Sentimenti. Dare se stessi fino in fondo e senza riserve: è l’amore cristiano

Gesù parla ai discepoli. E parla dell’amore, la parola più bella, ma anche più usata e più logora di questo mondo. Di cosa parliamo quando parliamo di amore? Amarsi un po’ è come…, scriveva Mogol per Battisti. Roland Barthes scrisse Frammenti di un discorso amoroso, un lessico costruito come una indagine dei movimenti amorosi che costituiscono un linguaggio fatto di azioni e gesti. Credo sia questo l’unico modo per parlare dell’amore, qualunque esso sia: descriverlo, farlo vedere. Qual è la risposta di Gesù? In Gv. 15,9-17 descrive un movimento amoroso. Parla della misura dell’amore, e lo fa definendo un gesto: Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la sua vita per i propri amici. Il gesto è dare la vita. Il gesto sarà per lui la morte in croce. Non rose e fiori, ma chiodi e spine. Sentimento e dramma qui si scontrano. La nostra immaginazione è potentemente sollecitata.

No, quindi, Gesù non definisce l’amore del quale vuole parlare in astratto. Davvero non è questo il contesto, non è il caso: Gesù sta per andare alla sua passione. Ma neanche lo affronta per frammenti. E qui non è il sentimento, l’essere trasognati, l’estasi tipica di chi ama ed è amato. Gesù invece ne definisce la misura in un unico gesto solenne: dare la vita. Amore e morte: dare se stessi fino in fondo e senza riserve. Inutile girarci attorno: questo è l’amore cristiano. Ed è un amore concreto che non esclude affatto il sentimento, anzi! Ma con esso non coincide: eccede. Noi diciamo a chi amiamo: “Ti amo tanto”. Ma si può immaginare che si dica a una persona: “Ti amo poco” o peggio “ti amo abbastanza, a sufficienza, quanto basta”? O si ama o non si ama. L’amore del quale Gesù parla non lascia spazio ad alternative: ama chi dà la vita per la persona che ama.

E che cosa chiede Gesù ai suoi discepoli? Che cosa devono fare con questo suo amore? Rimanete nel mio amore. Chiede di rimanere in questo amore, di rimanerci dentro, come fosse uno spazio, un luogo da abitare. Gesù chiede ai discepoli di abbandonarsi a questo amore che li benedice e li salva, un amore che sta per dare la sua vita, che raggiungerà quella misura. Il poeta statunitense Raymond Carver, consapevole che avrebbe lasciato questa terra di lì a poco a soli 50 anni, scrisse nella sua ultima poesia: E hai ottenuto quello che/ volevi da questa vita, nonostante tutto?/ Sì./ E cos’è che volevi?/ Potermi dire amato, sentirmi/ amato sulla terra. Questo è il rimanere. Davanti alla morte il giudizio sulla propria vita è l’amore, il rimanere fino alla fine dentro di esso, abitarlo. E Gesù fa capire ai discepoli che egli stesso abita dentro questo amore che offre a loro. Vive dentro un amore che poi è il mistero della Trinità: come il Padre ha amato me, anche io ho amato voi… io rimango nel suo amore.

Questo “rimanere” non è affatto un semplice bearsi. Perché chi si sente amato rinasce, rinvigorisce, si apre alla vita e al dono di sé: vi ho costituiti perché andiate e portiate frutto. Il destino di chi è amato è fiorire, fruttificare. L’amore dà senso alla vita umana. Gesù insiste sul fatto che l’amore del quale parla non è frutto di una conquista: Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi, dice. I discepoli devono capire che l’amore di Gesù è una grazia che si riceve, gratuito, gratis: è grazia. Per questo Giovanni nella sua prima lettera è netto: chiunque ama è stato generato da Dio e conosce Dio. Gesù chiede di rimanere in questo stato di grazia: sentirsi amati sulla terra, direbbe Carver, sapendo che quest’amore eccede ogni nostro desiderio di conquista e possesso (che poi è l’ansia che tutti abbiamo).

 

Pio e Amedeo: quando il fascismo resta eterno

“Ionesco disse una volta che solo le parole contano e il resto sono chiacchiere. Le abitudini linguistiche sono sintomi importanti di sentimenti inespressi. Mein Kampf è il manifesto completo di un programma politico che poi si realizza”.

Rubo queste parole all’indimenticabile libretto di Umberto Eco Il fascismo eterno, che probabilmente Pio e Amedeo non hanno visto, e li avrebbe illuminati, perché è tutto sul rapporto fra parole e fatti, e dunque sul percorso che porta dall’uccisione di Matteotti al discorso di Mussolini e ad Auschwitz, per accostarle a quelle di un collega di Eco, Jason Stanley (Come funziona il fascismo, Solferino): “Le politiche fasciste cercano di minare il dibattito pubblico attaccando e sminuendo l’istruzione, la competenza, il linguaggio.” C’era poi, e c’è, politicamente e moralmente importante, la lotta accanita di tutta la destra contro i diritti e la dignità degli omosessuali e transessuali, che devono essere debitamente umiliati e disprezzati con qualunque linguaggio pur di abbattere in Parlamento, proprio in questi giorni, la legge Zan.

Mi rendo conto che usando queste parole, che inquadrano bene la missione di aggressione al linguaggio storico e politico di cui hanno voluto farsi portatori Pio e Amedeo, introduco il sospetto che i due siano stati incaricati (in cambio di una notorietà che altrimenti non è così facilmente raggiungibile) di un incarico importante: trasportare nella barzelletta i figli della Shoah, farsi delle risate sullo scambio delle parole “negro” e “nero” come se Martin Luther King, LeRoi Jones (Amiri Baraka), Cassius Clay (Mohammed Ali) non fossero mai esistiti.

Forse Pio e Amedeo sono angeli vendicatori contro la “dittatura del linguaggio”, attaccando impetuosamente il “politicamente corretto”, audaci e decisi a tutto, come se non fosse stato mai fatto, come se non fosse stata, e non fosse la bandiera di Steve Bannon, di Donald Trump e della folla (anch’essa in missione) inviata ad assalire e vandalizzare il Campidoglio americano, il 6 gennaio scorso.

Possibile che, nella loro indignazione di attori che sembrano volersi occupare della vita civile, Pio e Amedeo non sappiano che nessuno, nel nostro Parlamento, ha ricevuto tanti messaggi di odio e minacce di morte (adesso, mentre parliamo) come la senatrice a vita Liliana Segre, sopravvissuta ai campi, che vive scortata? Poiché mostrano di interessarsi della realtà più che dei copioni, e vogliono essere protagonisti degli eventi (“Noi continueremo a farlo. Non vedo l’ora di tornare in televisione a ribadire il concetto”), non sarebbe meglio che i due si procurassero un amico, almeno uno, capace di spiegare loro che il “politicamente corretto” è nato quando forti aiuti governativi (i due Kennedy e poi Lyndon Johnson) hanno permesso alle minoranze povere di essere accettate nelle migliori università americane, e subito si è posto il problema di proteggerle, di rispettarle, naturalmente provocando una rivolta reazionaria?

E poi qualcuno dovrebbe farsi sentire da Pio e Amedeo mentre ricorda ad alta voce, che ci sono due pilastri, nella scienza e nelle religioni cristiane, che smentiscono la teoria Pio-Amedeo. Imparerebbero che le intenzioni, e non le parole, contano, da molto prima che i due esistessero. Nella scienza troverebbero la psicanalisi che è tutta dedicata allo studio, alla esplorazione e – se possibile – alla cura delle intenzioni, che altrimenti potrebbero provocare parole micidiali e poi accuse e poi persecuzioni.

Ma i due candidati artisti non si fermano qui. L’altro spintone sbadato lo danno all’insegnamento di tutte le versioni della cultura giudaico-cristiana.

Poiché Pio e Amedeo sono ossessionati dall’avarizia degli ebrei (forse non sanno che chi ha fatto le leggi “per la difesa della razza” aveva la stessa preoccupazione e a ogni ebreo finalmente acciuffato veniva rubato tutto) spostiamoci sulle religioni occidentali. In tutte le versioni del Cristianesimo, le intenzioni (o pensieri od omissioni) sono il senso fondamentale del giudizio di innocenza o colpa. Nella confessione cattolica le intenzioni assolvono o sono peccato senza rapporto con gli eventi materiali che seguono e di cui il credente risponde in un altro contesto.

Dunque, Pio e Amedeo ci dicono di non sapere che il loro accorrere affannati e impetuosi in soccorso della destra peggiore li porta contro due radici profonde di quella che dovrebbe essere, se ci fosse stata una buona scuola, la loro cultura, quella di tutti. Invece il loro editto è insulto a molti, una prova di insensibilità sostenuta da una certa volgarità e da una pretesa di essere cavalieri del nuovo, loro che vengono, o sono stati mandati, direttamente da gente del 1945, un’ora prima della Liberazione.

 

Messer bracci a Napoli tra feste, divertimenti belle donne e sorprese

Dalle novelle apocrife di Giordano Bruno: Arrivò a Napoli messer Cosimo Bracci, giovane, ricco, avventuroso, e avido della magnificenza del regno di re Alfonso. Affittò un appartamento in un quartiere patrizio, e trovò tutto quello che aveva sperato: feste, balli, divertimenti e belle donne. Un suo amico nobile, Lorenzo Pacca, gli disse: “E non hai ancora visto la più bella di tutte. È la moglie di Niccolò Vitiello, un maestro calzolaio. Due anni fa, si dice che il duca di Calabria si innamorò di lei al primo sguardo, e non potendola avere ne uscì pazzo. E ci furono altre storie simili. Eppure, nessuno può ammettere di averla mai vista. Sono stato spesso nella bottega di Vitiello, e lo incontro a messa, ma è sempre in compagnia di suo cugino, un ragazzo che studia legge all’università: non è mai con la moglie. Gira una leggenda: chissà se è vera.” Cosimo si fece condurre tosto alla bottega, dove chiese di provare un paio di scarpe. Mentre il calzolaio si inginocchiava per misurargli il piede, Cosimo alzò gli occhi e sbalordì: una giovane meravigliosa lo spiava dalla balaustra al primo piano. Che volto grazioso! Che occhi incantevoli! Un attimo dopo, non c’era più. Cosimo stava completando l’acquisto, quando scese in negozio un bel giovanotto. “Ah, cugino, ben alzato” lo salutò Niccolò; ma la faccia del ragazzo era quella della donna! La leggenda era vera. Cosimo e Lorenzo elaborarono un piano. Presero a visitare la bottega di Vitiello almeno una volta la settimana, con la scusa di voler provare le sue novità. Passarono mesi: i tre divennero amici; e quando Niccolò li invitava per una merenda con vino e formaggio, lo studente di legge dall’aspetto delicato era sempre presente, anche se parlava poco. A settembre, quando tutta la città celebra la festa di Santa Maria della Grotta, Cosimo e Lorenzo convinsero allo struscio Niccolò e il cugino. Dopo un’ora, Cosimo confessò di essere affamato e li invitò a pranzo a casa sua, dove il gestore recitò la sua parte: “Messere, i servi non sono ancora tornati dalla festa.” Cosimo finse di andare su tutte le furie. “Dov’è l’arrosto?” Il padrone di casa, come smarrito: “Non me l’hanno detto, messere. Ma ho un cappone grasso: lo faccio arrostire subito per voi.” Cosimo batté il piede: “E dov’è quella ottima mostarda che avevo ordinato al mercato? E le arance che avevo detto a quei mascalzoni di comprare? Nessuno mi dà retta?” Lorenzo si offerse di andare dal fruttivendolo, e Niccolò di andare a prendere la mostarda. La stanza fu sgombra in un attimo. Cosimo scoppiò a ridere, e lo studente, che aveva capito tutto, gli diede un bacio appassionato. Lorenzo, come previsto, tornò quasi subito. Attese Niccolò all’ingresso e gli disse: “Ho una notizia spaventosa per te, amico mio. Cosimo, di cui entrambi ci siamo fidati, è un pederasta! Si è chiuso in camera con tuo cugino!” Niccolò cacciò un urlo: “Nooo! Quella è mia moglie. È bellissima, e la travesto da giovanotto per sottrarla ai nobili libidinosi di questa città!” Si lanciò verso la camera da letto: “Lo uccido!” “Fermo!” disse Lorenzo, continuando la recita. “Il mio è solo un sospetto. Sento delle voci. Ascoltiamo.” Misero l’orecchio alla porta della camera. Cosimo diceva: “Ti chiedo scusa, ti avevo preso per una donna travestita da ragazzo.” Questo era inaspettato, e Lorenzo, interdetto, interrogò con lo sguardo Niccolò, che infine ammise: “Mio cugino è il bocconcino più dolce che abbia mai assaggiato. Se si sapesse che siamo amanti, finirei al rogo. La leggenda della moglie bellissima, travestita da giovanotto, è perfetta. Per questo l’ho messa in giro.” Poco dopo, tutti sedettero al desco in allegria. Il cappone arrosto era così buono, con la mostarda. E che festa, le arance!

 

La vera “favola” dell’unità nazionale

 

“Mozione M5S: via Durigon. Lega in trincea, gli altri zitti”

Il Fatto Quotidiano

 

Claudio Durigon è un leghista piuttosto robusto, molto votato nel basso Lazio, troppo secondo chi sostiene abbia beneficiato della benevolenza, diciamo così, di personaggi vicini ai clan di Latina. Non gli ha giovato neppure essere stato pizzicato da una telecamera nascosta di Fanpage mentre discorrendo con un conoscente in merito alle inchieste giudiziarie sui soldi del Carroccio assicurava: “Il generale della Guardia di Finanza che indaga lo abbiamo messo lì noi”. Ora, poiché il suddetto è stato nominato sottosegretario all’Economia nel governo Draghi, i 5Stelle vorrebbero cacciarlo attraverso una mozione parlamentare che al momento non sembra tuttavia raccogliere ulteriori consensi nella larga maggioranza parlamentare. Infatti, più delle amicizie chiacchierate e della vanterie del Durigon (di cui si occuperà chi di dovere) ci sembra interessante il tema dell’unità nazionale – strombazzata come un evento prodigioso insieme alla glorificazione di un premier che quasi camminava sulle acque –, ma che tre mesi dopo si manifesta piuttosto come disunità sulle principali questioni di governo. Dall’abolizione del coprifuoco (Lega contro Pd e M5S) alla proroga del Superbonus (M5S contro tutti). Senza contare che alla bisogna vengono creati nuovi motivi di contrasto, come il referendum sui magistrati promosso da Matteo Salvini assieme ai Radicali allo scopo di cancellare la legge Severino. Norme che in seguito al rinvio a giudizio sul caso Open Arms potrebbero pregiudicare sul nascere la corsa dell’ex ministro degli Interni verso Palazzo Chigi. La mozione Durigon, infine, ha tanto l’aria di rendere la pariglia ai leghisti dopo che pochi giorni fa avevano cercato di disarcionare, non riuscendovi, Roberto Speranza dal ministero della Salute. Insomma, a parte gli incensieri in servizio permanente effettivo, era apparso subito evidente che la favola dell’“unità nazionale” fosse appunto tale, buona per mascherare la manovra di palazzo che avrebbe mandato a casa Giuseppe Conte. Il quale, ieri, in una conversazione con il Corriere della Sera, confermando la stima per il suo successore (“una grande personalità italiana”) osserva che “è difficile gestire una maggioranza con un perimetro molto largo”. Infatti. Quanto alla caduta del suo governo, l’ex premier parla di una “convergenza di interessi economici e politici”. Tema che ci sarà tempo per approfondire.

 

Storari ai pm: “Io e Piercamillo abbiamo soltanto seguito la legge”

In meno di tre ore, il sostituto procuratore di Milano Paolo Storari ha spiegato il suo ruolo nella vicenda dei verbali segreti usciti dalla Procura milanese, rispondendo alle domande dei magistrati di Roma che lo stanno indagando per rivelazione del segreto d’ufficio.

Il procuratore Michele Prestipino, con i sostituti Rosalia Affinito e Fabrizio Tucci, lo ha interrogato fuori dal palazzo di giustizia di piazzale Clodio, negli uffici della Procura generale in piazza Adriana. L’imputazione è quella di aver consegnato copie di lavoro degli interrogatori in cui Piero Amara, ex avvocato esterno dell’Eni, raccontava l’esistenza di una fantomatica e segreta loggia Ungheria, un gruppo di pressione di cui farebbero parte magistrati, avvocati, politici, imprenditori, funzionari dello Stato.

Storari ha confermato che la consegna dei verbali al magistrato Piercamillo Davigo è avvenuta non a Roma – come il procuratore milanese Francesco Greco aveva scritto in una sua relazione, riportando quanto aveva capito dai racconti che Storari gli aveva fatto – ma a Milano, nella casa di Davigo. Questo potrebbe determinare il passaggio dell’inchiesta a Brescia, perché è la Procura di quella città competente a indagare sui magistrati milanesi (nei prossimi giorni è prevista una riunione di coordinamento tra le Procure di Roma e Brescia).

Secondo quanto poi dichiarato dal difensore di Storari, Paolo Della Sala, il suo assistito non avrebbe commesso alcun reato perché non ha fatto altro che “comunicare informazioni – e i verbali non sono che il supporto di informazioni – a una persona autorizzata a riceverle”. Davigo era infatti (prima di andare in pensione) componente del Consiglio superiore della magistratura e a lui Storari ha passato gli interrogatori, “per tatto istituzionale”: perché preoccupato dell’inerzia dei suoi colleghi che non sviluppavano indagini sulle dichiarazioni di Amara, né procedevano a iscrizioni nel registro degli indagati: Amara è stato iscritto soltanto il 12 maggio 2020 e poi la sua posizione è stata trasmessa dalla Procura di Milano a quella di Perugia, che lo sta indagando, insieme ad altri, per violazione della legge Anselmi, che proibisce la costituzione di associazioni segrete.

Il difensore ha spiegato che “a sua volta, questa persona” — il riferimento è a Davigo — “ha veicolato le informazioni ricevute a un organo istituzionalmente competente”. Cioè al Csm, informando membri del comitato di presidenza.

Davigo, “tecnicamente era persona autorizzata a ricevere quegli atti, tale si era qualificato, e in tal senso aveva autorizzato il dottor Storari”. Dunque, “tenuto conto della delicatezza delle dichiarazioni che si ritiene siano oggetto di questa indagine”, ha concluso l’avvocato, “riteniamo perfettamente legittimo e conforme a legge quanto accaduto”.

Della Sala ha aggiunto che Storari “si sente sereno, è un magistrato, come ce ne sono moltissimi, la cui luce in ufficio resta accesa fino a tardi la sera e tutti lo sanno; molto amato all’interno del foro e considerato anche dai colleghi, perché ha sempre saputo lavorare, anche con assoluta apertura, in condivisione con gli altri. È quindi tutto meno che un soggetto portato all’individualismo”.

Davigo: “Ho dato i verbali al vicepresidente Ermini”

Mai urlato, sempre garbato e con poche parole. Eppure tra affermazioni, smentite e silenzi, quello che si sta consumando in questi giorni sulla vicenda dei verbali resi dall’avvocato Piero Amara davanti ai pm di Milano e consegnati all’ex consigliere del Consiglio superiore della magistratura Piercamillo Davigo è uno scontro tutto interno alle istituzioni. Una domanda su tutte dunque: quei verbali arrivarono al Colle? Davigo sul punto tira dritto: ieri al Fatto ha confermato che la copia, senza firma dei pm, di quei verbali (che lui aveva avuto in qualità di consigliere del Csm dal pm di Milano Paolo Storari) li ha consegnati al vicepresidente del Csm David Ermini. Che interpellato ieri dal Fatto non smentisce: “Quello che dovevo dire l’ho già detto”.

E dunque ancora molte domande restano senza risposta: se è vera la versione di Davigo, Ermini li tenne per sé? Lì consegnò materialmente al Colle?

Per capire bene ciò che è avvenuto nel corso di queste settimane bisogna ritornare alla scorsa primavera. È aprile 2020, pieno lockdown, quando avviene l’incontro a Milano tra Davigo e Paolo Storari, magistrato del capoluogo lombardo che consegna all’ex pm di Mani Pulite una copia di lavoro di alcuni verbali di Piero Amara, in cui l’avvocato siciliano racconta di una fantomatica loggia massonica denominata Ungheria. Di questa farebbero parte, a sua detta, anche magistrati, politici ed esponenti delle forze dell’ordine. Amara mette a verbale che farebbe parte di questa fantomatica loggia anche il consigliere del Csm in carica Sebastiano Ardita (circostanza diffamatoria come ha dichiarato al Csm il consigliere Antonino Di Matteo). Storari consegna quei verbali a Davigo perchè convinto che la procura di Milano, guidata da Francesco Greco, non spingesse abbastanza l’acceleratore sulle indagini innescate dalle parole di Amara.

La prima settimana di maggio, finito il lockdown, Davigo torna a Roma e ne parla con Ermini. “Ho consegnato i verbali a Ermini”, ha spiegato ieri. Su questo il vicepresidente del Csm al Fatto risponde: “Quello che dovevo dire l’ho già detto”. Secondo il racconto dell’ex pm di Mani pulite, Ermini a quel punto informò il Quirinale e poi incontrò nuovamente l’ex consigliere, porgendogli i ringraziamenti del Colle e il messaggio che a quel punto non era necessario intraprendere ulteriori iniziative. Una ricostruzione della quale Il Fatto ha scritto il 4 maggio, chiedendone conto il giorno prima ad Ermini, che ha confermato solo la prima parte della versione di Davigo – “confermo solo che me ne parlò” – mentre non aveva smentito nè confermato il resto del racconto. Ossia le interlocuzioni con il Quirinale.

Il 5 maggio in un lancio dell’agenzia Ansa si legge: “Quanto al merito della questione che sta agitando la magistratura il Colle, interpellato in proposito, ribadisce quanto sia essenziale, per tutti, il rispetto assoluto delle regole. Della vicenda si stanno infatti occupando ben 4 procure. Ogni ulteriore intervento si configurerebbe come una indebita interferenza nelle indagini in corso”.

Passano altri tre giorni e ieri arriva una smentita di Ermini. Il vicepresidente del Csm scrive al Fatto: “Nell’articolo ‘Davigo diede anche un rapporto scritto al vicepresidente Ermini’ (…) si sostiene che io avrei ricevuto una informativa dal dottor Davigo. È falso. Smentisco in modo fermo e assoluto che il dottor Davigo mi abbia consegnato report, informative o note scritte; non è vero inoltre che mi feci portatore di alcun ringraziamento o di indicazioni da parte del Presidente della Repubblica”. Quindi smentisce di aver ricevuto una nota informativa ma non nega di aver ricevuto i verbali da Davigo.

Dopo Ermini, nella versione di Davigo l’ex consigliere parlò della questione anche con alcuni consiglieri del Csm come Giuseppe Marra, Fulvio Gigliotti e Giuseppe Cascini, per motivare la distanza presa dal consigliere Ardita e sempre vincolando i suoi colleghi al segreto.

Salvini torna al Papeete con 16 punti in meno: la Meloni verso il sorpasso

Matteo Salvini ha già fatto sapere che quest’estate tornerà al Papeete Beach di Milano Marittima, spiaggia da cui nell’agosto del 2019 l’allora ministro dell’Interno decise di far cadere il governo gialloverde. Il leader della Lega non deve essere un tipo scaramantico visto che da quel momento in poi il suo partito ha avuto un crollo nei sondaggi che non si è ancora fermato. L’ultima rilevazione dell’istituto Demopolis di Pietro Vento dà il Carroccio al minimo da tre anni a questa parte scendendo sotto la soglia psicologica del 22% (oggi la Lega è al 21,5%) e perdendo 13 punti rispetto alle elezioni europee del 2019 (34,3%) e 16 punti rispetto al 37% dell’agosto successivo, quello del Papeete.

Secondo i dati di YouTrend, la caduta è stata ancora più accentuata: il picco della Lega è stato toccato l’11 luglio 2019 con il 37,7% fino al 21,8% di oggi. Un crollo del 16%. Nello stesso periodo, buona parte di quei consensi persi sono andati a Fratelli d’Italia che ha guadagnato 12 punti rispetto alle europee 2019: dal 6,4% al 18,4% di oggi, il punto più alto di sempre del partito di Giorgia Meloni. Secondo l’ultima supermedia di YouTrend il distacco tra Lega e FdI è al minimo storico: tra il partito di Salvini e Meloni ci sono solo 3,4 punti. Quasi come il margine di errore di ogni sondaggio.

Così il sorpasso da parte di FdI, che comporterebbe una nuova leadership nel centrodestra, potrebbe verificarsi già nelle prossime settimane. Bisogna precisare che fare previsioni sul futuro è sempre complicato perché la tendenza dell’ultimo anno potrebbe, per fattori diversi, arrestarsi improvvisamente. Ma se invece il trend dovesse continuare, FdI potrebbe diventare presto il primo partito del centrodestra: “Anche se non è detto che questo avvenga, se la tendenza fosse costante l’aggancio potrebbe esserci tra tre mesi – spiega Lorenzo Pregliasco, fondatore di YouTrend – anche perché negli ultimi 90 giorni il distacco tra i due partiti si è quasi dimezzato”. Un fatto che, continua Pregliasco, “sarebbe simbolicamente importante” ma bisognerebbe comunque “aspettare le elezioni politiche per incoronare Meloni come la nuova leader del centrodestra”. Roberto Weber, presidente dell’istituto Ixé, aggiunge che la Lega potrebbe diventare presto secondo partito ma non a favore di Fratelli d’Italia: “Il primo sorpasso potrebbe esserci da parte del Pd”.

Ma, in caso di aggancio di Meloni, potrebbe risentirne anche il governo Draghi: “Salvini guarda molto i sondaggi – continua Weber – e se la leader di FdI lo superasse, potrebbe fare anche mosse avventate e il governo sarebbe a rischio: conterà molto l’effetto mediatico”. Eppure Weber conclude che il Carroccio ha un vantaggio rispetto a FdI: “Nel nord la Lega continua ad avere personale politico con sindaci e governatori mentre FdI è ancora troppo fragile sotto quello aspetto. I meloniani sono ancora i figli e i nipoti della vecchia AN”. Antonio Noto di Ipr Marketing invece spiega che se il sorpasso è “ancora difficile da prevedere” nel centrodestra si porrà comunque un tema di leadership: “In caso di aggancio, Salvini potrebbe tornare a chiedere una legge proporzionale per decidere il premier non prima ma dopo il voto”. Pietro Vento, direttore di Demopolis, nota come il distacco tra Lega e FdI sia passato da 28 punti del maggio 2019 a poco più di 3: “Buona parte dell’elettorato del Carroccio oggi dice di voler votare FdI”. Nel sondaggio di Demopolis i primi quattro partiti – anche Pd e M5S – sono dentro una forbice di soli 5 punti: “È la prima volta che accade da decenni e così i rapporti di forza tra i partiti possono cambiare in poche settimane” continua Vento. Secondo la rilevazione, infine, per gli italiani la Lega è il partito che sta incidendo di più nel governo Draghi (34%): “A fronte di un calo del Carroccio – conclude – il potere comunicativo di Salvini è ancora molto forte”.

 

Durigon, dopo il M5S si sveglia il Pd e medita il sì alla “sfiducia”

Non si può chiedere a un sottosegretario di dimettersi, al massimo si può esercitare una pressione per portarcelo. Ma nel caso di Claudio Durigon, al Mef in quota Lega, anzi Matteo Salvini, non sta accadendo. Mario Draghi sulla questione del leghista intercettato mentre confidava a un amico che il Generale della Guardia di Finanza che indaga sul Carroccio “ce lo abbiamo messo noi”, tace. I ragionamenti che si fanno nei corridoi di Palazzo Chigi tendono a derubricare il caso a questione minore. Il punto, però, è politico: il premier non si può permettere di andare all’attacco di un uomo di Salvini, uno che fino a prima del polverone era destinato alla candidatura alla Regione Lazio. Un portatore di voti, espressione di una parte di Lega vicina al mondo sindacale.

Il caso, però, potrebbe montare. I 5Stelle, Elisa Tripodi e Cosimo Adelizzi, hanno presentato alla Camera una mozione. Non propriamente una sfiducia, visto che non esiste per un sottosegretario, ma la richiesta al premier di togliergli le deleghe. E ieri Enrico Letta, il segretario del Pd, ha deciso di rompere gli indugi e di mettere anche il suo peso sull’operazione politica: “Si tratta di un comportamento grave. Valuteremo senza indulgenze”, dice al Fatto. Un commento che fa presagire un ulteriore problema dietro l’angolo per Draghi. Alla Camera, la mozione non è stata calendarizzata: sarà la capigruppo a decidere sia la data, sia le modalità. La Lega mette sul piatto il fatto di aver salvato Roberto Speranza, ma in questa dinamica non va sottovalutata la fatica che fanno i giallorosa per trovare una loro identità politica nella maggioranza Draghi. Peraltro, ai dem è arrivata una sollecitazione dai Giovani democratici di Latina, che chiedevano al Pd provinciale e agli organismi dirigenti di esprimersi per le dimissioni di Durigon.

Letta ha scelto le battaglie frontali con la Lega anche per differenziarsi nel panorama politico. Ma il Salvini spregiudicato “di piazza e di governo” è inevitabilmente più incisivo. Il segretario del Pd ha anche portato al premier le sue difficoltà rispetto a questa modalità. Draghi poco si è esposto e poco ha fatto. Non esiste un filo diretto tra Palazzo Chigi e il Nazareno, come si poteva pensare all’inizio: Letta e Draghi si sentono spesso, ma il premier tende a fare davvero squadra solo con i suoi ministri tecnici e con Giancarlo Giorgetti. I partiti sono tramortiti, Pd compreso. Ma il caso del sottosegretario potrebbe esplodere, come occasione politica per provare a cambiare qualche equilibrio. Sullo sfondo, si staglia la madre di tutte le battaglie: quella per la riforma della Giustizia, centrale nel Pnnr italiano, che può risvegliare l’anima identitaria dei vari componenti della maggioranza. Perché mentre Draghi si propone come il plasmatore dell’Europa del futuro, è in Italia che il progetto risveglia minori entusiasmi.

 

Superlega: i big alla guerra e l’Uefa coccola i pentiti

Scritto che non è una zuffa fra diavoli e santi, l’idea bislacca e un po’ vigliacca della Superlega continua a intossicare il calcio. Le sono visceralmente contro perché privilegia lo “ius bacheche”, il diritto di casta, allo “ius campi”, il merito dei risultati. Occhio, però: l’Eurolega del basket, altro non è che un torneo elitario e semi-chiuso, a inviti, con l’Olimpia Armani fra i clienti più stabili. Lo Scudetto non garantisce la presenza: alla gloriosa Reyer Venezia non ne sono bastati due. Non si rammentano, ieri come oggi, fondi indignati sui giornali.

Dalla Coppa Italia, a proposito di “calcio del popolo” e di ipocrisie assortite, sono state appena cacciate le squadre di Serie C. Ma la Superlega è la punta di un iceberg troppo pericoloso: e allora, abbasso l’iceberg. Delle 12 società ribelli, 9 sono tornate all’ovile, Inter e Milan fra queste. Non mollano Real Madrid, Barcellona, Juventus. Florentino Pérez, Joan Laporta, Andrea Agnelli. Hanno inviato una lettera di fuoco a coloro che sono scesi dal carro, sbandierando vie legali e fior di penali. L’Uefa, in compenso, minaccia di cassarli dalle sue competizioni per un paio di stagioni. E ha offerto ai pentiti il compromesso storico (più o meno) di modiche multe.

Se Aleksander Ceferin (nella foto), caudillo sloveno dell’Uefa, gioca a fare il duro, Gianni Infantino, presidente Fifa, ha prima censurato gli ammutinati e poi ricordato, casualmente?, che “una soluzione bipartisan è sempre meglio di un conflitto”. Sono i debiti ad aver accelerato il processo disgregativo. I debiti delle Grandi, soprattutto. Bayern e sceicchi a parte. Dalle colonne della Gazzetta l’avvocato Mattia Grassani non esclude un epilogo extra-sportivo. Ceferin considera traditore chi, a sua volta, si sente tradito. Insomma: se vuoi la pace, prepara la guerra. Beati gli inglesi. Hanno sequestrato le finali di Champions (Chelsea-Manchester City) ed Europa League (Manchester United): tre su quattro. Dopo il quattro su quattro del 2019. Superpremier. Altro che Superlega.

Formigoni corrotto, guerra per i danni

Sta per scoppiare una guerra alla Fondazione Maugeri, il grande gruppo della sanità privata già travolto dallo scandalo di Roberto Formigoni. È scontro, durissimo, tra il fondo Trilantic, che possiede il 34 per cento del gruppo, e la famiglia Maugeri, che ne ha mantenuto di fatto il controllo anche dopo la crisi seguita agli arresti per corruzione del 2012. Dopo le condanne penali dell’ex presidente della Regione Lombardia e degli ex vertici della Maugeri, il 21 aprile 2021 è arrivata anche la conferma in appello della condanna della Corte dei conti a risarcire 47,5 milioni (oltre ai 14 già pagati) per restituire le “dazioni illecite, pari a euro 61.485.583”, di cui “37.312.209 quantificati come prezzo della corruzione” di Formigoni, destinati a finanziare il Celeste e i suoi intermediari. A pagare dovranno essere, in solido, oltre a Formigoni, i già condannati Fondazione Maugeri, il suo ex presidente Umberto Maugeri, l’ex direttore Costantino Passerino e il mediatore Pierangelo Daccò.

Un colpo durissimo per la Maugeri, che potrebbe essere l’unica a pagare veramente, avendo beni visibili, a differenza degli altri condannati. Ma che potrebbe coinvolgere anche Trilantic Europe, il fondo guidato da Vittorio Pignatti-Morano che nel 2016 ha “salvato” la Maugeri immettendovi 55 milioni di euro poi cresciuti fino a 66 milioni. Il salvataggio ha costituito una nuova società, la Ics Maugeri spa, a cui sono state conferite tutte le attività del gruppo, il più grande in Italia specializzato nella riabilitazione, con 300 milioni di fatturato, 19 strutture in Italia, 2.250 posti letto, 3.500 dipendenti. Secondo l’accordo del 2016, alla Fondazione Maugeri, presieduta da Gualtiero Brugger, sono restati il contenzioso con la Corte dei conti (i famosi 47,5 milioni da pagare, che con le rivalutazioni arriveranno a 50) e un altro contenzioso con la Regione Lombardia, che chiede la restituzione di 15 milioni, per adeguamento delle tariffe sanitarie regionali.

Nel contratto con cui il fondo Trilantic è entrato in Maugeri era già disegnata la exit strategy: risanamento della società e uscita del fondo prevista dal 1 gennaio 2021, con due possibilità. La prima prevede la scissione del fondo immobiliare Iaso, che detiene i dodici ospedali del gruppo, incassa circa 12 milioni l’anno di affitti da Ics Maugeri spa e dovrebbe restare a Trilantic, mentre Ics Maugeri dovrebbe tornare alla Fondazione. La seconda strada, alternativa alla prima, prevede invece che sia Trilantic a pagare i 50 milioni imposti dalla Corte dei conti, ma assumendo il controllo di maggioranza di Ics Maugeri. Trilantic ora sostiene che Brugger, spalleggiato dalla famiglia, non voglia rispettare il contratto, bloccando l’uscita del fondo. Non solo: avrebbe premiato con oltre 400 mila euro – malgrado il momento – tre membri del consiglio d’amministrazione della Fondazione: il presidente Brugger, il vicepresidente Luca Damiani e l’avvocato Pier Giuseppe Biandrino, ritenuto vicino alla famiglia Maugeri. La Fondazione rimanda al mittente tutte le accuse. Ma Trilantic (fondo con base a Londra e investimenti in Regno Unito, Germania, Spagna e Italia, dove controlla anche la Doppel farmaceutica, azienda che lavora per Pfizer e Bayer) promette di portare Maugeri davanti al Tribunale civile di Pavia per violazioni contrattuali.