Coprifuoco: da lunedì alle 23 Regioni: “Colori? Facciamo noi”

Un primo accordo sembra fatto. Da lunedì prossimo, 17 maggio, il cosiddetto coprifuoco in vigore da novembre alle 22 dovrebbe slittare alle 23 o alle 24. Una o due ore in più. Oggi Mario Draghi ne parlerà con i ministri capi-delegazione dei partiti nella cabina di regia Covid, che però sarà dedicata al decreto Sostegni bis. “Nuove aperture” ma “con la testa”, aveva detto il capo del governo. Alla Lega non basterà e nemmeno a Italia Viva, vedremo cosa dirà Forza Italia. E intanto i tecnici metteranno a punto i parametri e il nuovo algoritmo che definisce i colori, cioè le restrizioni: non basterà più Rt sopra 1 per andare in arancione, altrimenti il 17 maggio ci andrebbero diverse Regioni anche importanti.

Ieri Matteo Salvini ha riunito a Roma ministri e sottosegretari del Carroccio per dare la linea: “Entro questa settimana il governo deve riaprire tutto”, ha detto ai suoi. Stavolta anche il numero due della Lega Giancarlo Giorgetti, in genere su posizioni meno oltranziste, si è detto “in sintonia” con il segretario. Il centrodestra chiederà l’abolizione totale del coprifuoco e la riapertura dei ristoranti al chiuso (oggi prevista per il 1° giugno), tutto a partire da lunedì. Anche i renziani sono a favore: ieri il capogruppo al Senato Davide Faraone ha annunciato una mozione a Palazzo Madama per chiedere di cancellare la limitazione alla libertà di movimento. Un’altra mina parlamentare arriverà giovedì al Senato con una mozione di Fratelli d’Italia per chiedere al governo di “rimuovere l’inutile misura del coprifuoco alle 22”.

Il Pd, il M5S e il ministro della Salute Roberto Speranza frenano. Vogliono attendere almeno i dati di questa settimana. Anche perché, spiegano gli esperti, non conosciamo ancora con esattezza cosa è successo dopo le riaperture del 26 aprile. Il virus, come sappiamo, ha i suoi tempi; i contagi indicati nel monitoraggio settimanale di venerdì scorso risalgono per lo più alla prima metà di aprile. Naturalmente c’è un numero crescente di persone vaccinate (alle 18 di ieri quasi 7,5 milioni con due dosi, quasi 16,8 con una) e con gli anticorpi post-Covid 19. Ma insomma, riaprire tutto e subito non è all’ordine del giorno. Altro è il coprifuoco su cui anche Antonio Decaro, sindaco Pd di Bari e presidente dell’Anci (Comuni), ieri diceva che “alle 22 è incompatibile con le abitudini degli italiani”. I presidenti di Regione del centrodestra, da Massimiliano Fedriga a Giovanni Toti fino a Luca Zaia, chiedono le riaperture anche dei centri commerciali nel weekend (forse dal 22 maggio) e il riavvio del settore dei matrimoni (forse dal 15 giugno). Probabilmente sarà chiamato a esprimersi il Comitato tecnico scientifico, che ieri sera discuteva della possibile abolizione della misurazione obbligatoria della temperatura in alcuni casi e della somministrazione dei vaccini AstraZeneca anche agli under 65. Il clima resta teso, ieri il segretario dem Enrico Letta ha attaccato, sia pure senza nominare Salvini, quei “pifferai magici” che provano a intestarsi le riaperture.

È in dirittura d’arrivo la ridefinizione dei parametri epidemiologici. Si va verso un nuovo algoritmo che ridurrà il peso di Rt, l’indice di riproduzione del virus che abbiamo imparato a conoscere, almeno nella formula attuale calcolata sulla variazione da una settimana all’altra dei contagiati sintomatici. Rt infatti ha ripreso a crescere, la media nazionale nel monitoraggio di venerdì scorso (che si riferisce però al periodo 14-27 aprile perché i dati completi non arrivano immediatamente dalle Regioni) è salita a 0,89. Anche Lombardia, Veneto, Lazio, Campania ed Emilia-Romagna erano a 0,9 e potrebbero superare 1, che con le regole attuali significa passare dal giallo all’arancione, cioè richiudere bar e ristoranti all’aperto. “Sarebbe una beffa”, dicono dal Carroccio, ma non sono gli unici a ritenerlo “insostenibile”. Anche perché nel frattempo i contagi sono scesi, così come i ricoveri in ospedale e, più lentamente, stanno diminuendo i decessi.

Sul tavolo c’è poi l’ipotesi di limitare la potestà dello Stato solo laddove l’epidemia corre di più, lasciando alle Regioni, che lo chiedono, la definizione delle misure nelle situazioni intermedie. A ogni modo servirà un altro decreto, che il governo dovrebbe licenziare tra giovedì e venerdì insieme alle misure economiche del Sostegni bis.

“Il Pd si svegli: per noi vale fino a 10 miliardi”

Il fisco – un fisco più equo e progressivo (e meno eluso) – è stato un bel pezzo della sua vita pubblica, per questo a Vincenzo Visco – che ebbe la delega alle Finanze nei governi Prodi (due volte), D’Alema e Amato – abbiamo chiesto un’opinione sulle proposte gauchiste di Joe Biden in materia.

Liberalizzazione dei vaccini, aumenti di prelievo sui patrimoni e le grandi imprese per finanziare la ripresa, il welfare, i salari: l’agenda di Biden è quella della sinistra mondiale, perché trova tante resistenze nel centrosinistra italiano?

Sono molti anni che il dibattito a sinistra negli Stati Uniti è molto più avanzato che in Italia e in Europa; negli Stati Uniti, infatti, non vi sono a sinistra complessi legati a passate militanze socialiste o comuniste. Biden non fa che interpretare lo spirito del tempo, ma in Europa già si dice che la sua radicalità gli farà perdere voti. Staremo a vedere, quel che è certo è che Biden non è un radicale: la sua storia politica potrebbe farlo accostare a personaggi come Letta o Veltroni che sono oggi su posizioni molto più moderate delle sue. Per non parlare di alcuni intellettuali ex comunisti nostrani che negli Usa verrebbero considerati dei reazionari.

Tra le tante inversioni a U dell’amministrazione Biden rispetto all’èra Trump c’è la proposta ai Paesi Ocse di tassare le multinazionali con una minimum tax al 21% e calcolata sui profitti globali: che ne pensa, può funzionare?

Sono quasi 10 anni che la questione viene studiata in sede Ocse, esistono le proposte concrete e sono stati sviscerati effetti, conseguenze e dettagli tecnici. Biden ricolloca gli Stati Uniti tra i Paesi che condividono questo sforzo, ma fornisce anche e soprattutto una forte spinta che questa volta può essere decisiva. Finora tutti i tentativi si sono scontrati con l’opposizione, esplicita o nascosta, di Paesi interessati a fornire rifugio ai profitti delle multinazionali e all’azione lobbistica delle multinazionali stesse, in particolare di quelle tecnologiche. Ciò è avvenuto sia all’Ocse che a livello Ue con la proposta, avanzata dall’Italia nel 2007, di tassare le imprese europee su base consolidata ripartendo i profitti tra gli Stati: quella proposta diede origine a due disegni di direttiva rimaste non a caso lettera morta. Forse ora la situazione può cambiare, ma è presto per cantare vittoria.

Che effetti potrebbe avere per l’Italia?

A livello globale le perdite di gettito attribuibili alle multinazionali vengono stimate in 240 miliardi di dollari l’anno. I Paesi più danneggiati sono quelli in cui risiede un maggior numero di grandi imprese, Stati Uniti in testa. Per l’Italia può valere 8-10 miliardi di euro.

Poco se raffrontato ai 140 miliardi di evasione fiscale totale che si registrano ogni anno…

Certo, ma se non si contrasta con vigore l’evasione legale delle grandi imprese non si ha la legittimazione per intervenire in una situazione in cui l’evasione individuale, per quanto di massa, si limita ad alcune decine di migliaia di euro: tanti per chi non evade, ma pochi se confrontati coi risparmi fiscali possibili per le grandi imprese.

Ricchi più ricchi e poveri sempre più poveri, un fenomeno che in Italia è cresciuto col Covid: la politica fiscale può ridurre le disuguaglianze?

La politica fiscale può fare qualcosa, ma non moltissimo, perché interviene a correggere una distribuzione sperequata dopo che questa si è manifestata a causa dei meccanismi di funzionamento del mercato. Le disuguaglianze si combattono innanzitutto modificando il funzionamento attuale delle economie: dal potere dei sindacati alle retribuzioni dei manager fino ai monopoli artificiali creati da un’eccessiva tutela legale di marchi e brevetti. E poi gli effetti redistributivi più rilevanti derivano dai sistemi di welfare e non dalle tasse. Ma certo, a livello fiscale si può fare qualcosa: aumentare la progressività delle imposte sul reddito, introdurre forme ordinarie di tassazione patrimoniale, riformare le imposte di successione, impedire che spese personali dell’imprenditore e della famiglia diventino costi deducibili per l’azienda… Si potrebbe anche pensare a una tassa sui sovraprofitti o sui guadagni extra realizzati nei due anni di pandemia, ma il fisco da solo non è lo strumento risolutivo.

Draghi ha annunciato una riforma del fisco: quali dovrebbero essere gli obiettivi?

Sono passati oltre 20 anni dall’ultima riforma organica del sistema fiscale italiano, quella che porta il mio nome e che fu realizzata tra il 1996 e il 2000, dopo poco più di 20 anni dalla riforma del1972-73. Quindi i tempi sono maturi. Quello che va fatto è semplice: un buon sistema fiscale dovrebbe rispettare due principi di fondo, quello dell’equità verticale, cioè la progressività, e quello dell’equità orizzontale, l’eguaglianza. Il sistema attuale non rispetta né l’uno né l’altro.

Fisco, l’Italia non vuol seguire la svolta di Biden

Parola d’ordine: silenzio. La proposta della segretaria al Tesoro americano, Janet Yellen, di fissare un’aliquota globale minima per i redditi societari al 21% ha trovato subito sponde in Europa. In un’intervista con la testata tedesca Zeit, i ministri dell’Economia di Francia e Germania, Bruno Le Maire e Olaf Scholz, si sono dichiarati in linea di massima favorevoli alla proposta che il governo Usa ha detto di voler concordare con i Paesi del G20 alla prossima riunione di luglio. “Se questo sarà il risultato dei negoziati, anche noi aderiremmo”, ha detto Le Maire. Ancora più diretto il tedesco Scholz: “Non avrei alcuna obiezione alla proposta degli Usa”. E l’Italia, presidente di turno del G20? Alle domande inviate dal Fatto all’ufficio stampa del ministro dell’Economia, Daniele Franco, via XX Settembre ha risposto con un no comment.

L’elusione fiscale da parte delle multinazionali è un problema noto a tutti nel Vecchio continente. Già nel 2015 uno studio commissionato dal Parlamento europeo a un gruppo di economisti ha stimato che ogni anno l’Ue perde tra i 50 e i 70 miliardi a causa del profit shifting. È il meccanismo grazie al quale le multinazionali spostano gli utili nei Paesi in cui le imposte sono più leggere. Sarà capitato a molti di comprare qualcosa online dall’Italia e vedere che a fatturare è una società del Lussemburgo. Risultato? Gli utili derivati da quella vendita verranno tassati nel Granducato. Così facendo, invece di pagare l’Ires in Italia (24%) l’azienda venditrice la versa in Lussemburgo (17%). Non è finita qui, perché tra le pratiche di ottimizzazione fiscale non c’è solo il profit shifting. Ci sono ad esempio i tax ruling bilaterali, contratti riservati tra uno Stato e una multinazionale, che possono accordarsi per un’imposizione fiscale più generosa del normale. Emblematico il caso Apple, i cui utili in Irlanda per anni sono stati tassati con un’aliquota inferiore all’1%, tanto che nel 2016 la Commissione europea sanzionò l’azienda per 13 miliardi di imposte non pagate. Se al profit shifting si aggiungono tutti gli altri trucchi, la perdita di gettito annuale per l’Ue arriva a 160-190 miliardi, ha stimato lo studio commissionato da Bruxelles.

Da anni le istituzioni europee sono al lavoro per mettere un freno alla grande elusione, ma nonostante qualche passo in avanti le scappatoie legali restano tante. Prendiamo Amazon. La società operativa lussemburghese del gruppo – che gestisce le vendite delle filiali di Gran Bretagna, Germania, Francia, Italia, Spagna, Olanda, Polonia, Svezia – è appena riuscita nell’impresa di fatturare 43,8 miliardi di euro nel 2020, 12 miliardi più dell’anno prima, ma di non versare nemmeno un euro di imposte. Merito degli altissimi costi in capo alla società lussemburghese (in buona parte infra-gruppo), che hanno portato il bilancio in rosso per 1,2 miliardi. Insomma, niente utili e quindi zero tasse. Che tra il Granducato e il gigante mondiale dei pacchi si sia instaurato un rapporto privilegiato lo pensa anche la Commissione europea: nel 2017 ha definito il regime fiscale concesso ad Amazon un aiuto di Stato, imponendo alla società di restituire 250 milioni di euro di benefici indebiti. La multinazionale e il Lussemburgo si sono opposte alla decisione di Bruxelles, e mercoledì la Corte di Giustizia europea darà il suo responso.

Al di là dell’esito, un aiuto per capire meglio quali trucchi usano gruppi come Amazon per ottimizzare il proprio carico fiscale potrebbe fornirlo il country by country report (cbcr), documento che permette di conoscere le attività economiche svolte nei vari Paesi dalle multinazionali: una lista di tutte le nazioni in cui l’impresa ha una filiale, con relativi dati su fatturato, profitti, tasse, numero di dipendenti. Cifre utili per cogliere al volo indizi di elusione. Perché se un’azienda ha una filiale alle Cayman, con due dipendenti e un fatturato stellare, è probabile che quella base esotica sia solo un paravento per togliere gettito a qualche altra nazione. Già oggi il cbcr è obbligatorio per le multinazionali di una certa stazza, ma non dev’essere reso pubblico: le imprese hanno infatti l’obbligo di comunicarlo solo alle autorità fiscali. La proposta approvata dal Consiglio europeo, ora oggetto del negoziato con il Parlamento e la Commissione, punta proprio su questo: renderlo disponibile a tutti i cittadini. Come sempre il diavolo sta nei dettagli, ed è su questi che si è concentrato mercoledì scorso Raphael Raduzzi, parlamentare ex M5S, ora nel gruppo Misto, nell’interrogazione al ministero delle Finanze (Mef).

Raduzzi ha messo in luce alcuni aspetti della direttiva che, dice, mostrano come “la posizione del Consiglio europeo in questa trattativa sia totalmente appiattita sui voleri delle grandi multinazionali”. Secondo il testo approvato dal Consiglio, le imprese dovranno pubblicare solo i dati relativi ai Paesi Ue e a quelli della black-list Ue. Quindi, per esempio, niente informazioni sulle Cayman, Bermuda, Singapore, Hong Kong, Svizzera, Jersey, Dubai. La direttiva prevede inoltre che nei dati sul fatturato non sia necessario differenziare tra ricavi infra-gruppo e quelli derivanti da operazioni con parti non correlate, cioè aziende esterne. Infine, sarà permesso alle multinazionali di omettere dati su alcuni Paesi fino a un massimo di sei anni. Su quest’ultimo punto la sottosegretaria al Mef, Maria Cecilia Guerra, ha spiegato che l’omissione dei dati dovrebbe prevedere un limite temporale più breve. Sulla differenziazione tra ricavi il governo è contrario, ha detto, mentre non ha chiarito la posizione dell’Italia sul primo punto dell’interrogazione, ovvero la possibilità per le multinazionali di pubblicare solo i dati relativi ai Paesi Ue e a quelli della black-list europea, lasciando fuori molti paradisi fiscali.

Per Misha Maslennikov, policy advisor di Oxfam Italia, che da anni segue il tema della giustizia fiscale, “nel testo approvato dal Consiglio europeo ci sono clausole che rischiano di annacquare parecchio il disegno finale della misura, e la risposta del governo italiano è purtroppo molto cauta e conservativa”.

Fisco, partono i 730 compilati: caos sugli sgravi per chi paga cash

Hai voglia a convincere gli italiani che il fisco è “amico” e che la dichiarazione dei redditi non è più quel tabù da quando esiste il 730 precompilato che dovrebbe semplificare la vita a oltre 20 milioni tra dipendenti e pensionati. Ad avere ancora la meglio resta il groviglio di norme, misure e micro-interventi che caratterizzano la fiscalità italiana. Tanto che solo ieri, nel giorno dell’esordio della dichiarazione precompilata, l’Agenzia delle Entrate è stata costretta a certificare che da quest’anno le spese che danno diritto a una detrazione del 19% come il dentista, l’asilo nido, la palestra per i figli o i premi per le polizze infortuni, spettano solo se i pagamenti sono stati eseguiti con carta di credito, bancomat, assegno o bonifico. Insomma, una beffa: milioni di contribuenti ora rischiano di perdere fino a un miliardo di euro, proprio come aveva denunciato il Fatto lo scorso mese.

Eppure, il governo aveva fatto intendere che per ovviare a questo enorme caos avrebbe inserito una deroga in un emendamento al decreto Sostegni bis. Ma del testo non c’è traccia e con l’avvio della stagione dei redditi, le Entrate hanno dovuto spiegare che nel 730 precompilato sono stati utilizzati solo i dati delle spese detraibili che rispettano le regole sulla tracciabilità dei pagamenti.

A introdurre l’obbligo dei sistemi tracciabili dal 1° gennaio 2020 è stata l’ultima legge di Bilancio. Una di quelle cosiddette rivoluzioni fiscali che, hanno denunciato i Caf, è rimasta totalmente sottotraccia. Unica eccezione riguarda la spesa per l’acquisto di medicinali e dispositivi medici acquistati in farmacia e per le visite mediche presso strutture pubbliche o accreditate, che si possono continuare a pagare in contanti.

Intanto da quest’anno alle informazioni che sono presenti nel 730 precompilato, si aggiungono anche le spese scolastiche, il bonus Vacanze e il Superbonus portando a 1 miliardo i dati messi a disposizione dalle Entrate. Il 730 va inviato entro il 30 settembre, mentre il modello Redditi (l’ex Unico) entro il 30 novembre.

L’assegno unico per i figli rinviato a gennaio 2022

Si sa, l’annuncite politica non va mai di pari passo con i progetti di fattibilità, soprattutto quando la coperta dei conti pubblici è troppo corta e i tempi di attuazione sono stretti. Ne sa qualcosa la ministra renziana della Famiglia, Elena Bonetti, che dopo aver presentato l’assegno unico familiare come una rivoluzione per le politiche di sostegno alla natalità da far partire prima di subito per dare un segnale di discontinuità con i precedenti governi, ha dovuto ammettere che “la misura nella sua forma definitiva non partirà da luglio”. Si dovrà attendere gennaio 2022 per far entrare a regime l’assegno, pilastro del Family act, che ingloberà gli 8 strumenti oggi esistenti: dalle detrazioni per i figli a carico agli assegni al nucleo familiare, dal bonus bebè al premio alla nascita. Un contributo – o credito d’imposta – di massimo 250 euro al mese che partirà dal settimo mese di gravidanza fino al compimento dei 21 anni del figlio per tutte le famiglie di lavoratori dipendenti, autonomi e incapienti (cioè chi non ha reddito sufficiente per fruire delle detrazioni fiscali).

Che il 1° luglio, a tre mesi dal via libera della legge delega che ha approvato l’assegno unico, non ci sarebbe stato il suo varo era più che una eventualità: troppi i difetti della misura, tra cui il grave limite che oltre un milione di famiglie rischierebbe di perderci. Così la ministra Bonetti ha iniziato a parlare di “una misura ponte” in attesa che la riforma entri in vigore il prossimo anno. In pratica, per quest’anno, stanziando 3 miliardi, si erogherà l’assegno ad autonomi e professionisti che attualmente hanno solo detrazioni (e non assegni familiari), lasciando le altre detrazioni, per poi far scattare dal 1° gennaio del 2022 il nuovo assegno unico.

Bene ma non benissimo. Le famiglie, che già da settimane affollano i Caf per farsi preparare i modelli Isee (vale a dire l’indicatore che viene calcolato tenendo conto anche del patrimonio immobiliare e mobiliare di tutto il nucleo familiare), si attendevano qualcosa di più sostanzioso che un allargamento della platea agli autonomi che fino a oggi non hanno mai goduto dei sostegni per i figli, come gli assegni familiari in busta paga.

Il premier Mario Draghi ha spiegato che i fondi a disposizione per l’assegno unico sono 20 miliardi, tra fondi degli aiuti pre-esistenti e nuovi stanziamenti che dovranno arrivare dal Recovery plan. Peccato che dalle prime simulazioni emerga che con una platea di 10 milioni di richiedenti si arrivi a una spesa totale per lo Stato di 30 miliardi di euro. Un buco a cui non si è ancora trovata una pezza. Ma c’è un’altra criticità: vanno ancora scritti i decreti attuativi che dovrebbero far superare alcuni nodi tra cui la definizione delle soglie Isee che danno la progressività nell’erogazione dell’assegno (maggiore è il reddito, minore è l’assegno). Così, in attesa di capire se sarà possibile reperire nuove risorse, la ministra Bonetti ha anche annunciato che il suo ministero “sta facendo delle simulazioni, ma non c’è ancora una decisione, sulla possibilità di escludere il calcolo dell’Isee come parametro per modulare il contributo”. In altre parole, si semplificherebbe la misura, proprio come avviene nel resto d’Europa dove viene dato a tutti i genitori un importo fisso, ma andrebbe comunque rivista la legge delega. E per questo ci vogliono altro tempo e altri annunci.

Verbali di Amara, adesso l’inchiesta passa a Brescia

Incontrare Nicola Gratteri, il procuratore di Catanzaro, nei corridoi della Procura milanese su cui in questi giorni sono appuntati gli occhi di tutta Italia, potrebbe scatenare qualche dietrologia, nel clima un po’ complottistico creato dalle rivelazioni (o calunnie?) di Piero Amara sulla fantomatica loggia Ungheria. “Visita di cortesia”, è la spiegazione ufficiale, mentre Gratteri esce dall’ufficio del procuratore Francesco Greco e qualcuno ipotizza che il magistrato calabrese potrebbe esserne il successore, quando Greco, a novembre, terminerà il suo mandato. Ma è il presente, intanto, a pesare sulle vicende nate con la consegna dei verbali segreti di Amara, nell’aprile 2020, dal pm Paolo Storari all’allora consigliere del Csm Piercamillo Davigo, spiegata come reazione a una supposta inerzia nelle indagini. Poiché è ormai stabilito che il passaggio di documenti avvenne a Milano, a casa di Davigo, è anche certo che l’inchiesta su Storari, accusato di rivelazione del segreto d’ufficio, passerà dalla Procura di Roma – dove in un primo momento si era supposto fosse avvenuto la consegna – a quella di Brescia, competente a indagare sui magistrati di Milano. Lo si apprende al termine di una riunione di coordinamento svolta ieri tra il procuratore di Roma Michele Prestipino e quello di Brescia Francesco Prete. Nell’incontro, i due magistrati hanno fatto il punto sull’attività istruttoria svolta fino a ora e hanno stabilito le iniziative da adottare e il percorso da seguire da qui in avanti.

A Roma resta l’indagine sulla successiva diffusione dei verbali di Amara, arrivati a un paio di giornali, Il Fatto e Repubblica, e al consigliere del Csm Nino Di Matteo. Indagata, come “postina”, Marcella Contrafatto, l’impiegata del Consiglio superiore della magistratura che aveva accesso al computer in cui Davigo conservava i documenti avuti riservatamente da Storari. L’impiegata, ora sospesa dal Csm e accusata di calunnia, ha visto ieri respinto il ricorso presentato al Tribunale del riesame in cui chiedeva la restituzione del materiale che le era stato sequestrato durante le perquisizioni a casa e in ufficio.

A Milano, intanto, restano le pene e i dolori di una vicenda che i pm della Procura faticano a spiegare, avendo coinvolto magistrati stimati come Storari, Davigo, Greco. La macchina delle indagini penali prosegue. A Perugia quella sulla loggia Ungheria, in coordinamento con Milano e Roma, poiché alla Procura perugina – competente a trattare le vicende dei magistrati di Roma – da tempo la Procura di Milano ha trasmesso il fascicolo in cui compaiono molti nomi di toghe della capitale. Avviata anche la procedura che potrebbe sfociare in un provvedimento disciplinare a carico di Storari. Il procuratore generale di Milano, Francesca Nanni, ha ricevuto la relazione del procuratore Francesco Greco e sta ora preparando una sua relazione sulla vicenda. La invierà a Roma, al procuratore generale della Cassazione, Giovanni Salvi. A lui spetterà di decidere se aprire in maniera formale l’azione disciplinare per Storari, indagato finora a Roma e da qui in avanti a Brescia per rivelazione di segreto di ufficio.

Appello a metà e priorità reati La Cartabia copia le leggi di B.

Tutti in attesa della proposta della commissione ministeriale della Guardasigilli Marta Cartabia sulla prescrizione, croce di tutti i governi, ma ci sono altre due proposte ben più dirompenti, che faranno scontrare ancora di più i partiti di maggioranza: il Parlamento potrebbe indicare ogni anno le priorità su cui devono lavorare i pm, cioè sarebbe la politica a dettare la linea ai magistrati, il sogno di Silvio Berlusconi; potrebbe cambiare anche la natura dei processi d’appello con una rivisitazione, più articolata, della legge Pecorella, che fu bocciata dalla Corte costituzionale nel 2006.

La riforma Bonafede viene così smontata dalla proposte della commissione istituita dalla ministra Marta Cartabia in via Arenula e presieduta da un ex presidente della Corte costituzionale, come lei, Giorgio Lattanzi.

“Ci sono più opzioni – ha detto più volte ieri, la ministra al vertice con i capigruppo in commissione Giustizia della Camera – voglio poi sapere da voi cosa ne pensate”. La sintesi del governo dovrebbe arrivare settimana prossima. Ma la ministra, che non vuole la palude parlamentare per via della maggioranza fatta da separati in casa, ieri ha lanciato più avvertimenti, brandendo il rischio che l’Italia perda tutti i soldi del Recovery, “non solo i 2,7 miliardi del Pnrr destinati alla giustizia, ma i 191 miliardi destinati a tutta la rinascita economica e sociale italiana”.

Per l’Europa è prioritaria la riforma della giustizia civile, ma anche la lotta alla corruzione con una legge, la Bonafede, apprezzata da Bruxelles. La Commissione Ue, però, chiede anche tempi più rapidi dei processi penali, previsti già dalla riforma Bonafede, ora messa all’angolo su punti cruciali come prescrizione e Appello.

“In cinque anni dobbiamo ridurre del 40% i tempi dei giudizi civili – ha detto Cartabia – e del 25% dei giudizi penali”, poi intima: “Chi si sottrae al cambiamento si dovrà assumere la responsabilità di mancare una occasione così decisiva per tutti”. Ed eccole le proposte della commissione Lattanzi.

Prescrizione. Via la legge Bonafede che blocca la prescrizione dopo la sentenza di primo grado. Via anche la proposta approvata dal governo Conte, ora in Parlamento, il cosiddetto lodo Conte-2, di Federico Conte di Leu, che prevede il doppio binario, ovvero prescrizione bloccata in primo grado solo se l’imputato è condannato. Invece, secondo la prima proposta della commissione ministeriale, il blocco della prescrizione si lega ai tempi processuali prestabiliti, sulla scia della passata legge Orlando: prescrizione sospesa per 2 anni in primo grado, per un anno in Appello e in Cassazione. Se i tempi non vengono rispettati la prescrizione riprende dall’inizio. La seconda opzione incide sui tempi del processo, che se sforati lo fanno andare al macero: se il processo dura più di 4 anni in primo grado, 3 in Appello e 2 in Cassazione c’è l’improcedibilità. Si ipotizza, inoltre, lo sconto della pena per irragionevole durata del processo o l’ineseguibilità della pena se i tempi sono particolarmente lunghi.

Pecorella allargata. Il pm non potrà appellare né le sentenze di assoluzione, come stabiliva la legge dell’ex avvocato di Berlusconi, Gaetano Pecorella, ma neppure quelle di condanna. Ci sono dei limiti anche per gli avvocati: l’imputato condannato potrà fare appello, ma solo per motivi “stringenti”, che rientrano nell’elenco previsto dal codice e che ieri non sono stati indicati. Il pm può, comunque, fare ricorso in Cassazione, giudice di legittimità, e se il ricorso viene accolto si torna all’Appello. In sostanza, è stato spiegato ieri, l’Appello diventerebbe “non un nuovo giudizio”, ma “una revisione critica della sentenza”, come chiesto nel 2016 dalla Sezioni Unite della Cassazione, di cui Lattanzi ha fatto parte.

Le reazioni. La proposta piace molto a FI, che parla di norma “assolutamente ragionevole” con Pierantonio Zanettin, e anche a Enrico Costa di Azione, ma non al M5S che, per esempio, per disincentivare gli Appelli pensa di prevedere quanto ora è vietato: il possibile aumento della pena per l’imputato ricorrente. Delle proposte della commissione è contento pure il Pd, con il capogruppo Alfredo Bazoli: “Condividiamo anzitutto la convinzione che la riforma vada fatta ora e nelle proposte illustrate troviamo il respiro di una riforma equilibrata”. Se si aggiunge la mossa di Matteo Salvini di voler fare un referendum sui magistrati, il M5S può ritrovarsi cacciato in un angolo da solo.

Ora Fico in bilico A Torino ipotesi di Appendino bis

Lo schema è saltato. E cosa ne sarà dell’alleanza tra Pd e M5S a questo punto nessuno può dirlo. Al Nazareno gli umori sono tetri dopo il tramonto della candidatura di Nicola Zingaretti a Roma. In casa dem attribuiscono la responsabilità di aver fatto saltare un candidato considerato vincente a tutto il gruppo dirigente dei Cinque Stelle (Giuseppe Conte, Luigi Di Maio, Vito Crimi, ma anche Roberta Lombardi e Roberto Fico, in quest’ordine). Anche se sanno e ammettono che il “nuovo” Pd di Enrico Letta ne esce indebolito. La prima operazione politica del segretario è di fatto fallita. Nonostante le rassicurazioni sul fatto che Roberto Gualtieri sia un buon candidato, la speranza di una campagna elettorale civile per la Capitale e un accordo per il secondo turno a votare chi passerà tra il candidato Pd e Virginia Raggi. Lo “schema” prevedeva la garanzia che i grillini non uscissero dalla giunta con Zingarettti in campo, ma l’accordo non ha tenuto. E ora, a seguire, in tutte le altre città il gioco si complica.

A Napoli, per esempio, la candidatura di Roberto Fico è fortemente in bilico. Pesano le titubanze dello stesso presidente della Camera, ma conta anche la minor determinazione dei dem a convincere Vincenzo De Luca ad accettarlo. Dovrebbe toccare a Gaetano Manfredi, che dirà sì solo dopo aver parlato con Conte, come il Pd tiene a chiarire. Perché comunque il messaggio che vogliono far passare è che il progetto politico di alleanza è ancora in piedi, ancora prioritario. Anche se il modo in cui ne parlano è indicativo: “Vogliamo vincere con la coalizione di centrosinistra, ove possibile con M5S”.

A Torino invece sta saltando l’accordo. Il Pd farà le primarie, sperando che il M5S partecipi. Ma nel Movimento a questo punto si medita di far ricandidare Chiara Appendino. Una carta che per ora sembra molto tattica, visto che la sindaca uscente non sembra davvero averne voglia. Ma il tentativo potrebbe essere fatto. Diceva Letta ieri pomeriggio a Radio Immagina: “Noi lavoriamo con il M5S ma è evidente che a Torino e Roma, con Appendino e Raggi in campo, il lavoro è complesso, il Pd era all’opposizione. È naturale che ci siano difficoltà in questo momento”. E anche a Bologna il quadro si sta complicando. In campo per la coalizione c’è Matteo Lepore, appoggiato sia dal gruppo dirigente del Pd, che dai 5Stelle, Max Bugani in testa. Alle primarie, però, sfida Isabella Conti. La sindaca di San Lazzaro è stata lanciata da Matteo Renzi, ma partecipa nascondendo il simbolo di Iv e punta su un certo gradimento trasversale. Mentre una parte di Base Riformista la appoggia, anche per mettere in difficoltà il segretario.

Ieri Andrea Marcucci era sulfureo: “Osservo che purtroppo non sta uscendo il nome di una candidata da nessuna parte, esclusa Conti a Bologna, che però non è la preferita dai vertici. Questo Pd tutto al maschile un po’ mi preoccupa”. E ne ha approfittava anche per parlare di una “sopravvalutazione di Conte”. E anche Elisabetta Gualmini ha annunciato il suo sostegno alla Conti. Non dovrebbe bastare per far perdere Lepore, ma di certo non aiuta. A cercare di tenere in piedi il progetto è Francesco Boccia, responsabile Enti locali, che non a caso ieri la metteva così: “Noi non dobbiamo dimostrare niente a nessuno: quanto abbiamo vinto, in Puglia e nel Lazio, abbiamo aperto ai Cinque Stelle”.

Ma dall’altra parte c’è Conte, che ieri lo ha sostenuto in vari colloqui: “Io non ho certo lavorato per il Pd, sono il leader del Movimento”. Non ci sta, l’avvocato, a essere dipinto come eccessivamente schiacciato sui dem. E in serata proprio fonti vicine all’ex premier diffondono la sua verità: “Sostenere che Conte non abbia governato il caos del Movimento e abbia subìto la linea della Raggi, della Lombardi o di altri trascura il fatto che Conte ha accettato di essere il leader del M5S e per questo ha adottato in tutta coerenza la soluzione migliore per il Movimento”. E parla innanzitutto al Pd: inquieto, come non succedeva da mesi.

“Pd, no alla guerra di accuse M5S, con Conte svolta verde”

Su Roma il Pd ha dovuto cambiare cavallo all’ultimo tornante e a leggere le reazioni non l’ha presa bene. Ma Luigi Di Maio prova a ricordare cosa c’è in ballo ora: “Abbiamo un’alleanza da costruire nelle città, la gente non capirebbe una guerra di accuse incrociate”.

Partiamo dal nodo politico: il governatore Nicola Zingaretti non ha potuto candidarsi a sindaco perché il M5S un minuto dopo avrebbe fatto cadere la sua giunta in Regione. È andata così, giusto?

Trovo apprezzabile la scelta di Zingaretti di rimanere alla guida della Regione in una fase così delicata come quella della gestione della pandemia e delle vaccinazioni. Nel Lazio governiamo assieme al Pd e non abbiamo abbandonato i cittadini.

Voi Cinque Stelle non potevate spostare Raggi dal Campidoglio, anche perché avevate paura che finisse per passare con Davide Casaleggio, sia sincero…

Il tema non è certo Casaleggio. Ma perché non avremmo dovuto ricandidare Virginia? Non c’era alcuna ragione per non farlo. In cinque anni ha risanato i conti e ha affrontato i clan, venendo anche minacciata. Avrà anche commesso degli errori, ma ha fatto ripartire una città ferma.

Per il neo candidato dem Roberto Gualtieri “Raggi non è stata all’altezza”, mentre Francesco Boccia accusa il M5S “di non aver avuto coraggio”. Dovreste appoggiarvi a vicenda nel secondo turno, ma così si rischia una brutta campagna elettorale di attacchi reciproci, non trova?

Il rischio esiste, ma adesso serve responsabilità, perché la gente non vuole accuse incrociate tra di noi. Non è necessario attaccarci in campagna elettorale, conta spiegare le proprie idee. Con il Pd lavoriamo all’accordo al primo turno in altre città e governiamo il Lazio e la Puglia. Fui il primo, l’anno scorso, a proporre un tavolo per le Comunali. Dobbiamo costruire un’alleanza, pur mantenendo le reciproche identità.

Ora però tutto il tavolo delle trattative traballa. Per esempio, la candidatura del presidente della Camera di Roberto Fico a Napoli sembra molto più debole, non pensa?

Sarà Roberto a decidere cosa fare. Una cosa è certa, conosciamo Napoli e le dico che è pronta per una coalizione tra noi e i dem. Ho trascorso in città due giorni e ho incontrato molti imprenditori: il nostro progetto gli va sicuramente bene.

Il segretario dem Enrico Letta conferma che a Torino il lavoro per l’alleanza “è complesso”. Andrete divisi?

Ho letto le sue dichiarazioni sulle difficoltà a Torino, e credo che il M5S debba chiedersi come dare continuità al lavoro di Chiara Appendino, che come ha fatto Virginia a Roma, ha risanato i bilanci e ottenuto risultati importanti.

Sta dicendo che potreste ricandidare Appendino?

Non voglio dire una cosa in più o una cosa in meno di ciò che ho detto. Però ci tengo a precisare che nelle città il punto di partenza non sono i nomi ma le cose da fare. E il cuore della questione è la transizione ecologica e digitale. Vogliamo che le città diventino delle comunità energetiche, e non a caso abbiamo ottenuto che il 67 per cento delle risorse del Pnrr venga destinato alle transizioni gemelle, ecologia e digitale. Senza dimenticare le ingenti risorse per il Sud.

Qui rischia di saltare l’alleanza giallorosa, Di Maio.

Stiamo lavorando su candidati e temi comuni. E le Comunali di ottobre saranno importantissime, anche perché il Movimento da qui in avanti lavorerà sempre più sui territori.

Giuseppe Conte ha detto che il Movimento può essere definito di sinistra. Lei invece aveva parlato di M5S “moderato e liberale”.

Noi Cinque Stelle rappresentiamo al meglio valori come l’inclusione sociale, al di là di ogni schema, e siamo una forza “verde”, in un’Europa dove la transizione ecologica si sta rivelando decisiva anche nelle elezioni dei vari Paesi.

Parliamo del Ponte di Messina: perché ora il M5S ha voglia di costruirlo? Non rappresenta una incredibile giravolta?

Sul tema ci sarà un confronto, e ascolteremo il territorio.

L’eventuale guerra legale con Rousseau e Casaleggio non rischia di rallentare per altre settimane la rifondazione di Conte? Sempre che la guerra la vinciate…

Per esperienza so che la politica vince sempre sui ricorsi e sui cavilli giuridici. Il M5S non è di nessuno, è una comunità, e queste vicende non potranno fermare l’arrivo di Conte.

Sarà, ma i Cinque Stelle non fanno altro che parlare di due mandati e soldi. Brutto spettacolo, non crede?

Il dibattito interno c’è sempre stato, ed è giusto che ci sia. Ma se viene riportato sui media con fonti anonime fa male a noi e fa male al Paese. Siamo concentrati ogni ora su ristori e vaccini, e questo è l’importante, non certi conciliaboli o certe riunioni.

Va bene: ma Conte che cosa ha deciso sui due mandati?

Non so cosa si deciderà e mi interessa zero. Il M5S sarà comunque sempre la mia casa.

E il governo di Mario Draghi invece cos’è? Ora si annuncia una riforma della Giustizia, in cui i partiti vogliono dare l’assalto anche alla riforma della prescrizione, un vostro totem.

Io penso che si debba procedere per priorità, e che la priorità in questo caso sia la riforma del processo civile, che in Italia non ha tempi degni del nostro Paese e che rappresenta il principale motivo per cui le imprese straniere non investono in Italia. E poi per noi è centrale la riforma del Csm.

 

Scene da un manicomio

Elon Musk, che è un genio, ammette: “A volte dico cose strane”. Qui di geni se ne vedono pochi, infatti molti dicono cose strane, ma nessuno lo ammette. Domenica, alla solita fiera del mitomane su La7, si processava Davigo, cioè l’unico non indagato del caso Amara; poi si intervistavano dei passanti per sapere se la ragazza che accusa di stupro Grillo jr. è attendibile. Mancava solo la domanda: volete libero Gesù o Barabba? Del resto, da quando Report ha mostrato l’Innominabile all’area di Servizi con una spia (e che spia), chi deve giustificarsi non sono i due nelle foto, ma Report. Intanto i giornaloni menano scandalo perché Conte, nuovo leader 5Stelle, appoggia la Raggi, cioè la candidata 5Stelle. Il ridicolo stupore deriva da un curioso concetto di alleanza alle Comunali: il Pd mette i candidati e il M5S porta i voti. Più che un’alleanza, un’annessione. A completare il nonsense c’è pure Calenda: si fa eleggere nel Pd alle Europee, molla il Pd per farsi un partito, appoggia candidati renziani per far perdere le Regionali al Pd (invano), si candida a Roma per far perdere il Pd e ora si straccia le vesti perché i 5Stelle (che lui insulta da sempre) ricandidano la loro sindaca, come fa il Pd a Milano con Sala. E ora accusa il Pd di essersi fatto “scegliere il candidato dai grillini” (Gualtieri, scelto da Letta contro i grillini) e Conte di un fantomatico “voltafaccia” (perché non s’è fatto scegliere il candidato dal Pd o da Calenda).

Chi non avesse ancora riso abbastanza non deve perdersi Repubblica: “Sulla durata dei processi il governo si gioca il Recovery. Ma la maggioranza è spaccata”. Oh bella, e il giornale che più ha tifato per questa cosiddetta maggioranza che s’aspettava? Prima ammucchi gl’incensurati 5Stelle che vogliono sveltire i processi (infatti han bloccato la prescrizione) con B. (un pregiudicato che campa da una vita sui processi eterni), Salvini (pluri-imputato che non vuole farsi processare) e l’Innominabile (indagato come tutta la sua famiglia: padre, madre, cognato e ora pure la sorella), poi ti meravigli se sulla giustizia litigano? Ultima perla: pare che la Cartabia Copiativa voglia abolire il processo d’appello, ma solo sulle assoluzioni. Strano: da ex presidente, dovrebbe sapere che la Consulta nel 2007 dichiarò incostituzionale una legge identica, la Pecorella, per violazione della parità delle parti (art. 111). Se l’imputato può appellare una condanna, il pm può appellare un’assoluzione. Infatti l’appello serve a correggere eventuali errori giudiziari commessi in primo grado. Che sono di due tipi: le condanne degli innocenti e le assoluzioni dei colpevoli. Quindi, signore e signori, piantatela di dire cose strane. Tanto nessuno vi scambierà mai per dei geni. Neppure per sbaglio.