Insulti web a Mattarella, scrittori di destra indagati a Roma. Anche Gervasoni e Totolo

Il professore blogger del Giornale, Marco Gervasoni, e la giornalista-scrittrice del Primato Nazionale (e delle edizioni Altaforte), vicina a Casapound, Francesca Totolo. Sono due degli undici indagati dalla Procura di Roma, accusati del reato di offesa all’onore e al prestigio del presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, e istigazione a delinquere. Insieme a loro, ci sono altre nove persone, fra cui un cantante torinese, un pensionato, un ottico, un impiegato amministrativo di un ospedale romano e uno studente. Tra gli indagati il volto più noto è quello di Gervasoni, storico e saggista, già direttore scientifico della Fondazione Craxi. Il professore insegna Storia contemporanea all’Università del Molise. Discusso un suo tweet sulla vicepresidente dell’Emilia-Romagna, Elly Schlein. “Ma che è, n’omo?”, il commento di Gervasoni alla copertina de L’Espresso dedicata alla Schlein che gli costò a settembre 2020 una pioggia di critiche. “Si possono fare commenti sul fisico della Meloni, non è consentito farlo su esponenti di sinistra”, si difese lui.

Mail Box

 

Vaccini, quanti dubbi sulla loro sicurezza

Contrariamente a quanto dichiarato dall’Ema e dall’Aifa e diffuso dai mezzi d’informazione, un vaccino che, in una vaccinazione di massa, causa una trombosi cerebrale o splancnica potenzialmente mortale ogni 200.000 vaccinati, non può essere definito ‘sicuro’ e non soddisfa neppure il rapporto utilità/effetti collaterali, specialmente in presenza di altri due vaccini con minori effetti collaterali e, sembra, più efficaci. Non è solo il mio parere, ma quello ben più autorevole dei dirigenti dei servizi sanitari della Danimarca e della Norvegia che hanno bandito definitivamente il vaccino AstraZeneca. Hanno ragione, a mio parere, quei cittadini italiani che rifiutano il vaccino AstraZeneca, dopo il balletto vergognoso delle autorità sanitarie internazionali e italiane sul suo uso. Dire che il vaccino causa una trombosi ogni duecentomila vaccinazioni non colpisce ma è diverso quando si parla di persone in carne ed ossa. A Genova è deceduta una giovane insegnante di 32 anni, Francesca Tuscano, il 4 aprile dopo aver fatto il vaccino AstraZeneca il 22 marzo. Era in perfetta salute, non aveva malformazioni e il referto dell’autopsia è stato di morte in seguito a un ‘quadro trombotico ed emorragico cerebrale’. Probabilmente, se anche le autorità italiane avessero usato una maggior prudenza, la giovane insegnante sarebbe ancora viva. L’argomento è delicato, ma ho voluto indicare nome e cognome dell’insegnante perché sono stufo delle semplificazioni frettolose.

Ireo Bono

 

La giustizia serve anche 40 anni dopo

Sul Fatto di lunedì mi ha colpito la notiziola del “Titolo della settimana/3” che diceva: “A che serve punire dopo 40 anni?” (Tiziana Maiolo, Il Riformista, 5.5). Il commento incompleto del Fatto diceva: “A metter dentro gli assassini latitanti per 40 anni”. Io avrei aggiunto anche a rendere una giustizia riparatoria per i parenti dei morti e dei feriti e far sapere loro che lo Stato è dalla loro parte. A proposito: quanto manca ai 40 anni di latitanza di Matteo Messina Denaro?

Franco Novembrini

 

I lettori denunciano disagi con Poste Italiane

Se il lettore Sebastiano Musolino recrimina sul Fatto circa il comportamento di Poste Italiane in merito alla gestione del Fondo Ristorazione… be’, gli auguro di non ripercorrere la situazione che io sto vivendo da otto mesi per ottenere la restituzione dei miei soldi, bloccati da Poste dopo un tentativo di truffa fortunatamente sventato in tempo. Una denuncia ai carabinieri, una denuncia alla Polizia Postale, due interventi della Autorità Giudiziaria a mio favore, un intervento della Polizia di Stato, uno di Equitalia, tre reclami (corredati di allegati) presso Poste e ancora la pratica è ferma, senza riscontro alcuno presso Accertamenti giudiziari di Poste Italiane. Non male direi per un ente quotato in Borsa a maggioranza statale (cioè di noi cittadini), che, fortunatamente, nell’autunno scorso si è dotato di “Nuove Linee Guida alla Compliance”. Debbo aggiungere qualcosa?

Natale Ghinassi

 

Brevetti: Biden e il Papa sembrano comunisti

Apprendo con piacere che il “comunismo” si è arricchito di due nuovi adepti: il “rosso” argentino Francesco, di mestiere Papa, il “rosso” americano Biden, di mestiere Presidente Usa: due mestieri molto in voga! Questi due “sovversivi” (Cassese docet) si sono permessi di andare contro gli interessi addirittura di Big Pharma solo per aiutare i poveri del mondo a non morire: cosa assurda! Ecco quindi che i “buoni cristiani” del mondo hanno subito messo in chiaro che no, non è possibile perché la “proprietà intellettuale” è prioritaria rispetto a tutto, perfino alla vita degli umani, ed è solo così che si protegge l’evoluzione della specie: facendo morire i più deboli, proprio come nel “mondo animale”! Meditate, meditate e ricordate che peccare si può, tanto poi c’è il perdono!

Raffaele Fabbrocino

 

“Il mio dottore speciale, un estimatore del Fatto”

Desidererei ardentemente e pubblicamente ringraziare il mio medico di famiglia Dott. Giuseppe Schiavi, che purtroppo il 30.04.2021 è stato dismesso (via, via, in pensione). Dopo 14 anni è dura abituarsi all’idea, ma è giusto che si sappia quanto ha fatto negli anni per tutti i suoi pazienti. Sempre disponibile, pronto all’ascolto, paziente, generoso, rassicurante e, perché no, ancora aitante. Mi fa sovvenire certi medici dell’Ottocento/primi Novecento che si recavano a cavallo, col calesse o biroccino, che dir si voglia, per portare un poco di conforto (medicine pari a O) a quei poveri cristi, incuranti delle intemperie e in luoghi a volte impervi, per poi ricevere come ricompensa, alternativamente, una bottiglia di vino, qualche uova e, se andava bene, pure una gallina! Mi mancherà tantissimo, come mi mancheranno le nostre sporadiche chiacchierate su: Il Fatto, Travaglio, Truzzi, Padellaro e via via tutti nella stessa identica graduatoria. È un vostro estimatore. E allora, caro dottore, grazie d’essere stato, ed essere, più unico che raro.

Rita Bisi

Da un patologo.: “La telemedicina stravolge il nostro lavoro. E i pazienti”

Gentile redazione, faccio seguito all’articolo di domenica di Marco Palombi a proposito della Sanità senza Recovery e della telemedicina.

Sono un medico, anatomopatologo, con una discreta esperienza in telemedicina che fra colleghi usiamo, ora più di prima, per webinar, scambio di foto di preparati istologici e pareri diagnostici.

Sono pareri legati all’esperienza, al bagaglio scientifico di ognuno di noi, alla nostra sensibilità umana e professionale, ma su ogni caso nessuno di noi metterebbe la firma perché abbiamo l’esigenza di avere il preparato sotto l’oculare del nostro microscopio, guardarlo nei diversi campi microscopici e farlo nostro, per poter poi esprimere una diagnosi definitiva, secondo scienza e coscienza.

Nella mia precedente esperienza clinica come medicina di base e guardia medica, ho potuto constatare che lo stesso avviene con i pazienti: il paziente ha bisogno di trovarsi personalmente con il medico, di parlare del suo problema di salute e ha bisogno di ascoltare il medico che deve innanzitutto interloquire con lui, infondere fiducia ed esprimere autorevolezza che, lungi dall’essere autorità, in parole povere vuol dire “ti puoi fidare di me, so dove arrivare, dove fermarmi e affidarti a colleghi più esperti”.

Rendere il paziente consapevole della propria patologia lo rende più disponibile, lo predispone positivamente al percorso di cura e rende più agevole il lavoro del medico.

Penso quindi che chi ha responsabilità di governo dovrebbe aver imparato la lezione che ci ha visto impreparati in questa terribile esperienza della pandemia, piuttosto che elargire fondi per la telemedicina che, a mio giudizio, snatura il nostro lavoro: quest’ultimo va riservato solo a un scambio di opinioni, notizie, informazioni, come avviene tuttora, migliorandolo. Ma soprattutto bisogna coprire il fabbisogno di medici nel Ssn, arginarne le fughe verso la sanità privata, aumentare l’offerta nelle scuole di specializzazione: il governo dovrebbe pensare alla Sanità, come giustamente scrive Marco Palombi, non come spesa, ma come investimento per migliorare la vita di tutti noi.

Il rapporto medico-paziente, come d’altra parte ogni rapporto fra gli uomini, non potrà mai essere sostituito da una tastiera e uno schermo.

Dr. Maurizio Zirillo
Anatomia Patologica Thiene (VI)

Bollani, tra Arbore e Rai Educational

Nel crocicchio tra le otto e le nove di sera, tra un compìto mezzobusto, un opinionista scalmanato, un virologo che annuncia la fine della terza ondata e un epidemiologo che dà per certa la quarta, capitava di intercettare Stefano Bollani al pianoforte (Via dei matti numero 0, Rai3, ora Raiplay) e ti veniva in mente Renzo Arbore. La musica in tv non come pacchetto plastificato e prestazionale, cosa mai dirà la giuria, ma collante naturale di amicizia, libertà, improvvisazione. Nessun format (a parte vivere), nessuna scaletta, nessun testo precostituito, nessuna traccia del fantomatico “sistema” a cui nessuno verrà chiesto di adeguarsi semplicemente perché non c’è. Se Arbore mette su intere classi in presenza, Bollani predilige la lezione privata, e il suo è stato comunque il programma più educativo della stagione. In Via dei matti numero 0 tutto è ridotto al minimo, anzi, al domestico, un ospite alla volta, la padrona di casa è la moglie Valentina Cenni; poco più di 20 minuti in tutto, e fa impressione notare quante cose ci stiano in un così piccolo spazio (di solito in tv fa impressione quanto spazio ci sia voluto per contenere il nulla).

Sta di fatto che dalle visite di Francesco De Gregori, Edoardo Bennato, Ornella Vanoni (eccetera) si impara ad amare la musica più che da 15 anni di X Factor. Il partigiano Fedez non si è visto, né se ne è sentita la mancanza; in compenso, Checco Zalone ha scelto il suo amico Bollani per una delle rare e mai accidentali apparizioni televisive. Prima di mettersi al pianoforte, Checco ha citato “La legge Fabio Fazio del 2006, che stabilisce che si può andare in televisione solo per promuovere qualcosa”. Una delle rare leggi che in Italia funziona a meraviglia; tuttavia, Zalone ha voluto sfidarla andando ospite soltanto da Bollani, senza percepire cachet e senza promuovere nulla, se non la pizzeria di un lontano cugino. In base alla legge Fabio Fazio del 2006, adesso rischia una bella multa. Ma secondo noi la pagherà volentieri.

Le linee d’ombra segreto della vita

C’è una casa bianca che mai più io scorderò, mi rimane dentro il cuore con la mia gioventù. Era tanto tempo fa, ero bimba e di dolore io piangevo nel mio cuore, non volevo entrare in là. Tutti i bimbi come me hanno qualche cosa che di terror li fa tremar e non sanno che cos’è. Quella casa bianca che non vorrebbero lasciar è la loro gioventù che mai più ritornerà” (Marisa Sannia).

Questa canzone fu portata al Festival di Sanremo del 1968 da Ornella Vanoni e Marisa Sannia e arrivò seconda dietro Sergio Endrigo che ne presentava una non delle sue migliori, Canzone per te (Aria di neve è un’altra cosa). Ornella, che era già famosa, volle dare una sua interpretazione musicale al brano, ma in questo caso la musica c’entrava poco, contava il testo che Marisa Sannia cantò in modo piano con la sua bellissima, straordinaria voce. Casa Bianca rimase quindi la canzone di Marisa Sannia. Io non la ascoltai al Festival, non perché snobbassi questa grande manifestazione nazional popolare che ha segnato anche parte del costume italiano, ma perché come inviato avevo altro da fare. La sentii in macchina in un viaggio Bari-Milano che, con le strade di allora, dovevo fare in giornata. E mi colpì. In un’epoca in cui la canzone italiana era, fatta qualche debita eccezione, tutta una lagna di maschi belanti ai piedi di lei, che non ci stava o giocava al ‘vedo e non ti vedo’ o mentre era con te guardava già un altro (Io fra di voi, Charles Aznavour) e comunque ti faceva soffrire, o di donne che erano sulla stessa falsariga, però in genere più declinata verso una certa malinconia per un amore perduto, Domani è un altro giorno di una Vanoni questa volta in gran forma, o Pazza idea di Patty Pravo, la migliore (il rock era già alle spalle e comunque noi, che non avevamo fatto l’Erasmus, non capivamo i testi che del resto credo non vogliano dir nulla, Tutti frutti che ha dato la fama a Elvis che cazzo vuol dire?) insomma erano tutte canzoni che giravano intorno all’amore, questo disturbo psicosomatico inventato dalla Natura per fare incontrare due sessi (ho detto sessi, non generi) altrimenti incompatibili, Sannia parlava di qualcosa che non c’entra con l’amore ed è più importante: parlava della linea d’ombra, del passaggio delle stagioni della vita, doloroso fin dall’infanzia, anche se percepito confusamente (“Tutti i bimbi come me hanno qualche cosa che di terror li fa tremar e non sanno che cos’è”) e poi, in prospettiva, dall’infanzia alla giovinezza, dalla giovinezza alla maturità da questa, per chi sciaguratamente ci arriva, alla vecchiaia. Parlava insomma del Tempo.

Sul Tempo in senso, diciamo così, metafisico, sul rapporto Tempo-Spazio, gli scienziati, in particolare i fisici, si sono esercitati da Einstein in poi e anche molto prima di Einstein per lo meno dagli inizi del Novecento. Carlo Rovelli, un grande fisico e anche un divulgatore, ha dedicato tutta la sua vita allo studio del Tempo, ma nel suo ultimo libro, L’ordine del tempo (2017) alla fine confessa, onestamente, di non aver cavato un ragno dal buco. Non voglio mettermi in competizione con questi scienziati, ma secondo me il Tempo, sempre in senso metafisico, è trasformazione. Se mentre sto scrivendo la mia pelle non cambiasse sia pur di pochissimo, se i libri che ho davanti non ingiallissero sia pur di pochissimo, se l’automobile che vedo dalle mie finestre si immobilizzasse, noi saremmo pietrificati in uno spazio senza tempo, in un Tempo senza Tempo (“Tutto scorre” dice Eraclito, il più sapiente).

Ma non è questo Tempo metafisico che qui ci interessa. Ci interessa il tempo concreto, e anche psicologico, della nostra esistenza. Il Tempo è il padrone inesorabile della nostra vita, un conto è avere vent’anni, altro è averne quaranta, altro ancora è averne sessanta e oltre. Tu puoi essere anche, nei casi più fortunati, in perfetta forma fisica e intellettuale come George Clooney, ma sessant’anni di vita hanno comunque inciso su di te.

Da un paio di decenni si declama che “vecchio è bello”. È il marketing che si è accorto che le popolazioni stanno invecchiando e che quindi il vecchio diventa interessante se da debole consumatore quale è lo si incoraggia a consumare di più. E quindi il vecchio non può nemmeno lasciarsi andare a uno dei pochi piaceri della vecchiaia che è lasciarsi andare a essa. Deve sgambettare impudicamente nelle discoteche, deve fare maratone in cui regolarmente si infartua, deve scopare con Viagra o Cialis anche se non ne ha più nessuna voglia. È lo stesso fenomeno, con segno contrario, che accadde verso la fine degli anni Sessanta quando il marketing scoprì che i giovani, dopo il boom, a differenza dei loro fratelli maggiori che avevano dovuto stringere la cinghia durante la ricostruzione, avevano qualche soldo in tasca. E nacque il “giovanilismo” per cui ai giovani veniva passato tutto, anche quando facevano stronzate e anche qualcosa di peggio delle stronzate.

“L’aspetto più drammatico della vecchiaia non è tuttavia la decadenza fisica, ma l’impossibilità di un progetto di vita. Esistenziale, sentimentale, professionale. Manca il tempo. Manca il futuro. Manca la speranza. Sorella Morte ha già alzato la sua falce. È vero che si può morire a qualsiasi età, anche a vent’anni, e che la morte è certa. Ma una cosa è immaginarla in un futuro indefinito, altra è quando ti cammina a fianco. Una cosa è se si tratta di una certezza lontana, remota, altra è se sai che sei al finale di partita. E che non ci saranno supplementari. ‘Perché non possiamo metterci insieme?’ mi chiede una graziosa ragazza trentenne. ‘Perché tu stai entrando nella vita e io ne sto uscendo. Il tempo conta. Non possiamo ignorarlo’ (…) ‘Caro agli Dei è chi muore giovane’ scrive Menandro. Ma forse a esser baciati in fronte dagli Dei sono coloro che non sono mai nati. Perché una volta che ci sei dentro, nella vita, non hai più scampo, non puoi più evitare il torturante confronto con il Tempo. Sei entrato nel Tempo e non ne puoi più uscire. Nemmeno la morte può cancellare il fatto che hai vissuto. E finché ci sei te la devi giocare questa partita col Tempo (…) Il paesaggio è cambiato, i luoghi pure, gli oggetti sono diversi, altri i miti, gli idoli, gli attori, le letture di riferimento. Sei un sopravvissuto”. (Ragazzo. Storia di una vecchiaia, 2007).

 

Calenda show ora è l’idolo della destra

“La destra deve lanciare lo sguardo in alto e guardare a Calenda che è una candidatura d’eccellenza”. Dopo aver letto sul Foglio la strepitosa proposta del filosofo Marcello Pera (un acrobata del pensiero che in passato è stato capace di coniugare Popper con Berlusconi) il mio bigio e uggioso martedì si è illuminato scoppiettando come una fontana pirotecnica in una festa patronale. I pochi lettori di questa rubrica sanno del mio debole per Carlo Calenda che assai ci rallegrò per aver creato dal nulla un partito del nulla (“Azione”) che nei sondaggi doppia regolarmente Italia Viva, il nulla che si è fatto partito di Matteo Renzi. Si tratta di un misirizzi multiforme, un Proteo dei Monti Parioli, capace nella sua più recente e fortunata interpretazione di candidarsi nella Capitale e di investire cospicue risorse ed energie in un’intensa campagna elettorale tutta dispiegata all’insaputa dei cittadini romani.

Se davvero un personaggio di tale creatività avesse finalmente trovato il suo autore nel professor Pera, e nel centrodestra la candidatura a sindaco, l’immaginazione potrebbe galoppare a briglia sciolta nelle praterie dell’Agro Romano. Del resto, da uno che ha mollato il Pd il giorno dopo che era stato eletto dal Pd deputato europeo, pretendere patenti di coerenza sarebbe di cattivo gusto. Ma soprattutto un Calendario sponsorizzato dal Salvini&Meloni&Berlusconi aprirebbe spazi di gustoso intrattenimento, e di imprevedibili trovate in una competizione dove i profili severi di Virginia Raggi e Roberto Gualtieri non inducono certo alla gaiezza. Può darsi che nella sua birichina terza età il filosofo voglia divertirsi a far implodere la destra in ragione di qualche vecchia ruggine. “La destra deve stupire”, inziga, mentre Maurizio Crozza ha pronto un nuovo sketch sul candidato di se stesso a caccia di voti nella savana del Quarticciolo. Forza Carlo, facci sognare.

Solo i cretini non cambiano Santoro

Solo i cretini non cambiano idea. Frase ormai famosissima anche se cretina. Sarebbe una frase intelligente se fosse completa. Perché se cambi idea devi almeno avere il pudore di dire chi o che cosa ti ha fatto cambiare idea. Io ero del Pci, ma poi c’è stata l’invasione dell’Ungheria e ho stracciato la tessera. Io facevo il tifo per la Lazio, ma poi mi accorsi che c’erano troppi fascisti fra i dirigenti e i giocatori. Io stavo bene con mia moglie, ma poi ho scoperto che mi tradiva col mio migliore amico. Io ero felice di lavorare in quel giornale, ma poi è arrivato un direttore antipatico. Cambiare idea è un diritto. Ve lo dico io che ho passato anni a intervistare gente sul tema dei “voltagabbana”. Ricordo arrampicate sugli specchi mitiche come quella di Emilio Fede che, tifoso della Juventus, quando andò a lavorare per Berlusconi divenne tifoso del Milan perché – mi disse – si era accorto che il Milan giocava molto meglio.

Così, forte delle mie esperienze passate, sono corso a leggere l’intervista che Michele Santoro ha rilasciato a Pietro Senaldi, direttore di Libero. Una delle tante interviste che sta rilasciando in questi giorni di giri della Madonna Pellegrina per lanciare il suo libro Nient’altro che la verità, basato sul suo lungo incontro con il mafioso Maurizio Avola, uno di quelli cattivi, uno che racconta di avere ammazzato 80 persone, compresi alcuni fra i giudici eroi della lotta antimafia. E che cosa scopro? Scopro che Santoro ha cambiato idea. Che oggi pensa che Berlusconi e Dell’Utri non c’entrano con la mafia, che la mafia comandava ai politici non il contrario, che fu un errore la trasmissione su Libero Grassi in staffetta con Maurizio Costanzo. E a ben leggere si scopre anche che secondo lui Matteo Salvini crea problemi alla sinistra molto più di quanto facesse Berlusconi. E che la Rai lottizzata era molto meglio della Rai di oggi. E che i grillini hanno contribuito a peggiorare il sistema che volevano abbattere.

Solo i cretini non cambiano idea. Tutto merito di Maurizio Avola.

Le autobiografie dei politici. Strategie per ripulirsi e rimuovere i lati oscuri

Non c’è concime migliore per l’ego dell’autobiografia del leader politico scritta in giovane età, che sarebbe il non plus ultra dell’autopromozione, un monumento a cavallo autocostruito un po’ per celebrazione di sé e un po’ impalcatura per la costruzione di glorie future. In più, ghiotta occasione di riposizionamento, il cui messaggio è: “Ecco come sono veramente”. Davvero bizzarro: gente che ha una vita pubblica piuttosto frenetica, che vive di dichiarazioni, interviste e ospitate in tivù, delle cui idee, posizioni, esternazioni sappiamo tutto, sente il bisogno di raccontarsi per “come è” invece di “come sembra”.

Ora è il momento editoriale di Giorgia Meloni, gratificata di interviste promozionali, soffietti adoranti e domande compiacenti, insomma per il tradizionale bacio della pantofola. Così sappiamo che Giorgia ha avuto problemi col padre, che da piccola era molto chiusa, che la sua grande paura atavica, il suo fantasma, è stato per anni il timore di annegare; brutto fantasma, non male per una che chiedeva di “affondare o demolire” le navi delle Ong che salvavano i migranti dall’annegamento, ma pazienza.

Allo stesso modo, le sezioni missine diventano, nella ricostruzione riveduta e corretta, ameni e romantici luoghi di svago e di cultura, e nessuno si sogna di fare a Meloni qualche domanda un po’ ruvida, tipo perché non caccia dal suo partito i deficienti che si vestono da nazisti, o i governatori che in campagna elettorale andavano alle cene in onore del duce; oppure perché non condanna mai l’esuberanza dei suoi militanti che fanno il saluto romano, ricordano con nostalgia il Ventennio o inneggiano alla marcia su Roma. Insomma, l’autobiografia lava più bianco, pulisce, annulla gli angoli oscuri e rende tutto lindo e pulito.

Ci aveva provato anche Salvini, certo, con un libro che era un compitino da ripetente di terza media – un’intervista in ginocchio, quella, non una vera autobiografia – edito dalla casa editrice di Casa Pound. Lì avevamo appreso che al piccolo Matteo, all’asilo, avevano rubato il pupazzetto di Zorro, il che deve aver generato un qualche imprinting passivo-aggressivo. Poi ci sono i libri di Matteo Renzi, sempre immaginifici e lungimiranti, dai titoli evocativi (“Un’altra strada”, “La mossa del cavallo”), adatti a spiegare le nuove sfide e le prospettive. A lungo termine, si direbbe, anche lunghissimo, visto che piazzarsi sotto il due per cento nei sondaggi garantisce, diciamo così, ampi margini di miglioramento, essendo l’estinzione l’unico peggioramento possibile. Mettiamo nel mucchietto anche il libro mai uscito di Roberto Speranza, “Perché guariremo”, scritto e stampato ma mai venduto, dato che cantava vittoria sulla pandemia quando la vittoria non c’era: circola clandestino in poche copie sfuggite al macero, e anche lì il mix di retorica e autocelebrazione è piuttosto (letto ora) esilarante, mentre Rocco Casalino preferiva togliersi molti sassolini dalle scarpe, anche lì con frequenti dettagli strappalacrime.

Dunque non basta ai politici occupare tutti gli spazi, monopolizzare i tg, i talk, l’immaginario collettivo, il discorso pubblico. Viene sempre il momento – pare inevitabile – di porre in mezzo al proprio cammino la pietra miliare dell’autobiografia: confessioni di peccati innocentissimi e distratto sorvolo su errori, cretinate e misfatti reali. Intorno, il plauso dei media osannanti, che finalmente possono gioire del “lato umano” di questo o quel leader che si disvela, imperdibile occasione – un’altra! – per genuflettersi al potere.

 

Nonni, basta divani: diventate “smart” come il rider Cosimo

La storia di Cosimo l’abbiamo letta qualche giorno fa sull’edizione pugliese di Repubblica. Chi è Cosimo De Blasi? Un nonno (ha sette nipoti), un marito, un pensionato. Ma è anche un modernissimo lavoratore della gig economy, nonostante le 69 primavere: da un anno fa il rider, anche se per le strade di Brindisi non si muove in bicicletta (sarebbe troppo faticoso) ma con la sua vecchia auto, sempre in compagnia della moglie, che gli fa da secondo pilota e se c’è bisogno sposta la macchina quando lui va a fare le consegne. Lei è più giovane e le manca ancora qualche anno alla pensione. Eccolo qui Cosimo: “‘Forse sono il più anziano d’Italia’, dice scherzando. E forse lo è davvero. Fa le consegne a domicilio per le pizzerie, i ristoranti e le paninoteche di Brindisi. Tutti i giorni. All’ora di pranzo resta fuori ad aspettare gli ordini dalle 12 alle 15, e poi torna il pomeriggio, dalle 18 alle 23. In estate come in inverno”. Il lavoretto gli permette di integrare la pensione minima – circa 500 euro al mese – con altri 700 euro che servono per pagare le bollette e le spese. In famiglia tutti sono rider, anche i due figli. Sono loro che hanno iscritto i genitori alla piattaforma, introducendoli nell’efficiente mondo dell’algoritmo ordini-consegne. La legge della giungla invece l’hanno imparata lavorando. “Ora purtroppo i rider sono aumentati e quindi le consegne sono diminuite. Più siamo, meno guadagniamo. Il sabato e la domenica si lavora di più”, ha spiegato Cosimo. “Ma non ci sono altre alternative, soprattutto alla mia età. Ormai questo è diventato un lavoro a tutti gli effetti, dovrebbe essere regolamentato e servirebbero maggiori tutele”. E continua: “Non so per quanto ancora potrò farlo, ma sino a quando avrò la salute non mi fermerò. A volte mi sento un po’ stanco, ma poi mi faccio coraggio e vado avanti”.

Sui siti dei quotidiani Gedi si può vedere anche un video-reportage, una serata passata in compagnia dei nonni rider. Che le dicono i nipoti? chiede allegra la giornalista. Ma siccome Cosimo non ha la risposta pronta, è lei che aggiunge: “Un nonno smart”. Ma che figata il nonno smart. I colleghi, intervistati pure loro in un parcheggio mentre attendono ordini, sono tutti ragazzini e naturalmente anche loro lo chiamano “nonno”. Nonostante il mors tua vita mea, sono tutti una grande famiglia. “Purtroppo dobbiamo mangiare. Noi a tavola non ci sediamo mai”, spiega la nonna rider con l’amarezza nella voce. E il marito aggiunge: “Infatti sono dimagrito 13 chili”. Non sarà che il lavoretto aiuta anche a tenersi in forma e alla fine è pure un guadagno per il sistema sanitario?

La storia di Cosimo rappresenta perfettamente il cortocircuito in cui il racconto del lavoro è rimasto impigliato: non da oggi direte voi, ma è sempre peggio perché non ci sorprende o indigna più nulla. La vicenda del fattorino settantenne ci viene raccontata come una storia bizzarra del nostro Sud – to’ c’è anche il nonno rider – invece è il manifesto di una società assurda e disumana in cui l’arte di arrangiarsi diventa l’unico mezzo per sopravvivere (“purtroppo dobbiamo mangiare”). Il vecchio “godersi la pensione” vuol dire fare la fame e allora il lavoretto “smart” è l’unica scelta per i padri e i nonni: è stupefacente che i figli non si domandino quale sarà la loro scelta se i vecchi sono ridotti a mettersi in competizione con loro per le mance (3 euro a consegna). La Repubblica fondata sul lavoretto sta per affondare. E come sul Titanic l’orchestrina suona allegra, anzi smart.

 

Quei vasi comunicanti tra Salvini e la Meloni

Non c’è da meravigliarsi troppo che, secondo gli ultimi sondaggi, la Lega di Matteo Salvini scenda e il partito di Giorgia Meloni salga: rispettivamente, al 21,8 per cento e al 18,4 (Youtrend/Agi). Stare all’opposizione paga sempre, tanto più contro un governo con una maggioranza taglia XXL, perché consente di aggregare il malcontento e raccogliere il dissenso. E Iddio solo sa quanto siano diffusi l’uno e l’altro in questo tempo di epidemia, di contagi e di vittime, di paura e di sfiducia, di vaccini che non arrivano o arrivano in ritardo e non bastano mai.

Ma, nel caso della Lega e di Fratelli d’Italia, non c’è neppure da preoccuparsi né da illudersi troppo, a seconda dei punti di vista. È l’applicazione alla politica del principio fisico dei “vasi comunicanti”: un liquido contenuto in due contenitori che comunicano tra loro raggiunge, per effetto della gravità, lo stesso livello con una superficie equivalente. E non c’è bisogno di ricorrere alla teoria del sociologo tedesco Zygmunt Bauman, per sapere quanto sia “liquida” la società contemporanea e di conseguenza il voto: volubile, instabile, volatile, come l’umore degli elettori.

Quello che perde Salvini, dunque, guadagna Meloni almeno finché uno resta al governo e l’altra all’opposizione. Ed eventualmente, viceversa. A parte le differenze di genere e di estrazione, sono lo stesso soggetto; la stessa destra nazionalista, sovranista e xenofoba. Un coacervo che condivide i disvalori dell’intolleranza, del suprematismo, del darwinismo sociale. Certamente meno liberale del partito-azienda intorno a cui Silvio Berlusconi aveva costruito nel 1994 il suo centrodestra.

Qualche differenza, se vogliamo, si può ancora cogliere nella matrice ex o post-fascista della Meloni. O nel diverso radicamento sociale e territoriale: più separatista e nordista per la Lega, nonostante i vani tentativi di mimetizzazione o camuffamento sudista; più patriottardo e centro-meridionale per Fratelli d’Italia. E invece, sul piano dei rapporti con l’Europa, sul terreno dei diritti civili, sulla solidarietà e sull’uguaglianza, le due formazioni praticamente si sovrappongono e si fondono in un unicum fondamentalmente reazionario.

Da qui alle elezioni, ammesso che l’impegno governativo della Lega duri fino ad allora, staremo a vedere se questo processo di sdoppiamento e identificazione modificherà o meno i rapporti di forza reciproci nei sondaggi e poi nelle urne. E semmai, di quanto. Ma si può già prevedere ragionevolmente che alla fine, anche invertendo l’ordine dei fattori, il prodotto non cambierà.

L’incognita riguarda, piuttosto, il comportamento e la collocazione dei superstiti di Forza Italia. A cominciare dal destino personale e politico dell’ex Cavaliere. La loro sarà, verosimilmente, una scelta di campo in funzione della sopravvivenza e della convenienza: la riesumazione del centrodestra sotto l’egida dell’accoppiata Salvini-Meloni oppure una qualche forma d’intesa o di collaborazione con il centrosinistra di Conte-Letta, a cui va aggiunta la quota in crescita di Leu. Nel primo caso, però, è chiaro che Berlusconi dovrà cedere definitivamente la leadership della coalizione a uno dei dioscuri che guida il Carroccio o Fratelli d’Italia.

A dispetto di quanti continuano a pensare e a sostenere che non esistono più la destra e la sinistra, e anche di una certa “neutralità” ostentata su questo tema dai Cinquestelle, la linea di demarcazione fra i due poli esiste ed è riassunta chiaramente nei cinque punti dell’ex premier Giuseppe Conte per la “nuova Europa”: nell’ordine, salute, lavoro, economia, multilateralismo, democrazia partecipativa. È un “Manifesto” sulla base del quale si può costruire un’alleanza strategica, d’ispirazione progressista, anche al di là di scelte tattiche o locali divergenti. E non solo contrapposta al centrodestra, ma soprattutto impegnata su una visione e un progetto comune di società.