Gesù parla ai discepoli. E parla dell’amore, la parola più bella, ma anche più usata e più logora di questo mondo. Di cosa parliamo quando parliamo di amore? Amarsi un po’ è come…, scriveva Mogol per Battisti. Roland Barthes scrisse Frammenti di un discorso amoroso, un lessico costruito come una indagine dei movimenti amorosi che costituiscono un linguaggio fatto di azioni e gesti. Credo sia questo l’unico modo per parlare dell’amore, qualunque esso sia: descriverlo, farlo vedere. Qual è la risposta di Gesù? In Gv. 15,9-17 descrive un movimento amoroso. Parla della misura dell’amore, e lo fa definendo un gesto: Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la sua vita per i propri amici. Il gesto è dare la vita. Il gesto sarà per lui la morte in croce. Non rose e fiori, ma chiodi e spine. Sentimento e dramma qui si scontrano. La nostra immaginazione è potentemente sollecitata.
No, quindi, Gesù non definisce l’amore del quale vuole parlare in astratto. Davvero non è questo il contesto, non è il caso: Gesù sta per andare alla sua passione. Ma neanche lo affronta per frammenti. E qui non è il sentimento, l’essere trasognati, l’estasi tipica di chi ama ed è amato. Gesù invece ne definisce la misura in un unico gesto solenne: dare la vita. Amore e morte: dare se stessi fino in fondo e senza riserve. Inutile girarci attorno: questo è l’amore cristiano. Ed è un amore concreto che non esclude affatto il sentimento, anzi! Ma con esso non coincide: eccede. Noi diciamo a chi amiamo: “Ti amo tanto”. Ma si può immaginare che si dica a una persona: “Ti amo poco” o peggio “ti amo abbastanza, a sufficienza, quanto basta”? O si ama o non si ama. L’amore del quale Gesù parla non lascia spazio ad alternative: ama chi dà la vita per la persona che ama.
E che cosa chiede Gesù ai suoi discepoli? Che cosa devono fare con questo suo amore? Rimanete nel mio amore. Chiede di rimanere in questo amore, di rimanerci dentro, come fosse uno spazio, un luogo da abitare. Gesù chiede ai discepoli di abbandonarsi a questo amore che li benedice e li salva, un amore che sta per dare la sua vita, che raggiungerà quella misura. Il poeta statunitense Raymond Carver, consapevole che avrebbe lasciato questa terra di lì a poco a soli 50 anni, scrisse nella sua ultima poesia: E hai ottenuto quello che/ volevi da questa vita, nonostante tutto?/ Sì./ E cos’è che volevi?/ Potermi dire amato, sentirmi/ amato sulla terra. Questo è il rimanere. Davanti alla morte il giudizio sulla propria vita è l’amore, il rimanere fino alla fine dentro di esso, abitarlo. E Gesù fa capire ai discepoli che egli stesso abita dentro questo amore che offre a loro. Vive dentro un amore che poi è il mistero della Trinità: come il Padre ha amato me, anche io ho amato voi… io rimango nel suo amore.
Questo “rimanere” non è affatto un semplice bearsi. Perché chi si sente amato rinasce, rinvigorisce, si apre alla vita e al dono di sé: vi ho costituiti perché andiate e portiate frutto. Il destino di chi è amato è fiorire, fruttificare. L’amore dà senso alla vita umana. Gesù insiste sul fatto che l’amore del quale parla non è frutto di una conquista: Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi, dice. I discepoli devono capire che l’amore di Gesù è una grazia che si riceve, gratuito, gratis: è grazia. Per questo Giovanni nella sua prima lettera è netto: chiunque ama è stato generato da Dio e conosce Dio. Gesù chiede di rimanere in questo stato di grazia: sentirsi amati sulla terra, direbbe Carver, sapendo che quest’amore eccede ogni nostro desiderio di conquista e possesso (che poi è l’ansia che tutti abbiamo).