Crisi da Covid, salviamoci con il metodo di Mr. Keynes

Secondo alcuni autorevoli economisti la crisi economica innescata dal coronavirus Sars-Cov-2 è la più grave dall’inizio del modo di produzione industriale nella seconda metà del Settecento. Alla fine di dicembre del 2020 la Commissione europea ha stimato che rispetto al 2019 il Pil dei Paesi dell’Eurozona sia diminuito del -7,8% (Italia: -8,9%, Germania: -5,6%, Spagna: -12,4%, Francia: -9,4%). Negli Stati Uniti il calo è stato del -3,5%, il maggiore dal 1946. Secondo le stime elaborate dall’Ocse, nell’outlook di dicembre 2020, il Pil mondiale è diminuito del -4,3%. Contrazioni così grandi del prodotto interno lordo non si erano mai verificate. L’anomalia dipende dal fatto che questa non è una crisi di sovrapproduzione come le altre che l’hanno preceduta. Non è stata causata da una insufficienza della domanda a fronte di un’offerta crescente di merci, che abbia costretto a ridurre la produzione e a licenziare la manodopera eccedente, provocando un’ulteriore diminuzione della domanda. È stata causata dal fatto che la chiusura in casa delle persone e il blocco delle attività produttive per contenere la pandemia, hanno comportato una diminuzione sia della produzione, sia della domanda di merci. Se quella che stiamo vivendo non è una crisi di sovrapproduzione, ma da sovraconsumo di risorse e da sovrapproduzione di rifiuti non metabolizzabili dalla biosfera (…), probabilmente le politiche keynesiane finalizzate ad accrescere la domanda aumentando la spesa pubblica in deficit sarebbero controproducenti. Se la crisi è stata innescata da una zoonosi, provocata dalla distruzione di un ambiente selvatico per estendere la superficie della terra antropizzata e accrescere la produzione di merci, un sostegno alla domanda per far ripartire la crescita economica rafforzerebbe le cause che provocano le zoonosi. Non a caso il presidente degli Stati Uniti in carica nell’anno in cui è scoppiata la pandemia, Donald Trump, ha sostenuto che il virus sia stato selezionato in un laboratorio biochimico militare cinese, anche se i servizi segreti incaricati di trovarne le prove, hanno dichiarato pubblicamente che si tratta di un’ipotesi infondata. Se, infatti, la pandemia fosse stata causata da un virus selezionato in laboratorio, il sistema economico e produttivo capitalistico non ne sarebbe la causa, per cui, dopo aver superato la fase acuta, si potrebbe ricominciare a produrre e consumare come prima. Se invece fosse stata causata da una zoonosi, non sarebbe infondato supporre che una ripartenza dell’economia senza cambiamenti sostanziali rispetto alle sue caratteristiche pre-pandemia non durerebbe a lungo, ma verrebbe arrestata di nuovo da un’altra pandemia, o dalla pandemia al rallentatore dell’effetto serra. E le conseguenze sarebbero ancora più gravi.

Non se ne abbiano a male i keynesiani, ma la grandezza di Keynes è stata d’immaginare una soluzione alle crisi di sovrapproduzione ritenuta eretica dagli economisti suoi contemporanei. Chi si limita a riproporre le sue indicazioni, di rilanciare la domanda aumentando la spesa pubblica in deficit per superare una crisi che non solo non è di sovrapproduzione, ma si svolge in un contesto sociale e ambientale completamente diverso rispetto ai suoi tempi, imita ciò che lui ha fatto, non il metodo che ha seguito per farlo. Ciò che ha fatto potrebbe essere inadeguato alla situazione attuale, mentre è sempre valido il metodo (…). Negli anni Trenta del secolo scorso, la specie umana era composta da 2 miliardi di individui, oggi da 7,8 miliardi (…); la concentrazione di anidride carbonica nell’aria era di poco superiore alle 270 parti per milione, che non aveva mai superato in 8.000 secoli, mentre alla fine di maggio 2020, dopo 90 anni, è arrivata a 417,9 parti per milione e l’effetto serra ha raggiunto livelli preoccupanti; negli oceani non galleggiavano masse di poltiglia di plastica grandi come gli Stati Uniti (…); la calotta artica e i ghiacciai non si stavano sciogliendo (…). Fino agli anni Cinquanta del secolo scorso, c’erano margini per accrescere il consumo di risorse, oggi non più.

Se l’attuale crisi economica è stata scatenata da scelte obbligate per contrastare la pandemia, per far ripartire l’economia senza aggravare la crisi ecologica occorre investire nelle tecnologie e nei settori produttivi che consentono di ridurre il consumo delle risorse e l’inquinamento per unità di prodotto e in valori assoluti, garantendo al contempo un ben-essere reale a un numero sempre maggiore di esseri umani invece di un tanto-avere senza limiti spacciato per benessere a una loro percentuale limitata. Sembra un’impresa impossibile, ma non lo è, se si avrà il coraggio e la lungimiranza di costruire una società, un modello di economia e un sistema di valori diversi da quelli che hanno fatto maturare progressivamente le condizioni di questa crisi.

Il ministro che voleva essere Merkel

L’importante è partecipare, non vincere: con spirito decoubertiniano, il ministro delle Finanze tedesco, Olaf Scholz, socialdemocratico, scende in campo per la cancelleria nelle elezioni politiche del 26 settembre. L’Spd gli ha dato l’investitura a larghissima maggioranza. Tra Martin Schulz, il candidato del partito alla cancelleria nelle elezioni 2017, e Scholz c’è soltanto una vocale di differenza. Ma il risultato sarà lo stesso: perse Schulz, che qualche chance di vittoria a un certo punto pareva averla; e perderà Scholz, che non ne ha nessuna, perché i candidati verde, Annalena Baerbock, e della Cdu, Armin Laschet, attualmente presidente del Nord Reno – Westphalia, gli stanno davanti nei sondaggi. Gli ultimi rilevamenti danno i socialdemocratici al 16%, dietro i Verdi, in testa con il 26% dei voti, e i cristiano-sociali. Più che a conquistare la cancelleria, Scholz deve puntare ad arginare l’emorragia di voti che, da anni, affligge l’Spd (e pure la Cdu). I due maggiori partiti, che un tempo rappresentavano i tre quarti degli elettori tedeschi, oggi raccolgono a stento i due quinti dei favori. Scholz, 63 anni, già sindaco di Amburgo, ministro delle Finanze e vice della Merkel dal 2018 in un governo di Grande Coalizione, ha dietro di sé un partito unito sul suo nome: ha ottenuto il 96,2% dei voti dei circa 600 delegati alla conferenza virtuale dell’Spd nel fine settimana. Lo scrutinio ha suggellato la scelta già fatta, l’anno scorso, dai vertici del partito. Accettando la nomina, Scholz ha twittato: “Lavoreremo per il cambiamento. Diamoci dentro”. E ha poi attaccato la Baerbock, che – a giudizio di molti – non avrebbe adeguata esperienza per essere cancelliere: “Io posso offrire la mia esperienza, la mia forza e le mie idee”. Avvocato specializzato in diritto del lavoro, sposato con Britta – anch’essa un’attivista Spd – Scholz è stato 11 anni deputato, ministro già dal 2007 al 2009, segretario generale del partito.

Ma nel suo recente passato c’è anche il ruolo avuto nel caso Wirecard, grosso scandalo finanziario tedesco. Scholz avrebbe ipotizzato di salvare dal fallimento la Wirecard, un’azienda che fornisce servizi finanziari, inserendola senza che ve ne fossero i presupposti tra quelle destinatarie degli aiuti di Stato anti-crisi da coronavirus. Nel programma dell’Spd, ci sono riforme economiche e sociali e l’innalzamento del salario minimo, investimenti pubblici nella sanità, nell’istruzione e nei trasporti e l’azzeramento delle emissioni d’anidride carbonica entro il 2045: un’arma ‘anti Verdi’.

“Londra è poco democratica: la Scozia ritorni nell’Unione”

Ci risponde all’indomani dei risultati definitivi delle elezioni politiche scozzesi, che hanno confermato Nicola Sturgeon premier e il partito Snp primo con 64 seggi in Parlamento, uno meno della maggioranza. È Val McDermid, scrittrice molto amata anche in Italia e convinta sostenitrice del rientro in Ue di Edimburgo. Non è stato il trionfo sperato dalla Sturgeon; ma, alleandosi con i Verdi, che condividono il progetto di indipendenza, l’Snp può far approvare al Parlamento di Edimburgo il suo progetto di referendum e andare allo scontro con Londra.

McDermid, di cosa è più contenta: la sua candidatura al premio internazionale per il thriller dell’anno o il quarto governo scozzese targato Snp?

(Ride) Sono onorata per la candidatura, ma soprattutto soddisfatta per il voto, che conferma il consenso all’indipendenza scozzese dal Regno Unito.

Però è un voto in chiaroscuro: maggioranza in parlamento solo grazie all’alleanza con i Verdi, mentre nel paese il secessionismo ora non sembra avere i voti necessari a vincere.

Sono esterrefatta dai tentativi di ridimensionare il successo di Nicola Sturgeon: un quarto mandato è un risultato straordinario, in un sistema elettorale congegnato per evitare un partito egemone. Quanto al paese, si, è diviso sulla questione costituzionale, ma si ricordi che sull’indipendenza gli unionisti hanno sempre detto molte bugie, anche nella campagna per il referendum del 2014.

Per esempio?

Per esempio che uscendo dal Regno Unito i nostri anziani avrebbero perso la loro pensione. Da sempre in Scozia subiamo un deficit di democrazia: in teoria il Regno Unito è una unione di uguali, in pratica siamo soggetti alle decisioni di Londra. Pensi a Brexit: nessun distretto elettorale scozzese ha votato per uscire dall’Ue, il Remain ha vinto con l 62%, eppure ci hanno trascinato fuori contro la nostra volontà. È il momento di prendere in mano il nostro futuro, essere noi a decidere come utilizzare le nostre risorse, anche a costo di impoverirci; e questo ci è impedito da Westminster.

Queste parole ricordano la retorica dei Brexiteers, con il Regno Unito al posto dell’Ue…

Ci sono differenze profonde. Noi siamo per un nazionalismo civico, non etnico come quello inglese che ha portato a Brexit. Io ho firmato la campagna Europe for Scotland, perché negli ultimi 40 anni la Scozia è diventata un paese aperto, che accoglie gli immigrati, molto più in sintonia con il progetto europeo che con quello di BorJohnson. E non parliamo del cinismo, della corruzione, dell’opportunismo suoi e del suo governo conservatore. Nicola Sturgeon e l’Snp sono forze social-democratiche con politiche di civilizzazione, non di razzismo.

Eppure il progetto indipendentista scozzese è più ideologico che concreto: non si sa niente dell’eventuale confine fisico con l’Inghilterra o dell’impatto economico, e la Ue imporrebbe l’euro. Rischiate il ridimensionamento politico ed economico.

Contiamo sul fatto che Bruxelles ci tratti come un paese che è stato in Ue per 40 anni, con solidi legami politici, economici e culturali. Sarebbe un rientro, non una nuova adesione.

Johnson rifiuta di concedere una nuova consultazione per l’indipendenza. Ha però convocato un summit delle 4 nazioni. Lei crede a una riforma costituzionale che eviti il referendum?

Non credo a nessuna riforma che non passi per l’indipendenza. Anzi, penso che Brexit farà da detonatore alla dissoluzione di tutto il Regno, e mi aspetto presto anche la riunificazione delle due Irlande.

Se Johnson fosse un personaggio di uno dei suoi thriller, che fine farebbe?

Gli farei pagare le conseguenze delle sue azioni. Ucciderlo sarebbe troppo semplice.

Hamas e la sfida di Gerusalemme

Scontri, evacuazioni, razzi: tre bambini morti a Gaza. E a soffiare sul fuoco della tensione che da una settimana ha investito Gerusalemme est, è arrivata la provocazione del presidente turco, Recep Tayyip Erdogan, che ieri ha chiamato a “una mobilitazione del mondo islamico contro Israele in una telefonata al presidente dell’Anp Mahmoud Abbas, e al leader di Hamas, Ismail Haniyeh. “Farò ogni cosa in mio potere per mobilitare il mondo islamico e fermare il terrorismo e l’occupazione di Israele”, ha promesso Erdogan, a cui si è unito l’Egitto, che con un comunicato del ministero degli Esteri ha chiesto a Israele “di assumersi la responsabilità dei pericolosi sviluppi” a Gerusalemme est e a “porre fine alle violazioni contro la moschea di Al-Aqsa”.

Inascoltati sono passati gli appelli della Comunità Internazionale, degli Stati Uniti e dell’Unione europea a mantenere la calma, dopo i pesanti scontri di venerdì e sabato. Ieri sulla Spianata delle Moschee si contavano 300 feriti, di cui 21 agenti. La polizia israeliana mobilitata in massa già da venerdì per le preghiere finali del Ramadan, ieri ha evacuato Monte del Tempio, il Muro del Pianto, il Parlamento israeliano e il Tribunale di Gerusalemme, dove ieri si teneva il processo al premier Benjamin Netanyahu. Annullata anche la tradizionale Marcia delle bandiere del Jerusalem Day in cui ogni anno gli ortodossi-nazionalisti rivendicano la presa di Gerusalemme est nel 1967. Nella Città Vecchia infatti risuonavano le sirene anti-missili per i razzi lanciati dalla Striscia di Gaza, in tutto 12, a detta della polizia israeliana, secondo cui per un errore di lancio, sarebbero morti 3 bambini. Per i media palestinesi sarebbe stato invece un raid dell’aviazione israeliana a uccidere i minori. A rivendicare i razzi da Gaza è stato Hamas. “Si tratta di una risposta ai crimini e alle aggressioni israeliane”, ha fatto sapere il portavoce Abu Abu Obeida. “Questo è un messaggio che il nemico deve capire bene”, ha sottolineato, minacciando ulteriori attacchi nel caso in cui Israele “dovesse invadere di nuovo il complesso di Al-Aqsa o eseguire sfratti di famiglie palestinesi a Gerusalemme est”. A rivendicare invece il lancio di un missile anticarro dalla Striscia è stato il Jihad Islamico, secondo quanto riportato dal Times of Israel, e confermato dalle Forze di Difesa israeliane. E le Brigate Al-Quds, l’ala armata della Jihad ha annunciato di aver lanciato 30 razzi su Sderot. “Un messaggio al mondo intero”. Cioè “la questione di Gerusalemme non può essere rimossa e Gerusalemme resterà la capitale della Palestina”, ha fatto sapere l’ambasciatrice dell’Autorità nazionale palestinese (Anp) a Roma, Abeer Odeh. Un messaggio che sempre più si allontana dalla mera rivendicazione da parte degli arabi del quartiere Sheikh Jarrah di restare nelle proprie case: motivo per cui sarebbero iniziati gli scontri giovedì scorso, quando ebrei nazionalisti accompagnati dalla polizia hanno fatto irruzione nelle case dei coloni per sfrattarli. Scontri proseguiti nel venerdì di Ramadan alla moschea di Al-Aqsa ed estendesi in diverse città arabe. La sentenza sulla disputa israelo-palestinese di Sheikh Jarrah, annunciata per ieri, infatti, è stata rinviata all’8 giugno, proprio a causa dei violenti di scontri. La Corte Suprema ha stabilito che nel frattempo verranno bloccati anche gli sgomberi delle più di 70 famiglie di arabi israeliani che vivono lì da 60 anni previsti per le prossime settimane. Tuttavia Hamas ieri ha lanciato il suo ultimatum al governo israeliano: allontanare i poliziotti o avrebbe lanciato i razzi. E così ha fatto. Hamas infatti non ha mandato giù il rinvio delle elezioni palestinesi previste per fine luglio da parte di Abbas che proprio sulle perplessità del voto degli arabi di Gerusalemme est aveva fatto leva, sicuro in realtà di perdere.

Da qui gli scontri nella Città Vecchia, le pressioni e la spinta verso una nuova Intifada. Questo mentre Israele ha un governo di transizione lacerato, che potrebbe essere sostituito nei prossimi giorni, e la minoranza araba divisa tra lo scontro aperto con Israele e un miglioramento della convivenza dato da un probabile appoggio all’esecutivo da parte del partito islamista Ra’am. Un ruolo cruciale che il partito di Mansour Abbas svolgerebbe per la prima volta nella storia. La risposta di Israele non si è fatta attendere: “Nei prossimi giorni Hamas sentirà il braccio lungo dell’esercito. Non ci vorranno pochi minuti, ci vorranno alcuni giorni”, ha minacciato il portavoce dell’Idf, Hidai Zilberman, secondo cui l’esercito si sta preparando a una vasta gamma di possibilità, compreso un conflitto più ampio con un’operazione di terra, così come le uccisioni dei leader terroristici.

 

Quei tele-processi inquinano le prove

Studi approfonditi sia di psicologia forense che di neuroscienze cognitive hanno inequivocabilmente dimostrato come la mente umana non sia una macchina fotografica che registra una volta per tutte i fatti veicolati dagli apparati visivi e uditivi, ma una sorta di macchina di montaggio che provvede a rielaborare, selezionare e poi sequenziare i frammenti di ciò che l’occhio ha visto secondo un ordine proprio.

Quando poi su questo delicato meccanismo interviene un fenomeno di suggestione indotta da influenze estranee – il parere della pubblica opinione, una campagna di stampa, l’autorevolezza di un interlocutore che ti spinge a ricordare meglio ciò che la mente non ha registrato, ma che devi aver visto – ciò costituisce secondo le scienze cognitive un grave rischio di inquinamento della genuinità delle dichiarazioni testimoniali. Per tale motivo, ad esempio, i testimoni vengono tenuti separati (o dovrebbero) dal pubblico prima di essere sentiti, e non possono ascoltare in aula ciò che viene detto prima della loro audizione: per evitare la suggestione e l’adulterazione della loro verità.

Ecco, i talk-show di Nuzzi e Giletti hanno fatto di questi elementari concetti carne di porco o meglio succulenti bocconi per alimentare la macelleria mediatico-giudiziaria settimanale.

Se un qualche giornalista o uno dei segugi sguinzagliati dai due conduttori tv si recasse su di una scena del crimine e si mettesse a rovistare, toccando e manipolando i vari reperti, correrebbe seri rischi, verrebbe incriminato e soprattutto le prove adulterate verrebbero dichiarate inutilizzabili da qualsiasi giudice. Invece se i cani da caccia sguinzagliati dagli apprezzati tenutari delle predette trasmissioni (ma anche in generale dalla stampa d’inchiesta, questo giornale compreso) si mettono a inseguire i testimoni di vicende oggetto di indagini penali, o li invitano in trasmissione per sottoporli, prima ancora che ciò avvenga in aula, ad esami incrociati con domande dettagliate su particolari magari decisivi, nessuno si pone il dubbio che si stia alterando la più delicata delle fonti di prova: ovvero proprio la memoria umana.

Il problema non è solo di costume, ma anche e soprattutto giudiziario. Per molto tempo i magistrati si sono cullati nell’idea che la loro professionalità potesse costituire un valido argine al condizionamento dei mass media. Non è così ovviamente, l’intensità e la penetrazione delle suggestioni televisive è tale da poter anche penetrare la mente del magistrato che come tutti noi è un essere umano che la sera si infila le pantofole e si siede davanti a uno schermo.

Per dare un eloquente esempio, la famosa vicenda della famiglia Ciontoli, ha subito una svolta decisiva quando alla iniziale versione dell’incidente si è sostituita nei talk quella di un sordido complotto omicida di famiglia che ha volontariamente causato la morte del giovane Vannini. In un primo tempo la Corte di Appello di Roma aveva definito il fatto come un omicidio colposo, una disgrazia dovuta alla dabbenaggine del padre, ma poi la Cassazione ha per la prima volta abbracciato la versione di una collettiva volontà familiare convogliata verso la morte del ragazzo per eliminare un testimone scomodo. Non si sa di cosa e per quale motivo un intero nucleo di congiunti dovrebbe decidere di ammazzare il fidanzato di una dei componenti, ma non importa: in Cassazione si assiste al trasferimento genetico di una teoria di accusa dagli studi televisivi all’aula giudiziaria, un virus micidiale che si spera venga isolato prima o poi.

Non discuto che magari possa essere la verità (anche se il dubbio, qualche ostinato e retrogrado garantista si ostina a sostenere sia a favore del reo): semplicemente sottolineo come una verità sposata dai media possa pericolosamente divenire quella giudiziaria. Domenica sera a Non è l’Arena si è però superato ogni limite. Dalle chiacchiere tra esperti (sic, esperti…), si è passati a un trailer del dibattimento con l’espletamento di un vero e proprio esame incrociato alla Perry Mason di un teste decisivo: il titolare del bed&breakfast che ospitava le ragazze e che le ha viste rientrare dopo le presunte violenze. Al posto del pm e del difensore – anche se è difficile distinguere chi tra i due rivestisse il ruolo dell’avvocato – Massimo Giletti e il collega Francesco Borgonovo, suo ospite, hanno torchiato il poveraccio, peraltro collegato in video dalla Sardegna, cui hanno contestato di aver dichiarato cose diverse alla polizia giudiziaria e, ohibò, nientemeno che alla stampa. Il poveretto ha farfugliato, cercato di spiegare le contraddizioni ai due inquisitori, scatenati a rinfacciargli con faccia feroce le differenti sfumature delle sue dichiarazioni rese (si badi bene, non solo all’autorità giudiziaria, ma come lui stesso riferisce addirittura a una quindicina di giornalisti). Ebbene, grazie a Giletti e Borgonovo, una prova processuale importante è stata irrimediabilmente adulterata e resa inutilizzabile. Forse entrambi ignorano che le prove testimoniali valide sono quelle rese davanti al giudice: ma quale giudice potrà ritenere attendibile un teste trattato come il povero albergatore? La sua memoria è adulterata e inservibile, con danno gravissimo per le ragioni delle parti, ma soprattutto per quelle della giustizia.

Non è finita qui: l’indegno spettacolo è stato introdotto dalla accurata lettura dei verbali con tutti i più atroci e disgustosi particolari, senza pietà e rispetto per le vittime, il che dovrebbe suscitare l’immediato intervento degli organi disciplinari, se ce ne fossero. Basti pensare che i processi per violenza sessuale sono celebrati a porte chiuse proprio per non rendere pubblici i fatti. L’art.114 del Codice di procedura penale anzi vieta che possano essere diffusi gli atti di indagine prima che vengano conosciuti dal giudice in dibattimento. Giletti e gli altri “giornalisti” (con nota di particolare demerito per il pittoresco Javert “de noantri” Luca Telese) evidentemente ignorano che un atto non più coperto dal segreto d’indagine, come quelli del caso Grillo depositati alle parti, non sono atti pubblici che possono essere impunemente diffusi.

Di questa norma, che vale per tutti i processi in Italia, se ne fregano tutti, questo giornale compreso, nonostante tale disposizione parta da un’ovvia realtà: che anche un giudice può essere influenzato da una fuga di notizie su cui non ha ancora legittimo accesso tramite la diretta conoscenza degli atti. Se mai l’illustre direttore, che pure di questa colpa si è macchiato, ospiterà questa riflessione, forse siamo ancora in tempo a dire basta a indecenti spettacoli come quello di domenica sera, e non solo nell’interesse dei nostri cari.

Caro avvocato, concordo con lei sui processi a privati cittadini, privi di qualunque rilevanza pubblica. Se però un politico, un pubblico amministratore o un pubblico ufficiale è sotto inchiesta per gravi condotte di pubblico interesse, ritengo non solo giusto, ma addirittura doveroso informarne i lettori quanto prima. Anche pubblicando verbali depositati e persino (se riesco a procurarmeli) non ancora depositati.

 

Boicottare la Meloni per il libro? Capisco, e non son d’accordo

L’idea di boicottare il nuovo libro di Giorgia Meloni, lanciata da non poche libraie e librai indipendenti, sta ricevendo molti consensi tra gli (e)lettori di sinistra e 5 Stelle. Dunque, immagino, anche tra voi lettori del Fatto. A me, invece, questa idea proprio non piace.

Boicottare un libro nella propria edicola e libreria è senz’altro cosa lecita. Nulla di illegale: ognuno, a casa sua, fa quello che vuole. È pure un gesto a suo modo coraggioso, per almeno due motivi. Il primo è che qualche (e)lettore meloniano si potrebbe vendicare: viviamo tempi tremendi, intrisi d’odio e ignoranza violenta. Il secondo è che il libro di Meloni venderà non poco – almeno le prime settimane – e dunque i librai “boicottanti” rinunceranno a non pochi soldi.

Eppure è un’idea che continua a non piacermi. In primo luogo è una mossa controproducente, perché chi crede di danneggiare commercialmente Meloni in realtà la aiuterà regalandole pubblicità ulteriore: “Ah sì, tu non lo vendi? Bene. E io lo compro su Amazon!” Andrà così: anzi, sta già andando così.

Ci sono poi due aspetti, uno contenutistico e uno – oserei dire – addirittura etico. Quello contenutistico è che il libro di Meloni (Io sono Giorgia, Rizzoli) sarà con ogni probabilità un buon libro. Meloni non è un personaggio vuoto come Salvini, o peggio ancora Renzi, i cui “testi” sono un prodigioso inno al nulla cosmico. Giorgia Meloni è donna intelligente, con un passato non sempre facile (che nel libro immagino ci sarà) e con un presente da politica che si applica e studia. L’ho conosciuta e posso anche dirvi che è una donna corretta e leale. Tutt’altro che sgradevole. Voi mi direte che tutto questo costituisce un’aggravante: proprio in quanto donna intelligente e seria, la sua propaganda spesso becera e i suoi toni non di rado irricevibili sono da ritenersi doppiamente colpevoli. Vero. Come è vero che troppo spesso la classe dirigente di Fratelli d’Italia è impresentabile. Oltretutto Donna Giorgia non riesce proprio – perché non vuole – a recidere il cordone ombelicale con il fascismo. Tutto vero. Infatti ho criticato così tanto Meloni nell’ultimo anno da avere rotto qualsiasi contatto con lei: se non torna più ad Accordi&Disaccordi, per capirsi, è colpa – o se preferite merito – mio. L’irricevibilità politica di Meloni non mi porta però a cancellane le doti, o addirittura ad augurarle una sorta di damnatio memoriae letteraria: è una maniera di pensare che aborro con tutto me stesso. A chi poi mi chiede – da anni – di scrivere un libro tutto su Meloni, dopo quelli satirici sui due Matteo, rispondo una volta di più: “Mai nella mia vita. Ho altre perversioni e soprattutto altre voglie letterarie”.

L’aspetto che oso definire “etico” è poi quello dirimente: l’idea di boicottare un libro è lontanissima da me. Qualsiasi libro. Gli autori del Fatto sanno bene cosa significhi essere boicottati: ci sono edicole e librerie che nascondono Il Fatto come pure i libri miei, di Travaglio, di Padellaro e di Lillo (eccetera). Immagino che a voi, la cosa, non piaccia. Bene. Ma se poi agite in maniera analoga con il libro di Meloni, non fate che applicare le stesse regole sporche di chi trama per tagliarci le gambe.

Ecco perché non sono d’accordo, pur rispettandoli e comprendendoli, con i boicottatori. Dirò di più: io, il libro di Meloni, lo comprerò di tasca mia (no, niente spedizioni gratis). E lo leggerò pure con curiosità. Scoprendo, come quasi sempre nel suo caso, che la Giorgia privata è smisuratamente migliore della Meloni pubblica.

 

Caso Amara: andava coinvolta la procura di Roma, non il Csm

Offre l’occasione di una nuova riflessione circa la natura e la funzione del Csm, la vicenda della consegna (in “autotutela”) da parte del pm milanese Paolo Storari a Piercamillo Davigo, nella sua qualità di componente del Csm, di alcuni verbali di dichiarazioni rese dal “pentito” (?) Piero Amara che ha parlato dell’esistenza di una loggia massonica segreta denominata “Ungheria” cui avrebbero preso parte militari, alti funzionari e magistrati, tra i quali anche Cosimo Ferri e Giovanni Tinebra, nonché Elia Valori (quest’ultimo già posto da De Magistris, nel processo “Why not”, ai vertici della massoneria e i cui tabulati telefonici rivelarono centinaia di contatti telefonici con altissimi magistrati e generali della finanza). L’errore di fondo compiuto dai magistrati che – ritenendo di subire, dai capi degli uffici, interferenze ed ostacoli nelle indagini – si rivolgono al Csm (si ricordino i casi di Robledo contro Bruti Liberati e di Fava nei confronti di Pignatone) è quello di ritenere che tale organo tuteli l’autonomia e l’indipendenza dell’ordine giudiziario e, quindi, dei magistrati. Non è così. Il compito assegnato dalla Costituzione (art. 105) al Csm è il seguente: “Spettano al Consiglio superiore della magistratura, secondo le norme dell’ordinamento giudiziario, le assunzioni, le assegnazioni ed i trasferimenti, le promozioni e i provvedimenti disciplinari nei riguardi dei magistrati”. Ora, a differenza di altri Consigli superiori – (della Difesa, dei Llpp, della Sanità, ecc.) che sono incorporati nei rispettivi ministeri (e, quindi, nell’esecutivo) – il Csm è un organo a sé stante, autonomo previsto dalla Carta per sottrarre le nomine, le promozioni, i trasferimenti e le sanzioni disciplinari al ministro di Giustizia (e, quindi, all’esecutivo che, potendo incidere sulle carriere dei magistrati li potrebbe fortemente condizionare). Ma questo non significa che il Csm sia un organo preposto a garantire e tutelare l’autonomia (interna ed esterna) dei magistrati. Per attenerci al caso in esame, se il magistrato ha motivo di ritenere che il capo dell’ufficio voglia, con interventi impropri, impedire o ritardare lo svolgimento dell’indagine, non ha altra strada che rivolgersi contestualmente al Procuratore generale distrettuale per una eventuale avocazione e al Pg della Corte di Cassazione per eventuali accertamenti disciplinari. Al Csm, in quanto Autorità di riferimento dei magistrati, va dato soltanto comunicazione che nei confronti di un magistrato “è stata esercitata l’azione penale” e data “notizia dell’imputazione”. Ciò ai sensi dell’art. 129 disp. att. c.p.p. (norma generale per i dipendenti pubblici). Quindi, il ricorso al Csm è irrituale e può rivelarsi pericoloso per lo stesso magistrato ricorrente perché può determinare improprie iniziative del Csm di trasferimenti di ufficio – (che, per legge, devono, invece, essere circoscritti ai casi “incolpevoli” che esulano da comportamenti involontari dei magistrati) – inquinate da fattori di degenerazione correntizia e partitica, e da rapporti dei capi degli uffici con i vertici delle correnti che li hanno fatti nominare. Detto questo, e preso atto che l’indagine, data la estrema gravità delle dichiarazioni di Amara, doveva essere svolta senza il minimo indugio, si impone una domanda: se la presunta loggia segreta ha, come dice Amara, sede in Roma (presso la casa di un alto magistrato), perché gli atti non sono stati immediatamente trasmessi a quella Procura territorialmente competente? Risulta, invero, che il fascicolo sarebbe stato trasmesso a Roma solo molti mesi dopo le dichiarazioni e solo, a quanto sembra, dopo che Davigo – interessato da Storari – aveva parlato con il Pg Salvi e quest’ultimo con il Procuratore di Milano. È auspicabile che i magistrati milanesi diano su tale punto fondamentale una risposta precisa e circostanziata.

 

Letta-Conte, divergenze per poi restare paralleli

In questa fase di fidanzamento, il Pd e il Movimento 5 Stelle come si stanno preparando alla futura convivenza? Quali identità stanno mettendo a punto per concepire una nuova sinistra e, con essa, un nuovo Paese?

Il 14 marzo Letta ha proposto al Pd “una cura choc” che lo trasformi da “torre di Babele” in partito della prossimità, usando l’anima e il cacciavite. La sua proposta è stata accolta con 860 voti su 866.

È vero che nel discorso post-comunista, post-democristiano e centrista di Letta, veniva dato poco spazio ai poveri, ai migranti e alla giustizia economica, ma queste lacune sono state subito colmate dal contributo dei circoli diffusi sul territorio e da due prestigiosi network: “Le agorà – socialismo e cristianesimo” promosso da Goffredo Bettini e “Ripensare la cultura politica della sinistra”, composti ognuno da una quarantina di intellettuali di grande spessore.

Conte, a sua volta, il primo aprile ha parlato all’Assemblea congiunta del Movimento 5 Stelle annunziando la nascita imminente, per partenogenesi, di un neo-Movimento baricentrato su una Carta dei principi e dei valori e su uno Statuto che, rifiutando la forma partito tradizionale, cercherà di coniugare una struttura partitica con una “esperienza leggera” anche grazie al confronto diretto consentito dalla democrazia digitale. Alle Agorà di Bettini corrispondono “Le piazze delle idee” di Conte, il quale, oltre alle correnti, intende eliminare anche cordate e associazioni di ogni genere, tutto riportando nell’alveo unico del neo-Movimento.

Come ha scritto Francesco Bei su Repubblica, ci sono sei analogie tra Letta e Conte: entrambi mettono al primo posto l’agenda politica, privilegiano la competenza e la formazione, intendono sopprimere le correnti, pensano a una forma ibrida di partito, non mirano a un semplice restyling ma a una rifondazione; entrambi non hanno fatto ancora i conti con il passato. Io vi aggiungerei altre tre analogie: entrambi sono cattolici praticanti; sono stati indicati dai vertici e non dalla base; guardano con interesse ai verdi.

Nel primo giorno del suo incarico, Letta ha inviato a tutti i circoli diffusi sul territorio un “vademecum” con cui chiedeva di esprimersi sui 21 punti del suo programma. L’iniziativa ha ottenuto un grande successo. Poi ha imposto un giovane deputato e tre giovani donne parlamentari alle massime cariche; quindi ha incalzato giorno per giorno la destra e soprattutto Salvini.

Anche Conte ha mandato un questionario, ma di cinque domande e a pochi intimi. Non ha la lunga esperienza politica di Letta e non è neppure iscritto al Movimento che Grillo gli ha chiesto di rifondare. La rifondazione sta avvenendo in circostanze molto diverse dalla fortunata congiunzione astrale in cui avvenne la fondazione, quando lo sfascio dei partiti tradizionali coincise con la repulsione popolare verso la casta, con la sinergia di un leader visionario come Casaleggio e di uno mediatico come Grillo, con la vitalità corale del movimento, con l’originale sperimentazione di alcuni tasselli di democrazia diretta grazie alla piattaforma digitale.

Casaleggio padre non c’è più; Grillo è fuori gioco; i “movimentisti” se ne stanno andando; l’associazione Rousseau è in rotta di collisione con i “governativi”. Conte, che ha presieduto due governi antitetici dimostrando doti non comuni di mediatore, sembrava il più adatto a saldare l’anima movimentista con il corpo partitico. Qualcosa del genere fecero Togliatti con Paietta, De Gasperi con La Pira, e lo fa la Chiesa che non brucia più gli eretici e pazienta con i teologi della liberazione, beatificandoli dopo morte.

Il fatto è che Conte, oltre al compito di creare un partito, ha anche quello di differenziarlo dal Pd se vuole che i due elettorati si sommino e non si sottraggano a vicenda. Mantenere al proprio interno l’ala movimentista sarebbe stato più faticoso, avrebbe richiesto più mediazione, ma sarebbe risultato più redditizio. D’altra parte, per confrontarsi con una società postindustriale in cui tutti i cittadini sono scolarizzati e interconnessi, prima o poi i partiti debbono dotarsi di una piattaforma. Ma non di un semplice service cui delegare i calcoli aritmetici delle votazioni, bensì qualcosa di molto più complesso, che sappia fare tutto ciò che Rousseau ha imparato a fare ponendosi all’avanguardia in Europa.

Senza queste marce in più, delle quali Conte disponeva con netto vantaggio rispetto al Pd e alle quali sta troppo disinvoltamente rinunziando, il neo-Movimento non sarà in grado di sommarsi al Pd per vincere, insieme, le prossime elezioni. Ciò significa che dalle scaramucce apparentemente ridicole tra Conte, Di Battista e Casaleggio, drammaticamente dipendono le sorti della nostra democrazia.

 

Pregiudizi “Caro ministro Brunetta, noi statali lavoriamo anche da casa”

Gentile redazione, “la televisione ha detto che il nuovo anno porterà una trasformazione, e tutti quanti stiamo già aspettando…”, cantava Lucio Dalla con la consueta ironia. Lavoro nella Pubblica amministrazione e sono in smart working da tempo a causa della pandemia. Come molti, pensavo che l’emergenza Covid avrebbe portato con sé, oltre ai lutti e alle sofferenze, una nuova consapevolezza. Mi illudevo che il ritorno alla famosa “normalità” sarebbe stato accompagnato dall’attuazione su larga scala di alcune misure, come lo smart working, che durante il lockdown hanno ampiamente dimostrato la loro efficacia. Mi sbagliavo. Aver verificato sul campo per più di un anno che i funzionari pubblici, in buona parte, possono tranquillamente svolgere il loro lavoro da casa senza dover andare in ufficio, non è servito a nulla. Alla faccia della “transizione ecologica”, aver dimostrato che si possono svolgere gli stessi identici compiti senza dover prendere l’auto e quindi senza inquinare le nostre già malmesse città non è servito a nulla.

Qualche giorni fa, le parole del ministro Brunetta (“gli statali tornino al lavoro”, come se il lavoro da casa non fosse tale) hanno bruscamente svegliato tutti dal sogno: ricomincia la schiavitù del cartellino. Ebbene sì, siamo nel 2021 ma i dipendenti pubblici sono ancora valutati in base alla presenza. Non importa quello che fanno: l’importante è che stiano seduti dietro una scrivania per un certo numero di ore al giorno. L’importante è che non escano dal recinto, come il bestiame. Valutarli in base agli obiettivi e alla produttività? Fantascienza. La mia percentuale di smart working attualmente prevede un giorno di presenza a settimana. Oggi, quindi, sono andato in ufficio. Ho esaminato le stesse pratiche che avrei esaminato da casa, lavorando esattamente nello stesso modo, come avrei fatto a casa. La differenza è che ho inquinato la mia città, consumando (e pagando) la benzina per arrivare al lavoro, mentre una babysitter (pagata) accompagnava a scuola i miei figli. Forse la tanto decantata “ripresa” dipende dai guadagni dei benzinai e delle babysitter. In un Paese davvero moderno, le strategie tecnologiche messe in campo dal mondo del lavoro per superare l’emergenza Covid avrebbero rappresentato altrettante opportunità da cogliere nel periodo seguente. Ma l’Italia, nonostante i discorsi altisonanti sull’innovazione, è un Paese vecchio, anzi vecchissimo, e quindi non ho dubbi: riusciremo a perdere anche questo treno.

D. C., Lettera firmata

Mail Box

 

L’ipocrisia della politica sulla morte di Luana

Cara Luana, solo adesso conosco il tuo nome e la tua storia. Adesso, con la tua morte, inizia la passerella ipocrita e vigliacca di politici, sindacalisti, tecnici della sicurezza, ispettori dell’Asl e dell’Inail. Tu sei stata l’ennesima vittima sul lavoro che, dopo questo primo momento di notorietà, andrai nel dimenticatoio come tutti quelli che ti hanno preceduto. Tu sei un numero, come lo sei sempre stata. C’è molta indignazione adesso, perché è “deceduta una giovane mamma”. C’è meno indignazione quando muore un anziano in procinto di andare in pensione o quando muore un extra comunitario. Tu sei il “prezzo” che nelle trattative politico-sindacali si chiama “merce di scambio”. Quante volte in 32 anni da Tecnico della Sicurezza ho sentito le stesse frasi e subito le peggiori umiliazioni professionali per essermi contrapposto al potere economico, per tutelare i più fragili, i più esposti, come eri tu. Quante volte, nei convegni mi sono sentito rispondere, dai tecnici dell’Asl: “Non abbiamo uomini e mezzi a sufficienza per fare i controlli”. Cara Luana, ho sempre lavorato per difendere il tuo status di lavoratrice e di apprendista. Ma senza successo. Il mio insuccesso è il prezzo che ancora, purtroppo, dovranno pagare altri come te. Siano essi madri, figli, padri, extra comunitari ecc. Tutti i morti sul lavoro sono nella coscienza del potere politico e sindacale. Se una coscienza ce l’hanno!

Antonino Bombaci

 

Draghi sul turismo: di fatto un “fuori tutti”

Bello l’invito di Draghi ai turisti stranieri a visitare, in sicurezza (?!), l’Italia questa estate! È un invito al “liberi tutti”, ma possiamo rischiare tanto? .Per prima cosa ci vorrebbero controlli certi su chi arriva in Italia ma anche (e soprattutto, mi pare) sulle strutture alberghiere, turistiche e di vita comune in Italia , affinché vengano rispettate tutte le regole anti-Covid che sono e devono essere ancora valide; in caso contrario ci troveremo in un’allegra estate con un affollatissimo prosperare di un miscuglio di virus originali, con varianti inglesi, brasiliane, sudafricane, indiane e probabilmente anche una nuova nata da questa promiscuità: quella Italiota! Incoraggiamo pure la “rinascita” del dopo-Covid, ma, per favore, ripetiamo a tutti gli Italiani, a reti unificate, la continua necessità dello stretto rispetto delle regole (con, sullo sfondo, scene dei reparti Covid in ospedale)! E anche con minacce di pesanti contravvenzioni (vere, però)!

Ruggero Franceschi

 

Si vaccinano le isole, ma non i soggetti fragili

Ma che Paese è questo, in cui decine di migliaia di anziani e di soggetti fragili non sono stati ancora vaccinati, ma vengono vaccinati i camerieri e i baristi ventenni dei resort delle isole? È questo il cambio di passo?

Venanzio Antonio Galdieri

 

Liberalizzare i brevetti è di pubblico interesse

In merito alla liberalizzazione del brevetto dei vaccini vorrei ricordare che agli inizi degli anni 50 Albert Bruce Sabin riuscì a sviluppare un vaccino contro una malattia virale molto diffusa all’epoca, la poliomielite, che colpiva la popolazione infantile, ma anche numerosi adulti. A.B. Sabin non lo volle brevettare rinunciando a diventare un uomo ricchissimo, perché il prezzo basso ne avrebbe consentito una più estesa diffusione: “tanti insistevano che brevettassi il vaccino, ma non ho voluto. È il mio regalo a tutti i bambini del mondo”. Bisognerebbe ricordare ai dirigenti di Pfizer: “Il capitalismo corre sempre il rischio di ispirare gli uomini a essere più interessati a guadagnarsi da vivere che a vivere” (Martin Luther King)

Antonella Jacoboni

 

Ho seguito Otto e mezzo giovedì e sono rimasto deluso dall’intervento della prof. Viola, determinata a difendere i proventi delle case farmaceutiche sui vaccini. Quando ha affermato che i guadagni erano giustificati dagli investimenti sulla ricerca, mi sarei aspettato che lei avesse eccepito che quanto a investimenti, nel caso dei vaccini Covid, le case farmaceutiche erano state generosamente sovvenzionate da molti Stati occidentali, presi dal panico di fronte al nuovo castigo che dio periodicamente ci impone per darci l’occasione di espiare i peccati dell’umanità (molti dicono: giustamente).

Paolo Aita

 

Salernitana in Serie A, il “capolavoro” di Lotito

Il prossimo anno Lazio e Salernitana giocheranno entrambe in Serie A, pur essendo sostanzialmente entrambe di Lotito: un obbrobrio che non si può vedere.

Enrico Livorno

 

La buona informazione lascia l’amaro in bocca

Ogni giorno vado in edicola e compro il nostro giornale e ogni giorno dopo le prime letture (non solo del vostro editoriale) mi domando: ma in che Paese viviamo? Allora ho fatto questa riflessione: è meglio non saperle queste cose e non avvilirsi o è meglio conoscerle e fare la nostra piccola lotta quotidiana sulle cose che possiamo cambiare? Ora che sono in pensione, posso fare ben poco, però credo che sia sempre meglio essere informati bene, anche se poi concludo dicendo che sarebbe tutto, ma proprio tutto, da rifare, come diceva Bartali.

Roberto Napoletani