Nel documentare il tentativo di censura, Fedez ha commesso un’ingenuità: l’ha definita “censura”, ma ancora non lo era (Ilaria Capitani, vicedirettrice di Rai 3: “Ci tengo a sottolinearle che la Rai non ha assolutamente una censura, ok? Non è questo. Dopodiché io ritengo inopportuno il contesto”); e un errore: ha tagliato qua e là il video per riassumerlo, ottenendo un effetto enfatico (un silenzio apparente di Capitani dopo una sua domanda) che nell’audio originale non c’era (Fedez: “Posso dire delle cose che per lei sono inopportune ma che per me sono opportune, non hanno turpiloqui o bestemmie e riportano semplicemente i fatti?” Capitani: “Assolutamente”). Resta il problema (Fedez: “Un artista meno privilegiato avrebbe ceduto probabilmente. E i dipendenti Rai, una tv di Stato, devono scegliere tra libertà di parola e far mangiare la famiglia. È giusto questo?”). Dopo l’esplosione della bomba satirica di Fedez (la denuncia delle pressioni dissuasive degli organizzatori del Concertone e della Rai, l’attacco alla Lega che si oppone al ddl Zan, e la chiusa sull’ipocrisia del Vaticano che ha investito milioni di euro in un’azienda che produce la pillola del giorno dopo), il sistema vigente di sorveglianza e punizione ha attivato il solito protocollo. La procedura, rodatissima, consiste nello smerdare l’eroe. (Vi si dedicano in parecchi, e fanno sempre carriera). Smerdare l’eroe è una fallacia ad hominem (invece di replicare nel merito della denuncia, si attacca la persona che l’ha fatta), ma fa presa sugli sprovveduti. Per smerdare si usa innanzitutto il tu quoque (“Le tue canzoni di qualche anno fa non erano politicamente corrette!” Fedez: “Ho sbagliato, ma poi ho cercato di migliorarmi”). Poi l’aringa rossa, cioè spostare l’attenzione su un tema non rilevante (“Fedez ha una Lamborghini da 200mila euro. Vive in un attico da 2 milioni!” Fedez: “Se compro una Panda sono più credibile e posso dire quello che penso?”). Poi il benaltrismo (“Perché invece non ha parlato di Amazon che vessa i lavoratori? E del video di Grillo? E della Palestina?” Fedez: “C’è una lista di temi a cui devo dare una risposta prima di esprimere una mia opinione?”). Poi si insinua che lo fa per convenienza (“Così accalappia follower e like.”). Poi lo si sfotte (“Da Sciascia e Pasolini siamo arrivati a Fedez e Ferragni”). Poi si confondono le acque (Polito sul Corriere: “Si deve certamente essere d’accordo sulla sua libertà di dirlo da un palco sul quale è stato invitato. Lo si sarebbe con ancora maggiore entusiasmo se i difensori del diritto di parola di Fedez avessero usato la stessa energia nel difendere la comicità di Pio e Amedeo”. Come se un monologo in difesa dei diritti Lgbt+ fosse equivalente a uno sketch che le comunità di riferimento hanno giudicato razzista e omofobo). La procedura punitiva viene poi estesa ai sorveglianti maldestri (il leghista Capitanio: “Vogliamo vedere il contratto tra la società esterna che ha organizzato il Concertone e la Rai per un esposto alla Corte dei Conti e per esprimere un atto di indirizzo in Vigilanza, affinché l’Azienda di Servizio Pubblico impugni il contratto alla luce dei gravi errori che ci sono stati sul palco del Concertone. E mi riferisco sia all’uso strumentale della festa dei lavoratori per parlare d’altro senza contraddittorio, peraltro in una rete pubblica, e sia al mancato controllo sulla promozione di marchi pubblicitari da parte di Fedez, cosa assolutamente vietata dalle policy Rai”. La procedura punitiva contro l’eroe popolare si conclude, in genere, con una o più azioni legali (“La Rai ipotizza una denuncia contro il cantante”) che lo tengano impegnato in tribunale per decenni. Colpirne uno per educarne cento.
(7. Continua)