Arabia Saudita. Guerra in Yemen, Bin Salman vuol salvare la faccia

Inviati del regno saudita si sono incontrati a Bagdad con emissari dell’Iran. In Oman si stanno tenendo da settimane colloqui fra negoziatori della minoranza Houthi dello Yemen, inviati della Casa Bianca e rappresentanti sauditi. Il vice ministro degli esteri di Riad è volato a Damasco per incontrare Bashar Assad con l’intenzione di riaprire l’ambasciata nella capitale siriana. Infine il principe ereditario del trono degli Al Saud, Mohammed Bin Salman, ha rilasciato una lunga intervista in tv per dire che il suo paese ora desidera un “rapporto buono e positivo” con il suo acerrimo rivale Iran, cinque anni dopo che i due Stati hanno tagliato i legami e si combattono in guerre per procura in tutto il Medio Oriente. L’arrogante MBS è cambiato? No, ma ha capito di aver perso. MBS aveva sperato di schiacciare rapidamente i ribelli nello Yemen e con una serie di altri Paesi del Medio Oriente ha sostenuto le truppe del presidente Abed Rabbo Mansour Hadi nella battaglia contro gli Houthi sciiti, che hanno il sostegno dell’Iran. Ma i ribelli stanno guadagnando terreno dall’inizio del conflitto (marzo 2015) e MBS ora ha capito che non può più vincere la guerra. Secondo le stime Onu, 300.000 persone sono state uccise e milioni sono affamate e malate, l’80% della popolazione dipende dagli aiuti per sopravvivere alla più grave catastrofe umanitaria del Medio Oriente. L’Arabia Saudita ha speso decine di miliardi di dollari nella coalizione sunnita contro gli Houthi coinvolgendo negli attacchi aerei Egitto e Giordania, i petro-emirati del Golfo, ha arruolato migliaia di mercenari senza un apparente risultato. I ribelli hanno conquistato la capitale, Sanaa, e vaste aree dello Yemen nordoccidentale. In febbraio, hanno iniziato un’offensiva per conquistare la città ricca di petrolio di Marib. La guerra nello Yemen è persa, le manovre di contenimento dell’Iran sono fallite.

Questi gli elementi che hanno costretto MBS a una repentina conversione per evitare il fallimento totale, il cui passo più importante è una exit strategy dallo Yemen. Ma è bloccato da un dilemma che appare irrisolvibile: deve convincere i suoi nemici a porre fine a una guerra che stanno vincendo.

 

Il ritorno. Mourinho, 13 anni dopo il primo sbarco: tutti in trincea (e mano agli elmetti)

Josè Mourinho che torna in Italia 13 anni dopo il suo primo sbarco: nell’estate 2008 fu per allenare l’Inter, oggi la Roma. Che mondo trova? I nemici che in quegli anni combattè a spada tratta sono scomparsi o sono ancora in trincea (magari più armati e agguerriti che mai)? E sta forse già caricando le cartucce a pallettoni, lo Special One, 13 anni dopo la sua prima Campagna d’Italia? Per saperne di più, un tuffo nei fatti e misfatti del suo biennio interista ci sembra d’obbligo. Riannodiamo il nastro.

Quando il 3 giugno 2008 Josè viene ufficialmente presentato nella conferenza-stampa passata alla storia col titolo “Io non sono un pirla”, dallo scandalo di Calciopoli sono trascorsi due anni. Appena riemersa dalla serie B, la Juve sta provando a incollare i cocci e Josè non faticherà a vincere i suoi due scudetti: con Ranieri finirà seconda a -10, con Ferrara (e poi Zaccheroni) settima a -27. In realtà l’Inter è reduce da 3 scudetti vinti con Mancini in panchina, ma le disastrose prestazioni in Champions hanno convinto Moratti a cambiare manico: dentro Mourinho che in Inghilterra ha portato il Chelsea a vincere il titolo 50 anni dopo la prima volta (1955-2005), bissando il successo nel 2006. In Serie A il Milan è all’ultimo anno del ciclo-Ancelotti, Spalletti fa quel che può alla Roma, Lazio e Napoli sono da 10° e 12° posto e della Juve in ricostruzione s’è detto. Tutto tranquillo dunque? Macchè. Mourinho ha le antenne dritte, nulla gli sfugge e in tv attacca Mario Sconcerti che lo critica a Sky Calcio Show (“Io so che lei è amico di Mancini”, gli dice; e quando Sconcerti ribatte di essere amico di tutti lui risponde “Lei non è mio amico, se lei mi invita a cena io non vado”), attacca i giornalisti zerbini della Juventus (“A me non mi piace prostituzione intellettuale. Non si è parlato di una Giuve che ha vinto tanti punti con errori arbitrali: io sono a fianco di Zenga, di Prandelli e di Delneri perché Zenga ha perso 3 punti con la Juve, Prandelli 3 punti con la Juve, Delneri 3 punti con la Juve e sono anche a fianco di Marino e di Novellino che nel prossimo fine settimana è melhor non giocare, io gioco con la seconda squadra perché sta per arrivare il giorno dello scandalo”); e l’anno dopo si supererà col leggendario gesto delle manette (3 giornate di squalifica) dopo Inter-Samp 0-0 con due interisti espulsi da Tagliavento nel primo tempo, e con lo sfogo dopo Inter-Milan 2-0 vinta in 9 uomini per le espulsioni di Sneijder al 27’ e Lucio al 90’ (arbitro Rocchi), scandendo in diretta tv nomi e cognomi degli arbitri nemici. “Scusa eh? – interrompe Collovati alla DS -. Rosetti, Morganti, Rizzoli. Giochiamo con la Juve, Saccani; giochiamo con il Milan, Rocchi”. Tutto dopo aver costretto l’ex arbitro Tombolini ad ammettere che contro la Juve, qualche partita prima, Bonucci doveva essere espulso ma non lo fu.

Ora che Mou è tornato domando: vi sembra che qualcosa qui sia cambiato? Anche se a Roma Josè non lotterà subito per lo scudetto, pensate che starà zitto e buono? “Ho sentito una parola nuova per me, nel mio deficiente italiano, che è: dobbiamo abbassare i toni – disse Mourinho -. Bene, abbassiamo i toni. È stato così che voi italiani avete costruito una storia che a me come professionista di calcio, come persona che guadagna la sua vita nel calcio ha fatto una vergogna terribile. Quando ho saputo di Calciopoli, mi ha dato vergogna mangiare e dar di mangiare alla mia famiglia con soldi del calcio. E dico ancora una cosa: io arrivo in Italia onesto e ne uscirò onesto”.

 

Il sonno della ragione: il principe ha abusato di Biancaneve dormiente

 

BOCCIATI

Chiamate la neuro

Due giornaliste del “SFGate”, edizione digitale del “San Francisco Chronicle”, inviate a Disneyland, hanno recensito una delle nuove giostre (“Snow White’s Enchanted Wish”) presentata al pubblico in versione rinnovata durante la riapertura del parco di Anaheim dopo più di un anno di lockdown. La giostra è ispirata alla favola di Biancaneve. Alla quale, secondo le due intellettuali, è stata usata violenza: “Dorme e dunque il bacio non è stato consensuale”. Bisogna sapere che Disneyland, nella nuova versione dell’attrazione, ha scelto di adottare come finale quello del cartone del 1938, ovvero il bacio del Principe, sostituendo la morte della perfida matrigna Grimilde (con cui si concludeva l’itinerario nell’edizione del 1955 della giostra). “Non siamo già tutti d’accordo che quello del consenso nei primi film della Disney è un aspetto problematico? E che insegnare ai bambini che baciare un’altra persona, se entrambe non sono d’accordo, non va bene?”. No, care colleghe (sic), non siamo d’accordo. Ma ci è più chiara l’espressione “sonno della ragione”.

 

Non basta il pensiero

Come è noto all’intero orbe terracqueo, il monologo del duo comico Pio e Amedeo che ironizzava sul politicamente corretto ha scatenato polemiche a non finire. I due si affannano da giorni in dichiarazioni e giustificazioni, in cui spiegano (o tentano di) le reali intenzioni del loro pezzo, ovvero disarmare omofobi, razzisti e zozzoni vari con l’ironia. “L’utilizzo dell’ironia laddove si può è solo quello di tentare di disinnescare l’offesa. Nessuno ha detto che l’ironia disinnesca la violenza! (…) La più grande sciocchezza che abbiamo sentito volete sapere quale pensiamo sia? Che bisogna appartenere a una comunità per capirne le debolezze, che bisogna aver sofferto per capire. Ma noi stiamo parlando di affrontare un problema che non riguarda la comunità, bensì chi la denigra, la offende e la osteggia. Sono i cretini il problema, non la comunità… per risolvere il problema non bisogna essere della comunità ma conoscerne gli ‘aguzzini’, gli ignoranti intorno!”. C’è un solo problema: il loro pezzo (e loro in generale) non fanno ridere. Per fare satira sociale bisogna essere colti e intelligenti: non basta il pensiero, ci vuole pensiero.

 

PROMOSSI

Fiumi di parole (e d’inchiostro)

“Apriamo la cassetta della posta e scopriamo una bella lettera che arriva dal presidente della Repubblica Mattarella che attende l’invio del nostro nuovo cd. Felicissimi”. I Jalisse hanno ricevuto un messaggio dalla segreteria del presidente Sergio Mattarella, in cui il capo di Stato si dice interessato a ricevere una copia del loro ultimo album “Voglio emozionarmi ancora”. Il duo meteora ha postato sui social la missiva quirinalizia: “Gentili coniugi Jalisse, il Presidente della Repubblica ha ricevuto la Vostra email e mi incarica di ringraziarVi per le cordiali espressioni di stima indirizzategli e per il desiderio di sottoporgli il cd di canzoni inedite”. Il brano “Speranza in un fiore” è dedicato ai nonni scomparsi a causa del Covid per celebrarli il 25 luglio, giornata mondiale dei nonni e degli anziani appena istituita da Papa Francesco. Ma quindi non è dedicato al ministro?

 

Chi è l’animale?

La biologa Barbara Gallavotti ospite a DiMartedì ha parlato dei gay e dell’omosessualità. “Ci sono qualcosa come 1500 specie diverse nelle quali si sono visti comportamenti omosessuali. Dai mammiferi al moscerino della frutta. Coppie stabili, coppie temporanee, coppie che si formano per allevare una prole ottenuta con l’aiuto di qualche altra specie. Ci sono anche animali che cambiano sesso nel corso della vita. Quindi, se ci appelliamo alla natura possiamo considerarci massimamente liberi. Resta da capire se vogliamo basare i nostri diritti fondamentali su quello che fanno i moscerini della frutta”. Mitica prof. Dai, fate i bravi, approvate la legge Zan.

 

La favola aspra. Il capitano D’Aleo ucciso dai clan e la memoria silenziosa dell’amata

Una targa vuol dire molto o niente. Quella dedicata l’altro giorno al capitano dei carabinieri Mario D’Aleo al liceo Cavour di Roma vuol dire molto. Perché il capitano in quel liceo ci aveva studiato, ne era stato allievo, anche se per molto tempo la stessa scuola se n’era dimenticata. E perché l’intitolazione è avvenuta con la convinta partecipazione del “collettivo” del Cavour, cosa un tempo inimmaginabile. Per fortuna. Si pensa di più, si ricorda di più. E le istituzioni fanno la loro parte, visto che la cerimonia è stata promossa dalla Regione Lazio. Come dimenticare un liceale romano che a 29 anni sarebbe caduto sulla trincea più drammatica della Repubblica, la Palermo degli anni ottanta?

Mario D’Aleo, un giovane ufficiale alto e atletico (si trova in rete la cronaca di una partita in cui da ragazzo gioca “bene” come mediano nella giovanile della Lazio), era andato a comandare la compagnia di Monreale. Doveva sostituire il capitano Emanuele Basile, ucciso una sera per strada dai killer di Cosa Nostra mentre teneva in braccio la figlioletta Barbara. Monreale era allora uno snodo fondamentale del potere mafioso e della sua impunità. Non per nulla il processo per l’assassinio di Basile, come ha dimostrato Giuliano Turone nel suo libro Italia occulta, fu una delle vicende giudiziarie più sconce e indecenti della nazione, metafora perfetta dell’era (indimenticabile) del giudice Carnevale alla Corte di Cassazione. D’Aleo si era messo sulla scia del suo predecessore, a cui più volte aveva detto di volere dare giustizia. Aveva spiegato che “il dolore più grande per un uomo è perdere la stima di sé ed anche la voglia di lavorare. Per questo mi batterò fino alla morte perché venga fuori la verità”.

La sera del 13 giugno del 1983 venne ucciso sotto casa, in via Scobar a Palermo, insieme con due suoi fidati collaboratori, l’appuntato Giuseppe Bommarito di 39 anni e il carabiniere Piero Morici, di 27. Lo aspettavano Salvatore Biondino e Domenico Ganci con contorno di sicari, per ordine della Cupola. Conobbi quell’estate la fidanzata del capitano, una giovane dall’aria dolce con cui conviveva a Palermo. Si chiamava Antonella. Non ho mai dimenticato un particolare doloroso che l’aveva riguardata: alla messa ufficiale per i funerali le autorità di allora non le avevano consentito di sedere tra le prime file, perché non era sposata. Mi era parso un insulto a lei e ai sentimenti del capitano. Uno sfregio all’amore straziato di due giovani. Per questo quando ho avuto notizia della targa mi è venuta in mente lei e sono andato in rete a ricercarne il nome. Senza trovarne cenno. Quasi estromessa da questa storia. Forse lei stessa ha voluto così.

Però ne ho incredibilmente trovato una traccia preziosa, preziosissima (che cosa non fa l’educazione alla legalità…), in un lavoro svolto in una scuola che sta dalla parte opposta d’Italia, l’ “Ettore Majorana” di Desio, uno degli istituti più attivi della Brianza in tema di antimafia. È firmato da tre studentesse, Martina, Lucia e Kristina, che hanno raccolto la storia di Chiara, allieva della scuola “Guglielmo Marconi” di Palermo, e della sua professoressa di lettere. La quale aveva parlato in classe del luogo in cui era stato ucciso tanti anni prima quel capitano dei carabinieri e in cui, invece che fiori, c’erano rifiuti. A Chiara era sembrato incredibile. Così, da sola, un tardo pomeriggio era andata a verificare. Per sentirsi d’improvviso sulla spalla la mano della sua insegnante. Che l’aveva invitata a casa sua, lì vicino. E nella casa, mentre prendeva un tè, aveva visto le foto di quel giovane capitano.

Fino a capire d’incanto: la prof era la sua fidanzata. Che tutto questo sia stato scritto in un istituto di Desio mi è parso romantico. Capace di trasformare in fiaba l’anonimato di una giovane innamorata del suo eroe in divisa.

 

Luana, Fedez. Lo “sceneggiato” Rai che oscura i lavoratori: riflettori accesi (se la vittima è bella)

 

“Mio padre, morto in fabbrica, nel silenzio di tre righe anonime”

Cara Selvaggia, volevo commentare i riflettori mediatici sulla morte della povera Luana, la ragazza deceduta sul posto di lavoro schiacciata da un macchinario. Ogni morte conta, ma qualcuna conta di più. L’idea del “capitale umano” riassume cinicamente tutto: le vite hanno più o meno valore a seconda di diversi parametri, dall’età al numero di figli al lavoro che si svolge. Lo stesso, come dicevi tu, vale per l’attenzione mediatica. Quelli giovani e belli come Luana avranno 100 volte lo spazio di un operaio vecchio e brutto (cui forse non accennerà nessuno). In questi giorni, accanto alla commozione per la morte di Luana, mi si è sciolto in gola così tanto dolore per le tante famiglie, come la mia, che hanno perso una persona cara sul lavoro.

Sei anni fa è capitato al mio papà, un operaio in gamba, una guida per chi doveva imparare il mestiere, un lavoratore instancabile. Non voleva neppure andare in pensione, tanto gli piaceva lavorare, tanto era devoto alla sua attività. Tanto sentiva la fabbrica come “la sua seconda casa”. La fabbrica, invece, l’ha tradito. Una leggerezza e una macchina difettosa me l’ha portato via per sempre. Una morte terribile. Come quella di Luana, del resto. Papà aveva 62 anni ed era un uomo profondamente buono, generoso, simpatico e altruista. La mia vita e quella della mia famiglia non sarà mai più come prima perché proviamo un senso di lutto costante. Pensiamo sempre a come sarebbe stata la sua vita in pensione, le gite con mia madre nel suo amato camper. Di mio padre non ha parlato nessuno. Tre righe nella cronaca locale, per giunta con le iniziali, come se non fosse degno di un nome e un cognome, una morte anonima. Nessuno ci ha chiamati, nessuno ha fatto domande ai proprietari della fabbrica. Era morto un signore non più giovanissimo, in circostanze sì tragiche ma uguali a quelle di tanti altri. Lo abbiamo seppellito nel silenzio più totale. E così, quando senti che nessuno (né lo Stato né le cronache) ti degna di uno sguardo, quando perdi una persona così meravigliosa, non resta che aggrapparsi alla giustizia e chiedere che almeno quella faccia il suo dovere. Papà credeva nel nostro Paese e io vorrei tanto che l’Italia non si dimenticasse di lui, né degli altri che hanno perso la vita lavorando.

C’è da dire che ogni volta, quando una morte bianca rompe il muro dei media, allora per giorni i telegiornali somministrano notizie di decessi sul lavoro: “Anche oggi un morto sul luogo di lavoro”, “Negli ultimi 4 giorni 5 morti sul lavoro!”. I riflettori restano accesi per un po’, una scia più corta di quella di un motoscafo. Poi silenzio…. e ricomincia il ciclo solo quando spunta una nuova vittima, molto giovane e molto bella, o con una storia affascinante per i giornali, magari con familiari che urlano e chiamano le redazioni.

Alla fine si parla di come era brava la vittima, di quello che sognava, di quanti anni ha suo figlio… e intanto, quello che conterebbe di più, ovvero il problema della sicurezza sul lavoro, è un tema che viene completamente ignorato. O finisce nella didascalia della foto. Questa lettera per dire che io piango per Luana assieme a tutti, ma avrei voluto che tutti piangessero con me la morte di mio padre. E che la sua morte avesse acceso una luce su un dramma che non va dimenticato, mai. Invece lui è morto al buio. Era un uomo fantastico e io lo amerò per sempre.

L.

 

Cara L., la morte di Luana mi ha addolorata, ma mi ha addolorata anche vedere rilanciati i suoi selfie ovunque, con approfondimenti francamente inutili e morbosi, dalle creme anticellulite che usava alle foto della sua camera. Una ricerca del clickbait che nulla racconta delle morti sul lavoro e molto del cinismo del giornalismo, per cui una vittima giovane e bella va sfruttata il più possibile, finché l’onda emotiva dura. Poi, finita quella, i vecchi e brutti, possono pure continuare a morire nel silenzio generale.

 

“Ddl Zan, l’arringa (fuori luogo) sul palco del primo maggio”

Cara Selvaggia, non ti sembra che quello che è accaduto con la morte della giovane Luana sia uno strano segno del destino? Voglio dire, succede che Fedez si prende il palco del primo maggio e parla di censura e ddl Zan, per cui tutto il resto passa in secondo piano. Manco mezza parola sulle condizioni dei lavoratori, lui e la Rai diventano il fulcro della discussione. Per carità, la lottizzazione della tv di stato è anche un tema importante, ma indiscutibilmente il lavoro resta senza titoli e fuori dal dibattito. Nell’anno in cui molti lavoratori sono a pezzi.

Finché non muore la giovanissima Luana, mentre lavorava a un macchinario per la produzione tessile. Accade pochi giorni dopo la sceneggiata di Fedez, con un tempismo che ha dello stupefacente. E il lavoro torna al centro delle cronache, una specie di deflagrazione, come un lampo che oscura tutto il resto (la Rai, Di Mare, Fedez, la Ferragni). Come se qualcuno, più in alto di noi, una specie di Dio dei lavoratori, avesse voluto ricordare a tutti che su quel palco si era dimenticato di parlare di chi per il lavoro vive e muore, di chi è sottopagato, sfruttato, maltrattato. Insomma, quella povera ragazza, ha rimesso al centro il lavoro, e spostato il resto un po’ più in là.

Valerio

 

Apprezzo il tentativo di cercare un senso ad una morte che non ha senso.

Salvini “l’influencer” non funziona, l’Europa indecisa rincorre Biden

 

BOCCIATI

Diritti e followers

Matteo Salvini ha reagito male al disinteresse di Fedez a confrontarsi con lui su orgogli, pregiudizi, ragioni e sentimenti: “Molti di coloro che parlano della legge Zan non l’hanno letta. Mi sarebbe piaciuto confrontarmi su questi temi, sui dettagli del testo, sulla libertà, sull’amore, sui diritti, con Fedez, che però preferisce il monologo e non ha ritenuto di farlo”. La sensazione è che a Salvini, più che lo scambio di vedute con Fedez, interessino quei dodici succulenti milioncini di followers che un bel giorno, chissà, magari, potrebbero votarlo. Chissà che sarebbe successo se anche Carola Rackete fosse andata così forte su Instagram…

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PROMOSSI

Luna rossa

La storia del dito e della luna continua a fornire una buona chiave interpretativa degli eventi anche ai tempi del Covid. Da circa una ventina di giorni, tre quarti del dibattito sulle misure sanitarie si sta focalizzando attorno all’orario del coprifuoco. Lungi da noi ritenere che la questione sia priva d’importanza – la buona funzionalità del dito garantisce l’utilizzo di tutta la mano – ma il rischio è che, a forza di concentrare tutta l’attenzione lì, si finisca per perdersi addirittura una luna piena. L’ha spiegato bene su Twitter, con l’icasticità che ormai lo contraddistingue, il professor Cartabellotta, presidente della Fondazione Gimbe: “Si accapigliano sul #coprifuoco dimenticando che con l’impianto normativo attuale se le curve risalgono si torna in arancio o in rosso”. Sarebbe un bello smacco se, mentre politica e opinione pubblica si accapigliano sul dito, la luna nel frattempo, zitta zitta, da gialla diventasse rossa.

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“America first”, Europa sempre “second”

Una cosa è certa: se l’aspettativa generale era quella che Joe Biden fosse una figura grigia, incapace di slanci, iniziative radicali, e destinata a rimanere nell’ombra, beh, è evidente che si erano fatti male i conti. Dopo aver mostrato un’importante capacità decisionale in patria, con una campagna vaccinale rapida ed efficace e un massiccio investimento economico per risollevare il Paese dal Covid, dopo aver confortato l’Europa con un approccio sul clima in assoluta discontinuità con quello del suo predecessore, il nuovo Presidente degli Stati Uniti ha lasciato a bocca aperta i suoi detrattori, anticipando tutti gli altri Paesi nella rinuncia alla protezione dei brevetti sui vaccini anti Covid. La consapevolezza che da una sfida sanitaria globale se ne esce solo se nessuno resta indietro, dovrebbe appartenere ad ogni leader politico, ma soltanto quelli che sanno guardare oltre il proprio naso sono in grado di farla propria. “La svolta di Biden sul libero accesso per tutti ai brevetti sui vaccini è un importante passo in avanti. Anche l’Europa deve fare la sua parte. Questa pandemia ci ha insegnato che si vince solo insieme”, ha commentato il ministro Speranza. Chissà se l’Europa, dopo essersi mostrata inadeguata nella prima fase della campagna vaccinale, ha intenzione di rimanere indietro anche questa volta.

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Anni di piombo. Le sliding doors di cattolici e Br. Il caso Moro e la “giustizia riparativa” di Martini

Franco Bonisoli fece parte del commando brigatista che rapì Aldo Moro e ammazzò senza pietà la sua scorta in via Fani, in quell’apocalittico 16 marzo del 1978. Giovanni Ricci è il figlio di Domenico, il carabiniere ucciso alla guida della Fiat 130 con a bordo lo statista dc.

Oggi i due sono amici, a quarantatré anni di distanza da quella tragedia nazionale. E quando a Bonisoli e Ricci è successo di ritrovarsi insieme in pubblico, la scena ha fatto dire ad Agnese Moro, figlia dell’uomo che fece incontrare comunisti e democristiani al governo: “Le cose possono cambiare. Guardo loro e non vedo i mostri che per tanti anni hanno popolato la mia vita”. L’amicizia tra l’ex brigatista e il figlio di una vittima del terrorismo rosso è raccontata in Un’azalea in via Fani. Da Piazza Fontana a oggi: terroristi, vittime, riscatto e riconciliazione, edito dalla cattolica San Paolo. L’autore è Angelo Picariello, giornalista politico di Avvenire.

È un libro potente e delicato allo stesso tempo. E scomodo, ché alla fine lascia un forte e salutare senso di smarrimento rispetto alle divisioni ideologiche che tuttora animano il dibattito su quella fase storica del Paese. Attuale, infine, in queste settimane in cui la cronaca degli anni di piombo è tornata dopo gli arresti a Parigi di alcuni latitanti protetti per decenni dalla dottrina Mitterrand. Da una parte, quindi, la ricerca della verità sui tanti misteri ancora aperti, come ha ricordato ieri il capo dello Stato Sergio Mattarella in un’intervista a Repubblica nella giornata dedicata alle vittime del terrorismo (fu il 9 maggio che venne ritrovato il corpo martoriato di Moro). Dall’altra la questione della riconciliazione. Picariello fa prevalere quest’ultimo aspetto da un’angolazione decisiva ma spesso sottovalutata se non taciuta: la formazione cattolica di tanti terroristi, non solo capi ma anche gregari.

Lucio Brunelli, allievo universitario di Moro e in seguito noto vaticanista tv, ha riassunto così il libro: “Ci sono le storie intrecciate di tanti giovani cattolici finiti nelle Brigate Rosse e di tanti altri giovani, fatalmente attratti dalla ideologia rivoluzionaria, finiti invece in movimenti cattolici come Comunione e Liberazione. Molte di queste storie le conoscevo; altre, davvero incredibili, le ho scoperto leggendo il libro. A volte bastava una circostanza di pura casualità, come nel film Sliding doors, a determinare il destino di una vita”. A proposito di Cl: Picariello rivela che il cattolico fucino Moro, incuriosito dal movimento di don Giussani, versava mensilmente le “decime” a Comunione e Liberazione e a raccoglierle era Nicodemo Oliverio, poi deputato di Margherita e Pd per quattro legislature.

Con un meticoloso metodo storico, Picariello ricostruisce la parabola completa della lotta armata sulla base delle testimonianze e delle storie raccontate. Uno degli ultimi paragrafi è quello sulla giustizia riparativa, il percorso voluto dal cardinale Martini e attuato dal padre gesuita Bertagna e nel quale s’inseriscono le esperienze di Domenico Ricci e Agnese Moro. La sintesi migliore è sempre di Brunelli: “Se Moro fosse sopravvissuto, probabilmente avrebbe cercato un dialogo con i suoi rapitori, per una riconciliazione nel segno della verità”.

 

Gerusalemme: lo sfratto che calpesta la storia

Ieri lo sfratto di Sheikh Jarrah è stato sospeso in extremis, anche se non ancora revocato. La Corte Suprema d’Israele ha deciso di rinviare la seduta che doveva tenersi oggi, in una non voluta coincidenza con la marcia celebrativa della riconquista di Gerusalemme est nel 1967, divenuta festa nazionale: il Jerusalem Day.

La tensione è montata alle stelle, da giorni la protesta araba dilaga in scontri con la polizia e con manipoli dell’estrema destra ebraica. L’oggetto del contendere è altamente simbolico della sovranità contesa fra concittadini divisi per appartenenza etnica e religiosa: la proprietà delle case.

Carte alla mano, risalenti al mandato britannico antecedente la fondazione d’Israele, una società immobiliare ultraortodossa pretende la restituzione di alloggi che alcune famiglie ebraiche furono costrette a lasciare nel 1948. Settantatré anni dopo i tribunali le hanno dato ragione, disponendo l’allontanamento forzato dei palestinesi che da allora vi risiedono. La destra religiosa le sostiene, mentre da sinistra si denuncia il pericolo di una “giudaizzazione forzata” nel cuore di un quartiere arabo.

La pretesa di convalidare contratti del tempo che fu, è un’arma a doppio taglio. Difatti, se questo principio venisse applicato da ambo le parti, ne uscirebbe legittimata anche l’impossibile pretesa palestinese di un “diritto al ritorno” per le centinaia di migliaia di residenti arabi le cui abitazioni vennero occupate da ebrei. Ma naturalmente è a senso unico che il governo intende applicare questa regola, rendendo plateale la riduzione dei gerosolomitani arabi a cittadini di serie B.

La Legge Fondamentale del 2018 che definisce Israele “Stato-nazione del popolo ebraico” trova così un’applicazione, tuttora controversa, che calpesta la realtà storica e fomenta un conflitto devastante.

La “febbre” di Dostoevskij, la diagnosi di dottor Freud

“Ero come divorato dalla febbre; puntai tutto quel mucchio di denaro sul rosso e d’un tratto mi riebbi! E solo quella volta, in tutta la sera, la paura mi prese come un brivido gelido e si manifestò con un tremito delle braccia e delle gambe. Con terrore mi resi conto e divenni cosciente in un istante di quel che per me avrebbe significato perdere in quel momento. Con quella posta mi ero giocato la vita intera”. A raccontare questo erotico spasimo di vittoria al gioco e il suo rovescio, cioè la febbrile paura di perdere, è il giovane e spiantato Aleksej Ivanović, che tenta la fortuna alla roulette per aiutare la sua amata che è in grosse difficoltà finanziarie. Ci troviamo nell’ipotetica città tedesca di Roulettenburg, il cui nomen/omen suggerisce essere sede di un casinò. Ma soprattutto, siamo dentro al romanzo Il giocatore (1866) di Fëdor Dostoevskij, in cui l’autore, attorno alla vicenda di Aleksej, tratteggia una radiografia letteraria del vizio del gioco, un’istantanea dei modi in cui il demone dell’azzardo può possedere uomini e donne di ogni età ed estrazione sociale. Ironia della sorte, mentre è completamente assorbito dalla scrittura del primo dei suoi quattro maggiori romanzi (Delitto e castigo), Dostoevskij scrive Il giocatore in un solo mese, l’ottobre del 1866, il solo concesso dall’editore Stellovskij, pena la perdita di ogni diritto sulle future opere. Perché ha dovuto piegarsi a un tale contratto capestro?

Semplice: i debiti di gioco. Già: quando la vita supera la letteratura! Nell’anno del bicentenario della nascita dello scrittore russo, lo racconta ottimamente La febbre del gioco (Marcos y Marcos, pp. 160, euro 16), un delizioso libello pastiche che uscirà tra qualche giorno, curato dall’attento slavista Fausto Malcovati.

Per quasi dieci anni, dal 1862 al 1871, Dostoevskij subisce il richiamo del tavolo: irrazionale come ogni vero giocatore, le sue mani sono “incatenate al gioco”. Vince alla roulette, si ripromette di andarsene, di pagare i debiti; poi al tavolo da gioco ci ritorna, spasima, e non si stacca finché non perde tutto. Si umilia, si dispera, chiede a moglie e amici i soldi per il biglietto per tornare in Russia e smettere, ma va a giocarsi anche quelli. Sono gli anni in cui scrive Memorie dal sottosuolo, Delitto e castigo, I demòni, L’idiota. Il gioco d’azzardo in Russia è proibito nel diciannovesimo secolo, così lo scopre viaggiando per l’Europa, dopo l’esilio in Siberia nel “giardino dei cosacchi”, vecchia dacia in mezzo alla steppa.

Il curatore Malcovati mette insieme con passione di dettaglio carte e lettere turbinose scritte sotto la pressione dei debiti di gioco. Le missive partono da Baden-Baden, Amburgo, Saxon-les-Bains, Wiesbaden (tutte città che ospitano casinò). Al fratello Michail nel settembre 1863 scrive: “A Wiesbaden, ho messo a punto un sistema di gioco, l’ho applicato e ho vinto subito mille franchi”. S’illude di essere un esperto, mentre è solo schiavo. Se ne vergogna. Alla seconda moglie Anna Grigor’evna chiede: “Anja, dammi la tua parola che non mostrerai mai a nessuno queste lettere”; e ancora, dopo aver perso tutto quello che lei gli aveva spedito: “Perdonami, angelo mio, forse questo maledetto gioco, questa fissazione sparirà”. Chiede soldi anche agli amici. Nell’agosto 1865, al drammaturgo Ivan Sergeević (che trasse spesso d’impaccio Fëdor), dopo aver confessato di aver perso “anche l’orologio”, scongiura: “Sono disgustato e mi vergogno molto di disturbarvi ma, a parte voi, non ho nessuno a cui rivolgermi. Da uomo a uomo vi chiedo mille franchi”. È il 1865 quando, inseguito dai creditori, firma un contratto capestro di 3 mila rubli con l’editore Stellovskij per un nuovo romanzo. Tuttavia non scrive, ma parte per la Germania, si ferma a Wiesbaden, gioca e perde tutto.

Sono anni di una giostra micidiale fatta di vincite, perdite, suppliche: un vibrante inferno fino a quando, il 28 aprile 1871, dopo aver dilapidato l’ennesima somma che la moglie gli aveva mandato per tornare a casa, da Wiesbaden Fëdor scrive: “Sappi, Anja, che adesso questa fantasia è finita per sempre” e ancora “è venuta la nostra resurrezione”. Cosa sia successo, lo spiega bene la stessa Anja nel suo Diario – che Malcovati in un unico piano sequenza propone nel volume – “La disperazione che provò in quella settimana lo colpì a tal punto che decise di non giocare più in vita sua”. E così fu.

Per Freud (lo spiega in Dostoevskij e il parricidio) il gioco era un modo per punirsi, una specie di soddisfazione autoerotica, che una volta soddisfatta, semplicemente svanì. Di sicuro, Fëdor vive la fine della febbre del gioco come una “resurrezione”, una rinascita divina. Non a caso in quegli anni prende appunti per un romanzo di cui ha già il titolo: Vita di un grande peccatore (che spalmerà in I demòni e L’adolescente) dove per “vita” usa “žitiē”, usato in agiografia per le vite dei santi. In un passaggio di queste note sparse leggiamo, riguardo al protagonista: “È stato morso dalle passioni” , e poi salvificamente: “Cominciò a esercitare la propria forza di volontà”.

Recovery, addio sogni green: il cemento seppellirà l’Italia

“Trasformerà l’Italia”, dice del Pnrr Enrico Giovannini, ministro delle Infrastrutture e delle mobilità sostenibili (dicastero dal curioso nome demagogico: che spinge a chiedersi chi si occupa delle infrastrutture e della mobilità insostenibili, che sono ancora la massima parte…). Condivido l’affermazione, ma non nell’implicito, positivo, giudizio di valore: perché credo che questa trasformazione consisterà in una immane colata di cemento.

Tutto era evidente sin dalla nascita del governo Draghi, con la sparizione del Ministero dell’Ambiente (fagocitato dall’elefantiaco quanto propagandistico Ministero della Transizione Ecologica), e del Ministero per i Beni culturali (tra i quali c’è anche il paesaggio) mutato nel, non meno astratto e propagandistico, Ministero della Cultura. Il messaggio è chiaro: questo governo non vuol tutelare più nulla, vuol far sparire lacci e lacciuoli, regole e protezioni, in un danzante ritorno al “maniliberismo” trionfante che ha massacrato la forma dell’Italia.

La prova arriva dalle pagine del Pnrr. I numeri danno conto delle priorità: un piano che nasce da un disastro sanitario stanzia 25,33 miliardi per le infrastrutture contro i 15,63 per la salute! Siamo, insomma, ancora all’idea che il mattone (il cemento) sia l’unico possibile volano economico. E ancora una volta non c’è traccia di quella Unica Grande Opera Utile che sarebbe la messa in sicurezza del territorio: il Piano assegna alle “misure per la gestione del rischio di alluvione e per la riduzione del rischio idrogeologico” solo 2,49 miliardi, un decimo di quanto assegnato al cemento delle nuove infrastrutture. E invece dà 6 miliardi alla “valorizzazione del territorio dei comuni”, etichetta assai ambigua e passibile di tradursi in altro cemento. Il Piano evoca il problema cruciale del “consumo di suolo” solo per regredire dall’unica posizione possibile (il consumo zero, che l’Unione Europea impone di raggiungere nel 2050) a una vaga e parenetica esortazione a “limitarlo”: di fatto, un via libera alle betoniere. L’ideologia è quella del neoliberismo più sfrenato. Il Piano afferma che “è necessaria una profonda semplificazione delle norme in materia di procedimenti in materia ambientale e, in particolare, delle disposizioni concernenti la valutazione di impatto ambientale (Via). Le norme vigenti prevedono procedure di durata troppo lunga e ostacolano la realizzazione di infrastrutture e di altri interventi sul territorio”. La Valutazione di impatto ambientale è sentita come un intralcio allo sviluppo, non come una garanzia per l’ambiente. E invece di assumere personale per farle realizzare più in fretta, si pensa solo ad aggirarle, e nella più classica tradizione italica si ricorre ad una giurisdizione speciale: “Si prevede di sottoporre le opere previste dal Pnrr ad una speciale Via statale che assicuri una velocizzazione dei tempi di conclusione del procedimento, demandando a un’apposita Commissione lo svolgimento delle valutazioni in questione”. E non è difficile immaginare quanto l’ambiente sarà tutelato in questi “tribunali del capitale”! Il Piano invoca a più riprese l’allargamento del “silenzio assenso” che costringa le soprintendenze svuotate di personale a dire “sì” ad ogni scempio paesaggistico, e anzi si vocifera del progetto di istituire una specie di “soprintendenza nazionale unica” posta direttamente sotto il controllo della politica. Sarebbe l’abrogazione definitiva dell’articolo 9 della Costituzione che obbliga la Repubblica a tutelare paesaggio e ambiente: e, d’altra parte, che le costituzioni “socialiste” del meridione d’Europa vadano abbattute è un vecchio pallino delle grandi banche d’affari la cui visione del mondo impregna il vertice di questo esecutivo.

Paolo Pileri, ordinario di Pianficazione territoriale e ambientale al Politecnico di Milano ha definito il Piano “obbediente a logiche più industriali e finanziarie che ecologiche”. Greenpeace lo ha valutato assegnando un voto a ciascuna componente del Piano che abbia a che fare con l’ambiente (anche le politiche energetiche): la media è un brillante 3,3 (su 10). Per WWF, Greenpeace, Legambiente, Kyoto Club e Transport & Environment (T&E) il Pnrr è un’occasione sprecata, perché “non riesce a identificare nei settori della decarbonizzazione il volano per la ripresa economica sostenibile e non è incisivo nell’allocazione delle risorse e nelle riforme per innovare i settori pilastro della decarbonizzazione”, e “le risorse classificabili come ‘verdi’ appaiono marginali nella transizione energetica e scollegate da una strategia climatica”.

Se si aggiunge la ciliegina del Ponte sullo Stretto, cavallo di battaglia di Berlusconi e Renzi riesumato da Draghi, è evidente che più che Next Generation è una prospettiva da last Generation: il regalo avvelenato di un governo (con l’età media di 54,5 anni, composto per due terzi da maschi, e per tre quarti di ministri del Nord) che pensa in termini di “dopo di me il diluvio”.