Recovery, i “migliori” sono in ritardo e il Colle si sveglia

Il governo dei migliori è in ritardo sul Recovery. Un ossimoro, i migliori in ritardo, che lambisce pericolosamente l’ampio perimetro della maggioranza proprio su una della due ragioni (con le vaccinazioni) della sua nascita: la ricostruzione post-pandemica incarnata dall’acronimo Pnrr, Piano nazionale di ripresa e resilienza. Ed è per questo che ieri pomeriggio il capo dello Stato Sergio Mattarella ha sentito l’esigenza di incontrare i presidenti delle Camere, Maria Elisabetta Casellati e Roberto Fico, dal momento che il Parlamento a breve sarà alluvionato da un’impressionante mole di provvedimenti decisivi: due o tre decreti sul Pnrr tra governance, P.A. e semplificazioni ambientali; il decreto Sostegni bis da decine di miliardi; le controverse leggi delega su giustizia e concorrenza. Tutta roba che va approvata in fretta e, nel caso delle ultime due “riforme”, senza stravolgere l’impianto concordato con l’Ue.

Ma i timori del Colle sono ad ampio raggio e non riguardano certo solo la velocità delle Camere, ma anche gli adempimenti che spettano al governo. Una esatta ricognizione dei passaggi che ancora mancano ha convinto Mattarella a chiamare Casellati e Fico al Quirinale. E l’avrebbe fatto per rispondere a un appello dello stesso premier Mario Draghi, spesso ingabbiato dalle lotte interne alla sua maggioranza. Questo un altro nodo politico: Draghi da solo non riesce a dare quell’accelerazione che tutti i suoi aedi invocavano alla nascita dell’esecutivo. E quindi, svaniti i suoi presunti poteri taumaturgici, si è resa necessaria la sponda del Colle, che rinnova la vulgata del governo Mattarella-Draghi. Del resto quando all’inizio di febbraio il presidente della Repubblica convocò l’ex governatore Bce per dargli l’incarico, specificò che la strada maestra sarebbe stata quella delle elezioni anticipate, ma che proprio per la necessità di non perdere tempo e fare presto sul Recovery Plan era meglio avere un governo nel pieno delle sue funzioni.

Dopo tre mesi, però, SuperMario è in ritardo, anche (forse soprattutto) per gli impegni molto stringenti pretesi dalla Commissione Ue: “Ci sono duemila comitati e ventimila idee, ma non uno straccio di testo formale: ad oggi sappiamo che assumeremo 300 persone al Tesoro per fare i controlli, ma non si sa chi progetterà e chi dovrà spendere”, dice al Fatto un alto funzionario pubblico. Qual è il problema? Il Pnrr deve – nel senso che Bruxelles valuterà anche questo – indicare la mitica governance, che però non sono solo le cabine di regia a Palazzo Chigi o il comitato tecnico al Mef: va chiarito per ogni programma di spesa quale la linea di comando, quanto e di che tipo il personale necessario, quali le semplificazioni adatte a spendere cifre ingenti in tempi strettissimi. Andando nel dettaglio: non si sa ancora quali norme del codice del appalti e di quello ambientale togliere di mezzo, quale sistema progettuale scegliere e affidandosi a quali tecnici, chi avrà il potere di firma e con quali guarentigie, chi avrà il potere sostitutivo in caso di ritardi. Come dicono gli angloitaliani, l’execution o “messa a terra dei progetti” è in alto mare e la cosa è nota nello stesso governo se è vero che lunedì, in una riunione tecnica, un ministro di primo piano ha spiegato che se si parte a fine giugno, dopo il via libera formale dell’Ue, non c’è fin d’ora speranza di rispettare i tempi.

In tutto questo è pure in corso, ormai da settimane, una sorta di guerra fredda tra i ministri Brunetta e Cingolani: il primo vuole che il suo “decretone semplificazioni e P.A.” sia il veicolo in cui tutti inseriscono le loro proposte; il secondo ha presentato un testo a Palazzo Chigi dedicato alle sole semplificazioni ambientali e che mette al centro il suo ministero; l’arbitro Mario Draghi rassicura entrambi, ma il quarto uomo Roberto Garofoli pare più in sintonia col berlusconiano. Intanto il tempo passa e Mattarella si preoccupa.

Acqua sporca

Fa discutere, ma anche ridere, l’ideona dell’Ue di annacquare il vino contro l’abuso di alcol. Ma nessuno si accorge che quella trovata demenziale è alla base della sentenza della Consulta sull’ergastolo “ostativo” e delle cosiddette riforme della Giustizia escogitate dalla Cartabia. Dice la Corte che pure gli ergastolani possono uscire anzitempo dal carcere anche se hanno commesso stragi e collaborano con la giustizia. E allora che ci sta a fare l’ergastolo, che per definizione è “fine pena mai”? E che deve fare un criminale per restare dentro sino alla fine, se non bastano neppure le stragi e il mancato pentimento? Invece di abolirlo, hanno inventato l’ergastolo annacquato. Cioè finto. Stesso discorso per le tre presunte riforme della giustizia. La prima è la pretesa incostituzionale di abolire l’appello, ma solo sulle assoluzioni: le condanne resterebbero appellabili. Come se gli errori giudiziari da correggere non fossero anche le assoluzioni dei colpevoli. Anziché abolire l’appello tout court, si aggiunge un po’ d’acqua e morta lì. La seconda è il Parlamento che decide quali reati le Procure devono perseguire e quali tralasciare: invece di depenalizzare quelli inutili, i politici li tengono nel Codice penale ma decidono di lasciarli impuniti (intanto ne sfornano di nuovi, vedi legge Zan). Un po’ d’acqua per allungare il brodo e il gioco è fatto.

La terza è la prescrizione che, cacciata dalla porta con il dl Bonafede, rientra dalla finestra con questo geniale marchingegno: si fissa per legge la durata massima dei processi e poi, se uno dura anche un giorno di più, la prescrizione torna a galoppare. L’idea di sveltire i processi fissandone la durata per legge è roba da menti malate: un conto è chiamare i giudici a rispondere dei ritardi (dovuti spesso alla loro pigrizia, più spesso a carenze di personale e procedure farraginose, ancor più sovente a manovre dilatorie degli avvocati); un altro è scrivere che i processi devono durare di meno per farli durare di meno. E, se durano di più, premiare con la prescrizione gli imputati che li han fatti durare di più. Così i colpevoli avranno tutta la convenienza a farli durare di più, in barba alla tabella di marcia della ministra. È la blocca-prescrizione diluita con acqua (sporca). Poi, naturalmente, tutti a strillare perché i terroristi Di Marzio e Bergamini non possono più essere estradati dalla Francia perché sono riusciti a restare latitanti quanto basta a far scattare la prescrizione (non del reato, ma della pena). Il bello è che l’estradizione, dopo Bonafede, l’ha chiesta la Cartabia. E i più indignati sono i partiti e i giornali di destra: gli stessi che rivogliono la prescrizione per tutti. Ma quelli l’acqua ce l’hanno al posto del cervello.

Dio è un musicista: “Rock’n’soul” racconta la spiritualità nelle note

“Qualcuno, nel momento in cui ha visto i segni sul pentagramma librarsi in volo e diventare cibo per l’anima, è arrivato a definire Dio un musicista”. E non serve scomodare Pitagora, filosofo difficilmente avvicinabile al pensiero debole della narrazione cristiana, per affermare che attraverso l’identità di numero e suono si può comprendere il passaggio da caos a cosmos, una visione, a ben guardare, senz’- altro più attendibile di quella predicata dalla vulgata creazionista. Poi, certo, alcuni generi di musica sono stati anche associati a Satana, come il Blues e il suo diretto discendente, il Rock and roll: memorabile, al riguardo, nell’Italia bigotta dei Musicarelli, lo sforzo della propaganda dell’Istituto Luce con il lancio di slogan tipo “oltre al cancro e all’infarto i nostri tempi hanno un terzo malanno: il rock and roll”… (https://youtu.be/2iT48eurqoA).

La musica è da sempre associata al divino per quel potere intrinseco che ha in sé, talmente profondo da riuscire a connettere l’uomo con gli dei e con l’intero universo. “Il suono stesso è ritenuto di origine sacra e la musica qualcosa di trascendente, sia nella sua forma vocale sia in quella strumentale”, afferma Noemi Serracini, autrice e conduttrice radiofonica a Radiofreccia, che presenta il suo saggio intitolato Rock’n’soul. Nel libro edito da Arcana (pagg. 176, 15) le storie di vita di dieci star della musica si mescolano ai loro percorsi interiori e spirituali, in un’indagine sul processo che alimenta la voglia di vita, e testimonia la crescita umana e spirituale degli artisti che in esso sono studiati.

Investigando sulle esperienze di George Harrison, Patti Smith, Leonard Cohen, Joni Mitchell, Bob Dylan, Tori Amos, Yusuf / Cat Stevens, Sinéad O’ Connor, Nick Cave e PJ Harvey – cantautori e cantautrici controcorrente accomunati dalla costante ricerca di una verità che desse valore alle loro esistenze –, Noemi Serracini tenta di cogliere il momento in cui la consapevolezza di uno spazio profondo si incontra con la presa di coscienza della dimensione spirituale, che porta poi l’artista a tradurre il tutto in un’opera. Del resto, non sempre ci è concesso di conoscere gli istanti in cui nasce una canzone, il percorso esistenziale che fa sanguinare l’artista e lo spinge a cercare un significato da dare alla vita. Con Rock’n’soul il lettore arcigno ha la possibilità di afferrare lo spettro poetico che capta frasi e consapevolezze giunte fino a noi dalla stratificazione di millenni di coscienza umana, sottoforma di canzoni.

Tulipe, “La vita davanti a sé” dell’adolescente Romain Gary

Come il primo amore, il primo romanzo non si scorda mai: ahinoi. Spesso gli scrittori restano attaccati alle proprie opere giovanili come edere infestanti al muro, anche se il muro è di scarsa fattura e ovunque crepato: a questo attaccamento infantile e patetico non sfugge ahinoi il glaciale Romain Gary (1914-1980), un uomo dalla sensibilità esasperata, benché celata, come tutti i lituani di Vilnius.

Scoperto e pubblicato solo nel 2014 in Francia, l’esordio letterario del franco-lituano è uscito da poco anche in Italia, per i fedelissimi tipi di Neri Pozza e con la curatela di Riccardo Fedriga: Il vino dei morti, titolo, fu ultimato nel 1937, quando l’autore aveva 23 anni, anche se nell’aletta di copertina gliene si attribuiscono 19; probabilmente come data di inizio della stesura. “Tutto Ajar (lo pseudonimo più fortunato di Gary, con cui firmò quattro romanzi, ndr) è già in Tulipe” (il protagonista del Vino dei morti, ndr): così ripeteva lo scrittore, parlando del suo parto adolescenziale, embrionale quanto grezzo, eppure brodo di cultura dei germi della sua produzione e poetica, che gli valsero ben due Premi Goncourt. Lo si nota nelle note a piè di pagina, che rimandano accuratamente a questo o quel successivo romanzo, da Educazione europea a Mio caro pitone, da Pseudo a La vita davanti a sé, il capolavoro di Gary. A ritroso, dunque, Tulipe ha “la vita davanti a sé” di un artista di genio, che è stato anche blasonato aviatore di guerra, diplomatico, uomo di mondo per le cronache rosa e nere (vedi alla voce: matrimonio con Jean Seberg), intellettuale e scrittore pluripremiato.

Il vino dei morti è molto lontano dalla Letteratura, ma valido come esperimento, compresi gli inevitabili scivoloni e ardori giovanili per i “capelli rizzati in testa” e i “teschi” vari. Il set è un cimitero e il protagonista, Tulipe appunto, un piscione alcolizzato che attraversa l’aldilà come in gita scolastica: uno spasso. È una Spoon River carnascialesca quella di Gary, un circo di freak, cadaveri e mostri bizzarri: ministri obesi – morti per un quarto d’ora di digiuno –; redattori-camerieri; prostitute tirchie; poliziotti sbronzi; Colombine e Pierrot; scambisti; mogli “porche, maiale e straccione”; suicidi derelitti nelle fosse comuni; vermi parlanti e sputacchianti; nobili crucchi; Cristi crudeli; blasfemi e bestemmiatori; divinità tossiche.

Dovunque, “chiappe, culi, tette e passere al vento”: non proprio l’umorismo yiddish che Gary saccheggerà da adulto, quanto il turpiloquio di un ragazzotto che ha appena finito di leggere Viaggio al termine della notte di Céline (uscito nel 1932, cinque anni prima) o è restato affascinato dal viaggio di Woyzeck nell’“inferno freddo”. Lo scrittore non abbandonerà mai il gusto per le volgarità, ma si farà via via più raffinato e ironico: “Il culo in Francia è la cosa più importante insieme a Luigi XIV ed è per questo che le prostitute sono perseguitate, perché le donne oneste lo vogliono tutto quanto per sé”, si legge nella Vita davanti a sé.

Per tutta la sua vita il romanziere è stato soprattutto un burlone e truffatore, un sabotatore della finzione letteraria, reinventandosi di volta in volta con uno pseudonimo diverso, manco fosse Pessoa: è stato Roman Kacew (il suo vero nome); poi Romain Gary; Émile Ajar; Fosco Sinibaldi; Shatan Bogat… Talvolta si definiva “cosacco e tartaro, incrociato con un’ebrea”; talaltra rivendicava invece le origini proteiformi e cangianti, giocando con gli eteronomi: “Io non mi sono fatto da solo. C’è l’eredità di papà e mamma, l’alcolismo, la sclerosi cerebrale e, un po’ più su, la tubercolosi e il diabete. Ma bisogna risalire ancora più in alto, perché è alla fonte originaria che si trova il vero senza-nome. Fin dall’uscita della mia prima opera d’affabulazione si vociferava che io non esistessi davvero e che dovevo essere senza dubbio un personaggio fittizio. Si è persino ipotizzato che fossi un’opera collettiva. Giusto. Sono un’opera collettiva”.

L’autore-camaleonte fu smascherato definitivamente solo da cadavere, come nel Vino dei morti: era il 1981 e usciva Vita e morte di Émile Ajar, in cui Gary ricostruiva l’intera sua truffa letteraria. “Bisogna risalire all’origine del male per guadagnarsi il diritto di dichiararsi non colpevoli”. L’anno prima si era sparato alla tempia: indossava una vestaglia rossa per camuffare – ancora una volta – il sangue di un suicida.

Personaggi in Cercas d’autore: “Tutti i romanzi sono gialli”

“Scrivere un romanzo è formulare una domanda complessa nella forma più complessa possibile”, dice Javier Cercas per sintetizzare il suo approccio alla letteratura. Extremeño di nascita, ma cresciuto in Catalogna e residente a Barcellona, lo scrittore e filologo deve la sua notorietà al genere polimorfo della non fiction, di cui è stato un interprete riconosciuto per 15 anni: da Soldati di Salamina (2001) a Il monarca dell’ombra, uscito nel 2018. Da qualche anno, Cercas è entrato nella terra del giallo, creando il suo detective, il “buon cattivo poliziotto” Melchor Marín, prima con Terra alta (2018) e ora con Indipendenza, da poco uscito per Guanda (il suo editore storico in Italia). Abbandonata l’autofiction, troviamo la terza persona, il narratore esterno e un tema in primo piano: la giustizia.

Javier Cercas, è nel suo “periodo giallo”?

Quando ho terminato Il sovrano delle ombre (incentrato sulla storia di Manuel Mena, falangista parente dell’autore, ndr) ho capito di essere arrivato alla fine di un ciclo e di avere davanti il peggior pericolo per uno scrittore: ripetersi, diventare un imitatore di se stesso e trasformare quella che inizialmente è una necessità in una formuletta. È la morte dello scrittore. Così per non morire ho voluto in qualche modo diventare un altro scrittore.

In realtà si potrebbe dire che lei ha sempre scritto gialli…

In tutti i miei libri c’è un enigma e qualcuno che vuole decifrarlo, ma non mi interessa catalogarli. Borges diceva che tutti i romanzi sono polizieschi. Chi pensa che il giallo sia un genere minore non sa cos’è la letteratura. Non esiste letteratura minore o maggiore, ma solo forme migliori o peggiori di usare i generi. Un’altra superstizione, nata a fine 800, sostiene che la buona letteratura sia minoritaria. Invece Cervantes, Dickens, Balzac, Dostoevskj e tanti grandi autori del passato erano popolari. La cosa migliore che può succedere alla buona letteratura è diventare popolare, cioè rilevante per la gente.

Dove pensa che la porterà questo nuovo ciclo narrativo?

Lo saprò solo alla fine. Scrivere è andare “au bout de l’inconnu pour y trouver du nouveau” (“alla fine dell’ignoto per trovare qualcosa di nuovo”, ndr), come diceva Baudelaire. Per ora, la mia idea è che il nuovo ciclo sarà un grande romanzo su Melchor Marin composto da quattro o cinque libri.

Il mondo letterario è affollato di detective: come ha lavorato per rendere il suo originale?

Marín non assomiglia agli altri detective perché è astemio (quando beve c’è un problema, ndr), è un padre amorevole e ama leggere romanzi dell’800, ma la verità è che non cercavo di essere originale. All’inizio neanche sapevo che sarebbe stato un poliziotto. Quello che mi ha spinto a scrivere è stata la ricerca su una personalità complessa di un uomo pieno rabbia e di dolore che, però, è anche un puro, come Don Chisciotte è insieme pazzo e lucido.

Si ispira a qualche fatto reale?

Una cosa c’è, ed è essenziale. Durante gli attentati jihadisti del 2017 a Barcellona e Cambrils, un poliziotto ha ucciso da solo i quattro assalitori di Cambrils. La polizia tiene segreta la sua identità per motivi di sicurezza. Ho capito che Marín era quel poliziotto.

Indipendenza, come Terra alta, riflette sulla vendetta e sulla giustizia…

La domanda centrale del ciclo su Melchor Marín è se è legittima la vendetta quando la giustizia non ci fa giustizia. Ovviamente nella vita reale la risposta è no. Ma la letteratura ci porta a empatizzare anche con ideologie e persone che consideriamo abiette. Io voglio che il lettore stia dalla parte di Marín quando si vendica degli assassini della madre, proprio come empatizziamo con Riccardo III, Raskolnikov, Michael Corleone… In definitiva, la letteratura è il luogo di quello che George Bataille chiamava “la parte maledetta”, apre abissi morali che mettono in dubbio le nostre certezze.

Perché ha scelto di inserire tra questi temi anche la crisi politica scatenata dal movimento indipendentista catalano nel 2017?

Non è un tema, perché non ne faccio una cronaca, ma è senz’altro il carburante del mio nuovo periodo narrativo. Tra le varie ragioni del titolo, c’è il fatto che Indipendenza è la storia di un uomo che cerca la sua indipendenza individuale in una forma sbagliata. Quest’uomo è Ricky Ramírez, il protagonista segreto del libro. Ramírez si avvicina all’élite economica di Barcellona che, come tutte le élite, prima lo usa per i suoi scopi perversi e poi se ne libera come carta igienica. La sua vicenda è la metafora della Catalogna degli ultimi anni. Parte della società è stata strumentalizzata da un’élite che, usando risorse, media e l’utopia illusoria di un Paese più giusto e più prospero, ha spinto la gente in piazza per fare pressione sul potere centrale e servire i suoi interessi. Salvo filarsela quando la situazione è sfuggita di mano. Questo ritratto a molti è parso duro, io dico che è una fotografia realista dell’irresponsabilità, del cinismo e dell’ipocrisia dell’élite catalana. Che non è diversa dalle altre élite mondiali: diceva Tolstoj, “dipingi il tuo paesino e dipingerai il mondo”. La democrazia è il nostro antidoto contro questo potere tossico. La democrazia e leggere Cervantes.

Nazionalismo e jihadisti: una polveriera per Putin

Anche se l’arma usata ieri per eliminare giovani vite nella scuola di Kazan non è stata imbracciata da un radicale islamico, la regione a maggioranza musulmana che Ivan il Terribile conquistò nel 1552 rimane una polveriera. La distruzione delle guglie delle moschee e la russificazione forzata dei tatari della zona cominciarono all’epoca dello zar moscovita, che impose la legge della Capitale russa, la lingua slava e soprattutto la croce ortodossa ai musulmani del khanato sul Volga. In Tatarstan – letteralmente “terra dei tatari” –, ogni ottobre i cittadini ricordano la Xater kone, il giorno della memoria della “presa di Kazan”, un anniversario non più illegale da quando un tribunale della Repubblica ha dichiarato illegittimo il divieto di celebrazione imposto dell’amministrazione locale, che ambiva a sopprimere le sempre più numerose tensioni sociali.

Se l’inizio dei conflitti nazionalistici e religiosi tra tatari musulmani e russi ortodossi risale a secoli fa, a far risorgere nei giovani d’oggi l’anima dell’antica etnia turcica delle steppe, a diffondere l’insegnamento della lingua tatara, a fomentare ambizioni indipendentiste della Repubblica e ad organizzare manifestazioni e marce spesso apertamente anti-russe, sono attivi soprattutto due movimenti: Atpc e Azatlyk, che hanno risvegliato la coscienza etnica della popolazione, a lungo rimasta seppellita sotto la cenere negli anni sovietici. Da quando l’Unione è collassata trent’anni fa, per le strade si sono visti sempre meno busti di Lenin e sempre più moschee, che spesso hanno ospitato predicatori wahabiti in arrivo dalla penisola arabica. La Repubblica a mille chilometri a est di Mosca è un importante satellite della galassia jihadista. Già strategico bacino di guerriglieri che hanno combattuto nei due conflitti ceceni, il Tatarstan è anche patria di miliziani che hanno risposto all’appello dello Stato islamico e che hanno raggiunto prontamente, proprio come numerosi cittadini di Daghestan e Cecenia, la terra mediorientale negli ultimi anni. Sermoni e telecamere: per sorvegliare mufti, imam e fedeli, l’Fsb, (servizi segreti russi), ha istallato in molti templi di Kazan il suo occhio digitale, che non sempre però ha funzionato. Gli ultimi cinque membri della Hizb ut-Tahrir, nucleo che mira alla riunione dei musulmani in un unico califfato e che la Russia ha dichiarato illegale nel 2003, sono stati arrestati a novembre 2020: hanno raggiunto dietro le sbarre altri islamisti condannati a decenni di carcere. Avviluppata dalle mire espansionistiche di Erdogan, la Repubblica tatara ha alimentato a lungo anche con la Turchia un legame e un volume di scambi commerciali che ha quasi raggiunto il miliardo di dollari, finché Mosca non ha posto il suo veto su autonomia ed accordi commerciali. È in Russia, proprio in Tatarstan, e non il Turchia o nelle ricche petro-capitali del Golfo, che si trova il Corano più grande al mondo: pesa 800 chili ed è costato oltre un milione di dollari. Stampato in Italia, è stato commissionato per “la salvaguardia dell’eredità tatara” e presentato al pubblico dal presidente della Repubblica con una speciale cerimonia qualche anno fa nella moschea Qol Sharif, ricostruita nel 2005 per omaggiare una moschea distrutta da Ivan il Terribile molti secoli prima. Il mufti di Qol Sharif ha denunciato alcune russe che facevano ginnastica in abbigliamento “sacrilego” nei pressi del tempio solo una settimana fa: prima del sangue innocente versato tra i banchi della scuola, era questa l’unica notizia per cui spiccava nei titoli dei giornali della Federazione la “terra dei tartari”.

Non solo Hamas, la guerra gioca pure per Netanyahu

Ventotto sono state ieri le vittime dei 140 attacchi israeliani a Gaza, tra cui dieci bambini e più di 170 i feriti, mentre Hamas e la Jihad islamica hanno fatto piovere 480 razzi sulle comunità israeliane lungo il confine, provocando la morte di due donne e circa 70 feriti nella città di Ashkelon. L’esercito israeliano ha rinforzato il presidio al confine e invitato i residenti a restare vicino ai rifugi antiaerei fino a nuovo avviso. Un ordine che non arriverà a breve, secondo quanto dichiarato dallo stesso premier Benjamin Netanyahu e dal ministro della Difesa, Benny Gantz, che secondo quanto riportato ieri da Chanel 12 avrebbero respinto la richiesta di cessate il fuoco avanzata da Hamas. “Il movimento islamista non ha ancora pagato il giusto prezzo per i suoi attacchi contro Israele”, è stata la riposta di Tel Aviv agli “intermediari arabi”.

Israele “intensificherà la potenza e il ritmo degli attacchi” contro la Striscia di Gaza, ha chiarito anzi Netanyahu. “Siamo nel mezzo di una campagna. Da ieri pomeriggio l’esercito ha eseguito centinaia di attacchi contro Hamas e la Jihad islamica a Gaza. Abbiamo colpito comandanti e molti obiettivi di alta qualità”, ha aggiunto Bibi a cui ha fatto eco Gantz spiegando che “l’obiettivo è colpire duramente Hamas, indebolirlo e fargli rimpiangere la decisione” di lanciare missili contro Israele. Chiamata “Guardiano dei muri”, l’operazione militare durerà diversi giorni con le forze aeree, terrestri e navali israeliane che bombarderanno obiettivi di Hamas e la Jihad islamica. “Ogni bomba ha il suo indirizzo. Continueremo nelle prossime ore e i prossimi giorni. È difficile dire quanto tempo ci vorrà”, ha rimarcato Gantz. I massicci attacchi dell’aviazione di Israele secondo il portavoce militare Hidai Zilberman, hanno visto l’entrata in azione anche di 80 velivoli, compresi gli F-35. Un attacco “di una portata che non si vedeva da anni”. In uno di questi è rimasto ucciso Iyad Fathi Faik Sharir, comandante delle unità anticarro di Hamas. A confermarlo è stata la Jihad che ha annunciato l’uccisione di due suoi comandanti. “Se il nemico persisterà a bombardare grattacieli civili, allora Tel Aviv avrà un appuntamento con un duro attacco missilistico peggiore di quanto accaduto ad Ashkelon”, ha minacciato Hamas riferendosi alla “Operazione Guardiani delle Mura”. In serata Haaretz dava notizia di una mediazione dell’Egitto impegnato in trattative con i gruppi armati a Gaza per ottenere un cessate il fuoco, ma non sarebbe a breve. Mentre a niente sono serviti gli appelli a proteggere i civili e fermare l’escalation dell’Ue che ha incitato le parti “a riprendere i negoziati per trovare una soluzione pacifica e ristabilire un orizzonte politico che contempli la soluzione dei ‘due Stati’”. In una riunione d’emergenza dei 57 membri dell’Organizzazione per la cooperazione islamica i leader musulmani hanno invece condannato gli “attacchi barbari” contro i fedeli di Al-Aqsa e chiesto alla Comunità Internazionale di ritenere Israele responsabile dell’ultima escalation. Questo mentre secondo molti osservatori, nonché lo stesso ambasciatore israeliano in Italia Avi Pazner, Hamas avrebbe già ottenuto la sua vittoria scatenando una escalation in Medio Oriente con l’obiettivo di “diventare leader di tutti i palestinesi, controllare Gaza e dominare anche la Cisgiordania, così se la prendono con noi in maniera terribile”. Tutto questo facendo fuori Fatah, sicuro sconfitto alle elezioni rimandate di luglio. Anche Netanyahu tira un sospiro di sollievo: Yair Lapid, a un passo dalla formazione di un “governo di cambiamento”, ora tace con i suoi partner Bennett e Saar, che due fa giorni puntavano al sostegno di Mansur Abbas, leader della lista araba Ra’am.

Il ragazzo “tranquillo” e la strage che sembra fatta in America

Due insegnanti e sette studenti, quattro ragazzi e tre ragazze. Nove morti. Più di venti feriti: tra di loro almeno una decina i gravi, in terapia intensiva. La morte alla scuola 175 di Kazan, capitale della Repubblica del Tatarstan, l’ha portata “un topo silenzioso, che è rimasto per tre anni seduto assolutamente spokoino, tranquillo”. Nella Pruss, rettrice d’istituto, all’inizio non poteva credere che l’autore della strage fosse davvero Ilnaz Galyaviev, quello studente rimasto per anni immerso dietro gli schermi dei computer e che “non aveva amici: un ragazzo educato, che non cercava conflitti”. Ilnaz da gennaio non andava più a scuola, ad aprile era stato sospeso. Le finestre come via di fuga dal terrore. Le immagini delle scale bianche usate dagli studenti russi per scappare dal terzo piano dell’edificio scolastico ed evitare la furia del 19enne hanno fatto il giro del mondo.

Altri due ragazzi sarebbero morti durante la pericolosa discesa, ma si tratta di dinamiche non ancora ufficialmente confermate. Rimangono ora lacrime inconsolabili dei parenti delle vittime, muri azzurri crivellati dalle pallottole, vetri rotti e macerie, la scia di incomprensibile devastazione lasciata dell’assalitore, ex alunno di quelle stesse aule e professori. Galyaviev ha fatto irruzione al primo piano intorno alle dieci del mattino di ieri e, dopo un’esplosione, ha aperto il fuoco con un fucile contro tutti tra banchi, corridoi e lavagne. Quella che Rustam Minnikhanov, presidente della Repubblica del Tatarstan subito arrivato sul posto, ha descritto come “un’enorme tragedia per l’intero Paese” ha avuto luogo in quella che Putin ha definito, in un celebre discorso del 2005, la “terza Capitale russa” e che oggi celebra il suo giorno di traur, lutto.

A fermare Galyaviev sono stati gli agenti dell’anti-sommossa della polizia, che hanno raggiunto la scuola per circondarla con i blindati. “Il terrorista è stato arrestato, ha 19 anni e l’arma è registrata a suo nome”: è stato lo stesso Minnikhanov a riferire che l’attentatore fosse solo uno e non due, come precedentemente raccontato da alcune agenzie russe che avevano diffuso la notizia della presenza di più assalitori, in possesso di armi registrate a nome di “complici già sotto indagine”. “Odio tutti, sono dio”: Galyaviev lo ha detto in gabbia nel centro di detenzione. Una dichiarazione di follia compiuta mentre era legato mani e piedi alle sbarre. Che “un mostro” abbia cominciato a crescergli dentro due mesi fa lo ha urlato mentre la telecamera di un cellulare lo riprendeva per renderlo virale via Telegram nel resto del mondo pochi minuti dopo. Ma che si sentisse una divinità e pianificasse “di ammazzare un enorme numero di persone” lo aveva già scritto sui suoi profili social prima di vestirsi di nero, mettersi una maschera sul volto e dirigersi verso la scuola armato.

Il comitato investigativo russo ha ora aperto un’indagine per “omicidio di massa”, mentre le autorità di Kazan hanno già reso noto che i parenti dei bambini uccisi saranno compensati con un milione di rubli. È il quinto attacco armato a una scuola russa: l’ultima Columbine della Federazione risale al 2018. In Crimea uno studente tolse la vita a 20 persone prima di mettere fine alla sua, ma dopo Beslan e Kerch, è stata la strage di Kazan ad aprire immediatamente il dibattito per la restrizione delle armi da fuoco nella Federazione. Le condoglianze del presidente sono arrivate insieme all’ordine di fornire tutte le cure e assistenza necessarie alle famiglie delle vittime. Mentre la Russia stupita si chiede ancora chi sia Galyaviev, Putin ha inoltrato immediata richiesta al capo della Guarda nazionale, Victor Zolotov, per emendare i regolamenti sul possesso d’armi d’uso civile. Tatiana Moskalkova, responsabile diritti umani, ha richiesto che l’età minima per possedere un’arma sia 21 anni, a eccezione per quanti abbiano servito nell’esercito.

Sbarchi e tensione: Draghi vede Lamorgese, Di Maio e Guerini e apre il dossier migranti

L’estate si avvicina e l’Italia per l’ennesima volta si accinge a dover gestire da sola l’emergenza migranti. Nonostante il pressing del nostro paese sulla Ue per ottenere una risposta concreta in termini di solidarietà, per ora nessun paese europeo ha garantito disponibilità ad accogliere chi arriva via mare. Per rendere più efficace l’intervento sull’Europa per i ricollocamenti, Mario Draghi ha bisogno dell’apporto convinto di tutti i ministri coinvolti. Per questo, ieri prima del Cdm ha voluto vedere sul dossier Luciana Lamorgese (Viminale), Lorenzo Guerini (Difesa), Luigi Di Maio (Esteri) e Enrico Giovannini (Mit). Il dossier è aperto praticamente in maniera permanente e prevede i rapporti bilaterali con Tunisia (dove la Lamorgese andrà il 20 maggio) e Libia (dove il tema è particolarmente delicato, visto lo scarso, per non dire nullo, rispetto dei diritti umani). Nella strategia, anche la riattivazione degli accordi di Malta per i ricollocamenti dei richiedenti asilo. E poi si tratta di organizzare gli sbarchi, di gestire le quarantene di chi arriva, come raccontano fonti governative. Il premier intende spingere sul fatto che come si è trovata un’Europa della solidarietà sul Covid, bisognerebbe fare altrettanto sulla gestione dei migranti. Anche stanziando più fondi per i paesi africani da dove partono i flussi verso l’Europa. Il dossier sarà sul tavolo del Consiglio europeo del 24 e 25 maggio.

Nel governo italiano già sanno che sul tema si potrebbe contare al massimo su un appoggio di paesi come Germania, Francia, Spagna e Portogallo (tutto da verificare, anche per le elezioni alle porte nei primi due), visto che altri (Visegrad in testa) non ci pensano proprio. È rimasta poco più di una dichiarazione d’intenti la proposta della Commissione Europea di settembre per un “nuovo patto sull’immigrazione e l’asilo” che doveva emendare il regolamento di Dublino (quello che trattiene i migranti nel primo Paese di frontiera europeo che li accoglie, in attesa che la loro richiesta di asilo venga approvata).

Ieri il sottosegretario agli Affari europei, Enzo Amendola, a Bruxelles per il Consiglio Affari Generali ha affrontato il tema, anche se non era all’ordine del giorno: “L’auspicio è che, mentre si continua a negoziare il nuovo Patto sulle migrazioni e l’asilo, si dia una risposta urgente agli sbarchi in corso, nel segno della solidarietà europea”.

Per ora, l’Europa resta tiepida. La commissaria europea, Ylva Johansson, ha puntato il faro sulle partenze dagli stati africani: “Il modo migliore per salvare vite è evitare queste partenze pericolose”. Non esattamente un modo per gestire il problema imminente. Mentre in Italia c’è da capire quanto influirà la presenza nel governo della Lega di Salvini.

Il piano di Eni: aumentare le estrazioni

L’analisi è stata realizzata da Merian Research per Fondazione Finanza Etica, ReCommon e Greenpeace Italia (in protesta a Roma con un iceberg simbolico) e riguarda il nuovo piano di investimenti presentato da Eni per il 2021-2024 assieme all’aggiornamento del piano di decarbonizzazione: entrambi non soddisfano le associazioni. Si parte dalla decarbonizzazione: l’obiettivo delle zero emissioni al 2050, spiegano, è svuotato di significato visto che non implica la fine delle emissioni di gas serra bensì opere di compensazione (forestazione o cattura e stoccaggio di Co2) che alla fine diano come risultato zero. Entro il 2030, poi, l’azienda prevede di abbattere solo il 25% delle emissioni. “In questo modo -rileva Greenpeace Italia – ignora le indicazioni della comunità scientifica che indica gli anni da qui al 2030 come decisivi”. Aumentano poi le estrazioni di gas e petrolio nel breve termine. Si prevede una crescita nella produzione, con una media del 4% l’anno superiore al 3,5% dell’anno precedente (che era relativo al 2019-2025). Il capitale di investimento destina il 65% all’estrazione e il 20% agli investimenti “green”, che includono sia le bioraffinerie che il settore retail gas&power. L’upstream vede stanziati 4,5 miliardi l’anno, 18 in totale sul periodo. L’azienda – si legge – prevede di installare entro il 2024 appena 4 Gw di rinnovabili che diventano 15 al 2030. “Per fare un paragone, British Petroleum ha un obiettivo di 50 GW al 2030 mentre la francese Total ha dichiarato di puntare a 100 GW”. Viene poi decuplicata l’importanza del Ccs (Carbon Capture and Storage), pozzi di assorbimento del carbonio che saranno fondamentali per lo sviluppo dell’idrogeno blu ma che tecnologicamente ancora non hanno raggiunto la giusta “maturazione” e sicurezza. Il suo peso, nell’abbattimento delle emissioni, passa dal 9 al 20%. Al 2050, è la sintesi, Eni emetterà ancora 90 milioni di tonnellate di gas serra l’anno.