprile aveva cominciato a parlare del progetto di un’agenzia specifica per la cybersicurezza, sempre a Palazzo Chigi ma sottratta alla gestione del Dipartimento, con “un salto di qualità tra pubblico e privato fondato su trasparenza e correttezza di rapporti”. Perché Vecchione, che in questi anni ha avuto rapporti non sempre agevoli con i vertici operativi di Aise e Aisi, puntava proprio su quello, che poi è il business fondamentale dell’intelligence degli anni a venire. Per lo Stato come per le grandi aziende.

Al posto dell’ex generale arriva Elisabetta Belloni, finora segretario generale della Farnesina. Diplomatica di lungo corso entrata al ministero degli Esteri negli anni 80, poi capo dell’unità di crisi e infine ai vertici. È andata a scuola dai gesuiti del Massimo di Roma come Draghi e come lui ha un curriculum che parla da solo.

I primi a esultare per la nomina sono stati Matteo Renzi e Matteo Salvini, che non vedevano l’ora di veder cadere il direttore scelto da Conte. Il meno contento naturalmente è l’ex presidente del Consiglio. Naturalmente tutti ringraziano Vecchione e fanno i complimenti e gli auguri a Belloni. Lo stesso Luigi Di Maio alla Farnesina ha stabilito un ottimo rapporto con lei ora può nominare segretario generale Ettore Francesco Sequi, il suo capo di gabinetto, che ha svolto lo stesso ruolo con Federica Mogherini e Paolo Gentiloni ed è stato ambasciatore a Parigi e a Pechino.

Vito Crimi, capo politico del M5s, ricorda però anche le “tensioni rispetto al ruolo della presidenza del Copasir”, il comitato parlamentare di controllo sui Servizi, che i Cinque Stelle e decine di costituzionalisti chiedono di assegnare all’opposizione, come è sempre stato, cioè a Fratelli d’Italia, mentre la posizione è tuttora occupata dal leghista Raffaele Volpi, che ora fa parte della maggioranza. Adolfo Urso di Fd’I non partecipa alle riunioni da tempo. Ma c’è speranza che la questione venga risolta al più presto.

Resta aperta anche quella di Mancini, che aspirava a una vicedirezione operativa e non l’ha avuta ma al Dis guida tuttora il reparto che si occupa del bilancio e quindi dei fondi di Aisi e Aise. L’incontro con Renzi all’autogrill fa discutere da 10 giorni, Vecchione non ha chiarito granché e il Copasir decide oggi se convocare in audizione anche i due interessati. Tutti si domandano quale urgenza ci fosse per un incontro il 23 dicembre, sotto Natale, in una location curiosa come l’autogrill di Fiano Romano. Gabrielli, d’intesa con Draghi, ha fatto una direttiva che consente gli incontri tra gli appartenenti ai Servizi e i politici solo per motivi di servizio e con l’autorizzazione preventiva del direttore, che non c’era. E Mancini potrebbe essere costretto a fare un passo indietro.