Effetto Palamara: potrebbe non avere più i numeri il successore di Pignatone

La nomina delle nomine, quella del procuratore di Roma, è da rifare. Il Consiglio di Stato (Cds) ha dato uno schiaffo al Csm e ha annullato la nomina di Michele Prestipino. La conferma, dopo la sentenza del Tar, che il caso Palamara non ha portato il Csm a una scelta blindata in punto di diritto e dovrà ricominciare da zero.

Dunque, Michele Prestipino formalmente non è più il procuratore di Roma, ma per ora resta al suo posto, come se fosse ancora il reggente dopo il pensionamento di Giuseppe Pignatone. Certo, con un animo, comprensibilmente, ben diverso, sapendo che, sulla base della sentenza di palazzo Spada, il Csm potrebbe non riconfermarlo. Un’ipotesi per nulla improbabile se si legge la sentenza della Quinta sezione del Cds.

Se il Csm rispetta i dettami del Consiglio di Stato, così come ha fatto per altri casi in questa consiliatura, allora per Prestipino, al di là dei suoi meriti professionali, si mette male mentre salgono le quotazioni non solo di Marcello Viola (Pg di Firenze), ma anche del procuratore di Palermo Franco Lo Voi, altro ricorrente che ha avuto ragione dal Tar e che ora aspetta la decisione del Cds, in udienza domani. Al Csm solo ufficiosamente qualcuno ammette che le motivazioni della sentenza del Cds “demoliscono” la nomina di Prestipino per mancanza di titoli rispetto agli altri candidati. I primi a doversi sobbarcare questa rogna sono i consiglieri della Quinta commissione presieduta da Giuseppe Marra, di AeI, ma solo dopo l’esito del ricorso Lo Voi. I componenti della Quinta, a eccezione di Loredana Miccichè di MI, sono tutti diversi da quelli che l’hanno composta sia prima dello scandalo Palamara che dopo: oltre a Marra ci sono il vicepresidente Filippo Donati, laico M5S; Alessio Lanzi, laico di FI; Giuseppe Cascini, di Area; Michele Ciambellini, di Unicost. Andando con lo sguardo avanti, certamente a dopo l’estate, imprevedibile il voto, decisivo, del plenum perché la composizione post scandalo nomine è cambiata per via di ben 6 togati costretti a dimettersi. Risultato: i gruppi dei togati sono sostanzialmente paritari per numero di componenti, tranne Area che con 5 consiglieri ne ha uno in più rispetto alle altre correnti.

Con la neo eletta ad aprile Maria Letizia Balduini, MI, che dopo il caso Palamara-Ferri aveva perso 3 consiglieri su 5, adesso ha recuperato: ne ha 4, come AeI, se si considera Nino Di Matteo vicino al gruppo che ha sostenuto la sua elezione, anche se il voto del magistrato è sempre, fatti alla mano, da indipendente e nel frattempo è deflagrato il caso Amara-verbali milanesi ricevuti da Piercamillo Davigo per mano del pm Storari, con Sebastiano Ardita che da cofondatore del gruppo assieme a Davigo (decaduto fra le polemiche), non parla più con l’ex consigliere ma, ci risulta, abbia ricominciato a parlarsi, faticosamente, con i colleghi Marra e Ilaria Pepe. Anche Unicost ha 4 consiglieri se si conta pure Carmelo Celentano, che si è dimesso dalla corrente ma quasi sempre è in linea con i 3 togati della corrente. Dunque, con questi numeri sarà interessante seguire come le correnti si allineeranno fra di loro in vista del voto su Roma. Normale che con questi nuovi equilibri dei togati aumenterà il peso del voto dei laici. Alla nomina ora annullata di Prestipino, si arriva con spaccature sia in Quinta, che propone anche Lo Voi e Giuseppe Creazzo, procuratore di Firenze, sia in plenum. Nel marzo del 2020, Prestipino fu nominato procuratore dopo il ballottaggio con Lo Voi finito 14 a 8. Per lui Area, AeI, a eccezione di Ardita e Di Matteo, astenuti, Unicost, il Pg Salvi e i laci M5s Benedetti e Gigliotti.

Grande escluso dalla corsa, Marcello Viola pur essendo risultato completamente estraneo alla “combutta” dell’hotel Champagne (capitanata da Palamara, Ferri e Lotti) che aveva deciso, a sua insaputa, di sponsorizzare la sua nomina. Prima dell’emersione dello scandalo, il 23 maggio 2019, in Quinta, Viola aveva avuto 4 voti su 6: dei togati Davigo, che diventerà 8 mesi dopo il relatore della nomina di Prestipino, di Lepre, di Mi, tra i presenti allo Champagne e dei laici Gigliotti e Basile (Lega). Ora tutto è cambiato, anche gli equilibri interni.

Roma, il Consiglio di Stato annulla la nomina di Prestipino

“Illegittima” e “illogica”. Così è stata definita dal Consiglio di Stato la nomina a procuratore di Roma di Michele Prestipino, decisa dal Csm a maggioranza 14 mesi fa. Gli alti giudici amministrativi lo scrivono nella sentenza che dà ragione al procuratore generale di Firenze, Marcello Viola, escluso dalla corsa a capo dei pm romani. Il Cds ha così respinto sia il ricorso di Prestipino sia del Csm, accusato, di fatto, di essersi mosso con criteri politici. Il Consiglio di Stato conferma quanto detto già dal Tar del Lazio, che la Quinta commissione del Csm, a cui spetta di proporre le nomine al plenum (sovrano) ha escluso dalla corsa Viola senza alcuna motivazione, ma va pure oltre: mette nero su bianco che il Csm ha illegittimamente “devalutato” Viola per far passare avanti Prestipino. Il Cds ribadisce, infine, un concetto già espresso con altre sentenze: è illegittimo preferire un candidato anche perché appartiene all’ufficio in cui deve essere nominato il procuratore, proprio come nel caso di Prestipino, che era procuratore aggiunto di Roma. Quindi, per il Cds è la valorizzazione del radicamento territoriale che è pure illegittima, tanto è vero, ricorda, che il tipo di concorso è nazionale.

E veniamo ad alcuni dettagli dalla sentenza, inevitabilmente tecnica, ma che fa capire come il Consiglio di Stato ritenga che il Csm sia uscito fuori dai binari. Cominciamo dall’esclusione di Viola da parte della Quinta commissione, che non l’ha più scelto tra i candidati votabili dal plenum, mentre prima dello scandalo Palamara, che ha azzerato tutto, era stato il più votato: “La Commissione… ben può proporre più di un nominativo all’esame del Plenum… e tanto più se si ricorda che il Csm non è organo politico ma di alta amministrazione di rilievo costituzionale” che è tenuto a produrre “atti amministrativi sottoposti al principio di legalità dell’azione amministrativa. Tutto ciò vale a maggior ragione nel caso in esame, dove il nome del dott. Viola, non più riproposto… era proprio quello del candidato che aveva ottenuto pochi mesi prima, in seno alla Commissione, il maggior numero di voti favorevoli in virtù del particolare curriculum professionale”. Quanto alla scelta del Csm di “devalutazione” del curriculum di Viola, già procuratore di Trapani, rispetto a quello di Prestipino, mai procuratore ma “solo” aggiunto”, c’è un’altra stoccata del Consiglio di Stato: il Csm “si contraddice” dato che Trapani, come lo stesso Csm riconosce, è una realtà piccola ma assai “complessa” per l’alta densità mafiosa; si contraddice, inoltre, anche quando preferisce Prestipino procuratore reggente per pochi mesi rispetto a Viola che, aveva lamentato il Csm, era Pg di Firenze da 3 anni e non aveva quindi completato il primo quadriennio. Il Csm così “cade in una contraddizione logica che si spinge fino alla manifesta irragionevolezza”. Di fronte a questa sentenza si dicono “estremamente soddisfatti” i difensori del Pg Viola, gli avvocati Giuseppe Impiduglia e Girolamo Rubino.

Il commovente harakiri televisivo di Lucianone, il più fedele dei renziani

Tra i meriti dell’ultima puntata di Report c’è l’aver mostrato a un pubblico più numeroso la grandezza di Luciano Nobili, il migliore tra i cosplayer di Renzi. Nel nostro piccolo rivendichiamo di essergli affezionati da tempo; avevamo compreso il suo talento prima di altri. Come quelli che conoscevano Calcutta quando suonava per due birre nei peggiori locali di Roma Est e nel giro di un paio d’anni se lo sono trovato a riempire palazzetti e stadi: Nobili grazie a Report è diventato mainstream, finalmente milioni di italiani sanno di che pasta è fatto.

D’altra parte l’esibizione di fronte alle telecamere di Rai3 è stata clamorosa. Lucianone è promotore per conto Renzi di un’invettiva parlamentare con la quale – dietro la formula ipocrita dell’interrogazione – si insinuano ipotesi gravissime nei confronti della trasmissione di Sigfrido Ranucci: Report avrebbe pagato una fattura da 45mila euro a una società lussemburghese che a sua volta avrebbe retribuito la fonte usata per un servizio antirenziano. Nel testo firmato Nobili si fa il nome di Francesco Maria Tuccillo, ex manager di Piaggio e Finmeccanica, alla quale si allude come possibile informatore di Report. Questa ricostruzione improbabile e diffamatoria è la polpetta avvelenata di un dossier patacca che girava da un po’ di tempo (agilmente scansato da più di un quotidiano, come ha raccontato Franco Bechis del Tempo): Nobili gli ha dato visibilità usando le sue prerogative di parlamentare.

Incalzato da Giorgio Mottola di Report, Luciano sfoggia un campionario quasi commovente di mezzucci e ostilità politico-mediatiche: interrompe, parla sopra le domande, sbraita e si agita, si ricompone, strumentalizza, mistifica. Si dice molto offeso dall’accusa di voler intimidire Report e inizia a strillare: “Io difendo i giornalisti dalle intimidazioni!!!”. Non spiega perché abbia fatto sue le ipotesi di un dossier palesemente assurdo, ma sostiene di rappresentare chi si preoccupa per le “professionalità esterne” utilizzate dalla Rai.

Il finale è sublime. Nobili è in chiaro affanno psicofisico, sono 20 minuti che aggira d’istinto e fantasia le domande del giornalista (lo si scopre grazie alla clip integrale pubblicata dallo stesso Lucianone su Facebook, dove esce addirittura peggio che nel servizio montato). Mottola gli chiede: “Immagino lei abbia visto questo dossier, o fa delle interrogazioni sul sentito dire?”. Risposta immaginifica: “Perché? Non faccio interrogazioni basate sul sentito dire anche sui dipendenti di Alitalia?”. Mottola insiste: “Quindi riconosce l’ipotesi che lei abbia fatto un’interrogazione su una notizia falsa”. Nobili, raggiante: “Certo, questo è assolutamente possibile”. Game, set, match: meraviglia e fama eterna.

È il momento più alto di una carriera già ricca di prestazioni abbaglianti. Nobili era il più ambizioso nella cucciolata di giovani borghesi romani che iniziavano a fare politica nella Margherita di Francesco Rutelli. Nel 2008 guida la “Lista civica under 30” che sostiene l’ex sindaco contro Alemanno. Va male: Rutelli perde, saluti romani al Campidoglio, la sua civica prende lo zero virgola.

Poi inizia la grande storia d’amore con il Pd. Il partito è il taxi di Luciano: gli paga lo stipendio, anche quando lui se ne va a fare le fortune di Api, con Rutelli e Tabacci. Quando torna, lo porta dritto in Parlamento: Nobili diventa deputato nel 2018 grazie alla candidatura blindata in un listino del Lazio; nemmeno stavolta ha dovuto sudarsi un voto che sia uno. Però si è meritato il posto facendo il cane da guardia di Renzi a Roma, protagonista della congiura contro Ignazio Marino che ha regalato la città ai grillini (Big Luciano è anche il responsabile della campagna elettorale di Giachetti contro Raggi). Entra alla Camera con i voti del Pd e se ne va in Italia Viva: ora è il critico più acido dei suoi ex compagni. La fedeltà è importante, c’è una sola affermazione che Nobili non contesta in tutta l’intervista di Report: quando Renzi viene definito, testualmente, “il suo capo”.

Il governo scarica Mancini: “No incontri politici-007”

La prossima volta che vorrà regalare a Matteo Renzi i “babbi” di cioccolato della sua Romagna, Marco Mancini dovrà farsi autorizzare dal direttore del Dipartimento per le informazioni e la sicurezza (Dis), l’organo di coordinamento dei Servizi di cui è caporeparto. A seguito dell’incontro Renzi-Mancini in autogrill, immortalato dalla professoressa che ha girato le immagini a Report, il sottosegretario delegato ai Servizi Franco Gabrielli ha richiamato i direttori del Dis, dell’Aise e dell’Aisi al principio che gli appartenenti all’intelligence possono incontrare parlamentari, giornalisti, magistrati e altre categorie “sensibili” solo per motivi di servizio e con la preventiva autorizzazione del vertice dell’agenzia a cui appartengono.

A Palazzo Chigi ritengono che questa regola rientrasse già nell’obbligo di riservatezza. Però ieri il capo del Dis Gennaro Vecchione, sentito dal comitato parlamentare di controllo sui Servizi (Copasir), avrebbe detto di non essere stato informato da Mancini e che un obbligo specifico non c’era. Ora c’è. Vecchione ha sostanzialmente difeso Mancini. Il governo invece intende evitare che le relazioni tra gli appartenenti ai Servizi e i politici conducano a impropri do ut des. Il Copasir potrebbe convocare Renzi e Mancini. I due si sono incontrati altre volte in passato, l’ha detto il capo di Italia Viva.

La direttiva di Gabrielli è la prima conseguenza del polverone sollevato dalle foto del tête-à-tête, risalenti al 23 dicembre scorso e cioè all’inizio della crisi del governo Conte-2 apertasi anche sulla delega ai Servizi, mentre si discutevano le nomine dei vicedirettori dell’intelligence e Mancini aspirava a un incarico che poi non ha avuto. Secondo fonti qualificate il dirigente del Dis cercava il sostegno di Renzi, ma nessuno ha ascoltato il dialogo. Tranne il saluto a distanza: secondo la professoressa, che non l’ha registrato, Renzi avrebbe detto “sai dove trovarmi” e Mancini “a disposizione”, espressione tipica dei militari. Ex sottufficiale dei carabinieri di riconosciute capacità, Mancini è da decenni nei Servizi ed è stato protagonista di vicende note, dai sequestri di italiani in Medio Oriente all’inchiesta sul rapimento di Abu Omar da parte della Cia e allo spionaggio alla Telecom, da cui è sempre uscito pulito anche grazie al segreto di Stato. Era al Sismi nei primi anni Duemila con Nicolò Pollari, dove c’era Nicola Calipari che si fece uccidere a Baghdad per riportare a casa Giuliana Sgrena del manifesto, ma anche Pio Pompa che faceva dossier su politici, imprenditori e giornalisti. L’impressione è che il suo incarico sia a rischio.

“Ho già scritto il programma: Alleati al Pd, non subalterni”

Sono passati due mesi e mezzo da quando Beppe Grillo le ha consegnato le chiavi del M5S. Non teme che tutto questo tempo le abbia fatto perdere il consenso che aveva quando è caduto il suo governo?

Sono stati due mesi spesi bene. Per rifondare una forza politica occorre del tempo, occorre un confronto continuo, a tutti i livelli. Ora siamo pronti. Abbiamo una carta dei principi e dei valori, un nuovo statuto, una piattaforma di voto alternativa: a giorni avremo i dati degli iscritti, perché non può che essere così, ci sarà un grande momento di confronto pubblico e poi si voterà.

Finora ha lasciato in sospeso nodi cruciali, tra cui il limite dei due mandati.

Il doppio mandato non è attualmente nello Statuto e quindi non sarà nel nuovo Statuto. È un tema che affronteremo più avanti in un confronto alla luce del sole. La forza del Movimento è stata una scelta originaria che si perpetuerà: far votare gli iscritti. Anche in questo caso ci sarà la possibilità di esprimere un voto sulle varie alternative che verranno proposte.

Si aspettava che fosse così complicata la gestione della partita con Casaleggio?

La direzione politica del M5S va distinta dalla gestione tecnica della piattaforma. Non c’è possibilità per una forza politica rappresentata in Parlamento che ci sia anche solo l’ombra di una commistione tra questi due aspetti. Purtroppo da parte dell’Associazione Rousseau c’è stata una pressante ingerenza nelle scelte politiche: ma in democrazia se si ha un progetto alternativo, lo si presenta e lo si fa votare, funziona così.

(Antonio Padellaro) Da tifoso a tifoso, cosa pensa dell’arrivo di Mourinho alla Roma e cosa pensa degli uomini della Provvidenza, nel calcio e in politica?

Il divario tra le aspettative e la complessità della realtà esiste: l’approccio migliore nei confronti del premier Draghi, che ha indiscusse qualità, è condividere con lui la complessità della fase emergenziale che stiamo attraversando. Sostenerlo in modo leale, senza accreditare nei cittadini la possibilità che un solo uomo al comando possa risolvere tutti i problemi del Paese che ci trasciniamo da anni.

(Padellaro) Non è Draghi a essersi accreditato, ma il mondo mediatico che gli ha fatto la ola. È un punto focale: l’uso dell’informazione in una democrazia.

È un punto delicato, che tutti coloro che hanno responsabilità politiche devono trattare con attenzione. La stampa ha un ruolo fondamentale, perchè è chiamata ad alimentare responsabilmente il circuito informativo; se si cade nel dileggio, nella mistificazione, non si rende un buon servizio ai cittadini. Mi è capitato di rileggere i giornali del luglio 2020, quando abbiamo ottenuto i miliardi del Next Generation: rileggendo quei titoli sembrava avessimo rimediato una sconfitta, il che mi ha fatto riflettere.

(Gad Lerner) Il suo profilo ha bisogno di qualche informazione in più: sono curioso di sapere come avvenne questo avvicinamento ai 5S? Come decise di accettare di guidare un governo con Salvini?

Alfonso Bonafede era assistente di un mio collega: fu lui a chiedermi se avevo interesse a essere designato come membro laico del Parlamento dell’organo di autogoverno della giustizia amministrativa. Gli precisai che non li avevo votati, né ero un simpatizzante M5S. Fui selezionato, era una occasione importante per me. Ecco, in quattro anni non ho mai ricevuto una telefonata, una sollecitazione su un dossier. Questo mi fece maturare una condivisione dei valori del M5S, volli restituire loro qualcosa: per questo alle elezioni politiche mi resi disponibile a essere potenziale ministro della Funzione pubblica.

Le è andata meglio.

La mia formazione è quella cattolico-democratica, vengo dal centro moderato, che guarda a sinistra. La Lega non era una prospettiva che mi affascinava, ma era l’unica soluzione possibile, dopo il rifiuto del Pd e tre mesi di stallo.

(Padellaro) Sul video di Beppe Grillo lei ha fatto una dichiarazione molto, forse troppo prudente. Come immagina il ruolo futuro del fondatore, che continuerà a essere gravato da quel video?

Rispetto la sua sofferenza, così come rispetto quella di chi si sente vittima di questa vicenda. Mi sento spesso con lui, ma è chiaro che nel dna del Movimento ci sono due pilastri: il rispetto dell’indipendenza della magistratura e il rispetto delle donne e della parità di genere. Non ci può essere alcuna commistione tra una vicenda personale – ancorché di Beppe Grillo – rispetto alle linee politiche del Movimento.

(Padellaro) Se fosse stato l’avvocato di Grillo avrebbe consigliato quel video?

No, per un motivo. Le trasmissioni tv ne hanno approfittato per dire ‘siccome ne ha parlato Grillo, possiamo parlarne anche noi’. Un processo parallelo, una degenerazione che non permetterei mai.

C’è il suo nome nelle carte dell’interrogatorio di Piero Amara. Come spiega il caso della sua parcella da 400 mila euro?

Non ho nulla a che fare con i loschi traffici del signor Amara, non lo chiamo avvocato e non l’ho mai conosciuto. Il mio nome sarebbe stato fatto da Vietti, con cui pure non ho mai avuto rapporti personali e professionali. Trecento pareri legali mi hanno occupato per quasi un anno, quindi quel compenso era il minimo: tutte quelle parcelle, tra l’altro, hanno passato il vaglio del tribunale e dei commissari giudiziali nominati dai giudici fallimentari.

Conosceva invece l’imprenditore Centofanti?

Quando Bellavista Caltagirone – patron del gruppo Acqua Marcia, che nemmeno ho mai conosciuto – è stato arrestato, il gruppo era in dissesto: hanno deciso di fare un concordato preventivo per evitare il fallimento. Occorreva fare pareri legali per certificare attivi e passivi: Centofanti gestiva in quel momento la società insieme ad altri dirigenti e credo fu lui a firmare il mio incarico.

Come esce l’immagine della magistratura dallo scandalo del Csm?

Malconcia. Nessun magistrato si deve permettere di avere atteggiamenti subalterni nei confronti della politica, perché fa un danno a tutta la categoria. Detto questo, nessuna forza politica in Parlamento deve approfittarne per mettere sotto schiaffo la magistratura. Prima di parlare di commissioni d’inchiesta, riformiamo il Csm: la polvere si deve sedimentare.

(Lerner) Sospetto che uno dei motivi dell’animosità di Matteo Renzi nei suoi confronti, derivi dal fatto che vi contendete la stessa area elettorale.

Spero non con i risultati loro attuali.

(Lerner) Il M5S sarà interclassista come era la Dc? Dove prenderete i voti?

Sarà un movimento intriso di cultura ecologica, saremo all’avanguardia in questo. Saremo dalla parte dell’inclusione e della giustizia sociale. Siamo di sinistra? Classificateci come volete, ma la realtà è che guarderemo anche alle esigenze dell’elettorato moderato. A me interessa abbassare le tasse: sono di destra? Va benissimo.

(Lerner) Forse vanno fatte pagare di più a chi evade o a chi ha grandi patrimoni…

La soglia dell’imposizione fiscale è già elevata. I pagamenti digitalizzati consentono l’emersione del sommerso. E poi dobbiamo riformare il fisco per renderlo più equo.

Basterebbe evitare i condoni…

Non sono la soluzione: abituano il cittadino alle sanatorie e possono renderlo molto pigro con i pagamenti. Noi dobbiamo evitare i condoni, questo senz’altro. Però attenzione: per far partire la nuova riforma fiscale possiamo anche agevolare la regolarizzazione delle posizioni, ma una volta per tutte. Poi, chi sgarra paga.

(Padellaro) L’incontro all’autogrill tra Matteo Renzi e Marco Mancini avviene mentre ci sono fortissime pressioni su di lei perché ceda le deleghe sui Servizi. Ha messo in relazione quell’incontro con quelle pressioni?

Qualsiasi rappresentante delle istituzioni deve rispondere del proprio operato con trasparenza: Renzi fa gli incontri che ritiene, ma deve spiegare perché si trovava in un’area di sosta con un uomo dei Servizi con il quale non aveva motivi istituzionali per incontrarsi. Quanto alle pressioni di quei mesi, non ho voluto far polemiche, ero concentrato sulle priorità per gli italiani. Vedo invece che il senatore Renzi è molto più versatile di me: la mattina è in Arabia a decantare il neo-Rinascimento, spazzando via con un sol colpo tutta la tradizione rinascimentale italiana, peraltro fiorentina; il pomeriggio si ferma in autogrill, la sera è in tv…

Lo ha mai più sentito?

No, ma non escludo in futuro di incrociarlo in qualche autogrill.

(Lerner) Un’ala M5S si è rifiutata di votare il governo Draghi e la sollecita: essere leader significa mettere in conto anche periodi fuori dalle stanze del potere.

Quando è finita quell’esperienza abbiamo fatto un appello pubblico: ci hanno descritto come quelli dei Ciampolillo, ma c’era Liliana Segre che, nonostante il parere contrario del suo medico, è venuta a votare per non far cadere il governo Conte. Siamo stati tutti dispiaciuti per la fine di quell’esperienza, ma per rispetto delle istituzioni mi sono fatto subito da parte e ho favorito la nascita del governo Draghi. Alcuni non si sono fatti convincere, mi dispiace, ma questo non significa che l’opposizione mi spaventa.

(Padellaro) Qual è secondo lei la direzione più corretta per il Paese: che si vada a elezione a fine legislatura e quindi resti Mattarella al Quirinale?

L’approccio migliore è sostenere il governo e augurarci tutti che possa proseguire il suo percorso. Chi oggi dice: vedo bene Draghi al Colle sembra quasi voglia liberare una casella al governo. Non è responsabile nei confronti dei cittadini dire in questo momento, con tutti i problemi in corso, che Draghi deve andare al Quirinale.

(Padellaro) Quindi per lei la soluzione migliore è che Draghi continui la sua attività di governo e i partiti decidano insieme il nome migliore per il Colle?

Non possiamo certo augurarci che questa esperienza di governo si interrompa e metterci a giocare al toto-Quirinale. Quando sarà il momento ci ritroveremo insieme con le altre forze politiche a ragionare sulla personalità migliore nell’interesse del Paese.

Rivendica il sostegno al governo, ma è ancora sicuro di aver fatto la scelta giusta? Penso ad alcune scelte del ministro Cingolani, al pressing per cambiare la prescrizione…

Quando dico che dobbiamo sostenere lealmente questo governo non significa che rinunciamo a fare politica. Sulla transizione ecologica, per esempio, ho sempre parlato di idrogeno verde e non blu; sulla giustizia noi stessi ci siamo predisposti ad articolare meglio la norma sulla prescrizione, distinguendo tra i casi di assoluzione e condanna in primo grado: ma l’unica cosa da fare è sedersi al tavolo e approvare le riforme per accelerare i tempi dei processi civili e penali che già sono allo studio del Parlamento.

Cosa pensa del Ponte sullo Stretto che adesso piace anche ai 5 Stelle?

Dico di studiare bene le carte, serve una istruttoria tecnica di supporto alla valutazione politica: non ci infiammiamo ideologicamente Ponte sì, Ponte no. Io ho una posizione laica. E comunque bisogna ragionare sempre in termini di progetto complessivo, pensando al Ponte come infrastruttura finale che va a completare le gravi carenze infrastrutturali di Calabria e Sicilia.

(Padellaro) Si era parlato di un accordo tra lei e Letta sulle Amministrative. A Roma voi avete scelto di appoggiare Virginia Raggi, col rischio di incrinare i rapporti col Pd. Ci spiega cosa è successo?

Sono impegnato nel rapporto con il Pd in un dialogo alla pari, senza alcuna subalternità. Io parlo tanto con i romani: anche chi aveva un atteggiamento prevenuto nei confronti dell’amministrazione Raggi ora inizia a capire che i risultati hanno richiesto tempo, perché è stato necessario operare una cesura con il passato. Io non ho mai avuto dubbi sul sostegno alla sindaca. Recentemente mi è stata prospettata la possibilità che il Pd potesse candidare Nicola Zingaretti, persona che ha la mia stima e la mia amicizia: li ho avvertiti che questa candidatura avrebbe potuto avere ripercussioni serie sulla tenuta del governo regionale, dove da due mesi siedono due assessori M5S, e loro hanno fatto la loro scelta. Ma non ci stracciamo le vesti se non proponiamo una soluzione congiunta: è successo anche al Pd in passato – con De Luca, con Emiliano – che si decidesse di ricandidare un amministratore uscente. Auspico che al secondo turno il candidato che avrà la meglio verrà sostenuto da tutti. Anche a Torino: cerchiamo di trovare sinergie, c’è un candidato della società civile che può mettere insieme tutti ed essere molto competitivo.

(Lerner) È il rettore del Politecnico di Torino?

Il nome non lo dico, ma il Pd lo conosce bene.

(Lerner) Lei confida in un rapporto con il Pd non subalterno: immagina il centrosinistra del futuro come una coalizione tra Pd, M5S e Leu o ci vorrà più fantasia?

Io in questi due mesi ho preparato un programma con tante riforme economiche e sociali: andrà condiviso, dovrà crescere col contributo della società civile e dei territori. Questo ci consentirà di avere un progetto competitivo per l’Italia dei prossimi cinque anni.

(Lerner) Quando conosceremo questo programma e il nuovo M5S?

Entro questo mese.

Via loro o via voi

Per dire com’è ridotta l’informazione, basta questo: per parlare di riforma del processo, Repubblica intervista la senatrice leghista Giulia Bongiorno e La Stampa il deputato e sottosegretario forzista Francesco Paolo Sisto, dimenticandosi di precisare che la prima è l’avvocato di Salvini e il secondo di B.. Come se, ai tempi dei governi B., avessero intervistato Ghedini e Pecorella spacciandoli per giuristi super partes, e non come fabbricanti di leggi su misura dell’illustre cliente (a proposito, senz’alcuna ironia: auguri per la sua salute). Il conflitto d’interessi – disse un giorno Luttazzi – s’è fatto ambiente, atmosfera: tutti ci sguazzano, nessuno lo nota. Ma ci sono tre forze politiche che ne sono al momento immuni: 5Stelle, Pd e Leu. Infatti promettono da sempre una severa legge sul conflitto d’interessi. In attesa di avere la maggioranza per farlo, hanno già un’ottima occasione per praticarla: si rifiutino di sedere al tavolo della ministra Cartabia finché non si saranno alzati Sisto (incredibilmente promosso da Draghi sottosegretario alla Giustizia) e Bongiorno. E, se quelli non si alzano, se ne vadano loro: senza le tre forze giallorosa, la maggioranza non ha i numeri per approvare nulla. Il che non sarebbe un danno, ma un grosso vantaggio. Che riforma della giustizia può uscire da una maggioranza con i partiti di un pregiudicato (FI), di un plurimputato (Lega) e di un indagato in compagnia di genitori, sorella, cognato e cofondatori (Iv)?

Il ricatto della Guardasigilli, fra l’altro, non attacca: non è affatto vero che l’Italia perde i soldi del Recovery se non riforma il processo penale: ogni Paese ha il suo e la Ue non ha alcuna voce in capitolo per metter becco. I soldi del Recovery per la Giustizia non sono subordinati al modello di prescrizione, ma a un piano di assunzioni, digitalizzazione e riorganizzazione già predisposto da Bonafede e plagiato dalla Cartabia copiativa. Se poi si vuole dar retta all’“Europa”, basta leggere gli elogi dell’Ocse alla Spazzacorrotti e i moniti delle Corti Ue contro la vecchia prescrizione: dunque le riforme di Bonafede vanno mantenute, non smantellate. Perché tolgono agli avvocati dei colpevoli e ai magistrati pigri l’interesse ad allungare i tempi per arrivare alla prescrizione, dunque di per sé garantiscono processi più veloci. Invece l’ideona partorita dalla Cartabia (se il processo non termina entro una certa data si estingue, con tanti saluti alle vittime dei reati) riconsegna agli imputati colpevoli il potere di tirare in lungo per darsi l’impunità, quindi di per sé garantisce processi ancora più lunghi. Si spera che chi ha difeso quelle leggi sacrosante fino a sacrificare il Conte-1 e poi il Conte-2 adesso non le baratti con un piatto di lenticchie per tenere in piedi il governo Draghi.

Virus, aragoste schizzinose ed elefanti in lutto

Anatre. Tra le incubatrici preferite del virus: l’anatra. Anatre presenti nel mondo, tra domestiche e selvatiche: due miliardi.

Geni. Da almeno centocinquant’anni i geni dell’influenza passano dagli uccelli domestici a quelli selvatici e viceversa. In altre parole: grazie alle nostre pratiche zootecniche stiamo immettendo geni dell’influenza nella natura.

Uccelli. Gli uccelli selvatici ospitano, di solito senza ammalarsi, un’ampia varietà di influenze, non nei polmoni come gli esseri umani, ma nell’apparato digerente. Spargono il virus nell’acqua con le feci, dove altri uccelli lo raccolgono, e ceppi diversi che si incontrano nello stesso animale possono scambiarsi i geni per produrne uno nuovo.

Hannoun. Claude Hannoun studiò nell’estuario della Somme 5 specie di anatre migratrici e scoprì che ospitavano complessivamente un centinaio di ceppi influenzali diversi. Spesso un singolo uccello ospitava anche più d’un ceppo, e alcuni erano ibridi che non si abbinavano ad alcun sottotipo noto. In altre parole, Hannoun aveva colto l’influenza nell’atto di evolversi.

Recettori. I recettori delle cellule che rivestono il polmone umano hanno una forma diversa da quelli che rivestono l’intestino delle anatre. Per il salto dagli uccelli agli esseri umani, è necessaria la presenza di un ospite intermedio in cui il virus potesse adattarsi da un tipo di recettore all’altro. Questo ospite intermedio è il maiale. I recettori delle cellule che rivestono il tratto respiratorio dei maiali possono legarsi sia con il virus dell’influenza aviaria sia con quello dell’influenza umana. I maiali rappresentano il crogiolo ideale per lo sviluppo di un nuovo ceppo capace di infettare gli umani.

Aragosta. L’aragosta dei Caraibi – Panulirus argus – è un animale molto socievole, ma si rifiuta di condividere un rifugio con un’aragosta contagiata da un virus letale.

Elefanti. L’esperta di elefanti Cynthia Moss racconta che dopo un abbattimento selettivo in un parco ugandese i guardiani sistemarono in un capanno le orecchie e i piedi mozzati degli animali, con l’idea di venderli in seguito come borse e portaombrelli. Una notte, alcuni elefanti fecero irruzione nel capanno e seppellirono i resti.

Dujarric. L’8 ottobre del 1918 René Dujarric de la Rivière, aristocratico, giovane scienziato ventinovenne del Périgord si fece iniettare in corpo il sangue filtrato di un malato di influenza e si ammalò. Guarì dopo 5 giorni. Allora si spennellò nella gola un’emulsione filtrata di saliva di un paziente malato di influenza e attese. Non riscontrando altri sintomi concluse che il primo esperimento lo aveva immunizzato contro il secondo. Mise tutto per iscritto e inviò la sua relazione al direttore dell’istituto Pasteur, Émile Roux. Nel documento Dujarric dedusse che, dato che il sangue che gli era stato iniettato era filtrato, quindi privo di batteri, l’influenza fosse causata da un virus. Cosa fosse un virus non lo sapeva neanche lui. Le uniche due cose che poteva dire con certezza era che si trattava di qualcosa di più piccolo di un batterio e in grado di trasmettere una malattia.

Virus. Un virus è all’incirca venti volte più piccolo di un batterio.

Redivivo. Estinto fino al 2005, il ceppo H1N1 che provocò l’influenza spagnola è vivo e prigioniero in una struttura di contenimento di massima sicurezza ad Atlanta, in Georgia. È stato risuscitato con l’obiettivo di studiarlo. Non tutti sono convinti che sia stata una mossa saggia.

(3. continua)

 

 

L’unico straniero è l’oppressore: Ovadia, “Un ebreo contro” dalla parte degli ultimi

Leggere il libro intervista a Moni Ovadia (Un ebreo contro, a cura di Livio Pepino, Edizioni del Gruppo Abele) è come aprire una finestra in una stanza piena d’aria viziata, facendo irrompere sole e vento: in un Paese incattivito, egoista e sempre più inchiodato alle appartenenze, Ovadia parla da vero umanista, che divide il mondo non tra italiani e stranieri, ma tra oppressi e oppressori, considerando i primi la sua patria, i secondi i suoi unici stranieri.

Sono, queste ultime, parole di don Milani: non per caso nato e cresciuto in una famiglia ebrea. “Gli ebrei – spiega Ovadia nel libro – sono scelti non perché sono ebrei o perché sono belli ma perché sono schiavi e stranieri e riconoscono un Dio che si dichiara Dio non solo loro ma di tutta l’umanità. Un Dio, anzi, che sceglie gli ebrei non perché sono superiori, ma perché sono sbandati meticci stranieri schiavi … È questa, a ben guardare, la vera ragione dell’antisemitismo nazista”. Ebreo, musico e saltimbanco, partigiano degli ultimi e degli umiliati, uomo di sinistra oggi senza partito e senza illusioni, ebreo contro il nazionalismo razzista di Israele: ecco il Moni Ovadia che esce, pagina dopo pagina, da questa conversazione.

Visto da un simile punto di vista, il governo italiano attuale appare per quello che è: “Draghi e il portato di un’operazione organizzata dai potentati internazionali e dalla parte più retriva di Confindustria, favorita da Matteo Renzi in funzione di guastatore tra un viaggio celebrativo in Arabia Saudita e uno a Dubai. E il Pd si è dimostrato ‘il partito di lorsignori’, come diceva Fortebraccio: né più né meno di Forza Italia e della Lega, il partito di lorsignori e non della gente che lavora, e soprattutto degli ultimi”.

Ma è la pars construens morale, e vorrei dire spirituale, il cuore del libro, quella in cui Ovadia indica le virtù necessarie per essere davvero uomo: quando, per esempio, racconta (attraverso le parole, amatissime e intimamente conosciute, della Bibbia) perché Dio chiama Mosè a guidare la liberazione degli ebrei.

Mosè, che era un pastore, lascia il gregge per cercare un agnellino smarrito, e quando lo trova vicino a un corso d’acqua gli dice: “Non avevo capito che avevi sete: chissà quanto sarai stanco dopo tanto camminare. Non ti preoccupare”, e se lo mette in spalla. “Ecco – dice Ovadia – perché Dio lo sceglie: perché ha esercitato la sua pietas nei confronti di un essere vivente fatto di carne e di sangue”. Parafrasando Che Guevara, l’unico modo per essere umani è non perdere la tenerezza.

L’“attempato” Caparezza firma un “disco allegro”

Gli dici che ha fatto un disco da psicoanalisi e sorride, Caparezza. Non che abbia mai lesinato sui viaggi negli abissi e nei tunnel, ma questa volta la selva è tutta sua. Orgoglioso re delle contraddizioni, è da poco uscito con Exuvia, un viaggio che si apre con una traccia – Canthology – in cui si trova davanti alla ribellione degli album precedenti che lo sbeffeggiano e gli si rivoltano contro. A chiudere il tragitto la title track, la muta dell’insetto: quel che resta di un involucro a immagine e somiglianza di ciò che è stato, eppure vuoto.

Nel mezzo del cammino, tutto ciò che scorre tra il passato e il presente: il peso delle scelte, la natura che irrompe, la realtà che si fa irriconoscibile; il confronto con ciò che è diventato oggi il suo linguaggio, cioè il rap, e un sofferto confronto generazionale. Su questo si appoggia uno dei brani più potenti del disco, El Sendero. L’artista messicana Mishel Domenssain ha prestato voce e parole di un suo brano (La selva, guarda caso), per il ritornello di questa canzone che disegna un albero genealogico. Un nonno che ha fatto la guerra, un padre orfano troppo presto e infine, lui, Michele Salvemini, per tutti “Capa”. “Mio padre, negli anni Sessanta, era a un passo dal riuscire come cantante. Non ha potuto inseguire il suo sogno ed è diventato operaio, ragione per cui spesso ho scritto della categoria. Io sono stato l’unico della famiglia a fare ciò che sognava, eppure…”. Già, eppure. “Mi sembra che tutto ciò che loro hanno affrontato aderisca di più a quel cammino tra allegria e dolore che è la vita”.

Di “eppure”, Exuvia, è pieno. Nonostante la densità degli argomenti, Caparezza voleva fare un disco allegro. È il monito che ha avuto presente per tutta la stesura, come quello che Fellini tenne sulla camera da presa girando 8 e ½: “Ricordati che è un film comico”.

Il disco allegro di Capa è una selva ricca di domande, riferimenti letterari e cinematografici, una musica rinnovata. Meno live e più elettronica, con maggiori distensioni rispetto agli ultimi lavori, senza distorsioni a tutti i costi. È il disco di uno dei pochi che riconosce che “il rap è quello che ci metti dentro” e se non sono tutti Frankie Hi-Nrg, facciamocene una ragione. Di uno che si definisce “attempato”, ma poi va dai mercatini di vinile alle ricerche su Spotify (lì ha scovato Mishel).

Di uno che quando finisce un disco non sa se riuscirà mai a farne un altro. Ma anche uno che ha fatto delle contraddizioni un marchio di fabbrica. Quindi speriamo di sì.

L’artista botanico Joseph Beuys. Da Fluxus a “7000 querce”

“Ogni uomo è un artista”, un’opera d’arte: per questo indossava sempre un cappello. Sguardo scavato e tormentato, di chi ha vissuto mille vite in una; occhi febbrili e magnetici. Il fardello del lunghissimo dopoguerra in un corpo e in una mente soli. C’è questo video su YouTube, del 1982, in cui lo vediamo persino cantare un orecchiabile brano pop, Sonne statt Reagan: è un’invettiva contro la politica guerrafondaia del leader americano di allora, ma l’aria generale sembra gioconda, anche se a intonarla pare essere stato precettato il cugino dannato del Falco di Der Kommissar. Decenni dopo la sua abiurata adesione alla Hitler-Jugend, la Gioventù hitleriana.

Domani ricorre un secolo esatto dalla nascita di Joseph Beuys, tra i più influenti e imprendibili artisti del secondo Novecento, concettuali tout-court. Per alcuni “un architetto universale”, o una sorta di redivivo Leonardo grazie all’approccio a 360 gradi, il Tedesco è stato, in ordine sparso, uno sciamano dell’arte contemporanea, un performer tra i più osannati, un ambientalista ante litteram (tra i fondatori dei Verdi in Germania) e il creatore della scultura sociale (soziale plastik, l’arte in grado di trasformare la società).

Anticonformista, crociato delle diversità, alla spasmodica ricerca di un compromesso idilliaco tra la natura e l’uomo, Beuys ha trascorso in Italia i suoi ultimi quindici anni. Ospite di una coppia di nobili e mecenati di Bolognano, un piccolo paese abruzzese, dove ha realizzato nei primissimi anni Ottanta la Piantagione Paradise (settemila piante per il ripristino della biodiversità) e la programmatica Difesa della natura, un manifesto artistico-botanico in difesa della creatività, dell’ambiente e dei valori umani. Del resto “la rivoluzione siamo noi”, ha dichiarato. E di certo non è mai stata placida e prevedibile la sua esistenza, ma vorticosa, bruciante, totalizzante. Para-dannunziana, verrebbe da sintetizzare con blasfemia.

Beuys era nato nel 1921: dopo la sbandata nazi-giovanile suddetta, partecipò alla Seconda guerra mondiale nell’aviazione e nel marzo del 1944 sopravvisse, per miracolo, a un incidente aereo. Il pilota spirò sul colpo, lui si salvò, e sarebbe stato ritrovato il giorno seguente da un gruppo di nomadi tartari che lo curarono amorevolmente con le pratiche della loro tradizione medica.

Per buona parte degli anni Cinquanta cercò di rimuovere i detriti psicologici della tragedia alle spalle, che aveva attraversato in volo, come in trance, sonnambulo. La scoperta dell’antroposofia di Steiner, la cattedra di scultura monumentale a Düsseldorf, la partecipazione agli eventi europei del movimento Fluxus. Nel 1964 la prima di una fitta serie di Azioni: si presentò al pubblico arrotolato, per otto ore consecutive, in un panno di feltro nero. O quella volta, a New York, che per girare un video rimase chiuso in gabbia con un coyote.

Il Nostro continuava a riflettere sulla banalità del male perpetrato dalla sua generazione, anelando una redenzione impossibile. Si accentuò, forse per questo, il suo impegno politico: nel 1967 lanciò il partito studentesco tedesco (Deutsche Studentenpartei), contrario alla pseudo-democrazia dei partiti occidentali. E nel 1972 il suo arrivo nella nostra penisola. L’incontro col “rivale” Andy Warhol e la collisione di estetiche e filosofie espressive con Alberto Burri. L’esperienza a Napoli nel post-sisma in Irpinia dell’80, quando rispose alla chiamata del gallerista Lucio Amelio sfornando Terremoto in Palazzo, una installazione di tavoli diroccati da lavoro rinvenuti nelle zone dell’epicentro, con l’aggiunta di pezzi di vetro e cocci: brilla adesso nella collezione permanente della Reggia di Caserta.

Nel 1982, rientrato in patria, consegnò ai posteri uno dei suoi testamenti supremi:7000 querce, un mega-triangolo dinanzi al Museo Federiciano composto da settemila pietre di basalto, ognuna adottabile. Il ricavato sarebbe servito a disseminare querce, una per pietra. Si stima che occorreranno ancora circa trecento anni prima che il bosco prefigurato da Beuys prenda definitivamente forma. Peccato che “tutto dipenda dal carattere termico del pensiero”, ha affermato in un’altra occasione l’artista, a cui nei prossimi giorni saranno consacrati alcuni appuntamenti celebrativi anche dalle nostre parti. Ne segnaliamo tre: l’apertura, domani pomeriggio a Bolognano, nella tenuta di Lucrezia de Domizio Durini, del Paradise Museum Joseph Beuys, progettato da Maurizio De Caro; la mostra Beuys e Napoli, che inaugura oggi a Casa Morra, nel capoluogo campano; e, sempre da oggi e fino al 15, al Teatro Out Off di Milano, cinque serate in live streaming con protagonisti, tra i tanti, Michelangelo Pistoletto, Alessandro Bergonzoni e Stefano Boeri.

Quasi dimenticavamo: Joseph Beuys ha abbandonato le spoglie terrestri il 23 gennaio del 1986, nel suo studio di Düsseldorf. Le sue ceneri sono state disperse al largo Helgoland nel Mare del Nord. Ma una volta ha preconizzato: “La morte mi sveglia”.