120 anni di Laterza, 12mila titoli per scrivere il Paese

“Fidiamo non nelle nostre povere forze, ma nel concorso benevolo unanime di tutti gli studiosi”. Il 10 maggio 1901 Giovanni Laterza annunciava così, in un “quartino” pubblicitario, la nascita della “Gius. Laterza e Figli”, casa editrice intitolata al padre Giuseppe e nata come costola dell’azienda tipografica di famiglia fondata 11 anni prima a Putignano, in provincia di Bari. Domani ricorrono i 120 anni di quell’annuncio e per l’occasione Laterza pubblica il suo catalogo storico aggiornato (in uscita il 20 maggio): sono oltre 12 mila i titoli elencati. Italo Calvino diceva che ognuno di noi non è altro che un “catalogo delle possibilità non fallite”. Questo elenco di titoli moderni e centenari si può leggere non solo come il catalogo delle possibilità non fallite di un editore, ma, di riflesso, dell’Italia in generale.

Nei primi decenni Laterza è stata, semplificando, la casa editrice di Benedetto Croce. Non solo perché pubblicava i testi scritti o suggeriti dal grande filosofo, ma anche perché (lo riconoscono gli eredi Laterza, Alessandro e Giuseppe, nell’introduzione al Catalogo storico) è grazie alla stretta collaborazione tra il filosofo e l’editore, allora 28enne, che un’iniziativa editoriale locale si converte nel giro di un anno dalla fondazione in un progetto di respiro europeo. Croce ha raccontato quell’incontro nel primo anniversario della morte del fondatore (1944): “dell’unico volume che avevi allora messo a stampa e mi avevi inviato (Psicologia sociale di Paolo Orano) udisti da me che era stampato bene ma che io lo avevo prontamente buttato nel cestino perché non valeva nulla (…). Ti proposi di pubblicare la traduzione di un libro inglese che mi pareva giovasse all’Italia (…) Nacque allora di colpo in te verso di me una fiducia intera”.

Il “libro inglese” era un saggio di Bolton King e Thomas Okey sui primi quarant’anni dell’Italia unita: un punto di vista esterno e sintetico sull’Italia e un esempio plastico del progetto di Croce di fare “un editore di roba grave”. Croce era contrario alla narrativa e guardava con distacco la manualistica e la “biblioteca esoterica” che Giovanni Laterza continuava a pubblicare. Però da questo pluralismo, non alieno a considerazioni commerciali, sono venuti libri come Totem e tabù di Sigmund Freud, nel 1930, che trent’anni dopo diventerà un autore di culto.

Passato il periodo buio del Fascismo, il pluralismo si esprime appieno nel dopoguerra (guidata ormai da Vito, cugino di Giovanni e padre dell’attuale presidente Giuseppe), quando la casa editrice esprime un posizionamento laico e liberale, in linea con la sensibilità da Il Mondo di Mario Pannunzio. Nel 1952 Vitaliano Brancati si rivolge proprio a Laterza per pubblicare il pamphlet Ritorno alla censura: Bompiani gli aveva chiesto di espungere le critiche ai democristiani, Einaudi di tagliare anche quelle ai comunisti. In quegli anni passano dal catalogo Luciano Bianciardi, Carlo Cassola, Danilo Dolci, Anna Maria Ortese e Leonardo Sciascia.

Quando Il mondo chiude, nel 1966, manca poco alla rivoluzione culturale del 68. La contestazione giovanile ha fame di riflessione filosofico-politica e di culture “altre” e libertarie. Ne giovano, e ne vengono cambiati, molti editori. Anche Laterza, con la collana “Tempi moderni” dove esce per esempio La fine dell’utopia di Herbert Marcuse (30 mila copie). Quel boom termina con il “riflusso” degli anni 80 e nei decenni successivi arrivano internet e il digitale, la riforma dell’università, il cambio dei gusti e delle esigenze, l’esperimento dei festival culturali. Il catalogo delle possibilità di Laterza racconta tutte queste stagioni e racconterà quelle future. E, come quel saggio inglese del 1901, lo fa da un punto di vista originale e insieme sintetico che aiuta a leggere un secolo di storia italiana, non solo culturale.

“John Wayne era il ‘nonno’, Veltroni un suo allievo e ‘Ferie d’agosto’ la sua fine”

Pomeriggio romano. “Dovevo raggiungere mio padre in una piazza. Mi avvicino, da lontano lo saluto e contestualmente mi rendo conto che una famiglia, seduta accanto a lui, mi aveva riconosciuta. Si alzano per venirmi incontro, volevano un autografo, e vengo colta dal panico. Fuggo. Corro. Poco dopo mi giro e proprio papà arriva da me con queste persone sotto braccio, sorrideva: ‘Carlottina, ti vogliono conoscere’; e poi, a quattr’occhi, ‘lasciali sognare, il pubblico ne ha bisogno: devi firmare autografi, e se ti chiedono del lavoro devi rispondere che è bello, semplice e divertente. Non ti lamentare mai di orari, pause e assenze’”.

Piero Natoli è il burino irrisolto di Ferie d’agosto (“quando ho visto quel film sono stata malissimo”), l’eterno immaturo di Compagni di scuola, l’amante di Stefania Sandrelli ne L’ultimo bacio; Piero Natoli era un documetarista (“ne ha realizzati 107 per la Rai”) e un regista alla vecchia maniera, quella del basta accendere la macchina da presa, possedere un po’ di pellicola e la vita – finalmente – poteva confondersi dentro a un film.

Piero Natoli è morto l’8 maggio 2001, a soli 53 anni, “e per fortuna non ho nessun rimpianto, sono riuscita a esprimergli tutto prima dell’addio”.

Tonino Zancardi sosteneva: “Piero era il vero indipendente. Non voleva produttori, non voleva legacci”.

Era uno spirito libero e soffriva quando era costretto a incastrarsi, preferiva gestire tutto da solo: dopo la morte ho trovato un suo quaderno nel quale spiegava, punto per punto, come si realizza un film, a partire dai soldi chiesti ad amici e conoscenti,

Cioè?

Quando decideva di girare, chiamava all’appello tutti, dal pizzicarolo (il piccolo alimentari) alle amiche di mia madre, e sempre sullo stesso quaderno segnava nome e cifra da restituire; ho sempre pensato che il suo modo di muoversi rendeva il cinema un qualcosa di vicino all’artigianato.

La sua famiglia ha origini nobili.

Sicuramente mia madre, mentre papà, già quando ero piccola, mi offriva la sua visione dei titoli nobiliari: “Carlottina, noi due siamo siciliani normanni, perché alti, belli e con gli occhi azzurri”. E aggiungeva: “Mamma sarà anche contessa o contessina, ma noi siamo principi”. Non gli ho mai creduto.

E invece…

Anni dopo la sua morte, la sorella di mio padre mi invia una carta: eravamo gli ultimi eredi di un castello a Sperlinga in Sicilia, oramai un rudere. Quindi aveva ragione; (torna a prima) lui mi ha insegnato un cinema materico, e ripeteva: “Qualunque cosa accade sul set, vai avanti, non ti fermare, c’è la pellicola e la macchina da presa”. E guai a chiamarla “camera”.

Ha lanciato molti attori, tra questi Valerio Mastandrea.

Con lui siamo molto legati, per me è un fratello, ma una volta l’ho preso per un orecchio: “Dici sempre che ti ha lanciato Costanzo, ma il primo film lo hai girato grazie a mio padre”. Era Ladri di cinema.

E in teoria non era neanche nel cast…

Aveva accompagnato Vera Gemma per un provino e quando mio padre lo vide gli disse: “Voglio pure te”. “Con quale parte?” “Non ti preoccupare, poi vediamo”; (sorride) durante le riprese Valerio chiamò papà: “Scusa Piero, ma domani non posso venire sul set, ho un altro impegno”. “Non ti preoccupare, ti taglio la scena, faccio dire a un personaggio che sei in ospedale”; l’idea di Ladri di cinema era quella di reclutare una squadra di sette persone, come I magnifici 7.

Il western?

Mi ha cresciuta a pane secco, latte e film di cowboy; per me papà era povero, me lo aveva detto mia nonna.

Lo era?

Viveva con due spicci, ma li gestiva benissimo; dopo il funerale mi chiamò il direttore della sua banca: “Non aveva tanti soldi, ma era perfetto”. Mi ha lasciato senza un debito, aveva un’integrità etico-morale, viveva in una casa piccolissima, non avevo neppure una stanza per me; una mattina avevo fame, ma in casa c’era solo pane secco e latte; e lui: “Insieme sono buonissimi, ci mettiamo lo zucchero”. E io, dentro di me: “Oddio, quanto è povero”.

E…

È stata la colazione più buona della mia vita, con zucchero a volontà; per anni e anni ho comprato il pane per seccarlo e riprovare quella sensazione.

Come mai i western?

Si riteneva figlio di John Wayne; mio nonno è morto quando lui aveva quattro anni e per una ferita di guerra mentre cavalcava un cammello nella guerra d’Africa, ferita poi diventata fatale mentre giocava a carte in infermeria, e in mano aveva un poker servito; di conseguenza mio padre scelse John Wayne come genitore putativo: a casa era appeso un suo manifesto, e quando entravo mi invitava a “salutare nonno”.

Viveva sempre dentro un film…

Per lui, vita e cinema erano la stessa cosa, anche io sono così e soffro quando mi portano fuori da questo binario.

Il suo primo ricordo sul set.

Ero in Salto nel vuoto di Bellocchio, quando in una scena Michel Piccoli mi poggia una mano sulla spalla, mi giro e vedo lui sorridere. Questa scena poi è stata tagliata, ma è nel mio cuore perché quel gesto lo inquadro come quanto di più vicino all’affetto di un vero nonno: quello sguardo dolce, da anziano, non l’ho più ritrovato.

E quando ha capito di voler intraprendere il mestiere di suo padre?

Dopo Con… fusione; (cambia tono) portammo il film a Venezia, lui rammaricato: “Porca miseria, siamo qui proprio l’anno in cui hanno tolto i secondi e i terzi premi”. Alla fine ha preso una coppa.

Secondo Virzì era “un uomo di mondo, chiacchierone, colto e sofisticato. Il suo lato buffo era la vanità, si considerava bello”.

Era un seduttore, ma non un reale amatore: amava una donna alla volta, a cicli di sette anni, sempre innamorato, però…

Di lei era geloso?

Questa domanda non me la sono mai posta, però sminuiva tutti i miei fidanzati, e partiva dalla domanda: “Gioca a pallone?”. E poi: “Carlottina ricorda: nella vita non c’è niente di serio eccetto il calcio”.

Per chi tifava?

Quando l’anno seppellito ho sentito il becchino commentare: “E poi dicono che questo era mezzo daaa Roma e mezzo daaa Lazio”, cioè uno né carne né pesce; in realtà era romanista ma non anti laziale; (sorride) è stato sepolto nella tomba della famiglia di mia madre, famiglia che lo odiava, perché non siamo riusciti a trovare altro.

Alla frase del becchino cosa ha pensato?

Di stare dentro un film di papà; quel giorno abbiamo organizzato due funerali: prima religioso e poi laico, tra i presenti anche Walter Veltroni: papà è stato il suo insegnante di Educazione fisica al liceo.

Educazione fisica?

Da giovanissimo, però, invece dei rudimenti da attività fisica, si fregiava di insegnare politica, e quando incontrava Veltroni gli ricordava: “Sono stato io a portarti sulla rotta giusta”; poi si iscrisse a Legge perché innamorato di Perry Mason: sostenne tutti gli esami, non la tesi perché era arrivato il ’68.

Chi ha parlato al funerale?

Tanti; ricordo Paolo Agosti e il suo racconto del loro viaggio a Cuba: allora partecipavano ai campi di lavoro e alla fine della giornata, i leader gridavano: “Dobbiamo impegnarci otto ore al giorno e anche di più!”. L’unico che manifestò qualche dubbio, fu proprio mio padre: “Forse otto ore sono un po’ troppe…”; (sorride) poi ricordo Angelo Orlando, disse che papà non sapeva giocare a pallone. Ed era vero. Ma allora ci rimasi male.

Era molto amico di Fantastichini.

Papà lo ha aiutato in un momento molto difficile: Ennio era una persona cupa, vanitosissima, autodistruttiva, ma generosa. Tendeva, e oltre, alla depressione.

In Ferie d’agosto suo padre, a Fantastichini, per sbaglio, ha slogato una spalla “perché passava il suo tempo in palestra”.

Mica vero, andava giusto lì per una sauna, una doccia seria, non come quella di casa e due chiacchiere; dopo la sua morte sono andata in palestra e l’usciere, con le lacrime agli occhi, ma ha restituito la sua ultima sceneggiatura: gli aveva chiesto un parere; (ci pensa) non era come gli pseudo intellettuali di sinistra con gli atteggiamenti snob, la sua sinistra prevedeva un’apertura mentale priva di preconcetti, quindi chiedeva consiglio a chiunque; (cambia tono) lo ha distrutto il diventare attore, non l’attività fisica.

Tradotto?

In Ferie d’agosto è stato meraviglioso, sublime, talmente bravo da sconvolgermi: sono scappata dal cinema, da figlia non lo potevo vedere così squallido, così pover’uomo; quel film lo ha massacrato.

Cioè?

Doveva essere nominato ai David come miglior attore non protagonista, così gli avevano riferito, e invece niente: ci rimase malissimo; (ci pensa) ma il vero problema era psicoanalitico: lui era regista e non attore.

Differenza…

L’attore è sottoposto sempre a una gogna, quindi deve avere o una grande sicurezza affettiva o una grandissima superficialità, perché ti distrugge psicologicamente; lui, da regista, era nella posizione del padre, era lui lo sguardo, e ci si ritrovava; poi gli sono arrivati dei film da attore, ed era lui a dover sottostare allo sguardo del padre, senza mai averne avuto uno, ed è stata dura. Si è perso.

Da Ferie d’agosto

Si è incrinato qualcosa nel suo equilibrio.

In Compagni di scuola?

Quello è precedente, si è divertito, non era ancora in discussione con se stesso; ma papà era più che altro un documentarista, per la Rai ne ha girati 107 e alla Rai li ho chiesti più volte ma senza risultato. “Mi trattano da cialtrone, ma li vedrai tutti al mio funerale”. Aveva ragione; attenzione: non lo voglio beatificare, era anche un fijo de ’na mignotta.

Esempio.

Non si è comportato linearmente con tutti, a mia madre non ha mai riconosciuto alcun contributo economico, non mi ha mai portata in vacanza.

Da uomo di sinistra, perché John Wayne?

Aveva il fisico, la stazza, il carisma, ti dava un senso di argine; io ho scelto Gene Hackman come zio.

E ha sposato un attore.

Gli attori si possono accompagnare solo ad altri attori; io sono stata con persone esterne a questo lavoro, ma non ci capiamo.

Quell’ultima sceneggiatura di suo padre ha mai pensato di realizzarla?

Un tempo sì, ma non ho voglia di perdermi in tutti i processi di un film, e poi mi sono resa conto che per lui ho fatto pure troppo: sono stata un’ottima figlia, meglio di lui come padre, anche se è stato grande. E con la sua morte mi ha in qualche modo liberata del complesso di Edipo.

Chi era lui?

Un figlio della guerra.

Cosa vuol dire?

Ha vissuto tutti i miti post-bellici, dalla bionda della pubblicità Coca Cola – e tutte le sue fidanzate dovevano essere alte e bionde – a John Wayne, fino al cinema come strumento di liberazione e politico; poi, quando la società è cambiata, si è trovato con gli occhi sbarrati sull’abisso ed è riemerso l’orrore; (pausa) è stato il primo attore di quella generazione, a morire, e ha sorpreso tutti, perché lui era il poeta bambino.

“Per Moana chiusi Ghezzi. E quel Craxi che rubava ai rom…”

“Fedez ha fatto bene, ma diciamocelo: è niente rispetto a quello che combinavamo noi”. Angelo Guglielmi, 92 anni compiuti da poco, direttore di Rai3 dal 1987 al 1994, ci riceve nello studio della casa ai Parioli, sommerso dai libri. “Non so davvero più dove metterli”.

Legge molto, evidentemente guarda poca televisione?

Non la guardo praticamente dal ’94, cioè da quando Letizia Moratti, che era presidente, mi mise in panchina. Però sono molto informato, so ancora tutto di quel che va in onda.

Quindi ha saputo del caso Fedez al Concertone del 1° maggio?

Certo, da sempre in quell’azienda se qualcosa non torna per motivi politici s’interviene. Nonostante questo, io riuscii a rimanere libero, eppure occasioni per cacciarmi ne ebbero parecchie.

Ad esempio?

Consideri che io fui scelto in piena epoca di lottizzazione, fui la nomina del Partito comunista. Biagio Agnes era il direttore generale, espressione del segretario democristiano Ciriaco De Mita, poi c’era Bettino Craxi che aveva l’ultima parola su Rai2 per i socialisti e di Rai3 doveva occuparsi per il Pci Walter Veltroni, che era il responsabile culturale del partito. Ebbe l’intuizione di chiamare me che non avevo mai avuto la tessera, quindi, seppur d’area, indipendente. A due anni dalla loro fine, i comunisti avevano diritto a una rete e scelsero me, appunto, e Sandro Curzi per il Tg3. A me diedero l’obiettivo di portare la terza rete tra il 2 e il 3,5% di ascolti, ma arrivai presto al 6%. Quello per l’azienda era un momento difficile, perché aveva perso alcune colonne del video come Pippo Baudo e Raffaella Carrà, passati alla Fininvest di Berlusconi. La domenica pomeriggio mandavamo in onda Va’ pensiero, condotto da Andrea Barbato, Galeazzo Benti e Oliviero Beha. Tra le tante rubriche c’era Teletango: il disegnatore satirico Vincino impersonò Craxi che andava a far visita a degli zingari in un campo nomadi alla periferia di Roma “per sottolineare l’apporto del Partito socialista e suo alla causa, per un nomadismo socialista e riformista” (si trova ancora su Youtube). La scena terminava col finto Craxi che abbandonava il campo su un’Alfa Romeo mentre gli zingari si rendevano conto di esser stati derubati… e quindi si vedeva Craxi e i suoi spartirsi il bottino nell’automobile. Io non vedevo nulla prima della messa in onda per scelta, andava tutto in diretta. E comunque, anche se l’avessi visto prima, non avrei fatto proprio nulla. Insomma, fui convocato dal presidente della Rai, Enrico Manca, socialista, che mi chiese conto della cosa in modo piuttosto duro: “Ma ti rendi conto di quello che avete mandato in onda?”. Gli spiegai che secondo me era satira politica e che mai avrei censurato. Era il 1988, Craxi non era più presidente del Consiglio da poco, ma ancora potentissimo segretario del Psi. Rimasi al mio posto.

Quindi non le censurarono mai nulla?

A dire il vero una cosa ci fu. Ma ne fui sollevato e vi spiego perché. Ci eravamo inventati con Enrico Ghezzi la prima versione di Fuori orario che andava in onda per tutta la notte, quando le altre reti televisive non mandavano nulla. Ci costava tantissimo, mi accorsi presto che per una decina di puntate avevo bruciato la metà del budget di tutta la terza rete. Si facevano cose pazzesche, oltre al biliardo trasmettevamo una sorta di programma di cucina con chef esperti di piatti di tutto il mondo per dirne solo una. Ma a un certo punto comparve Moana Pozzi, che si scoprì mostrando agli italiani nottambuli sintonizzati su Rai3 le sue parti intime. Mi convocò il giorno dopo Agnes in persona questa volta e mi disse perentorio: “Questo no, non posso consentirtelo”. Feci finta di protestare, ma presi la palla al balzo per interrompere quel programma che mi avrebbe letteralmente dissanguato. La censura, comunque, in Rai c’è sempre stata e anche piuttosto spietata, ricordatevi l’episodio di Franca Rame e Dario Fo sulla prima rete. Noi avevamo reso Rai3, però, un’isola particolare, difficile da assaltare. E Veltroni si rendeva conto che alla sua immagine ritornava meglio se non avesse mai interferito e mai interferì. Soltanto una volta mi portò Ettore Scola che voleva parlarmi per chiedermi di permettere a sua figlia di realizzare un documentario su Roma. Ma il progetto non m’interessò e non se ne fece nulla.

Che cosa farebbe oggi in televisione?

Nulla di quello che ho già fatto. Eppure i programmi migliori che ci sono ora su Rai3 sono quelli che ci inventammo noi, da Chi l’ha visto? a Quelli che il calcio…. Sì, Fabio Fazio, bravo ma presuntuoso, ha poi fatto Che tempo che fa. Ma non riescono a inventarsi più nulla. Non salvo nulla insomma e non guardo più nulla. Solo le partite, sono elettrizzato per l’arrivo di José Mourinho alla mia Roma.

Questo sulla scrivania è un Oscar autentico?

Sì, certo. Andai a Los Angeles alla cerimonia. Ci premiarono nel 1990 per Nuovo cinema paradiso, di cui Rai3 fu tra i produttori. Pensare che all’inizio in sala non andava nessuno, a Torino una volta solo otto persone. Era troppo lungo (173’), scoraggiava, poi con il produttore Franco Cristaldi decidemmo di tagliarlo a 123’ e vincemmo l’Oscar come miglior film straniero.

Allotopia: è il sabotaggio divertente a creare l’ironia

Odio quando le donne paragonano gli uomini ai cani. Gli uomini non sono cani. I cani sono fedeli. Non ho mai trovato mutandine strane nella cuccia del mio cane. (Wanda Sykes)

Ogni gag (linguistica, iconica, plastica, musicale, filmica, &c.) introduce nell’opera (testo semiotico) un percorso di senso non pertinente (allotopia), cioè una sorpresa che diverte; ma un’opera contiene sempre tanti percorsi di senso (poli-isotopia); perché, dunque, non ridiamo a ogni allotopia che incontriamo in un testo? Lo spiegò il Gruppo di Liegi (1977, 1992). Quando ci imbattiamo in un’allotopia, per esempio una metafora, cerchiamo di integrarla nel contesto (interpretazione). Cerchiamo, cioè, di mediare fra l’isotopia dominante del testo e l’allotopia. Ci aiutano le mediazioni già presenti nell’opera. Questo ci interessa perché, come vedremo, il meccanismo della gag è la mediazione fallita: la mediazione è il luogo dove agiscono i sabotaggi divertenti. A seconda del genere, esistono vari tipi di mediazione.

La mediazione linguistica può essere retorica (operazioni retoriche paragonano l’isotopia all’allotopia); discorsiva (un sintagma mette in relazione diretta isotopia e allotopia, come accade nella metafora); e referenziale, quando i termini che designano la mediazione fra isotopia e allotopia sono espliciti: simboli; coppie oppositive; riferimenti a un altro testo: per esempio, in C’era una volta in America (1984), Moe chiede a Noodles “Che hai fatto in tutti questi anni, Noodles?”, e Noodles risponde “Sono andato a letto presto”. Sta citando Proust, l’incipit della Recherche: “Per molto tempo, sono andato a letto presto, la sera”.

Nella mediazione iconica, l’immagine stessa è mediatrice, come accade nella stilizzazione, che consiste in procedimenti di sostituzione relativi a forma, colore, texture.

Nella mediazione plastica, le opere sono strutturate tramite giustapposizioni, sintesi, transizioni, cromatismi.

La mediazione iconolinguistica agisce per relazione logica (causalità, somiglianza, &c.): un esempio è il cartoon Symphony in Slang di Tex Avery, che prende alla lettera dei modi di dire (shorturl.at/sFUX4).

La mediazione iconoplastica struttura l’immagine come accade nei metaplasmi verbali. L’elemento mediatore può essere un colore, una forma, il contorno, il vuoto; o una texture, come il mare finto in Amarcord, ottenuto con teli di plastica agitati da attrezzisti.

La mediazione sonora, infine, può essere referenziale (come nella coppia oppositiva tonica-dominante, e nella citazione di altri brani musicali), retorica (come nella melodia riproposta in tonalità minore, e viceversa; nella ripetizione/modifica di una cellula melodica/sonora; nel cambio di tempo e/o di ritmo), discorsiva (come nella modulazione a un’altra tonalità); sonora (il suono stesso è mediatore, come nella sostituzione di strumenti, di fonti sonore, di arrangiamenti); plastica (tramite procedimenti sulle tracce sonore: tagli, giustapposizioni, sovrapposizioni, accelerazioni, rallentamenti, distorsioni); logica (per somiglianza, casualità, aggiunzione, sottrazione, sostituzione, permutazione, moto retrogrado, moto contrario, moto contrario del moto retrogrado); sonorolinguistica (per relazione emotiva e/o logica, come nell’opera lirica e nelle canzoni). Anche la mediazione sonoroiconica struttura l’opera per relazione emotiva e/o logica, come nelle colonne sonore che accompagnano film e cartoni animati. Per esempio, nel film razzista La nascita di una nazione (Griffith, 1915), quando una famiglia bianca è attaccata da nordisti neri, e intervengono a salvarla milizie del Ku Klux Klan a cavallo, il sottofondo musicale è La cavalcata delle Valchirie, e poi l’inno confederato Dixie Land. Un esempio sorprendente di mediazione sonoroiconica è nel film di Jean Cocteau Il sangue di un poeta (1930): una statua dice a un artista di passare attraverso uno specchio; Cocteau fa sentire delle grida quando l’artista infrange con un tuffo lo specchio (shorturl.at/npqL0). Un esempio sublime è nel film di Rouben Mamoulian Amami stanotte (1932): il protagonista, Maurice Chevalier, un sarto che si innamorerà di una principessa che vive in un castello, canta una canzone nel suo atelier (Isn’t it Romantic). Un suo cliente la canticchia per strada, dove viene orecchiata da un tassista, che la canticchia a un passeggero, un musicista; questi la trascrive in treno, dove la ascoltano dei soldati, che poi la cantano come marcia mentre attraversano una campagna (mediazione retorica); li ode un violinista gitano, che quella notte suona la melodia al campo; da dove infine sale alle orecchie della principessa nel castello (shorturl.at/dzDIX). Altro esempio, dall’inizio dello stesso film: il risveglio della città con i rumori delle attività che ricominciano, e che si aggiungono uno all’altro a comporre una sinfonia di ritmi e baccano (shorturl.at/gwFKX). Infine, la mediazione sonoroplastica, per esempio quella del silenzio artificiale nei film di Fellini (shorturl.at/iEGN7) e del suono disegnato sulla traccia audio da Norman McLaren (shorturl.at/kvIO8).

(54. Continua)

Il caso Aliseo: Tripoli spara con motovedette donate da Roma

C’era una volta, il Mare Nostrum. Ora, invece, il Mediterraneo è un mare pericoloso, potenzialmente ostile agli italiani al largo della Libia, come dimostra la vicenda del peschereccio Aliseo, scortato ieri a Mazara del Vallo dalla Guardia di Finanza dopo un ‘incontro ravvicinato’ con una motovedetta libica. Nel Mediterraneo di questo scorcio del XXI Secolo, incrociano navi da guerra americane e russe, pronte, se serve, a scaricare gragnole di missili o attacchi aerei contro l’Isis, al tempo della guerra all’autoproclamato Califfato, o su postazioni in Siria percepite come ostili. Israele vi svolge azioni di polizia al largo delle coste palestinesi. La Turchia, che detta in Libia la legge dei suoi mercenari, alza la tensione anche nelle acque più orientali, intorno a Cipro, contestando interessi energetici ed economici ciprioti, greci e pure italiani.

Altro che mare di pace, solcato da paranze di pescatori, barche di regatanti e navi crociera: i Paesi rivieraschi vi misurano il loro potere – la Turchia –, la loro fragilità – la Libia –, la loro ignavia – Malta -, la loro impotenza – l’Italia -. Un mare dove si muore a centinaia, nei naufragi dei barconi dei migranti che la guardia costiera libica intercetta o meno, soccorre o meno, facendo mercimonio del principio dell’aiuto in mare. I contenziosi sulle aree di ‘Search and Rescue’, ricerca e salvataggio, libica, maltese e italiana, che parzialmente si sovrappongono, come sull’estensione unilaterale – risalente ai tempi di Gheddafi – dei diritti di pesca esclusivi libici aggiungono elementi di incertezza e di tensione. La vicenda dell’Aliseo, andato a cercare i gamberi rossi nella zona di pesca libica, testimonia che una tragedia lì è sempre possibile. Il comandante Giuseppe Giacalone e il suo equipaggio – sei uomini – sono stati bersaglio dei colpi sparati da una motovedetta libica, un ex mezzo della Guardia di Finanza donato dall’Italia alla Libia nel 2018 per controllare i migranti. I libici hanno poi desistito; l’ultima volta che avevano costretto due pescherecci a seguirli li avevano trattenuti per 100 giorni

Al Aqsa, Hamas vuole l’Intifada

“È in corso una selezione razzista all’ingresso di Gerusalemme. Gli ebrei entrano, gli arabi vengono fermati ”, denunciava ieri su Twitter Issawi Freij, membro arabo del partito di sinistra Meretz. Pochi minuti prima i pellegrini arabi israeliani, bloccati sull’autostrada dalla polizia mentre erano diretti al Monte del Tempio nella Città Vecchia di Gerusalemme per le preghiere di fine Ramadan dove gli agenti sostenevano si stesse organizzando una rivolta, avevano bloccato l’autostrada Route 65 nel nord di Israele, mentre le proteste si andavano estendendo in tutte le comunità arabe del Paese contro la repressione della polizia nella notte di venerdì. “La polizia israeliana rispetta tutte le religioni e continuerà a consentire la libertà di culto. Con questo, la polizia non permetterà ai manifestanti di raggiungere Gerusalemme per prendere parte a violenti disordini”, ha risposto la polizia dopo aver intensificato la sua presenza in assetto antisommossa. A ribadire il concetto è stato il premier in carica Benjamin Netanyahu: “Israele lavora per garantire la legge, l’ordine e la libertà di culto a Gerusalemme”.

Eppure la tensione ieri è salita, dopo il ferimento di 200 arabi, 15 arresti e i 17 agenti colpiti negli scontri di sabato notte alla moschea di Al-Aqsa dove i pellegrini hanno lanciato sassi contro la polizia che a sua volta lanciava proiettili di gomma e granate stordenti. Scontri anticipati da quelli vissuti giovedì nel quartiere di Sheikh Jarrah, dove famiglie palestinesi devono affrontare gli sfratti delle case rivendicate dai coloni ebrei nazionalisti. La sentenza in appello sarà pronunciata domani. Ma secondo la polizia, più che questa annosa questione, a scatenare le violenze del Monte del Tempio sarebbe Hamas per vendicarsi del rinvio delle elezioni legislative programmate per la fine del mese voluto dall’Autorità Palestinese Mahmoud Abbas. “Ciò che sta avvenendo a Gerusalemme è un’Intifada che non si deve fermare”, ha detto ieri il leader del gruppo, Ismail Haniyeh, in un’intervista all’emittente gestita da Hamas, avvertendo poi il premier Netanyahu di “non giocare col fuoco”. E mentre Stati Uniti e la Comunità internazionale hanno chiesto la calma, e Giordania ed Egitto accusano Israele di provocare l’escalation, le tensioni sono destinate ad aumentare nella notte che segna Al Qadr, la notte più santa del mese di Ramadan, con le preghiere di massa al Monte del Tempio. Stasera comincia invece il “Jerusalem Day”, festività nazionale in cui Israele celebra la sua annessione di Gerusalemme Est e i nazionalisti tengono parate e altre celebrazioni in città. A soffiare sul fuoco, il segretario generale della Jihad: “È impossibile tollerare ciò che sta accadendo a Gerusalemme e il nemico deve aspettarsi la nostra risposta in qualsiasi momento”.

La Turchia non molla, il Gran Mufti la sostiene

Continuano a impazzare le milizie che infestano la Libia dall’esplosione della seconda guerra civile nel 2014. Nonostante la formazione nel marzo scorso di un governo di unità nazionale (Gnu) allo scopo di traghettare il Paese verso le elezioni generali calendarizzate per la fine dell’anno, la situazione attuale sul terreno della Tripolitania rimane profondamente instabile mentre a est, in Cirenaica i mercenari del generale Khalifa Haftar mantengono il controllo pur tra le divisioni delle fazioni tribali. Nella serata di venerdì, dozzine di uomini armati si sono materializzati all’ingresso dell’Hotel Corinthia, nel cuore della capitale dove è basato anche questo neo esecutivo, guidato dal controverso Abdul Hamid Dbeibeh.

L’agenzia di stampa libica Lana ha aggiunto che “nessuno è stato ferito” poiché il consiglio non lavora il venerdì, il giorno di riposo settimanale in tutti i paesi di religione islamica. Il capo dell’ufficio del Consiglio di Presidenza, Mohamed al-Mabrouk che per ora riveste la carica di capo dello Stato ha affermato che incontrerà il gruppo o i gruppi autori dell’incursione. Sono mesi delicati quelli che intercorrono da qui alle consultazioni e gli uomini incaricati di renderle realmente possibili stanno cercando di risolvere il complesso puzzle di milizie armate che destabilizzano la Libia. Milizie non solo locali ma anche eterodirette da potenze regionali e mondiali che hanno trasformato il conflitto in una guerra per procura. Le più potenti sono quelle inviate dalla Turchia per proteggere la Tripolitania dagli assalti delle forze di Haftar e quelle russe della società di sicurezza privata Wagner vicina al Cremlino che opera per sostenere il generale ribelle indebolito proprio dall’entrata in campo di Ankara, seppur indirettamente sotto il profilo ufficiale. E la prova di forza messa in scena presso la sede di fatto del consiglio presidenziale è da leggersi proprio come un avvertimento contro la reiterata richiesta del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite di un ritiro di tutte le truppe e mercenari stranieri attive nel paese nordafricano post Gheddafi. La recente dichiarazione dell’Onu ha riacceso le divisioni all’interno dello stesso governo di unità nazionale. Lunedì scorso, la ministra degli Esteri, Najla al-Mangoush, di formazione britannica ma originaria di una famiglia della Cirenaica aveva irritato molti notabili di Tripoli con il proprio appello ad Ankara affinché ritiri gli addestratori militari e le proprie milizie dispiegate dal 2019. Queste truppe e milizie turche sono ancora ampiamente accreditate a Tripoli per aver sconfitto nel giugno scorso l’assedio di Haftar durato un intero anno. La Turchia afferma che la propria presenza militare in Libia è diversa da quella di altre forze straniere perché è stata invitata dal precedente governo riconosciuto dall’Onu e non si ritirerà fino a quando gli altri non lo faranno. È importante ricordare che l’alleanza tra Ankara e Tripoli nasce anche dalla comune appartenenza alla Fratellanza Musulmana, il movimento che propugna l’islam politico di cui Erdogan oggi è il leader. Si spiega in questo modo l’intervento del Gran Mufti libico, lo sceicco Al-Sadiq Al-Gharyani, che ha criticato coloro che equiparano la presenza turca in Libia a quella dei gruppi illegittimi. “La cooperazione turca sviluppata nel quadro di un accordo firmato con il governo legittimo non può essere equiparata ai mercenari russi e ai Janjaweed che sono venuti a sostenere gli aggressori”, ha detto il Mufti. “Nessuna potenza straniera si è opposta all’aggressione contro Tripoli tranne la Turchia”.

“Il Labour di Starmer balbetta e Johnson vince anche dicendo bugie”

L’intervista con Anthony Barnett doveva durare 15 minuti, e invece il confronto si protrae per un’ora. Secondo i risultati delle ultime elezioni amministrative, è chiara la débâcle laburista nella maggioranza dei 143 seggi chiamati a rinnovare i propri amministratori, un dilagare di blu conservatore nelle regioni ex roccaforti laburiste, già passate ai Tories alle politiche del dicembre 2019: la sconfitta più cocente per il Labour degli ultimi 84 anni.

Giornalista, attivista pro democrazia in un Paese che della democrazia è, con stanca retorica, ancora considerato il faro, cofondatore nel 2001 del sito di giornalismo politico Open Democracy che promette di “sfidare il potere e incoraggiare il dibattito democratico in tutto il mondo”, Barrett è un conoscitore profondo della storia del partito laburista britannico e un analista non conformista del suo presente.

Qual è la sua analisi di questa ennesima sconfitta, a partire da Hartlepool, roccaforte laburista espugnata dai Tories in una elezione suppletiva?

Guardo ai dati e non vedo quello che viene raccontato dai media, cioè un massiccio passaggio di voti dal Labour ai Conservatori. Vedo una partecipazione al voto ancora più bassa del solito per le Amministrative, cioè un forte astensionismo. Gli elettori laburisti sono stati a casa.

Perché?

Il Labour non ha assolutamente nulla da dire e infatti non ha detto nulla. Quella di Hartlepool era solo una suppletiva minore: è diventata così importante grazie all’attenzione dei media. Boris Johnson ci è andato tre volte, e vi ha portato la sua narrazione basata sul nazionalismo britannico: la Great Britain, il ritorno dell’imperialismo. Assurdità di un leader bugiardo, sulla scia del vostro Berlusconi, il grande modello, e poi di altri fra cui Trump. Perché vincono? Dicono alla gente quello che vuole sentirsi dire, ma soprattutto hanno una narrazione chiara che contrasta quella globalista, della finanza globale con cui il blairismo è andato a braccetto per 20 anni. Il Labour di Starmer cosa dice? Balbetta: ‘faremo politiche per i poveri. Torneremo a parlare alla working class’. Ma il concetto di working class è morto è sepolto. E lo ha sepolto Blair. La classe operaia è un costrutto sociale nato con i meccanismi della produzione industriale, cioè ormai un’astrazione.

È ancora colpa di Corbyn?

Ma figuriamoci, l’ex leader del Labour ormai è il capro espiatorio di tutto, anche di processi politici globali. E poi bisogna distinguere fra Corbyn e il corbynismo. Non lo difendo come leader, ma il corbynismo ha innescato nel partito forze giovani e fresche che sono ancora lì. Quanto a Starmer, sarebbe un eccellente primo ministro ma non ha nessuna visione per una politica nazionale.

Fra i commenti più desolati alla sconfitta, quello di un alto funzionario laburista rimasto anonimo: “A essere sinceri, il partito è talmente fottuto che non è più nemmeno una questione di trovare il leader giusto. È un problema esistenziale. Che senso ha un partito laburista?”. Che senso ha?

Il laburismo, cioè questo continua tormentata ricerca di auto-definizione a partire da una idea di sinistra ormai scomparsa non ha senso, è finito. Basta (in italiano, ndr). Però serve ancora un partito decente, non corrotto, antirazzista, anti-sessista, ecologista, egualitario, che governi, invece di fare marketing, nell’unica intersezione possibile, che non è la scelta fra libero mercato e statalismo, ma una via di mezzo che non demonizzi il capitalismo.

Sembra l’identikit della terza via di Blair

No, perché il cuore della terza via era la centralizzazione del potere politico, cioè era fondamentalmente antidemocratica, a braccetto con globalizzazione e finanziarizzazione, e ha portato ad un fatalismo degli elettori rispetto a queste enormi forze che è poi deflagrato con la bolla finanziaria del 2008. E invece bisogna avere il coraggio di affrontare la questione dell’identità nazionale, dire chiaramente ai suoi elettori chi sono, invece di lasciare la faccenda alla narrazione imperialista Tory o, nel caso dell’Ue, ai nazionalismi dei governi polacco o ungherese.

Lei, da inglese, è attivissimo nella campagna Europe for Scotland, per una Scozia indipendente da Londra e di nuovo in Europa.

La Brexit sta facendo implodere il Regno Unito, che è un costrutto imperialistico e anacronistico. Il sì alla Brexit è stato un ‘no’ solo inglese, non britannico, alla politica di Westminster, interpretato come no all’Europa. La domanda cruciale è se il Regno Unito post Brexit resterà nella sfera di influenza europea o passerà a quella Usa. L’indipendenza scozzese è un test per l’Ue. Avrà l’elasticità di accogliere il ritorno della Scozia e dimostrare che la sua priorità è il progetto europeo, non il rispetto di procedure?

MailBox

 

La scarsità dei Sostegni punisce gli onesti

Sono un piccolissimo imprenditore, proprietario di una palestra grandissima. Il governo, tramite il Cts, decide di chiuderci senza nessuna ragione e senza tenere in considerazione chi potesse e chi no, valutando dei requisiti, metrature e spazi, per un eventuale contingentamento facendo allenare le persone in totale sicurezza. Preciso che la mia palestra non è la solita “figata elusiva”, asd o ssd che non pagano le tasse essendo non profit, la mia è una società di capitale (Srl) e di tasse ne pago tantissime e do lavoro a molti giovani sia personal trainer sia collaboratori con tanto di contratti indeterminati. Il 7 marzo 2020 (non contiamo i mesi estivi aperti perché facciamo ridere i polli) ci fanno chiudere e apriremo, se è vero, a giugno, senza docce (si immagini, lei va in palestra e poi, sudato fradicio si mette in macchina e va a fare la doccia a casa). A conti fatti, se a settembre ci lasciano in pace, sono 18 mesi tra chiusura totale e lavoro estivo da non considerare. La domanda: nel 2019 ho fatto un fatturato di circa 150.000, Draghi in base a tale mi ha mandato un ristoro di 2180€euro. Adesso chiedo, da oggi in poi, eludere le tasse sarà più un reato?

Lettera firmata

 

Vaccini, un manager era meglio di un generale

Ma in Italia c’era proprio il bisogno di mettere un generale dell’esercito a ricoprire l’incarico più delicato e strategico del momento? Conosco bene l’ambiente, le caserme tirate a lucido solo prima delle ispezioni, l’impossibilità per definizione di criticare il grado superiore della gerarchia, l’inesistenza dell’autocritica, i panni sporchi che si lavano in famiglia. Ma un manager esperto di acquisti, processi e organizzazione non si poteva trovare? Che magari evitasse di girare tutta Italia a fare comizi dove, come nei matrimoni quando non sai cosa dire, sai solo ringraziare i presenti. A ognuno il suo mestiere.

Riccardo Tampucci

 

Renzi contro “Report”: parte lesa i cittadini

In merito alla questione Renzi-Mancini mi pongo la domanda se i cittadini, che con le loro tasse pagano lo stipendio a Renzi, non abbiano il diritto di sapere come agisce e se lo fa nell’interesse dei cittadini.

Anna Maria Rizzuto

 

Ho letto l’editoriale “Minority Report”. Alla domanda implicita dell’articolo mi sono dato la risposta che la maggioranza degli italiani, in particolar modo la classe dirigente, è assuefatta a questo degrado morale e un 4-8% dei votanti certi politici li risceglierebbe pure. Il lato buono della notizia? Chi non si è rassegnato legge il Fatto e vede Report.

Stefano Tolomelli

 

Letta e le correnti di un Pd ideologico

Leggo della presunta “congiura contro Renzi sullo 007, e il Pd lo difende”. Tra i difensori assurdi dell’Innominabile troviamo pure la Malpezzi che come nuova guida dei senatori Pd, sarebbe dovuta essere uno degli elementi del “cambio di passo” impresso da Letta per tirare fuori lo stesso Pd dalle sabbie mobili del renzismo. Purtroppo fino a quando non si sarà fatta una vera pulizia da certi personaggi, il partito non trarrà beneficio in termini di consenso per il cambio del proprio leader. Il sullodato Letta è qui arrivato con buoni propositi, dichiarando innanzitutto che l’esperienza passata gli aveva fatto capire molte cose e che quindi sarebbe stato lontano da commettere gli stessi errori. Questo non è avvenuto; il suddetto risulta ancora condizionato da tale corrente e ha continuato a concentrare la sua attività su battaglie ideologiche che nel passato hanno costituito ragione di sconfitta per il partito, come la questione dei migranti.

Marco Olla

 

Il teatro della politica nella nostra ‘democrazia’

Tutti i partiti si dovrebbero adoperare per il bene delle famiglie italiane, ma molti politici litigano tra di loro e pensano solo alle poltrone. Dobbiamo detassare in parte le società e le aziende con l’obbligo di assumere, ma anche aiutare le persone che perdono il lavoro dai 45/50 anni. E modificare la legge Fornero con la cancellazione dell’età pensionistica a 67 anni e mettere la pensione per tutti a 65 anni. Ma poi c’è Giorgia Meloni che respinge tutto al mittente su quasi tutti gli argomenti prospettati sia dal presidente del Consiglio sia dalla sua coalizione. Non si può andare avanti in questa direzione, c’è troppo egoismo.

Silvio Onorati

Caro Silvio, almeno un partito all’opposizione ci vuole. Sennò poi la gente capisce in che razza di “democrazia” viviamo.

M. Trav.

 

Il ritorno di Zingaretti? Conte stia alla larga

Sono passati pochi mesi da quando Zingaretti si è dimesso dalla segreteria perché (parole sue) si vergognava del suo partito. Ora miracolosamente si appresta a scendere in campo a sindaco di Roma, sempre per il suo partito che tra l’altro difende Renzi per il suo incontro con Mancini. Mi auguro con tutto il cuore che Conte rimanga a debita distanza da tutto questo e che alla fine non si debba dare ragione a Dibba.

Michele Lenti

Anno 2021, ancora possiamo scegliere il clima che ci aspetta

In Italia – Un aprile fresco ma poco piovoso si è chiuso venerdì 30 con un violento temporale che viaggiando da Piacenza fin oltre Verona ha fatto più danno che altro causando allagamenti e grandinate, come sui vigneti di Sommacampagna. Poi sabato 1° maggio una perturbazione atlantica ha dispensato copiose e benvenute piogge di primavera specie a Nord del Po (un centinaio di millimetri d’acqua intorno al Lago Maggiore) attenuando un po’ la magra del fiume, mentre con lo scirocco si toccavano 34 °C nel Ragusano. Intensi rovesci sull’alto Friuli il 2, quando in serata all’arrivo di aria fredda la neve è scesa a quota 600 metri al confine con la Slovenia (40 cm caduti sopra i 1000 m), evento poco usuale a inizio maggio tuttavia già visto altre volte in passato nel Tarvisiano. La nuova settimana è proseguita poi con vigorosi venti tra Ponente e libeccio, e schiarite alterne a poca pioggia qua e là. A causa della bufera sul Monte Rosa è stato rimandato il carotaggio glaciale italo-svizzero al Colle Gnifetti (4500 m) nel quadro del progetto Ice Memory per lo studio del clima antico.

Nel mondo – In Europa aprile 2021 è risultato – oltre che secco – il più freddo dal 2003 secondo il servizio Copernicus con 0,9 °C sotto la media dell’ultimo trentennio. Localmente, nei singoli Paesi si deve tornare anche più indietro nel tempo per trovare precedenti analoghi o più freddi ancora: all’aprile 2001 in Francia e Svizzera, al 1997 in Serbia, Ungheria e Polonia, al 1986 in Belgio e Olanda e al 1977 in Germania. Ma il freddo anomalo ha toccato l’apice nelle isole britanniche: aprile più freddo in 78 anni di misure a Dublino, e nel Regno Unito media mensile delle temperature minime più bassa dal lontano caso del 1922. Tuttavia il caldo eccessivo di altre zone – Canada, Groenlandia, Russia, Medioriente, Sud Africa, Argentina – ha comunque sbilanciato ancora una volta la media mensile globale verso il caldo (+0,2 °C dall’ultimo trentennio). Venerdì 30 la stazione artica di Alert (Canada) ha rilevato per la prima volta una temperatura sopra zero in aprile (2,4 °C) e a Nenana (Alaska) il ghiaccio del fiume Tanana si è rotto in linea con la tendenza al disgelo primaverile sempre più precoce per le temperature medie in aumento, 8 giorni di anticipo nel secolo di attività della lotteria “Nenana Ice Classics”. A inizio maggio soffocante ondata di calore tra Medioriente e Nord Africa (47 °C in Egitto), d’altronde lo studio “Business-as-usual will lead to super and ultra-extreme heatwaves”, su Nature, segnala che senza adeguate politiche climatiche le città di queste regioni – circa 600 milioni di persone – nella seconda metà del secolo dovranno affrontare lunghi e intollerabili periodi di canicola fino a 56 °C. Sempre su Nature, l’articolo “The Paris Climate Agreement and future sea-level rise from Antarctica” rivela che se falliremo l’obiettivo di decarbonizzazione dell’Accordo di Parigi dovremo mettere in conto un aumento inarrestabile dei livelli marini con un contributo da parte dei soli ghiacci antartici di 35 cm nel 2100 e di quasi 10 metri nel 2300! Continuano a tal proposito gli appelli degli scienziati, l’ultimo dei quali, “Our Planet, Our Future – An Urgent Call for Action” è scaturito dal Summit 2021 del Premi Nobel del 26-28 aprile. Oggi più che mai possiamo ancora Scegliere il futuro che ci aspetta, è il titolo del libro (Tlon Edizioni) di Christiana Figueres, una delle più tenaci protagoniste dei negoziati climatici internazionali, già segretaria generale della Convenzione delle Nazioni Unite sul Clima, e del suo collega Tom Rivett-Carnac. Ci spiegano come affrontare la crisi climatica con “ostinato ottimismo”, a patto di fare in fretta, altrimenti sarà la termodinamica a scegliere per noi, e non sarà tenera.