A Laudomia scrivere come Joyce non è bastato

“Il libro dev’essere come un sasso che si butta per colpire”. Definizione perfetta. Colpire convinzioni e coscienze, aggiungerei, nella speranza che le prime vacillino e le seconde si scuotano. E proprio da una dolorosa specie di sasso nasce lo spunto di questo Il bambino di pietra. Una nevrosi femminile. Gioiello firmato Laudomia Bonanni, pubblicato per la prima volta nel 1979, che la sensibilità non ordinaria dell’editore cliquot riporta in libreria, restituendo alla letteratura italiana una voce originale e preziosa.

Un ritaglio di giornale riferisce di uno strano caso di cronaca: “Caso rarissimo di calcificazione fetale. Litopedio, dal greco: il bambino di pietra. Nel ventre di una donna operata d’urgenza, questo corpicino tutto formato ‘che sembrava fatto di alabastro’”. “L’irreducibile paura della maternità? – si interroga Bonanni – Rimozione? Avrò rimosso il bambino da cui ero ossessionata e traumatizzata? Il figlio rimasto inespresso come un feto calcificato? Questo il blocco che ho portato dentro: l’immaginario bambino di pietra?”. “È stato come incontrarsi faccia a faccia all’improvviso in uno specchio, sempre allarmante. Non ci possiamo riconoscere, non combacia con l’immagine che abbiamo di noi stessi. Perché si tende a rimuovere tutto quanto disturba: ogni difetto fisico, un brutto naso o una bocca asimmetrica, le modificazioni dell’età, i guasti dell’invecchiamento. Rimoviamo perfino l’idea della fine, la coscienza di dover morire”. Anche Laudomia (che deve il nome alla passione di sua madre per la protagonista de Niccolò de’ Lapi, ovvero i Palleschi e i Piagnoni, romanzo storico di Massimo D’Azeglio) verrà rimossa. Troppo presto. E troppo a lungo. Tra i primi ad accorgersi di lei, un certo Eugenio Montale, che ne paragona la prosa a quella del Joyce di Gente di Dublino. Quanti possono vantare di essere stati accostati da un Nobel a uno dei giganti della letteratura del Novecento? “Ho qui – scrive Montale – il libro di una sconosciuta, Laudomia Bonanni. È uscito da un concorso, ha vinto un premio letterario. Io diffido dei premi letterari, ma debbo riconoscere che esistono eccezioni e che questa Laudomia meritava veramente di essere tolta dall’ombra. Rivela una forza di narratrice che non dovrebbe fermarsi qui. Farà molta strada”. Poeta/profeta. Bonanni sarà la prima donna a vincere il Bagutta opera prima (Il fosso, 1950), vincerà il Viareggio (L’imputata, 1960), il Selezione Campiello (L’adultera, 1964) e giungerà due volte terza allo Strega (Vietato di minori, 1975, Il bambino di pietra, 1979). È nata per scrivere. Ma la sua profondità e il suo rigore mal si conciliano con la socialità infida di certi salotti. “Oggi scrivere non basta più – chioserà amaramente –. Uno scrittore per prima cosa deve sapersi promuovere”. Male antico, divenuto, ormai, pandemico. Nel 1985, Bompiani rifiuta di pubblicarle La rappresaglia: colpo durissimo. Anche perché non è la prima volta. Già nel ’50 Mondadori aveva rifiutato Stridor di denti. Lei era andata a Milano per parlare con Arnoldo Mondadori in persona, ma lui non l’aveva nemmeno ricevuta. Il no di Bompiani è il colpo di grazia. Bonanni smette di scrivere. Manterrà contatti sporadici con qualche critico e studente universitario, fino alla morte (febbraio 2002), che sopraggiungerà per i postumi di una frattura al femore. Le fratture (morali) con il mondo l’avevano resa scrittrice; una frattura (immorale come una caduta in casa) la strapperà da quel mondo che aveva cercato di amare – pur avendolo compreso – e che l’aveva né compresa né amata.

Il tema de Il bambino di pietra, però, non è la “condizione della donna”, come si dice con una formula fin troppo abusata, che appare riduttiva. Semmai, la “condizione dell’esistere”. Condizione che la donna – non fosse altro per il fatto che è lei a dare la vita – conosce meglio di chiunque altro. E che Bonanni scandaglia in un modo nel quale, già allora, sapevano fare in pochi. “E come prospettiva la vita, la mia e di tutti – scrive – non abbiamo da aspettarcene che dolore malattia e morte. L’animale è soggetto alla sofferenza, l’uomo all’infelicità. L’unico nella creazione che sa di essere condannato a morte, sola attenuante non conosce l’ora. Se attenuante si può chiamare. C’è sempre la risorsa del suicidio. Della vita siamo padroni per togliercela”. Del resto, “solo chi è totalmente privo di fantasia e gl’incoscienti, da una certa età in poi, non hanno paura della vita”. Verso la fine del romanzo, Bonanni cita un verso inappellabile di un altro ingiustamente dimenticato – Camillo Sbarbaro – epigrafe perfetta: “La vita ha bisogno di un alibi: quello dell’aldilà, quello dell’arte… Se non altro dell’alibi della prole. A sé la vita non basta”. “Non mi sono fatto un figlio – chiosa –. Forse ho scritto un libro?”. Solo i grandi hanno di questi dubbi, Laudomia: bentornata. E grazie, cliquot, per aver colmato un vuoto di lingua e senso.

Il Kombinat, gigante di ferro che diffonde veleni letali

Quando soffia il vento del nord, la rossa polvere tossica si posa sui campi e sulle case abbandonate di Botun. Solo la famiglia Stojanović vive ancora in questo paese fantasma, sulle sponde del fiume Mora. “Quando ci hanno proposto un risarcimento per lasciare il paese, nel 2001, mio marito lo ha rifiutato perché era troppo poco. E siamo rimasti da soli”, spiega Stana, un’ottantina d’anni, che vive con i due figli. “Mio marito è morto di cancro poco dopo, e io stessa sono molto malata. Dobbiamo tenere le finestre chiuse anche d’estate perché la polvere rossa si insinua ovunque”. La pianura di Zeta è una delle più fertili del Montenegro, ma è resa invivibile dal Kombinat dell’alluminio di Podgorica (KAP), una gigantesca fabbrica a nove chilometri dalla capitale e alle sue 7,5 milioni di tonnellate di fanghi rossi contenute in due vasche grandi quanto 65 campi da calcio. La casa degli Stojanović dista neanche 100 metri dall’impianto. Dopo la seconda guerra, il Montenegro, all’epoca un Paese rurale, cominciò a sfruttare i giacimenti di bauxite rossa di Nikšić, mentre l’impianto per la trasformazione del minerale grezzo in alluminio fu installato alla periferia di Podgorica, all’epoca Titograd.

La costruzione del Kombinat prese il via nel 1969. Tre anni dopo, il sito impiegava seimila operai. Per vent’anni, tutta l’economia montenegrina ruotò intorno al Kombinat, ma il sogno di sviluppo industriale della Repubblica socialista federale non sopravvisse allo smembramento della Jugoslavia. Dal 1992 la produzione crollò. Nel 2004, dopo la caduta del regime di Miloševicć e la fine delle sanzioni internazionali, la privatizzazione del KAP, su cui pesavano debiti per 130 milioni di euro, divenne inevitabile. Fu il gruppo Rusal di Oleg Deripaska, il “re russo dell’alluminio”, a mettere le mani sul 58,7% del capitale. Ma la luna di miele con l’oligarca non durò a lungo. “Il KAP avrebbe potuto produrre 100mila tonnellate di alluminio all’anno, ma Rusal voleva portare la produzione a 120mila, senza investire e senza assumere”, ricorda Sara Kekovi, segretario generale dell’Unione dei sindacati liberi del Montenegro (USSCG). Nel 2013 una lunga procedura giudiziaria si chiuse con il fallimento del KAP e un deficit di 150 milioni per le finanze pubbliche montenegrine. Nel 2014, Veselin Pejovi, proprietario di Uniprom, un fedele del presidente Milo Dukanovic, riprese il sito per 28 milioni di euro. “Nei primi anni duemila, il Kombinat contava ancora 5.600 dipendenti. Ma da vent’anni non si investe in tecnologie. Si susseguono solo piani di ristrutturazione”, continua il sindacalista. Nel 2013, il KAP contava solo 720 dipendenti: “Dall’arrivo di Uniprom, le attività sindacali sono state vietate, i lavoratori collezionano contratti precari e l’azienda ha richiamato dei pensionati per pagare meno contributi”. Nel 2015 l’Unione dei sindacati liberi del Montenegro ha fatto intervenire l’ispettorato del lavoro e la battaglia continua in tribunale. Eppure gli affari di Uniprom sembravano andare a gonfie vele: nel 2019 l’azienda è stata il primo esportatore del Montenegro. Pejović ha anche acquisito le miniere di bauxite di Nikši, controllando così l’intero settore nel Paese. “I nostri campi sono inquinati da quarantacinque anni, ma prima almeno la gente aveva un lavoro”, osserva Radoslav Terzi, un abitante di Srpska, vicino a Botun. La sua proprietà si estende ai piedi dei bacini di fanghi rossi. “L’acqua del pozzo non è potabile ed è pericoloso mangiare le verdure dell’orto. Alcuni anni fa le mie mucche hanno perso i denti”.

Tutte le sue azioni legali sono rimaste lettera morta: “Nel 2001, lo Stato ha espropriato delle terre a Botun e 22 famiglie sono state risarcite, ma io no. Dal momento che avevo solo terreni agricoli, non mi è stato offerto nulla”. “Le vasche devono essere mantenute piene d’acqua per evitare che la polvere si disperda nell’atmosfera. Un anno ha nevicato e la pianura di Zeta è diventata rossa. Una delle vasche – spiega – non è stagna e passano le infiltrazioni”. Nataša Kovaević, della ONG Green Home, lo conferma: “I bacini sono fessurati e le sostanze tossiche penetrano nelle acque superficiali. Il fiume Morača è a soli 300 metri da qui e sfocia nel lago di Scutari, una delle riserve di acqua dolce più importanti dei Balcani. Oggi, le concentrazioni di metalli pesanti nei pozzi e nei campi della regione sono da due a 150 volte superiori alla norma”. Secondo Green Home, il KAP ha prodotto, dagli anni ’70, 325mila tonnellate di rifiuti solidi contenenti nichel, cromo, cadmio, arsenico o ancora cianuro. Una parte di questi metalli sono penetrati nel suolo. A causa della lunga saga legale del KAP, i controlli dei livelli di inquinamento, prima regolari, sono diventati rari. Il Centro Ecotossicologico di Podgorica, che dipende dal ministero dello Sviluppo sostenibile e del Turismo, ci ha spiegato via e-mail che “le ultime analisi delle acque sotterranee risalgono al 2011”. L’inquinamento atmosferico causato dalla polvere rossa era misurato una volta al mese fino al 2009 ma “da allora non c’è stato più alcun monitoraggio sistematico e le ultime misurazioni risalgono a luglio 2017 e poi a settembre e ottobre 2018”. Nel 2015, Roman Denkovic, un uomo d’affari ucraino, ha acquisito il KAP per 2,45 milioni di euro, con l’intenzione di investire 50 milioni di euro nell’impianto e creare 300 posti di lavoro, rilanciando la produzione di alluminio e riciclando i fanghi rossi.

Il piano non è mai stato realizzato e l’uomo d’affari si è accontentato di rivendere alcuni macchinari. Nell’aprile 2016, ha venduto anche le due famose vasche, per una somma ignota, a Weg Kolektor, azienda teoricamente specializzata nel trattamento dei rifiuti. Nel 2018, è stata condannata a 7.500 euro per non aver predisposto un efficace sistema di irrigazione dei bacini. Se i fanghi rossi interessano tanto è perché contengono terre rare e minerali usati nella produzione di monitor di computer e telefoni, ma anche di radar, turbine eoliche e auto elettriche, essenziali nella transizione energetica. “Nei fanghi rossi del KAP troviamo piombo, mercurio e cromo, ma anche terre rare come scandio, ittrio e lantanidi”, spiega Slobodan Radusinović dell’Istituto di ricerca geologica del Montenegro, che sta studiando la composizione chimica dei fanghi rossi del KAP. Il Montenegro riuscirà a sfruttare questo tesoro?

Secondo uno studio del Bureau Veritas Commodities Canada, i due bacini del KAP conterrebbero 15mila tonnellate di terre rare. Nel settembre 2019, Siniša Jevrić, proprietario della Weg Kolektor, aveva assicurato che lo sfruttamento dei fanghi rossi sarebbe partito “il 15 novembre 2019”, in collaborazione con una misteriosa azienda britannica. Ma un anno dopo, non è partito proprio nulla. Ci sono poi nuovi sviluppi. Nel settembre 2014, la Banca mondiale aveva approvato un prestito di 50 milioni di euro per la bonifica degli ex cantieri navali di Bijela e di due siti di residui minerari vicino a Pljevlja. Si è anche impegnata a sostenere gli studi preliminari in vista della bonifica dei rifiuti industriali del KAP. Ma questi studi segnano il passo. “In tutti questi anni sono stati sprecati tempo e soldi”, ha detto Aleksandar Perovi, direttore della ONG Ozon. La documentazione tecnica per la sanificazione dei bacini KAP doveva essere consegnata alla Banca mondiale a fine giugno 2020, ma “su richiesta delle autorità montenegrine” la data è stata posticipata al 30 giugno 2021, anche a causa dell’epidemia di Covid-19.

Dal ministero assicurano che tutte le gare d’appalto necessarie sono state avviate. Ma la Weg Kolektor potrebbe ostacolare il progetto. Alla tv pubblica, nel settembre 2019, Jevrić ha difeso il suo diritto di proprietà sui fanghi rossi e assicurato che il ministero non gli aveva chiesto nessuna autorizzazione per analizzarne il contenuto. Probabilmente il piano dell’azienda è un altro: rivendere a buon prezzo i bacini allo Stato montenegrino, che si ritrova vincolato dagli impegni presi con la Banca mondiale.

Il nuovo governo del Montenegro, investito nel dicembre 2020, che dice di voler combattere le reti criminali, riuscirà a contrastare il piano di Jevri?

(Traduzione di Luana De Micco)

Serie A. Dai tre match a Sky all’ingresso dei fondi: la rissa tra presidenti che allunga la guerra sui diritti

La Serie A su Dazn. Sicuro. Tutta la Serie A su Dazn. Ecco, già qui potrebbe venire qualche dubbio. Perché la partita dei diritti tv del campionato non è ancora chiusa. Non del tutto almeno. E non soltanto per il solito ricorso presentato da Sky, forse più per disperazione che convinzione, su cui si attende a giorni la sentenza. Tra diritti tv e faide interne la Serie A è di nuovo sull’orlo di una crisi di nervi.

Con la cifra record di 840 milioni di euro a stagione (e l’aiuto di Tim), Dazn si è aggiudicata le 10 partite del campionato fino al 2024: 7 in esclusiva, 3 condivise con qualcun altro che ancora non esiste. Così, però, la gara tecnicamente non si può chiudere, fino a quando non sarà sancita la co-esclusiva, altrimenti sarebbe una violazione del bando. Lo ha ammesso la stessa Lega, quando rispondendo alle richieste degli operatori ha spiegato che “Il pacchetto 3 non è assegnabile in difetto di assegnazione del pacchetto 2”. Insomma, quelle 3 partite formalmente non sono ancora di Dazn. C’è tempo per risolverlo ma intanto il problema resta. Siamo al paradosso per cui per avere i soldi di Dazn, la Serie A adesso ha bisogno di Sky (o di qualcun altro).

La pay-tv Comcast ha perso rovinosamente la guerra, ma almeno su questa battaglia gioca da una posizione di forza. Ha fatto incetta di altri diritti, a decidere il suo futuro non saranno queste tre partite, per cui può permettersi di offrire il giusto, sapendo che la Serie A è costretta a vendere: 87 milioni. Ma ai patron non basta mai: la Lega li ha già rifiutati una volta e oggi si ritrova la stessa proposta. C’è anche un’alternativa, su cui lavora l’amministratore De Siervo: rifare di nuovo il bando, magari col posticipo del lunedì sera in chiaro per favorire l’ingresso di Mediaset. Una svolta epocale, ma anche un rischio, perché significa toccare i delicati equilibri dei palinsesti, allungare i tempi, trascinarsi fino all’estate. Pericoloso.

Se fossero saggi, i presidenti si accontenterebbero degli spiccioli di Sky, chiudendo l’asta a quota 930 milioni l’anno, non male in tempi di magra. Ma i presidenti di Serie A saggi non lo sono quasi mai. Lo dimostra il fatto che, in un frangente così delicato, qualcuno (Genoa e Samp) ha proposto persino di azzerare i vertici, mandando a casa il presidente Dal Pino e pure l’ad De Siervo. Poche le chance che vada in porto (la Figc di Gravina vigila, non vede l’ora di commissariare), ma la dice lunga sulla follia dei patron.

La Serie A è dilaniata da troppe tensioni: l’affare coi fondi d’investimento (che dovevano comprarsi il 10% del torneo per 1,7 miliardi), la sfiducia al presidente Dal Pino, il tradimento della Superlega. Oggi ci sarà una riunione in videoconferenza, domani un incontro in presenza fra i 20 presidenti, da cui non a caso sono stati esclusi i vertici della Lega. È tutta una grande partita di scambio: la testa di Dal Pino per quella di De Siervo, l’amnistia sulla Superlega per l’ingresso dei fondi, i match a Sky per i soldi di Dazn. Tra oggi e domani si può fare la pace, chiudendo le varie partite e cominciando a progettare per il futuro. O continuare a litigare, tanto per cambiare.

 

La riconversione green fallirà se l’energia è sempre più cara

Come ci viene ripetuto allo sfinimento l’Unione europea intende raggiungere la “neutralità climatica” entro il 2050 e ridurre le emissioni di gas a effetto serra del 55% entro il 2030. Almeno il 37% degli investimenti dei piani nazionali nell’ambito del Next Generation EU dovranno essere convogliati verso questo obiettivo. È piuttosto inquietante però che, tra pannelli solari, idrogeno blu o verde, automobili elettriche, cappotto termico, tassazione del carbonio, si perda di vista un obiettivo chiave per ogni sistema energetico: garantire che ogni cittadino, che abiti nelle metropoli o nel paesino più sperduto, che guidi una Lamborghini o sbarchi il lunario grazie al reddito di cittadinanza, possa garantirsi una modica quantità di energia a prezzi molto bassi. E qui tralasciamo la questione, forse ancor più importante, che il sistema energetico dovrebbe anche consentire ad interi popoli e nazioni, che ad oggi ne sono sprovvisti, di disporre di infrastrutture energetiche di base.

Questo silenzio è inquietante non solo perché la “povertà energetica”, secondo la Commissione europea, riguardava 30 milioni di cittadini europei nel 2018, con una tendenza in aumento. È inquietante perché abbiamo a che fare con un clamoroso “fallimento del mercato” al quale, comunque, continuiamo ciecamente ad affidarci. L’introduzione di leggi sulla concorrenza e sulle liberalizzazioni a partire dagli anni ’90 in Europa e negli Stati Uniti è avvenuta nella convinzione che i cittadini avrebbero beneficiato dell’abolizione dei monopoli pubblici nel settore energetico grazie a servizi più efficienti e prezzi più bassi.

I fatti hanno dimostrano il contrario. Nell’Ue, nel decennio successivo al 2009, i prezzi dell’elettricità sono aumentati del 32%, molto sopra la media dell’inflazione, e i prezzi del metano del 17,3%, comunque sopra l’inflazione (in Italia la crescita è stata superiore alla media europea). A beneficiare delle liberalizzazioni sono dunque stati gli azionisti delle grandi aziende, oramai quotate in borsa. Dall’altra parte dell’Atlantico è avvenuto lo stesso fenomeno. I consumatori che hanno scelto il “mercato libero” hanno pagato, sempre nel decennio dal 2009, 19,2 miliardi di dollari in più che se si fossero tenuti i fornitori tradizionali. La recente e clamorosa vicenda del Texas, uno dei maggiori produttori di petrolio e gas al mondo in cui le bollette sono aumentate fino al 1000% e milioni di abitanti sono rimasti senza riscaldamento a causa di un’ondata di gelo, dimostra che la liberalizzazione del mercato elettrico non solo fa lievitare i prezzi, ma mette in discussione la sicurezza del forniture. Tutto lascia supporre che l’ulteriore espansione delle rinnovabili aggraverà il problema del rincaro delle energia. Non solo perché gli “oneri di sistema” (incentivi alle rinnovabili) rappresentano una quota significativa delle bollette, ma perché, al di là delle professioni di fede, non si può essere certi che le rinnovabili diventino in futuro più economiche delle fossili. Il fatto che il ritorno energetico sull’investimento energetico (Eroei) sia in media più basso per le rinnovabili che per le fossili lascia presagire il contrario.

Cosa trarre da questo ragionamento? Non certo che bisogna interrompere la decarbonizzazione. Così come sarebbe sbagliato invocare la riapertura delle “attività economiche” in piena pandemia, sarebbe folle consentire l’aumento dei gas serra in piena “crisi climatica”. Non è possibile però perseguire una “transizione energetica” seguendo logiche di mercato. D’altra parte, seppure la concorrenza figura esplicitamente tra gli obbiettivi Ue (art.3 TUE), la Costituzione italiana ne parla una sola volta nel Titolo V che definisce i rapporti tra Stato e Regioni. La Carta limita il mercato proprio nel settore energetico nel bellissimo (e dimenticato) articolo 43 secondo il quale la legge può “riservare originariamente o trasferire, mediante espropriazione e salvo indennizzo, allo Stato, ad enti pubblici o a comunità di lavoratori o di utenti determinate imprese o categorie di imprese, che si riferiscano a servizi pubblici essenziali o a fonti di energia o a situazioni di monopolio ed abbiano carattere di preminente interesse generale”.

Per vincere la povertà energetica ed evitare un continuo aumento dei prezzi bisognerà muoversi nel solco della Costituzione. I prezzi dovranno essere stabiliti dalla politica, serviranno giganteschi investimenti pubblici nella ricerca, nella produzione di rinnovabili e nelle reti, gestiti anche da società statali o cooperative che abbiano come missione non il profitto quanto l’innovazione e l’offerta di servizi con l’obiettivo di fondo di evitare che la transizione aggravi gli intollerabili squilibri sociali presenti nella società europea.

La carenza di materie prime sta affossando la produzione nell’Ue

“La carenza di materiale è arrivata al punto che, se evadi un ordine oggi, le acciaierie non consegnano prima di dicembre e comunque a quantitativi dimezzati rispetto alle reali necessità. È una situazione drammatica che non mi fa dormire la notte”. Le parole di Giorgio, imprenditore nel settore della siderurgia del nord Italia, riflettono in maniera molto efficace l’aria che si respira tra gli operatori nel settore dell’industria. Sono pochissimi i comparti manifatturieri che in questi ultimi mesi non risentono infatti della crescente scarsità di materie prime e componentistica.

Il caso più emblematico arriva da un peso massimo della filiera, come Stellantis, che due settimane fa ha annunciato il fermo produttivo dell’impianto di Melfi a causa della difficoltà nel reperire semiconduttori. Risultato: nel primo trimestre dell’anno il gruppo automobilistico ha prodotto 190 mila vetture in meno rispetto al previsto. “A causa della carenza di acciaio e resine abbiamo un arretrato ordini del 30 per cento”, spiega il top manager di una multinazionale specializzata nel comparto dell’elettrodomestico. Il problema non è solo italiano, sia chiaro: i dati macroeconomici relativi ai primi tre mesi dell’anno hanno mostrato in Germania un crescente divario tra ordinativi (+7,4 per cento rispetto al livello pre-pandemia) e produzione (ancora sotto del 3,2 per cento). Una situazione, questa, sempre più drammatica che rischia di danneggiare le prospettive di crescita, come quella italiana, stimata al +4,5 per cento dai maggiori istituti di ricerca internazionali. L’assurdità del fenomeno a cui si sta assistendo è data proprio dalla forte accelerazione dei consumi a fronte di una catena di fornitura che non riesce a stare al passo.

Della gravità della situazione inizia a esserne consapevole anche il governo tanto che il ministro dello Sviluppo Economico, Giancarlo Giorgetti, la scorsa settimana ha affermato come la crisi delle materie prime “è una questione molto seria, che deve essere gestita non a livello nazionale ma europeo, dove è stata presa qualche decisione in ritardo e sbagliata”. Giorgetti ha ricordato che uno dei fattori all’origine della crisi è la Cina che, uscendo prima dalla crisi, ha fatto “incetta di materie prime per rimettere in moto la propria economia, e i Paesi che ne sono usciti dopo non le hanno trovate”. A livello europeo sul tema delle materie prime, spiega Giorgetti, “stiamo subendo, non siamo mai in attacco ma giochiamo in difesa. E questo è un problema enorme”.

Cina ed Europa sembrano dunque essere i punti cardine dell’analisi del ministro. È indubbio che l’attuale condizione di deficit sul mercato delle commodites non esisterebbe se la Cina non avesse radicalmente mutato l’impostazione di politica industriale non più basata sull’export a basso costo ma sullo sviluppo dell’economia interna e del processo di elettrificazione al fine di contenere le emissioni di carbonio. Il caso più eclatante proviene dal rame il cui prezzo è passato dai 4.310 dollarit del marzo 2020 agli attuali 10.200/t, superando il record storico assoluto raggiunto nel febbraio 2011, proprio a causa dell’assorbimento di oltre 4 milioni di tonnellate nel 2020 da parte del Dragone.

Sul fronte del mercato siderurgico a fine aprile Pechino ha alzato dazi export e ridotto quelli su import di acciaio nell’obiettivo di ridurre la produzione locale e dare il via al piano di riduzione delle emissioni di carbonio. Una dinamica, questa, che contribuirà a rendere ancora più teso il mercato europeo che capirà presto lo scotto in termini inflazionistici di aver ciecamente abbracciato il modello ‘green’ senza conoscerne gli effetti collaterali. Non solo sul piano delle crescenti pressioni inflazionistiche ma anche su quello occupazionale: a tal proposito secondo l’istituto di ricerca tedesco IFO, l’elettrificazione nel comparto auto potrebbe mettere a rischio più di 100 mila posti di lavoro in Germania. Il mercato siderurgico europeo inoltre rischia di finire vittima della crescente competizione geostrategica tra Usa e Cina. La decisione di Pechino di sospendere a tempo indeterminato il meccanismo bilaterale che ha gestito finora il dialogo economico con l’Australia (principale fornitore di materie prime) ha spinto il prezzo del minerale di ferro sui massimi storici mai raggiunti.

Sul fronte europeo è possibile che il riferimento di Giorgetti sia invece rivolto all’attuale esistenza di misure di salvaguardia che impediscono di fatto alle importazioni di acciaio di allentare la morsa della carenza di materiale. E che, stando alle indiscrezioni, dovrebbero essere estese quando scadranno a fine giugno. Effettivamente le misure di salvaguardia hanno notevolmente contribuito ad alimentare la carenza di acciaio nel mercato italiano se pensiamo che dal 2018 (anno in vennero istituite) a oggi le importazioni europeo sono passate da 30, 2 milioni di tonnellate a 20,3 milioni di tonnellate. Nel complesso la disponibilità totale di acciaio nel mercato europeo dovrebbe veleggiare quest’anno intorno ai 140 milioni di tonnellate, (ma un reale dato sulle capacità non corrisponde all’ effettiva produzione che è controllata da un oligopolio) considerando un previsionale di aumento delle produzioni del 7 per cento a fronte tuttavia di consumi che, secondo la World Steel Association, veleggeranno intorno ai 155 milioni di tonnellate. Ciò si tradurrà nella carenza di acciaio nel mercato europeo di almeno15 milioni di tonnellate che rischia di acuirsi negli anni a venire sia in previsione dell’aumento dei consumi europei (grazie all’implementazione dei piani legati al Recovery Fund e al provvedimento sul credito di imposta 4.0 che incentiverà la ripresa degli investimenti industriali).

In un bailamme del genere sarebbe da ingenui pensare che la finanza non cerchi di approfittarne, sostenuta dalla politica monetaria della Federal Reserve che promette di rimanere espansiva malgrado i crescenti rischi inflazionistici: secondo le rilevazioni di Lipper, i flussi finanziari nel comparto delle materie prime hanno registrato un record storico di 7,9 miliardi di dollari.

Alta velocità: progetti inutili e disastrosi per l’ambiente

Dopo pochi anni in cui i riflettori erano stati (finalmente) puntati sul trasporto pendolare, con il Pnrr la politica dei trasporti torna a concentrarsi sull’Alta Velocità (AV), meglio se anche adatta alle merci e diretta verso le regioni del Sud. Si tratta di un cambio di direzione preoccupante, sotto diversi punti di vista: non solo finanziario e di ragionevolezza socio-economica, ma anche ambientale. A quanto sembra, infatti, il rapporto tra la realizzazione di nuove linee AV e gli obiettivi di decarbonizzazione alla base del Next Generation EU non è stato oggetto di particolare approfondimento: non risulta alcuna simulazione o misura né del cambio modale né del suo impatto ambientale, ma solo un’aprioristica assunzione della loro utilità.

La (generica) documentazione rilasciata dal governo, pur contenendo anche tra gli investimenti qualche spunto interessante, desta invece diverse perplessità relative in particolare all’enorme spesa stimata per attrezzare anche al traffico merci direttrici quali la Orte-Falconara, la Roma-Pescara, la Salerno-Potenza-Metaponto-Taranto e la Salerno-Reggio Calabria. Del tutto prive di utilità, anche potenziale, per il traffico merci, non solo per la generale limitatezza dei flussi, ma perché esistono già alternative perfettamente idonee. Ad esempio, è assai improbabile che la nuova linea Roma-Pescara riesca ad intercettare una domanda merci di qualche rilevo: né Roma né Pescara dispongono di porti commerciali importanti e i flussi merci, nulli in ferrovia, sono ridotti anche sulla parallela autostrada. Né è necessario il cambio di costa a nessun treno che dai porti del sud raggiunga il nord (lo può fare agilmente utilizzando altre linee, già adatte allo scopo). Ci pare anche superfluo sottolineare che nessun container lascerà mai una nave a Civitavecchia, per prendere un treno fino a Pescara e poi riprendere una nuova nave attraverso l’Adriatico (e magari poi un altro treno nei Balcani).

Parimenti, per la linea Salerno-Reggio Calabria, il Pnrr (e più ancora il Fondo Complementare, nato per finanziare a debito tutto ciò che non è finanziabile dall’Ue) sembra optare per un costosissimo corridoio interno, caratterizzato da oltre 160 km di gallerie e da 30 miliardi di costo previsto, apparentemente motivati anche dalla necessità di raccordare alla rete merci il porto di Gioia Tauro. Questo nonostante il porto sia già oggi accessibile ai treni merci europei attraverso il corridoio adriatico-jonico (Bologna-Bari-Taranto-Sibari), approntato negli ultimi anni, a costi assolutamente inferiori, adeguando la rete esistente.

Come se non bastasse, in questi casi il rischio non è solo di sprecare enormi risorse, ma anche di peggiorare l’impatto sull’ambiente: costruire nuove linee comporta infatti notevoli emissioni di CO2, che possono essere compensate nel tempo soltanto assumendo di trasferire alla ferrovia flussi merci molto elevati. Nel caso del traforo ferroviario di base del Brennero (lungo 55 km), le emissioni in fase di costruzione vengono stimate in circa 3,1 milioni di tonnellate di CO2, compensabili in circa 20 anni di esercizio a fronte di un traffico compreso fra i 20 ed i 30 milioni di t/anno. Quali possano essere i tempi di recupero dei 160 km di nuove gallerie previste tra Salerno e Reggio Calabria è facile immaginarlo, tenendo conto che l’intero interscambio merci terrestre da e per la Calabria è di 5 milioni di t/anno, non tutte intercettabili dal trasporto ferroviario. Il rischio è semplicemente quello di emettere, nel prossimo decennio, una enorme quantità di CO2 recuperabile forse soltanto dal XXII secolo. Con buona pace della transizione ecologica, che questi tempi non li può aspettare.

C’è da chiedersi se abbia senso proseguire nell’indirizzo delineato dal Pnrr, con i relativi costi, in assenza di qualunque comparazione con soluzioni più semplici, meno impattanti e tali da generare benefici comparabili al traffico passeggeri, in tempi assai più brevi. Tra l’altro, a differenza del progetto della Salerno – Reggio ad oggi presente solo nei comunicati, si tratta di soluzioni già approvate dal Parlamento: l’Allegato Infrastrutture al Def 2020 identificava infatti le priorità orientando gli sforzi di adeguamento per il traffico merci, oltre che sul corridoio adriatico-jonico, sulla direttrice tirrenica da Bologna a Livorno, Roma e Napoli e limitando l’obiettivo sui collegamenti appenninici trasversali alla sola velocizzazione passeggeri. Ma forse la domanda vera è se il ministro Giovannini, assentendo assai velocemente a un elenco di interventi comparso dal nulla e privi di progetti adeguati e destinati a generare un peggioramento del quadro emissivo nazionale, conoscesse il testo dell’Allegato Infrastrutture, ed in tal caso per quale motivo non abbia ritenuto nemmeno di richiedere un confronto con la soluzione già approvata in sede parlamentare.

Impatto sul Pil del Pnrr? Basso e dovuto alle solite riforme Ue

La ripresa dell’economia europea procede lentamente, più di quanto molti si aspettassero. Per questo i soldi del Next Generation EU sono attesi freneticamente (la prima rata, se tutto va bene, non prima di settembre). Tuttavia, l’impatto dei Piani di ripresa e resilienza (Pnrr) sull’economia resta nebuloso, soprattutto su quella italiana: il governo Draghi, come vedremo, continua a usare un modello econometrico dai presupposti discutibili: se da un lato sottostima l’effetto diretto della spesa pubblica, dall’altra assegna un ruolo enorme alle cosiddette “riforme”, il vero piatto forte di quello che inizialmente doveva essere una grande risposta fiscale europea.

Iniziamo con alcuni paragoni. Non tutti i Paesi hanno fatto le stesse scelte: alcuni come Francia, Germania e Spagna useranno solo i sussidi del Next Generation, altri (come Italia e Portogallo) sia sussidi che prestiti. In termini di volume il Recovery Plan più corposo è proprio quello dell’Italia (191,5 miliardi in prestiti e sovvenzioni, 13 miliardi del fondo ReactEU e 30,6 miliardi di un fondo complementare nazionale). Seguono, nel nostro campione, Spagna (69,5 miliardi), Francia (41 miliardi) e Germania (27,9 miliardi), Portogallo (16,6 miliardi).

Quanto alla destinazione dei fondi, su cui resta una certa discrezionalità, almeno il 37% devono essere destinati all’economia verde e il 20% alla digitalizzazione. La Francia ha il Piano più green (il 50% del suo Pnrr contro il 40% dell’Italia), la Germania quello più “digitale” (53,8% dei fondi contro il 27% dell’Italia). Quanto alla parte “libera” dei piani, il Portogallo vi destinerà ben il 40% dei fondi, seguito da Italia (33%), Spagna (30%), Francia (24,4%) e Germania (7,2%).

Ma quale sarà l’impatto dei Pnrr? La loro struttura è eterogenea, il confronto è dunqe difficile, ma proveremo a farlo comunque per i maggiori beneficiari: Italia, Spagna e Francia.

Partiamo da Parigi. L’effetto aggiuntivo del Piano sulla crescita sarà circa l’1% nei primi due anni per scendere sotto l’1 fra 2023 e 2025. In questa valutazione entrano in gioco le caratteristiche degli investimenti (focalizzati sul “sostegno alla domanda”), ma contano anche i modelli utilizzati per le stime. In quello della Francia, “la produttività dello stock di capitale pubblico non è presa in considerazione”. In altre parole, il modello non cattura l’effetto positivo degli investimenti pubblici dal lato dell’offerta. Ipotesi quantomeno criticabile.

Passando alle previsioni del governo italiano, esse considerano tutte le risorse disponibili (anche quelle del Fondo nazionale complementare) e cercano di incorporare le ricadute positive dei programmi analoghi degli altri Stati Ue. Sono valutati tre scenari alternativi. In quello “basso” si ipotizza che gli investimenti scelti siano quelli con ricaduta minore sul Pil, mentre in quello “medio” si attribuisce alle spese finanziate un’efficacia leggermente più alta. Lo scenario preso come riferimento principale è però quello “alto”, in cui si assume che “gli investimenti pubblici finanziati siano quelli con una maggiore efficienza”. In questo scenario, il Pnrr ha un impatto aggiuntivo sul Pil pari in media al 2% e crescente nel tempo: da un +0,5% nel 2021 al +3,6% del 2026. È legittimo, però, avere qualche dubbio.

Iniziamo confrontando le stime di Italia e Spagna per il periodo 2021-2023. Per questi anni, il governo Draghi stima un effetto aggiuntivo sul Pil pari in media all’1,2%. Madrid, da parte sua, fa valutazioni più rosee, prevedendo che l’impatto del Recovery Plan sul Pil sarà in media pari al 2%. L’effetto dei fondi europei previsto nel breve periodo è dunque maggiore per la Spagna (che oltretutto nelle sue previsioni non si spinge molto in là nel tempo).

Il vero impatto del Piano italiano, invece, è dopo il 2023. Cerchiamo di capire il perché. Nei primi anni l’effetto previsto del Recovery è simile – e piuttosto debole – in tutti e tre gli scenari (basso, medio e alto). Come spiega il documento, “nel breve termine prevale l’effetto di domanda”, dovuto al cosiddetto “moltiplicatore” della maggiore spesa pubblica. Nel medio periodo, invece, le cose cambiano: “I maggiori investimenti accrescono lo stock di capitale pubblico con effetti positivi persistenti su Pil potenziale ed effettivo”. In questo modo, ipotizzando che gli investimenti pubblici abbiano un’alta efficienza (scenario alto), fra 2024 e 2026 il Pil dovrebbe essere di circa il 3% maggiore in media sullo scenario base. Uno scarto consistente, spiegato con l’efficienza della spesa pubblica. Secondo Carlo Altomonte, professore alla Bocconi e membro della task force per il Pnrr, ciò sarà possibile “grazie alla riforma della P.A. e degli appalti: per questo nelle riforme previste quella della Pubblica amministrazione è al primo posto”. Nel Pnrr si legge infatti che “lo scenario rilevante per la simulazione dipende (…) non solo dal tipo di investimenti selezionati, ma anche (se non maggiormente) dal contesto in cui verranno effettuati”. Le riforme, appunto: quella della P.A. dovrebbe aumentare la produttività generale, ridurre i costi legati alla burocrazia e migliorare il capitale umano.

Diversi commentatori non sono convinti che le intenzioni del governo bastino al risultato, a non dire che servirà tempo perché le riforme vadano a regime: dopo decenni di abbandono della macchina statale sarà difficile avere risultati immediati. Gli stessi dubbi, uniti al fatto che le intenzioni di Draghi & C. non si sono ancora tradotte in un testo di legge, li hanno avuti gli occhiuti controllori di Bruxelles, diffidenza che ha allungato il negoziato nelle scorse settimane. Ai nostri fini, l’ottimismo dell’esecutivo sull’effetto delle riforme potrebbe portare a sovrastimare l’impatto del Recovery Plan.

Va detto, però che le tecniche e le ipotesi usate nelle previsioni potrebbero avere addirittura un effetto opposto, sottostimandone il contributo alla crescita. Infatti, il Pnrr esclude esplicitamente una variabile chiave: l’effetto leva degli investimenti pubblici su quelli privati. Un rischio insito nella scelta del modello di simulazione (QUEST), in cui “un aumento della spesa pubblica porta a un calo– immediato, marcato e permanente –dei consumi reali”, come spiega Francesco Zezza, ricercatore della Sapienza. Si capisce così perché si prevede che il Pnrr abbia per i primi tre anni un effetto depressivo sui consumi. Lo stesso governo ha fatto stime basate su un altro modello (MACGEM-IT) ottenendo infatti previsioni più rosee. Com’è possibile? Semplice: in questo caso la domanda (quindi i consumi) ha un ruolo più rilevante nell’influenzare il Pil.

L’impatto del Pnrr resta dunque assai incerto. Per vederci più chiaro bisogna ricorrere ad altre valutazioni, a modelli diversi: lo stanno già facendo alcuni studiosi (ad esempio Canelli, Fontana, Realfonzo e Veronese Passarella sulla Review of Political Economy, lavoro ora in corso di aggiornamento), ma soprattutto bisognerà capire cosa diventerà davvero realtà del Pnrr col farraginoso percorso pensato dall’Ue.

Uguali ma diversi. “Che importa la pelle nera… Aiuto, se l’inconscio è razzista io volo in Africa”

I miei amici sono tutti italiani, o meglio, siamo tutti italiani, ma ci sono due ragazzi che non sono proprio… cioè no! Sono proprio… però, diciamo fisicamente non sono esattamente uguali a noi… oddio qui non se ne esce.

Volevo dire che, tra i miei amici ce ne sono due un po’ diversi… cioè diversi no, solo il colore della pelle è diverso, ma per il resto sono uguali a noi italiani. Identici. Sono italianissimi malgrado… ecco l’ho detto. Ma “malgrado” che? Questo “malgrado” mi spunta dentro all’improvviso, a tradimento, ma io non l’ho mai pensato! Figuriamoci se io penso “malgrado”: per me siamo tutti uguali. Nati in Italia e quindi tutti ugualmente italiani, anche se loro… noo loro che? Sono nati in Italia, si chiamano Riccardo e Giovanna: parlano come noi, pensano come noi, e amano le stesse cose che amiamo noi. Che importa se i loro genitori vengono dall’Uganda o dalle Filippine, che importa! Chi ha detto “che importa”? Io. “Che importa” vuol dire che non importa, ma il solo fatto di pensarlo significa che potrebbe anche importare, cioè che potrebbe avere importanza che il colore della loro pelle conti qualcosa. Certo non per me, io non sono come quelli… non li voglio nemmeno nominare! Io credo che chi è nato in Italia sia italianissimo, a tutti gli effetti, al di là del fatto… oh no, ho detto “al di là del fatto”!

Oggi ho totalizzato: un “malgrado”, un “anche se loro”, un “che importa”, e adesso un “al di là del fatto”. C’è poco da fare, io sono razzista, una razzista che non sa di esserlo. Una razzista inconscia che non vorrebbe esserlo, ma sempre razzista! Se non lo fossi non starei qui a parlare di Riccardo e Giovanna, due persone come noi, normali e invece… oh Dio! Ho detto “normali e invece”.

No, io devo lasciare l’Italia, non mi merito di vivere qui, devo andare in Africa o in Asia, cosi finalmente qualcuno dirà di me “è tanto simpatica,malgrado…”.

 

Confronti. Manconi e monsignor Paglia: la fatica (laica) di fare del bene, senza santi in paradiso

Libri così ne avete già incontrati: due intellettuali che hanno presenza, ruolo, prestigio, si incontrano e si confrontano sul mistero dell’attraversare l’esistenza a bordo di vite diverse. A rendere più difficile il dialogo c’è Dio che batte un colpo e comanda attenzione perché uno dei due protagonisti è vescovo.

Si tratta di questo: Mons. Vincenzo Paglia, arcivescovo e presidente della Pontificia Commissione per la Vita, decide di discutere con Luigi Manconi delle loro due diverse avventure di stare al mondo e di affrontare ciò che accade. In Il senso della vita, Einaudi, Luigi Manconi (a lungo presidente della Commissione Diritti Umani del Senato) e Vincenzo Paglia (che ha sempre fondato e diretto qualcosa in nome e per conto della fede che rappresenta ma anche di esseri umani lasciati indietro) decidono di raccontare e giudicare la propria vita; dove giudicare significa confrontare ma senza giudici e senza verdetti: che cosa vuol dire esserci, e per quale ragione siamo occupati con gli altri. È inevitabile pensare subito che il punto di demarcazione sia Dio, credere o non credere, e domandarsi se la carità civile ha lo stesso senso e lo stesso peso della carità in nome e per conto di Dio.

Eppure Dio non decide in questo libro. Decidono i due personaggi a confronto con diverse emozioni e tensioni, come è facile immaginare, ma condividendo una domanda, implicita, che però scuote il senso di tutto (a cominciare dal titolo). E il quesito è: “Io che ci faccio qui?”. E in che senso conta e decide la vita di uno? Siamo parte di ordine o disordine? Stiamo seguendo una pista prestabilita (o vocazione) o ribellandoci, ciascuno in un modo diverso?

Le domande non ci sono nel libro, o almeno non sono esplicite. Il libro confronta due passioni uguali (l’ostinazione di occuparsi del destino degli altri) e diverse (in una Dio è la ragione e la motivazione, nell’altra un senso del dovere forte e civile occupa lo spazio della fede). Bisogna riconoscere che, nella partecipazione al dibattito, il Vescovo Paglia ha la vita più facile (nel senso degli argomenti e della spiegazione della vita). C’è Dio a testimoniare per lui. C’è nella motivazione del fare e c’è nell’accogliere ciò che è stato o sarà fatto. Lo sappiamo tutti che i Manconi, che si sporgono senza rete sugli squilibri della vita nel tentativo di salvare qualcuno, sono pochi e non diventato mai santi, ovvero rappresentanti ideali del giusto comportamento umano. Poiché nel loro territorio non c’è fede, si potrà sempre accusarli di fare politica e di tentare il salvataggio di chi muore in mare non per il “sacro” vincolo della solidarietà , bensì per cattiveria politica (sostituire i popoli e cambiare in questo modo il potere).

Qui sta il valore del libro. Pone la domanda sull’agire con o senza Dio, non solo per definire il bene o il male, ma per arrivare a cogliere “il senso della vita”. Chiaro che vincerà il Vescovo. Ma dove portare, e a chi, vita e opere di coloro che non sono candidati al grande premio?

 

Il senso della vita

Luigi Manconi, Vincenzo Paglia

Pagine: 200

Prezzo: 16,50

Editore: Einaudi