Fedez, la Rai, i giorni a seguire e la tecnica di “smerdare l’eroe”

Nel documentare il tentativo di censura, Fedez ha commesso un’ingenuità: l’ha definita “censura”, ma ancora non lo era (Ilaria Capitani, vicedirettrice di Rai 3: “Ci tengo a sottolinearle che la Rai non ha assolutamente una censura, ok? Non è questo. Dopodiché io ritengo inopportuno il contesto”); e un errore: ha tagliato qua e là il video per riassumerlo, ottenendo un effetto enfatico (un silenzio apparente di Capitani dopo una sua domanda) che nell’audio originale non c’era (Fedez: “Posso dire delle cose che per lei sono inopportune ma che per me sono opportune, non hanno turpiloqui o bestemmie e riportano semplicemente i fatti?” Capitani: “Assolutamente”). Resta il problema (Fedez: “Un artista meno privilegiato avrebbe ceduto probabilmente. E i dipendenti Rai, una tv di Stato, devono scegliere tra libertà di parola e far mangiare la famiglia. È giusto questo?”). Dopo l’esplosione della bomba satirica di Fedez (la denuncia delle pressioni dissuasive degli organizzatori del Concertone e della Rai, l’attacco alla Lega che si oppone al ddl Zan, e la chiusa sull’ipocrisia del Vaticano che ha investito milioni di euro in un’azienda che produce la pillola del giorno dopo), il sistema vigente di sorveglianza e punizione ha attivato il solito protocollo. La procedura, rodatissima, consiste nello smerdare l’eroe. (Vi si dedicano in parecchi, e fanno sempre carriera). Smerdare l’eroe è una fallacia ad hominem (invece di replicare nel merito della denuncia, si attacca la persona che l’ha fatta), ma fa presa sugli sprovveduti. Per smerdare si usa innanzitutto il tu quoque (“Le tue canzoni di qualche anno fa non erano politicamente corrette!” Fedez: “Ho sbagliato, ma poi ho cercato di migliorarmi”). Poi l’aringa rossa, cioè spostare l’attenzione su un tema non rilevante (“Fedez ha una Lamborghini da 200mila euro. Vive in un attico da 2 milioni!” Fedez: “Se compro una Panda sono più credibile e posso dire quello che penso?”). Poi il benaltrismo (“Perché invece non ha parlato di Amazon che vessa i lavoratori? E del video di Grillo? E della Palestina?” Fedez: “C’è una lista di temi a cui devo dare una risposta prima di esprimere una mia opinione?”). Poi si insinua che lo fa per convenienza (“Così accalappia follower e like.”). Poi lo si sfotte (“Da Sciascia e Pasolini siamo arrivati a Fedez e Ferragni”). Poi si confondono le acque (Polito sul Corriere: “Si deve certamente essere d’accordo sulla sua libertà di dirlo da un palco sul quale è stato invitato. Lo si sarebbe con ancora maggiore entusiasmo se i difensori del diritto di parola di Fedez avessero usato la stessa energia nel difendere la comicità di Pio e Amedeo”. Come se un monologo in difesa dei diritti Lgbt+ fosse equivalente a uno sketch che le comunità di riferimento hanno giudicato razzista e omofobo). La procedura punitiva viene poi estesa ai sorveglianti maldestri (il leghista Capitanio: “Vogliamo vedere il contratto tra la società esterna che ha organizzato il Concertone e la Rai per un esposto alla Corte dei Conti e per esprimere un atto di indirizzo in Vigilanza, affinché l’Azienda di Servizio Pubblico impugni il contratto alla luce dei gravi errori che ci sono stati sul palco del Concertone. E mi riferisco sia all’uso strumentale della festa dei lavoratori per parlare d’altro senza contraddittorio, peraltro in una rete pubblica, e sia al mancato controllo sulla promozione di marchi pubblicitari da parte di Fedez, cosa assolutamente vietata dalle policy Rai”. La procedura punitiva contro l’eroe popolare si conclude, in genere, con una o più azioni legali (“La Rai ipotizza una denuncia contro il cantante”) che lo tengano impegnato in tribunale per decenni. Colpirne uno per educarne cento.

(7. Continua)

 

Figliuolo sulle orme dell’ingegner Cane

Non vorremmo sembrare blasfemi, visto che il personaggio è ormai in odore di santità, ma il comm. str. Gen. Francesco Paolo Figliuolo ci ricorda sempre più il fortunato personaggio televisivo dell’Ingegner Cane, una delle migliori creazioni di Fabio De Luigi. Grande amante dei numeri, all’Ingegnere si riempiva il cuore quando fantasticava con le potenze di dieci: “Mille! Mille Mila! Milioni!”. Ce lo immaginiano un po’ così, Figliuolo, talmente appassionato di cifre da smentire continuamente le sue stesse stime sulla campagna vaccinale, solo per il gusto di annunciarne delle nuove. Nonostante l’Italia sia in ritardo di settimane rispetto alle prime previsioni riguardo le 500 mila somministrazioni al giorno, ieri su La Stampa Figliuolo si è impettito: “Vaccini, giugno il mese clou: un milione di dosi al giorno”. E chissà a luglio, quando magari saremo in pari con le previsioni di aprile (quelle delle 500 mila al giorno) e il commissario festeggerà scalando di qualche altro zero i pronostici. Per la gioia della Stampa, che gli crederà senza neanche controllare se quello che parla è Figliuolo, Crozza che lo imita o l’Ingegner Cane con la tuta mimetica.

Scuola, scricchiola la sanatoria dei precari

Avrebbe dovuto essere caso chiuso lunedì l’accordo con i sindacati che doveva garantire una sistemazione ai precari della scuola già questo settembre. Avrebbe dovuto essere quasi fatto un decreto ad hoc, per pescare sia dai vincitori del concorso straordinario di questa estate, sia da altre graduatorie, magari per merito e servizio, valutando il percorso di ogni docente e concludendolo con una sorta di prova di conferma di quanto appreso nel corso dell’anno. L’obiettivo dichiarato era fare in modo che a settembre ci fossero in cattedra quanti più docenti “definitivi” possibile, per una quota di circa 60mila in totale. E invece è ancora tutto fermo.

Anzi, un po’ tutto pare andare storto tanto che ieri il sottosegretario della Lega, Rossano Sasso, che da anni difende i diritti dei precari e chiede per loro un percorso più rapido, ha iniziato a frenare l’ottimismo. “Sulla sacrosanta stabilizzazione degli insegnanti precari si procede come in una gara a ostacoli – ha scritto in un post pubblicato su Facebook –. Prima si è dovuta superare la strumentale opposizione ideologica del Movimento 5 Stelle (…) ora vengono sollevate questioni economiche che rischiano di bloccare l’operazione. Tutto ciò è inaccettabile, soprattutto alla luce delle centinaia di milioni di euro spesi inutilmente per la scuola nell’ultimo anno”.

Lo stallo in realtà è a Palazzo Chigi, che deve fornire il suo parere sul piano. Ma, come accennato da Sasso, è anche al ministero dell’Economia dove proprio sembrano far fatica a comprendere in virtù di quali motivazioni concedere queste assunzioni. Basta in realtà fare qualche pratico conteggio per spiegarselo: volendo, 32mila docenti precari sono già stati previsti (e in via di assunzione) con il concorso straordinario riservato proprio a loro concluso in queste settimane. Una parte continuerà a essere prelevata dalle residue graduatorie ancora aperte. Saranno certamente vacanti molti posti per il sostegno, da coprire con docenti specializzati e che è probabile resteranno ulteriormente scoperti in caso di sanatoria.

Inoltre, in generale, i concorsi già indetti potrebbero aver esaurito le facoltà assunzionali deiprossimi anni. Basti pensare che per quello ordinario, sospeso a causa del Covid ma con candidature già aperte e chiuse, sono arrivate più di 400mila domande. A questo, si aggiunge la denatalità che nei progetti del ministero dovrebbe tenere invariato per i prossimi anni il numero dei docenti, riducendo al contempo il loro rapporto numerico con gli studenti.

Sasso fa poi riferimento anche al superamento del vincolo quinquennale, ovvero dell’obbligo per i docenti che prendono una cattedra di rimanere nello stesso posto per almeno cinque anni prima di poter chiedere il trasferimento. Abbiamo già raccontato come, nel Piano Nazionale di Ripresa e resilienza inviato a Bruxelles si indichi con un massimo di tre anni il vincolo a partire dal 2022. Ora, però, potrebbe essere disatteso anche il progetto di concederlo per quest’anno, visto che il vincolo di fatto riduce il rischio di un ulteriore supplentite o comunque di una ulteriore complicazione che potrebbe presentarsi prima di settembre.

Nuova legge e modifiche Ue. M5S rilancia il salario minimo

Nove euro l’ora come soglia minima sotto la quale nessun salario potrà scendere, da accompagnare a un meccanismo per misurare la rappresentatività dei sindacati e quindi definire quali contratti potranno essere validi. La senatrice ed ex ministra del Lavoro Nunzia Catalfo ha presentato un nuovo disegno di legge su uno dei cavalli di battaglia del Movimento. In parallelo, il gruppo M5S all’Europarlamento ha lanciato ieri gli emendamenti per rendere più incisiva la direttiva europea proposta a ottobre dalla Commissione.

Il contesto politico attuale è questo: a fine aprile, il governo Draghi ha rimosso il salario minimo dalla versione definitiva del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr); il ministro Andrea Orlando è fermo, poiché gli alleati di destra, sindacati e Confindustria sono contrari. Meglio non infastidire le parti sociali mentre si tratta la riforma degli ammortizzatori sociali. La nuova offensiva del Movimento 5 Stelle agisce ora su due fronti: europeo e nazionale. Durante un evento pubblico, di ieri la legge sul salario minimo è stata sostenuta anche dal ministro degli Esteri Luigi Di Maio e dalla sottosegretaria del Lavoro Rossella Accoto, oltre che da una folta delegazione di parlamentari italiane ed europee. “Istituire per legge il salario minimo significa restituire dignità al lavoro”, ha detto la presidente della commissione Lavoro del Senato Susy Matrisciano. Di Maio ha ricordato che il salario minimo era previsto già con il reddito di cittadinanza, ma nel 2018 non si trovò l’accordo con gli alleati della Lega. Il governo Conte due ha provato a recuperare, con l’obiettivo di affiancare la proposta al Recovery Plan, ma poi è caduto. L’attuale maggioranza è ben più ostica.

La Commissione von der Leyen, proprio per rispettare gli accordi che hanno permesso la nascita della “maggioranza Ursula” a Strasburgo, sta intervenendo con una direttiva. Il testo iniziale rischiava di non produrre grossi effetti in Italia. L’Ue non può imporre un salario minimo agli Stati membri – non è previsto dai trattati – e la prima versione fissava come obiettivo il 70% di copertura con i contratti collettivi. Percentuale già ampiamente rispettata nel nostro Paese. Il testo non interveniva sul problema italiano dei contratti pirata siglati da sindacati non rappresentativi. L’europarlamentare Daniela Rondinelli ha spiegato le modifiche proposte: “Uno dei criteri che manca – ha detto – è far sì che il salario minimo sia al di sopra della povertà relativa. Poi andrebbe eliminato il riferimento alla produttività, che non convince perché non si spiega se si intende quella del lavoratore, di settore o nazionale”. Il target dei contratti nei Paesi senza salario minimo legale sarebbe elevato al 100%, contando anche atipici e tirocinanti. I parametri di riferimento per calcolare il livello – 60% del salario mediano e 50% del salario medio – diventerebbero più stringenti e sarebbero escluse dai bandi pubblici le imprese che non rispettano il salario minimo. Infine i pentastellati suggeriscono di introdurre il concetto di sindacato “maggiormente rappresentativo” nei negoziati per combattere i contratti pirata. Il nuovo disegno di legge Catalfo agisce sulla stessa linea d’onda, per fornire una base che recepisca la direttiva: “Il ddl valorizza i contratti collettivi nazionali ‘leader’ – spiega – ossia quelli siglati dai soggetti comparativamente più rappresentativi sul piano nazionale, definisce specifici criteri atti a pesare il grado di rappresentatività sia delle organizzazioni sindacali sia di quelle datoriali, introduce una sorta di test di ‘dignità’ salariale, una soglia minima inderogabile fissata a 9 euro, in linea con i parametri di adeguatezza individuati dalla Commissione o dalla direttiva”. “In questo modo i ccnl sarebbero rafforzati – aggiunge – perché questa soglia test opererebbe solo sulle clausole relative ai minimi e solo se al di sotto della soglia stabilita, lasciando ai contratti collettivi la regolazione delle voci retributive. Si introduce una commissione tripartita formata dalle parti sociali maggiormente rappresentative col compito di aggiornare l’osservanza del trattamento economico proporzionato e sufficiente così da garantire ai lavoratori una giusta retribuzione; prevede, poi, agevolazioni, fondamentali per arginare gli effetti della crisi per i datori di lavoro, come la detassazione della parte di salario aggiuntivo dovuto al rinnovo contrattuale o all’applicazione del salario minimo”.

“Ciro? Io e la colf già sveglie. Non abbiamo sentito nulla”

Il 22 ottobre 2019, i magistrati di Tempio Pausania convocano Parvin Tadjik, moglie di Beppe Grillo. È una testimone nell’inchiesta sul presunto stupro di gruppo che coinvolgerebbe il figlio della coppia, Ciro, perché la notte fra il 16 e 17 luglio 2019 la donna dormiva nell’appartamento a fianco. “La sera ho accompagnato tutti e quattro i ragazzi al Billionaire – racconta – Li portavo per evitare che rientrassero con la macchina di notte e che guidasse l’unico con la patente, Francesco Corsiglia. Poi sono andata a letto dopo aver salutato un’amica che stavo ospitando e che è partita proprio nelle prime ore della mattina del 17. Io mi sono svegliata alle 9 e ho fatto colazione nel patio della mia abitazione. Non ho visto né sentito alcunché di anomalo. Quella mattina non sono andata in spiaggia, e quindi ne ho approfittato per sistemare un po’ di cose. Peraltro ho visto che all’esterno vi era il giardiniere Massimo che lavorava nei giardini antistanti gli appartamenti”.

La testimonianza di Parvin Grillo viene raccolta tre mesi dopo i fatti denunciati da S.J., studentessa ventenne di Milano che accusa i coetanei di averla violentata dopo una notte passata insieme in discoteca. I pm Gregorio Capasso e Laura Bassani hanno già ispezionato il teatro della vicenda e disposto una perizia fonometrica, per capire cosa si possa sentire e a quale distanza. Aspetti fondamentali se si considera quanto dichiarato a verbale dalla moglie del fondatore del Movimento: si è alzata alle 9, ovvero all’ora in cui, secondo quanto ricostruito, sarebbe iniziato il rapporto di gruppo che ha coinvolto la ragazza e tre dei ragazzi – Ciro Grillo, Edoardo Capitta e Vittorio Lauria – mentre il quarto, Corsiglia, si era già addormentato.

“Spontaneamente – aggiunge Parvin Tadjik – intendo precisare che per motivi di sicurezza e anche per la mia tranquillità, avevo chiesto espressamente ai ragazzi di tenere le finestre aperte della sala anche di notte, così come io facevo, in modo da poter essere comunque ‘in contatto’ con loro, fermo restando che le zanzariere restavano chiuse”.

Dal verbale della mamma di Ciro emerge un particolare finora inedito in questa storia: qualunque cosa sia successo quella notte non è avvenuto in casa Grillo. Ai pm infatti la donna racconta che in vista dell’arrivo degli amici del figlio aveva chiesto in prestito la casa a un’amica “con cui ogni tanto ci scambiamo favori”. I due appartamenti, all’interno del Golf Club Pevero di Porto Cervo, sono divisi da un patio. “Loro erano ospitati nell’abitazione a fianco, nella nostra dormivo io con la mia colf, e a rotazione sono venute alcune amiche a trovarmi”, si legge nel verbale. “La colf faceva le pulizie ai ragazzi ogni giorno”.

L’incontro tra i quattro ragazzi genovesi e le due amiche milanesi, S.J. e R.M, avviene in discoteca. Alla chiusura del locale le due ragazze, che hanno un B&B a Porto Pollo, a 35 chilometri, accettano l’invito a fermarsi dai quattro coetanei, a pochi minuti di strada dal Billionaire. A casa il gruppo cucina una pasta. R.M. racconta di aver perso di vista dopo cena sia lui che l’amica S.J. Secondo quest’ultima, dopo un tentativo di rifiuto, il ragazzo l’avrebbe violentata intorno alle 6. Successivamente, dopo aver essere stata “costretta a bere della vodka dall’odore strano”, sarebbe stata violentata dagli altri tre. Un rapporto di cui esiste anche un filmato ripreso con il cellulare, interpretato in modo non univoco da accusa e difesa. In questo lasso di tempo Grillo, Capitta e Lauria si sarebbero scattati una serie di foto oscene accanto a R.M, addormentata sul sofà, cosa che costa loro una seconda accusa di violenza sessuale. Secondo i ragazzi tutti i rapporti sono stati consenzienti.

Gli inquirentidomandano a Parvin Tadjik se allora avesse notato qualcosa di strano. La mamma di Ciro rievoca un episodio: “Quello che ricordo con certezza è che il giorno dopo i ragazzi sono venuti a pranzare dopo le 15, anziché alle 14 come al solito. Per questo io mi sono un po’ alterata e ho chiesto spiegazioni. Ricordo perfettamente che sia mio figlio Ciro che Francesco mi dissero di aver accompagnato poco prima due ragazze ad Arzachena e per quel motivo avevano ritardato. Ho infatti registrato con il mio telefono un video da mandare alle tre mamme dei ragazzi, con cui abbiamo una chat”. E alla richiesta su come fosse andata la serata: “Mi hanno detto che avevano conosciuto due ragazze con cui avevano trascorso la serata, e che si erano fermate a dormire perché non se la sentivano di tornare a casa. Mi hanno detto di aver fatto uno spaghetto assieme. Non mi è stata fatta alcuna confidenza su quella notte, i ragazzi erano tranquilli”.

Parvin Tadjik è certa dell’estraneità del figlio. Una convinzione che ha espresso sui social, dopo il video-sfogo del marito, in risposta all’ex ministra Maria Elena Boschi: “C’è un video che testimonia l’innocenza dei ragazzi, in cui si vede che lei è consenziente”.

AstraZeneca: cresce la paga dell’ad Soriot. L’Ue fa un’altra causa

Nonostante la ribellione di alcuni grandi azionisti come Aviva e Standard Life Aberdeen e la guerra legale con l’Unione europea sulla fornitura di vaccini anti-Covid, ieri l’amministratore delegato di AstraZeneca Pascal Soriot ha brindato: la sua paga è stata aumentata per la seconda volta in due anni. E proprio ieri l’Ue ha avviato una seconda azione legale contro AstraZeneca chiedendo la consegna entro giugno “delle 90 milioni di dosi che sarebbero dovute arrivare alla fine del primo trimestre, visto che ne abbiamo ricevuto solo 30 su 120”.

Ma l’assemblea degli azionisti, dov’era presente meno di tre quarti del capitale, ha approvato con il 60% di voti a favore la nuova politica di remunerazione della multinazionale farmaceutica anglo-svedese e ora Soriot potrà ottenere un bonus annuale basato sulla performance pari a un massimo del 250% della sua paga base, rispetto al 200% in vigore nel 2020, e incentivi azionari a lungo termine sino al 650% della paga base invece del vecchio tetto del 550%. Non che Soriot piangesse miseria, visto che l’anno scorso grazie ai bonus di performance era stato pagato 17,9 milioni di euro.

Entrato in carica in AstraZeneca nel 2012 dopo essere stato direttore generale della divisione farmaceutica di Roche e ad di Genentech, che ha guidato alla fusione proprio con Roche, il francese Soriot vanta notevoli risultati nella trasformazione della ricerca di nuovi farmaci e ha più che raddoppiato il prezzo delle azioni del gruppo farmaceutico. AstraZeneca, che conta 76.100 dipendenti nel mondo e si concentra soprattutto su tre aree (oncologica, cardiovascolare renale e metabolismo, respiratoria e immunologica), ha chiuso il 2020 con ricavi in crescita del 9% a 26,6 miliardi di dollari, cash flow in aumento del 62% a 4,8 miliardi e un utile netto di 3,1 miliardi, in aumento del 156% rispetto agli 1,2 del 2019. Ma non mancano i problemi: il vaccino Covid-19 di Az, sviluppato con l’Università di Oxford, ha avuto ritardi nella produzione ed effetti collaterali molto rari. La commissione Ue ha intrapreso due cause contro la multinazionale, appunto, accusandola di non aver rispettato il contratto di fornitura. AstraZeneca sostiene invece di aver rispettato l’accordo e si difenderà in tribunale. Solo domenica scorsa l’Ue ha annunciato lo stop al rinnovo del contratto tra AstraZeneca, dopo che Bruxelles ha firmato con Pfizer un nuovo accordo per la fornitura di altre 900 milioni di dosi e un’opzione su ulteriori 900 milioni entro il 2023.

Soriot non è comunque l’unico fortunato: dall’inizio della pandemia molti amministratori delegati di società farmaceutiche hanno visto crescere i loro già lauti compensi. L’anno scorso Ugur Sahin, Ceo della tedesca Biontech, ha guadagnato 7,4 milioni di dollari: dopo l’accordo con Pfizer sui vaccini oggi il suo patrimonio è aumentato a 5,9 miliardi di dollari. Albert Bourla, ad di Pfizer, nel 2020 ha visto la sua paga totale crescere del 17,3% a 21 milioni di dollari. Alex Gorsky, ad di Johnson&Johnson, l’anno scorso ha ricevuto 29,6 milioni (+16,6%). Il patrimonio del ceo di Moderna, Stephane Bancel, è salito a 5,2 miliardi.

Dall’inizio della pandemia, Bancel ha incassato oltre 142 milioni di dollari in azioni Moderna. A brindare sono stati anche gli azionisti: secondo la Ong People’s Vaccine Alliance, negli ultimi 12 mesi Pfizer, Johnson&Johnson e AstraZeneca hanno pagato 26 miliardi di dollari tra dividendi e riacquisto di azioni. La somma sarebbe bastata a vaccinare 1,3 miliardi di persone, l’intera popolazione dell’Africa.

“Non fu la Cina a voler cancellare il report sul Piano pandemico”

Pubblichiamo un estratto de “Il pesce piccolo” (Feltrinelli) dell’ex ricercatore dell’Oms Francesco Zambon, autore del report sul piano pandemico italiano pubblicato e subito cancellato dal sito dell’Oms nel maggio 2020.

 

Il rapporto fu ritirato il 14 maggio. Cosa accadde veramente? Ecco i fatti salienti. Cozzano in tutto e per tutto con quanto detto sette mesi più tardi dall’ufficio stampa Oms e da Guerra (Ranieri, ex direttore generale della prevenzione del ministero della Salute ora direttore vicario dell’Oms). (…)

A Roma era scoppiato l’incendio. C’era un certo disappunto da parte dell’Istituto Su- periore di Sanità e del ministro. Come poteva esserci del disappunto alle nove della mattina, se la pubblicazione (102 pagine) era stata messa online solo qualche ora prima, con la notte in mezzo? Alle 9:19 telefonai a Silvio Brusferro, presidente dell’Istituto Superiore di Sanità. Pensavo avesse chiamato lui hk (direttore della regione europea dell’Oms), ma mi sbagliavo. Mi disse di aver telefonato a Guerra e che Speranza non sapeva niente della pubblicazione. (…) Poteva poi un ministro essere risentito per un rapporto indipendente e trasparente che, in realtà, gli dava lustro? (…)

Nel giro di poche ore la cosa aveva assunto dimensioni enormi e aveva toccato tutti i vertici. (…) Il colpo di grazia venne da molto: la Cina. Mi telefonò il capo ufficio Oms di Pechino alle 12:11. “Ritira immediatamente la pubblicazione”. Diceva (come per il piano pandemico, poco più di dieci righe) conteneva informazioni sulla cronologia della pandemia che avrebbero causato problemi enormi di ordine politico.

Il rapporto venne ritirato alle 12:34 del 14 maggio. Meno di venti ore di vita. Durante la sua breve esistenza era stato scaricato migliaia di volte, inoltrato a migliaia di persone, dato alla stampa, messo online su molti siti. (…) Cosa c’era di tanto grave nel testo sulla Cina? Tre paragrafi, una porzione insignificante di testo su 102 pagine, il cui unico scopo era dire qualcosa, in maniera sintetica, su come si era sviluppata la pandemia. Per quello che si sapeva, ovviamente. L’ultimo vaglio della cronologia dei fatti cinesi l’avevo fatto io stesso. Si trattava di fonti Oms o governative, avevo ritenuto che fossimo in una botte di ferro. Grave errore! La cronologia della pandemia, infatti, era stata rivista dall’Oms il 27 aprile, proprio mentre stavamo scrivendo il testo. (…) Ritenemmo che quei paragrafi non fossero rilevanti ai fini della storia italiana e, date l’incertezza e la politicizzazione dell’argomento, decidemmo di toglierlo. (…) Per rimettere tutto a posto mi ci sarebbero volute un paio d’ore, ma arrivò un fulmine a ciel sereno. Non da Pechino, non da Roma, ma da Copenaghen. Ore 13 (26 minuti dopo il ritiro): Copenaghen mi tolse la facoltà di rimettere online la pubblicazione, . Solo hk, si precisava, poteva dare l’ordine.

Quindi non fu colpa della Cina. I motivi dell’abbattimento, questa volta definitivo, della pubblicazione del rapporto andavano dunque ricercati altrove:

Guerra aveva fatto pressioni per cambiare il testo sul piano pandemico prima che il rapporto fosse reso pubblico;

il riferimento al piano pandemico non era stato modificato: si affermava che era quello del 2006;

Guerra aveva fatto pressioni dopo il ritiro del rapporto da siti esterni all’Oms, in modo che scomparisse completamente dai radar.

Della Cina non si preoccupò più nessuno. A poche ore dal ritiro arrivò la proposta di una revisione della pubblicazione a opera di una commissione formata da Oms, Istituto Superiore di Sanità e ministero della Salute. Per quale motivo bisognava istituire un gruppo che rivedesse un testo che era già stato approvato a tutti i livelli dell’Oms? Per quale motivo un testo indipendente doveva essere rivisto da coloro che erano oggetto della pubblicazione? (…) Cosa sarebbe successo se qualcuno si fosse accorto che il testo “rivisto” dal ministero era diverso da quello rilasciato precedentemente? Quale spiegazione sarebbe stata data alla stampa e ai quindicimila contatti che avevano ricevuto il rapporto?

© Giangiacomo Feltrinelli Editore Milano

Coprifuoco e riaperture: Draghi ora frena tutti, ma cambiano i parametri

Di fronte a un’altra giornata di fuoco, a gelare gli spiriti aperturisti della destra, più il solito Matteo Renzi, ci pensa il premier Mario Draghi. Palazzo Chigi ha deciso che venerdì non si riunirà la cabina di regia sulle riaperture. Sarà fissata per lunedì 17, cioè il giorno in cui secondo la Lega si dovrebbe “riaprire tutto. Il premier pochi giorni fa infatti aveva detto sì alle riaperture “ma con la testa”, che nel concreto significa aspettare i “dati consolidati” che arriveranno nel monitoraggio di venerdì, a tre settimane dal 26 aprile quando sono state ripristinate le zone gialle e sono ripartiti i locali pubblici all’aperto.

Però, per quel giorno, si punta a modificare i parametri per ridurre il peso dell’indice di riproduzione del virus, Rt, che con le regole attuali farebbe andare in arancione diverse Regioni anche grandi già da lunedì. Il governo ne discute oggi con le Regioni, che forse avranno qualche margine di discrezionalità in più. Certamente conterà di più l’incidenza, cioè i nuovi casi ogni 100 mila abitanti in 7 giorni, con tre fasce sotto i 50, da 50 a 150 e oltre 150 (oggi siamo a 107, -19% negli ultimi 7 giorni); probabilmente saranno abbassate le soglie d’allerta negli ospedali. Ma i tecnici della Salute vogliono anche indicatori più precoci dell’eventuale ripresa dell’epidemia: si parla di un diverso calcolo di Rt o di utilizzare le proiezioni a 30 giorni che fa Agenas, l’Agenzia per i servizi sanitari regionali. Di sicuro nessuna Regione andrà in arancione il 17 solo perché Rt supera 1, come è probabile che avvenga (era a 0,89 venerdì scorso). E non è chiaro quando il coprifuoco slitterà dalle 22 alle 23 o alle 24.

Di riaperture, invece, si parlerà dall’inizio della prossima settimana. A fine giornata un ministro di peso fotografa la situazione: “È tutti contro tutti”. Sulle riaperture, infatti, quella di ieri è stata un’altra giornata di caos nel governo Draghi. Da una parte la destra e Italia Viva fanno la rincorsa, tra loro e con l’opposizione di Fratelli d’Italia, a chi chiede di riaprire prima e di più; dall’altra Pd, M5S e il ministro della Salute Roberto Speranza, pur dicendosi disponibili a parlarne, invocano “gradualità” e “prudenza” e chiedono di fermare “la propaganda”.

Tutto era iniziato ieri mattina quando, alla fine della cabina di regia sul decreto Sostegni Bis, e quando Draghi aveva già lasciato la riunione, i capidelegazione Giancarlo Giorgetti (Lega), Mariastella Gelmini (Forza Italia) ed Elena Bonetti (Italia Viva) hanno posto al sottosegretario a Palazzo Chigi, Roberto Garofoli, la richiesta di convocare una cabina di regia sulle riaperture venerdì, chiedendo la revisione del coprifuoco e delle norme sui locali al chiuso. I leghisti in particolare erano irritati per le voci di un possibile rallentamento voluto da Draghi. Così è ripartito il pressing, stavolta parlamentare. Perché di fronte alla mozione presentata per giovedì al Senato da Fratelli d’Italia, in cui si chiede di “abolire l’inutile misura del coprifuoco alle 22”, il centrodestra di governo (Lega, FI, Cambiamo! e Udc) ha presentato una contromozione per chiedere di eliminare il coprifuoco e anticipare tutte le riaperture (previste per giugno e luglio) di ristoranti al chiuso, centri commerciali, piscine, palestre, fiere, convegni, eventi, stadi e matrimoni. “Con questi dati non si può tenere la gente chiusa in casa”, dice Salvini. A quel punto Fratelli d’Italia rilancia con una ulteriore mozione per limitare la mascherina all’aperto. E Italia Viva presenta una mozione autonoma per abolire il coprifuoco. Matteo Renzi twitta: “I vaccini funzionano e ora è tempo di riaprire. Basta coprifuoco, basta allarmismi”. M5S e Pd, pur condividendo la necessità di riaprire, però frenano. Oggi in Senato si terrà una riunione di maggioranza in cui il ministro ai Rapporti col Parlamento Federico D’Incà proverà a trovare una quadra per non arrivare a un incidente parlamentare, l’ennesimo sul coprifuoco. Sempre oggi, nel question time alla Camera, anche il premier Draghi potrebbe provare a rassicurare sulle riaperture. I grillini attaccano “la propaganda” leghista, i dem insistono che le riaperture devono avvenire in base ai dati. E anche Draghi attende i dati.

Giustizia, la rabbia dei 5Stelle: “Basta, così ci provocate”

Ciò che i 5Stelle non vogliono (ancora) urlare lo sibila un deputato di mattina, dentro Montecitorio: “Se vanno avanti così sulla giustizia io mi faccio esplodere”. Vuole farsi detonare, il grillino della vecchia guardia che ha appena letto le dichiarazioni a Cusano Italia Tv di Francesco Paolo Sisto, sottosegretario forzista alla Giustizia: “Metteremo mano alla riforma della prescrizione di Bonafede, il processo eterno finirà”. Un attacco alla gola del Movimento. “Parole provocatorie e irricevibili” le bolla il capogruppo dei 5Stelle in commissione Giustizia alla Camera, Eugenio Saitta. Vorrebbero dire molto di più, i grillini. Ma fiutano la botola di Sisto, che li morde per spingerli ad andare in frontale contro la ministra Marta Cartabia (nella foto). E il M5S non vuole e non può ancora arrivarci. Anche se è molto preoccupato, dopo l’incontro di lunedì sera tra la ministra della Giustizia e i capigruppo di maggioranza. Perché di fronte ai partiti Cartabia ha tirato fuori i risultati dei tavoli tecnici dentro il suo ministero sulla riforma del processo civile e di quello penale.

E i Cinque Stelle hanno sentito proposte da allarme rosso: partendo delle due ipotesi di riforma della prescrizione, una processuale (tempi massimi per iniziare i procedimenti, e poi termini per completare i vari gradi di giudizio) e un’altra sulla falsariga della proposta dell’ex ministro Orlando, con una sospensione a tempo della prescrizione per i vari gradi. Ma ad agitare i grillini è anche l’idea di rendere inappellabili le sentenze da parte dei pm, fino all’ipotesi che sia il Parlamento a indicare con atto formale i reati su cui indagare in via prioritaria. “L’80 per cento delle proposte sul processo penale non sono accettabili” riassumono. Ed è quello il nodo. Non è un caso che ieri al Fatto Luigi Di Maio lo abbia precisato: “Per noi le priorità sono la riforma del processo civile e del Csm”. Sul resto, è la linea dei 5Stelle, meglio non forzare. E possibilmente non toccare. Certo, il Movimento non vuole ancora andare allo scontro: “Non c’è ancora nulla di scritto, non abbiamo neppure una bozza del pacchetto Cartabia”.

Ma l’umore è plumbeo e il sospetto di un’affinità di linea non casuale tra la ministra e Forza Italia monta, anche nei colloqui ai piani alti. Così la deputata Angela Salafia conta fino a dieci, ma lo dice: “L’unica ragione per cui siamo entrati nel governo Draghi è difendere le nostre battaglie, e la prescrizione è una di queste. Il lavoro fatto si può sempre migliorare, ma non si può buttare via”. Però lì fuori c’è sempre Forza Italia ad attizzare il fuoco, con la capogruppo in Senato, Anna Maria Bernini: “Le critiche dell’ala giustizialista alla ministra Cartabia confermano che le linee generali della riforma illustrate ieri alla Camera vanno nella giusta direzione”. Verranno giorni difficili, per i Cinque Stelle.

Boss in libertà: “Collaborare non sia l’unica via per uscire”

La collaborazione con la giustizia non può essere “l’unica strada a disposizione” dei boss irriducibili per ottenere la libertà condizionale. Il motivo? L’obiettivo della pena deve essere la rieducazione del condannato. È seguendo questo principio che la Consulta ha decretato l’incompatibilità dell’ergastolo ostativo con la Costituzione. Una sentenza che potrebbe equivalere a una picconata definitiva a quel sistema di contrasto alla mafia inventato a suo tempo da Giovanni Falcone, diventato legge solo dopo Capaci e via d’Amelio. E che nei fatti potrebbe mettere una pietra tombale su ogni possibilità di accedere ai segreti delle stragi. I condizionali sono d’obbligo visto che è stata la stessa Consulta a concedere un anno di tempo al Parlamento per riscrivere l’articolo 4 bis dell’ordinamento penitenziario. È quello che vieta a mafiosi e terroristi condannati all’ergastolo di accedere alla libertà vigilata dopo 26 anni di detenzione, se non in caso di collaborazione con la giustizia. Condizione in cui si trovano, tra gli altri, boss del livello dei fratelli Graviano o di Leoluca Bagarella, quelli che appunto potrebbero raccontare i retroscena delle bombe degli anni ‘90. È per questo motivo che la Corte ha concesso 12 mesi al legislatore per mettere mano alla norma.

“Un intervento meramente ‘demolitorio’ potrebbe mettere a rischio il complessivo equilibrio della disciplina in esame, e, soprattutto, le esigenze di prevenzione generale e di sicurezza collettiva che essa persegue per contrastare il pervasivo e radicato fenomeno della criminalità mafiosa”, riconosce la Corte guidata da Giancarlo Coreggio nelle 19 pagine di ordinanza redatte dal giudice Nicolò Zanon. Ex consigliere laico del Csm in quota Popolo della Libertà, poi nominato da Giorgio Napolitano alla Corte costituzionale, Zanon è stato relatore anche della sentenza che nel 2019 aveva già bollato come incostituzionale una piccola parte dell’articolo 4 bis: quella che vieta i permessi premio per gli ergastolani ostativi. La posta in gioco questa volta è molto più pesante: il ritorno alla libertà per i detenuti al fine pena mai in assenza di una collaborazione con la giustizia. Il principio è semplice: se non collabori non puoi ottenere benefici. Per la Consulta, però, “lo scambio in questione può assumere una portata drammatica, allorché obbliga a scegliere tra la possibilità di riacquisire la libertà e il suo contrario, cioè un destino di reclusione senza fine”. Peggio: “In casi limite può trattarsi di una ‘scelta tragica’: tra la propria (eventuale) libertà, che può tuttavia comportare rischi per la sicurezza dei propri cari, e la rinuncia a essa, per preservarli da pericoli”. E ancora: “Quale condizione per il possibile accesso alla liberazione condizionale, il condannato alla pena perpetua è caricato di un onere di collaborazione, che può richiedere la denuncia a carico di terzi, comportare pericoli per i propri cari, e rischiare altresì di determinare autoincriminazioni, anche per fatti non ancora giudicati”.

Ma non è proprio grazie anche alle migliaia di pentiti che lo Stato è riuscito a limitare la violenza e il potere di Cosa nostra negli ultimi 30 anni? “Ciò non significa – scrive la Consulta – svalutare il rilievo e utilità della collaborazione intesa come libera e meditata decisione di dimostrare l’avvenuta rottura con l’ambiente criminale, e che certamente mantiene il proprio positivo valore, riconosciuto dalla legislazione premiale vigente, qui non in discussione. Significa, invece, negarne la compatibilità con la Costituzione se e in quanto essa risulti l’unica possibile strada, a disposizione del condannato all’ergastolo, per accedere alla liberazione condizionale”.

E dunque, trattandosi di “tipiche scelte di politica criminale, destinate a fronteggiare la perdurante presunzione di pericolosità ma non costituzionalmente vincolate nei contenuti”, la Consulta spiega che “appartiene alla discrezionalità legislativa (…) decidere quali ulteriori scelte risultino opportune per distinguere la condizione di un tale condannato alla pena perpetua rispetto a quella degli altri ergastolani”. Entro il 10 maggio 2022 il Parlamento dovrà aver riscritto l’articolo 4-bis. I boss irriducibili aspettano. E sperano.