“Il delegato di lady Fontana al vertice per l’ok ai camici”

L’inchiesta dei magistrati di Milano sul caso camici, dopo gli ultimi interrogatori, è arrivata a uno snodo cruciale. Nel fascicolo, è noto, risulta indagato anche il presidente della Regione Lombardia, Attilio Fontana, accusato di frode in pubbliche forniture, come pure il cognato Andrea Dini, titolare della Dama spa. Nella giornata di venerdì diversi protagonisti della vicenda sono stati chiamati in gran segreto negli uffici della Guardia di finanza in via Fabio Filzi per essere interrogati come testimoni. Tra loro il vice segretario generale della Regione, Pier Attilio Superti, sentito anche su una riunione riservata che si è tenuta la mattina del 19 maggio 2020 ai piani alti del nuovo Pirellone negli uffici di presidenza. Si tratta, secondo la ricostruzione della Procura, dell’atto decisivo – e fino a oggi inedito – che metterà il sigillo finale sulla decisione di trasformare in donazione la fornitura di 75mila camici affidata da Aria (la centrale acquisti della Regione) a Dama il 14 aprile 2020. Un atto cui farà seguito, il giorno successivo (il 20 maggio), un’email di Andrea Dini all’allora dg di Aria, Filippo Bongiovanni, anche lui indagato, nella quale viene formalizzata da un lato la donazione dei 49mila camici fino a lì consegnati e dall’altro lo stop nella fornitura dello stock rimanente. Fatto che farà scattare l’accusa di frode.

Dagli atti d’indagine emerge che a quella riunione era stata invitata Roberta Dini, moglie di Fontana e sorella di Andrea Dini. L’obiettivo, sarà poi confermato dai testimoni, era quello di discutere della situazione con lady Fontana. In realtà – è l’ipotesi dell’accusa – quella riunione serviva per dare l’ok definitivo alla donazione. Alla fine Roberta Dini non si presenterà e al suo posto manderà Paolo Zanetta, direttore di produzione di Dama che è stato a lungo interrogato venerdì anche lui come testimone e che per la Procura “ha ricoperto un ruolo attivo nell’intera vicenda (…) in relazione” anche “alla trasformazione della fornitura in donazione”. Zanetta confermerà la sua presenza in Regione il 19 maggio. Con lui, è stato accertato dall’inchiesta, oltre a Superti, sono presenti diversi alti dirigenti della Regione molto vicini al governatore Fontana. Ci sono tutti, tranne il presidente il cui cellulare quel giorno, è ricostruito dai pm, aggancia una cella differente da quella che insiste sulla Regione anche se poco lontana. Altro assente importante è proprio Aria. Né Bongiovanni né altri dirigenti della centrale acquisti partecipano alla riunione. Un dato importante per la Procura e che, secondo l’ipotesi dell’accusa, ancora una volta dimostra come la vicenda dei camici abbia visto “il diffuso coinvolgimento di Fontana”, con i vertici di Aria che eseguono le direttive. Come avviene, tra il 18 e il 19 maggio, quando ancora Superti sollecita Bongiovanni a inviare l’iban di Dama perché Fontana intende bonificare al cognato 250mila euro per risarcirlo. Bongiovanni invia l’iban oltre al calcolo dei camici già consegnati e cioè 49mila meno i 6mila arrivati ad Aria due giorni prima e che Dini e la sorella, secondo gli atti, volevano riprendersi. Tanto che Andrea Dini scrive alla sorella: “Stamattina consegnati 6.000 camici. Almeno quelli possono essere resi”. Lady Fontana è perentoria nel rispondere: “Lunedì si recupera tutto quello che si può”. Il caso dei 6.000 camici, secondo la ricostruzione dei pm, arriverà alle orecchie di Fontana. La circostanza emerge dalle chat sul cellulare di Roberta Dini.

Torniamo al 19 maggio. Se quella mattina, con la Lombardia che esce faticosamente dal primo lockdown, viene presa la decisione finale, altri tavoli ristretti vanno in scena a partire dall’11 maggio, quando al 35° piano della Regione Bongiovanni incontra l’assessore al Bilancio Davide Caparini e il capo segreteria di Fontana Giulia Martinelli. Qui il conflitto d’interessi diventa chiaro anche ai dirigenti più vicini al presidente. Il giorno dopo il governatore vedrà Bongiovanni per ricostruire la vicenda. Il 16 maggio, tre giorni prima del vertice decisivo, Andrea Dini scrive al fido Zanetta: “Tutti sono nella lista fornitori, gli unici coglioni siamo noi”. Zanetta risponde: “Ma lo mandi a cagare e fatturiamo lo stesso”. Il cognato di Fontana conclude: “Non posso”. Il 21 maggio poi, con la donazione definitiva, Fontana incontra nel suo ufficio Bongiovanni e il segretario generale della Regione Antonello Turturiello.

“Luana è un simbolo, ma il lutto è per tutti”

Nei ritratti di Jorit l’umanità è politica. L’artista ha dipinto su una parete dell’“ex Snia” di Roma il sorriso di Luana D’Orazio, la giovane operaia morta sul lavoro lunedì. “Ero in città per un’altra opera”, spiega Jorit, “ma le circostanze di questa tragedia mi hanno colpito molto e per tante ragioni. Ho parlato con i ragazzi dell’ex Snia e abbiamo deciso di omaggiarla così”.

Una ragazza di 22 anni con un bambino piccolo, nelle foto ha lo stesso sorriso radioso che le ha restituito il suo ritratto.

La sua morte è entrata subito nell’immaginario collettivo per motivi evidenti: l’età giovanissima e il fatto che fosse una mamma. Ma di lavoro e di morti sul lavoro si dovrebbe parlare ogni giorno, a prescindere da questi fattori emotivi. È una tragedia quotidiana.

Sotto gli occhi di Luana ci sono le due strisce rosse che sono l’elemento ricorrente di tutte le sue opere, la sua firma. Qual è il significato?

Nei miei viaggi in Africa e in Sud America ho conosciuto il rituale tribale della scarnificazione. Quei due “graffi” sotto agli occhi per me significano l’appartenenza a una “tribù umana”, la stessa di cui facciamo parte tutti.

Nella sua “tribù” ci sono personaggi molto distanti tra loro: santi e Madonne, Gramsci, Ilaria Cucchi, Sarri, Maradona. Cosa hanno in comune?

Il filo rosso è il significato sociale. Sono persone che in modo diverso hanno incarnato i princìpi in cui credo. Può sembrare che Maradona e Luana non abbiano nessun legame, ma Diego tra luci e ombre ha lottato per tutta la vita dalla parte degli sfruttati e degli ultimi. E Luana è un simbolo tragico di questo sistema che ammazza le persone.

Il suo percorso artistico inizia in strada, ma prosegue anche nei dipinti su tela. Sono due mondi che si possono tenere insieme?

La tela è quella che mi permette di campare… C’è una rete di collezionisti che mi seguono e mi apprezzano, a cui devo essere molto grato, perché dal punto di vista economico è quello il mio lavoro vero e proprio. Ma il resto della mia vita è sul territorio e sui muri. A volte mi pagano anche per quelli, ma non li faccio di certo per guadagnare.

La street art era considerata una nicchia, un movimento di contestazione. Ora è sempre più popolare e vive nel dialogo più che nel conflitto con le istituzioni. Rischia di perdere la sua anima?

Credo di no. Basta rimanere veri. L’importante è essere liberi di comunicare qualcosa in cui si crede. A quel punto ben vengano le commistioni e il rapporto trasparente con le istituzioni. Non è una questione di purezza. Se si porta vanti un discorso coerente non vedo problemi, se si fanno marchette o pubblicità è un altro discorso. Per lavoro ho dovuto fare anche quelle, ma non è street art, che nasce dal basso e dall’emarginazione urbana.

Mentre lavorava all’ex Snia è stato aggredito per un furto. L’ha raccontato in un messaggio pubblico che non tutti hanno apprezzato nella comunità dei centri sociali.

Io ringrazio molto i ragazzi dell’ex Snia. Mi sono sentito di denunciare quello che è successo proprio perché credo nelle esperienze di autogestione come la loro. Sono un patrimonio sociale, dobbiamo mantenerle sicure e accoglienti per tutti.

È ancora strage sul lavoro: irregolarità fino al 90%

Ieri mattina un operaio edile di 52 anni è morto in provincia di Varese. È scivolato dal ponteggio ed è caduto nel vuoto atterrando dopo un volo di quattro metri. È l’undicesimo decesso sul lavoro negli ultimi 7 giorni. Ma questa iniziata con l’incidente che a Firenze ha ucciso Luana D’Orazio, la 22enne rimasta incastrata in un macchinario dell’azienda tessile in cui operava, non è una settimana particolarmente “sfortunata”. Se si guardano, infatti, le fredde statistiche, quello che è successo in questi giorni è in linea con i numeri che in questi anni ha continuato a registrare l’Italia. L’emergenza sicurezza sarà anche sparita dai radar della politica, ma non dai luoghi di lavoro. Nel 2020, le denunce arrivate all’Inail (che quindi riguardano solo gli assicurati dell’istituto pubblico) sono state 1.270: con la complicità del Covid, abbiamo avuto in media oltre tre decessi al giorno. Se anche prendiamo l’ultimo anno prima della pandemia, il 2019, ne contiamo comunque ben 1.089.

Insomma, la strage quotidiana è in atto a prescindere dal virus. Nei primi tre mesi del 2021 all’Inail sono stati segnalati 185 casi, mentre l’Osservatorio indipendente di Bologna – che raccoglie notizie di stampa e aggiorna le tabelle in tempo reale – fa sapere che ieri eravamo già a 450. L’onda emotiva scatenata nelle ultime ore, soprattutto per la vicenda che ha riguardato la giovanissima lavoratrice fiorentina, ha evidentemente smosso la presidente del Senato Maria Elisabetta Casellati. Sin dal 31 ottobre 2019 Palazzo Madama aveva deliberato di istituire una commissione d’inchiesta sulle condizioni di lavoro, lo sfruttamento e la sicurezza. Ma la prima convocazione stentava ad arrivare, nonostante la presidente avesse ricevuto da mesi i nomi dei componenti da parte dei partiti. Un grave ritardo tra l’altro denunciato dal senatore Iunio Valerio Romano (M5S) giovedì parlando con il Fatto . Venerdì pomeriggio è finalmente arrivata la chiamata: prima riunione fissata per mercoledì 12 maggio alle 9: la prima seduta servirà solo a scegliere il presidente, i vice e i segretari. Poi – si spera – entrerà nel vivo della sua operatività.

L’episodio di ieri mattina ricorda un’evidenza nota a chi si occupa di sicurezza: le cadute dall’alto rappresentano la principale tipologia di infortuni gravi e mortali. Non a caso, il settore che più spesso è coinvolto in storie come queste è l’edilizia. Eppure, le violazioni più frequentemente riscontrate dai controlli dell’Ispettorato del lavoro riguardano per il 50% proprio regole connesse a prevenire il rischio di caduta dall’alto, dice il rapporto 2020 appena pubblicato dall’ente.

Le ispezioni sui luoghi di lavoro restano un nervo scoperto per l’Italia. Se ne fanno troppo poche e per gli imprenditori meno onesti si assottigliano sempre di più le possibilità di essere beccati. Nel 2020 le verifiche e gli accessi si sono fermati ad appena 103 mila, il 35% in meno rispetto al 2019 e infinitamente pochi che confrontati con i 262 mila del 2010. Circa 10 mila quelle relative alla sicurezza, alle quali però si aggiungono quelli svolti dalle aziende sanitarie locali (Asl). Le 1.500 assunzioni previste sono state bloccate proprio dalla difficoltà di organizzare concorsi in tempi di Covid; ora si attendono i 2 mila ingressi previsti dal Pnrr. Il potenziamento dell’Ispettorato arriva con un pessimo tempismo: nel 2015, il governo Renzi ha investito l’ente del ruolo di agenzia centrale dei controlli, senza però rimpinguare un organico falcidiato dai pensionamenti non sostituiti. Eppure le ispezioni sono un ottimo affare per lo Stato, in quanto permettono di recuperare l’evasione (quest’anno quasi 900 milioni). I tassi di irregolarità sono stati del 66% per la vigilanza lavoro, dell’81% per quella previdenziale e dell’87% per quella assicurativa. Queste percentuali non possono essere considerate statistiche, perché i controlli degli ispettori non avvengono a campione ma sono mirati e arrivano dopo attività di intelligence. Restano però indicativi di quante irregolarità vengano oggi commesse da parte dei datori, che spesso costano la vita dei lavoratori.

Rosato il serioso ci ammonisce: “Non si scherza su Figliuolo”

Uno dei pezzi grossi del partito di Renzi ci accusa sui social (e dove, sennò? Lì solo esistono, con circa il 37% dei voti) di non saper fare il nostro mestiere, e mette il link a un corsivetto satirico di qualche giorno fa in cui riportavamo le parole del Gen. Figliuolo e del capo della Protezione civile Curcio (“Tutto quello che abbiamo lo dobbiamo somministrare”) come esempi di una comunicazione un po’ sbruffona e marziale e di una strategia vaccinale più tarata sulla performance che sulla protezione di tutti i cittadini.

Intanto, dice l’autorevole Rosato, sono “contenuti che deridono”, ed è espressamente vietato deridere l’impettito Generale o qualsiasi componente del Governo dei Migliori, di cui Iv inopinatamente fa parte (mica sono Arcuri e Conte, che loro hanno preso a mazzate per mesi); poi, titolare “Il Generale ci inietta di tutto. Anche l’antigelo?” “può trarre in inganno”, per esempio qualcuno potrebbe presentarsi in un hub vaccinale e chiedere che gli venga iniettato davvero l’antigelo, oppure “spaventare” (come no, il 112 è in tilt), insomma “è pericoloso”; eppure anche un semianalfabeta capirebbe che si tratta di un’iperbole, di una esagerazione al fine di ottenere un effetto (comico, in questo caso); un semianalfabeta, appunto, ma non un deputato di Italia viva.

È che non bisogna rovinare l’idillio del Governo dei Migliori, che vaccina 500mila cristiani in un giorno (letteralmente: in un solo giorno, anzi in due; poi 350 mila) perché guarda caso proprio così aveva chiesto Italia Viva. E pensare che se Renzi e i suoi gregari non avessero fermato i lavori del Parlamento e l’attività di governo per mesi con pretesti demenziali causando la più esiziale crisi dal Dopoguerra, adesso avremmo molti più vaccinati e soprattutto molti meno morti. Ma ovviamente questa è la classica eterogenesi dei fini dei grandi statisti, mica l’hanno fatto apposta.

Ddl Zan, la piazza di Milano si riempie: “Contro l’omofobia, il tempo è scaduto”

“Porteremo a casa la legge sui crimini. Non ci può fermare più nessuno”. Il deputato dem Alessandro Zan appare emozionato di fronte alle migliaia di persone che ieri pomeriggio si sono radunate di fronte all’Arco della Pace di Milano. Chiedono l’approvazione definitiva del Ddl contro l’omotransfobia perché “il tempo è scaduto” come recitano tanti cartelli. Una piazza con tante anime e tanti colori. Tra le prime ad arrivare ci sono Sissi e Carlotta: “Siamo stufe che quando denunciamo le aggressioni, finiscono per essere considerate causate da ‘futili motivi’ come è capitato a noi”. C’è Malika, la ragazza cacciata di casa dalla sua famiglia perché lesbica. E Jean Pierre, l’attivista aggredito dopo aver dato un bacio in pubblico al suo compagno. “Sono arrabbiato perché la persona che mi ha assalito sarà condannata senza l’aggravante omofoba – spiega dal palco –. Ma quest’uomo non ha colpito soltanto me, ma un’intera comunità, per un semplice bacio”. E poi c’è la politica. Tutta, o meglio, quasi tutta. Ci sono gli esponenti dem e la senatrice del M5S, Alessandra Maiorino. Ma dietro al palco, mentre nell’aria risuona la “Bella Ciao” di Milva, compare anche il deputato di Forza Italia, Elio Vito, che prende le distanze dal suo partito: “Sono sorpreso di tanta attenzione – commenta con i cronisti – perché dovrebbe essere normale che anche un deputato di Forza Italia sia qui per sostenere il Ddl”. Ma tanto normale ancora non lo è se si ripensa alle parole di Tajani di ieri sulla famiglia. “Se Forza Italia continua su quest’onda sovranista non mi sento di appartenere più a questa famiglia – spiega l’ex del Cavaliere Francesca Pascale che appare a sorpresa nel backstage ringraziando la sinistra “che si è impegnata in questa battaglia” e criticando senza mezzi termini Matteo Salvini “che non ha cacciato dal suo partito quelli che hanno pronunciato frasi omofobe”. Quelle stesse frasi che Fedez ha ricordato soltanto pochi giorni fa dal palco del Primo Maggio come simbolo del linguaggio d’odio. Un discorso che “ha squarciato il velo d’ipocrisia su questo tema” spiega Zan ringraziando il cantante che oggi ha voluto far sentire la sua vicinanza alla piazza con alcuni post sui social. “La società è pronta – conclude Marta, una madre di un giovane che si sposerà presto con il suo compagno – è giunta l’ora che anche la politica si dimostri all’altezza”.

Allumiere: “Ecco perché annullare quel concorsone”

La prova preselettiva per il concorso è stata suddivisa in sette turni. Ma circa la metà degli idonei arriva dal primo turno. È l’ennesima coincidenza, agli atti della Procura di Civitavecchia, di una storia costruita sulle casualità, ma che sta terremotando la Regione Lazio guidata da Nicola Zingaretti. Il Comune di Allumiere, un paesino di 3.800 abitanti in provincia di Roma, nei prossimi giorni annullerà il concorso che ha portato il Consiglio regionale del Lazio e il Comune di Guidonia ad assumere 24 persone a tempo indeterminato, in gran parte militanti e collaboratori del Pd, ma anche di Lega e M5S. A sancire la necessità di porre fine alla vicenda, un parere dello studio legale Trippanera, acquisito agli atti dell’inchiesta civitavecchiese, che determina diversi errori tecnici nella procedura. Il più importante, il fatto che la commissione abbia “dimenticato” l’innalzamento del punteggio minimo per accedere all’elenco idonei, dal quale sono stati “pescati” i nomi che poi hanno ottenuto il tanto ambito posto fisso.

Il solito De Luca: show nella Capri ora Covid-free

“We are very proud to meet you here this morning, we wait for you next day”, Vincenzo De Luca in piazzetta a Capri festeggia l’isola azzurra Covid-free accogliendo i turisti stranieri in inglese, cantando dal palco una strofa di Malafemmena con Guido Lembo dell’Anema e Core, attaccando il governo cattivo che non gli dà i vaccini, “in Campania ne mancano 200mila, se non arrivano lunedì saremo costretti a chiudere l’hub alla Mostra d’Oltremare di Napoli”. L’incontenibile governatore dà spettacolo e si prende i complimenti di un altro grande uomo di spettacolo, Peppino Di Capri: “Grande idea – secondo il cantante lì nelle vesti di testimonial – adesso si può sperare, lo dico soprattutto ai giovani, che a volte hanno comportamenti non responsabili. Se mi sono vaccinato? Sì, il 14 farò la seconda dose”. De Luca invece è già totalmente immune da un pezzo, fu vaccinato il primo giorno. “Tra due settimane contiamo di fare anche Ischia Covid-free”, annuncia lo showman. De Luca, non Di Capri.

Incontro con lo 007, Renzi la spara grossa: “Forse mi seguono, i pm prendano il video”

“È possibile che Matteo Renzi sia stato seguito”, forse “intercettato e ripreso in modo illegittimo”. Addirittura si pensa a una presunta operazione “diretta da una persona esperta”. Come anticipato ieri dal Fatto, il leader di Italia Viva, attraverso i suoi legali, ha presentato denuncia-querela in Procura di Roma contro ignoti, dopo il servizio di Report sull’incontro del 23 dicembre 2020 fra Renzi e lo 007 Marco Mancini, attuale caporeparto al Dis (l’agenzia dei servizi segreti). La trasmissione ha spiegato di aver ricevuto la segnalazione di un’insegnante ferma all’autogrill di Fiano Romano per un malore del padre, quando ha visto l’ex premier con un uomo brizzolato, poi identificato in Mancini. La donna, intervistata, ha detto: “L’uomo brizzolato ha ricordato a Renzi che sapeva dove trovarlo…”. “La professoressa ha ascoltato le parole di saluto che Mancini ha effettivamente pronunciato. Con quale mezzo?”, scrive nella denuncia il legale. “La tesi della signora per negare che qualcuno abbia registrato le parole (…) ‘Lei sa dove trovarmi’ è che lei fosse molto vicino ai due” ma “le scorte di Renzi e Mancini – si legge nella querela – non si accorgono di nulla”. Per l’avvocato di Renzi la ricostruzione fornita dalla signora è “grottesca e falsa”. E così il legale chiede ai pm di acquisire le telecamere dell’autogrill, i video e le foto per capire “se vi siano manipolazioni”, oltre al materiale informatico nella disponibilità dell’insegnante: “cellulare, computer e mail”. Nell’esposto si chiede di verificare se “a dirigere l’operazione” “sia stata una persona esperta, che conosceva i soggetti, i loro spostamenti”, ma anche se siano “state installate (..,) all’autogrill apparecchiature volte all’intercettazione della conversazione” con lo 007 o se i due siano stati “pedinati”. Sospetti smentiti da Report. Il direttore de IlFatto.it, Peter Gomez, a prova della genuinità del racconto dell’insegnante ha detto di aver ricevuto la stessa segnalazione il 31 dicembre.

Pista di bob, che salasso: il Cio non mette un euro

Il grande freddo, per Cortina, viene dal profondo Nord. Sari Essayah, finlandese, già campionessa di marcia e ora presidente della Commissione di vigilanza sulle Olimpiadi 2026 ha gelato tutti. “Siamo preoccupati per il futuro del tracciato da bob. I piani di Cortina non sono un investimento per i Giochi, ma fanno parte di un più ampio progetto di parco di intrattenimento. È una decisione sovrana della Regione Veneto”. In altre parole, il Cio non finanzierà una pista che sarà riciclata come parco-giochi con bob-taxi e fun-bob a rotelle. Se il Veneto la vuole, se la paghi. E siccome si prevede una spesa di 50 milioni (ma la Regione ne ha già stanziati 85) ecco che per i veneti si annuncia un primo salasso. Chissà se a Venezia hanno letto le cronache del dopo Torino 2006, con la pista da 110 milioni di Cesana Pariol inutilizzata da un decennio.

L’ultimatum assume, invece, le parole prudenti di Enrico Vicenti, segretario generale della Commissione Nazionale per l’Unesco, che vigila sull’integrità delle Dolomiti, dal 2009 patrimonio naturale dell’Umanità, in Commissione ambiente della Camera. “La questione dei nuovi impianti sciistici è potenzialmente in grado di ledere la credibilità internazionale dell’Italia”. Il riferimento è ai progetti indicati in un allarmato rapporto di Mountain Wilderness del 2019, dopo che la Regione Veneto aveva annunciato futuribili collegamenti a fune tra Pusteria e Comelico, nonché tra Cortina e i comprensori di Cinque Torri, Civetta, Marmolada e Sella Ronda. Vicenti ha avvertito: “Forte sarebbe per le Dolomiti il rischio, in caso di effettiva realizzazione, di essere iscritte nella Lista dei siti in pericolo”. Sarebbe una figuraccia planetaria. A febbraio Cortina ha già ospitato i Mondiali di sci alpino. Grande investimento, niente pubblico, così la Regione ha rimborsato mancati introiti per 3 milioni. Cortina in mondovisione, ma Luigi Casanova, presidente onorario di Mountain Wilderness, accusa: “Mondiali disastrosi, Tofane cementificate. Hanno usato l’esplosivo per le piste Labirinti e Vertigine, hanno installato enormi bomboloni di gas contro le valanghe, hanno inserito salti impossibili e curvoni da Formula 1”.

Pur di ricostruire la pista da bob, senza pagarla, il governatore leghista Luca Zaia le ha provate tutte. Prima l’ha inserita nel Masterplan olimpico, salvo ricevere lo schiaffo dal Cio che voleva spostare le gare in Austria. A ottobre ne ha fatto uno dei punti del Piano regionale di ripresa e resilienza, sperando di inserirlo nel Recovery nazionale. Alla fine si è arreso e il 16 marzo la giunta ha approvato uno schema di accordo col Comune di Cortina per uno “studio di fattibilità”. Zaia da amarcord: “La pista Eugenio Monti del 1956 è un pezzo di storia, le gare si faranno lì”. E spera in un commissario per bypassare le valutazioni d’impatto ambientale.

In Commissione ambiente, alla Camera, l’assessore al turismo del Veneto, Federico Caner ha fatto retromarcia sugli annunci di progetti per impianti in aree protette (80-100 milioni, metà pubblici): “Al momento non ce ne sono”. Ma ha ammesso: “Esiste un progetto di un gruppo di impiantisti di Arabba, ma non rispetta i vincoli della legge Pecoraro Scanio”. La Regione ha scritto all’Unesco: “È un’ipotesi di strategia di sviluppo non ancora definita”, chiarendo però che “non si può pregiudizialmente prevedere che i collegamenti siano realizzati al di fuori delle superfici sciabili del Piano Neve Regionale”. Insomma, vogliono renderli compatibili. Per fortuna il sindaco di Livinallongo, Leandro Grones, è netto: “Mai sul nostro territorio”. Dal ministero della Transizione ecologica e dalla presidente della Commissione ambiente Rotta avvisano: “Dolomiti e Olimpiadi non possono essere in contraddizione”.

Nel Prrr appena approvato, Zaia però ha già indicato investimenti per 640 milioni: 500 per vie di accesso a Cortina, 48 per rifare le fognature di Cortina e 91 per opere olimpiche (50 milioni per il bob, 4,6 per il palaghiaccio, 1,5 per le piste sulle Tofane, 32 per il villaggio olimpico). Ma le spese sono molto superiori, considerando il miliardo già stanziato dal governo: 473 milioni alla Lombardia, 325 al Veneto (270 milioni per la variante di Longarone), 82 a Bolzano e 120 a Trento. Ci sono poi 4 varianti stradali della statale Alemagna per 143 milioni, “incompiute” che dovevano essere pronte per i Mondiali e sono solo sulla carta. La “variante” di Cortina, costerà altri 200 milioni (solo 67 finanziati). A febbraio, Regioni e province autonome hanno preso atto di altri 145 milioni della Finanziaria 2020). Zaia, irriducibile: “Con questo stanziamento possiamo pensare alle infrastrutture, come il bob…”. Il Veneto ha già messo in cantiere (costo: 40 mila euro per lo studio) un “Masterplan di Cortina” con le opere necessarie per i Giochi. La grande abbuffata è appena all’inizio.

Le olimpiadi della Lega: poltrone da record. Segretarie, commercialisti e amici di…

Quando nel settembre del 2018 i sostenitori dell’impresa olimpica di Milano-Cortina coniarono la fortunata espressione “Giochi dell’autonomia”, per estorcere al premier Conte la firma sulla candidatura e placare le proteste dei 5Stelle che pretendevano che lo Stato non ci mettesse un euro, tutti pensarono a un bluff: i soldi pubblici sarebbero arrivati comunque e in effetti così è stato. Invece, i vari Giorgetti, Zaia, Fontana facevano sul serio: solo che per “autonomia” intendevano che i Giochi invernali del 2026 sarebbero stati affar loro. Dei loro politici, certo, ma pure avvocati, commercialisti, segretari: una tavola da un miliardo di euro tutta apparecchiata per la Lega.

Era immaginabile che il Carroccio avrebbe preteso un ruolo di primo piano nella manifestazione che coinvolgerà le due Regioni settentrionali più ricche (e più care al partito). Meno che il governo appaltasse totalmente l’evento. È un po’ quello che è successo con la distribuzione delle deleghe del ministero delle Infrastrutture: Matteo Salvini ha dovuto cedere tanto agli alleati, però ha ottenuto il “coordinamento delle attività per i Giochi olimpici invernali 2026”, affidato al sottosegretario Alessandro Morelli. Per la parte sportiva c’era già la sottosegretaria Valentina Vezzali, pure di espressione leghista (o meglio, giorgettiana, come dimostra lo staff da lei scelto), ma in realtà questa casella è strategica: dal ministero di Enrico Giovannini passeranno tutte le opere infrastrutturali, per cui lo scorso governo ha stanziato un miliardo di euro. Strade, aeroporti, varianti, il necessario per tirare a lucido Lombardia e Veneto.

Il sottosegretario Morelli non è l’unico leghista, e nemmeno l’unico Morelli: ce n’è un altro, Mario, che è appena entrato nella Fondazione Milano-Cortina. Nessuna parentela, li accomuna la fiducia del partito. Stimato avvocato, grande esperto di diritto sportivo, Mario Morelli è il tecnico con cui Giancarlo Giorgetti aveva scritto a Palazzo Chigi la riforma dello sport che doveva ridimensionare il Coni di Malagò. Adesso sta dando una mano a Vezzali, che ha subito pensato a lui quando si è trattato di sostituire Valerio Toniolo (voluto dall’ex ministro Spadafora) come rappresentante del governo nel Comitato organizzatore. Così Giorgetti può contare sul suo uomo e pure la sua donna di fiducia: in Cda è entrata in quota Regione Lombardia anche Pamela Morassi, che aveva lavorato nel suo gabinetto quando era sottosegretario, e recentemente lo ha seguito al ministero dello Sviluppo economico, dove è a capo della segreteria tecnica. Sempre mantenendo il posto in Fondazione.

La Lega ha avuto gioco facile a piazzare i suoi uomini nel consiglio, visto che i 20 membri sono stati spartiti a metà fra Coni ed enti territoriali. Malagò pensa al Cio, Beppe Sala è debole in attesa della rielezione, Pd e M5S hanno mollato, i tecnici si sono defilati: le Olimpiadi diventano una partita tutta interna alla Lega (e alle sue correnti). Zaia ha indicato il presidente del collegio sindacale Andrea Martin, già a capo dei revisori della Regione Veneto. Altro componente è Andrea Donnini, commercialista di Varese. Come direttore commerciale è stato ingaggiato Antonio Marano, ex luogotenente del Carroccio nella tv di Stato. Alla guida, invece, resta sempre Vincenzo Novari, che in realtà fu scelto da Spadafora: fu l’ex ministro a fare il suo nome e nessuno a ebbe da ridire. Oggi la stagione è cambiata: anche l’amministratore delegato cerca (faticosamente) di riconvertirsi al nuovo corso leghista.

Per completare l’occupazione, mancherebbe solo l’Agenzia, la società statale che dovrà occuparsi delle infrastrutture (e del miliardo stanziato dal governo). Ecco, quella manca proprio, nel senso che a due anni di distanza non è stata nemmeno costituita. Un ritardo sconcertante, frutto dei rimpalli fra ministeri e della crisi di governo, che ha spazientito pure Malagò. Al governo non riescono a crearla ma hanno già stabilito chi dovrà guidarla: il commissario designato è Luigi Valerio Sant’Andrea, uomo per tutte le stagioni, in passato vicino al Pd e a Luca Lotti, ma con esperienza anche in Veneto dove ha fatto per un periodo il commissario ai Mondiali di sci di Cortina (per ora accasato in Sport e Salute). Poi però ci sono da decidere gli altri membri del consiglio, i direttori, uno per Regione, entrambi leghisti ovviamente: ed è qui che le varie anime del partito hanno già cominciato a litigare. Intanto è tutto fermo.

Per fortuna c’è la Fondazione che fa cose. Ha creato il logo ufficiale, addirittura due, li ha presentati a Sanremo, poi ha fatto scegliere al pubblico. Assume, siamo a quota 60 dipendenti (che pagheranno le tasse solo su una parte del loro stipendio, come in un piccolo paradiso fiscale). E poi spende. Soldi che nemmeno ha, visto che il Comitato organizzatore al momento conta ricavi zero: gli sponsor arriveranno (si spera), i contributi del Cio partiranno dal 2022. Al Comitato se ne sono accorti in ritardo, se a metà 2020 hanno dovuto cambiare in corsa lo statuto, eliminando il concetto di “patrimonio minimo” che avrebbe bloccato il bilancio. Per fortuna ci sono le linee creditizie messe a disposizione dalle banche. Nei primi due anni si parla già di oltre 10 milioni di euro di spesa. Per far cosa non è chiaro, almeno resta una consolazione: senza il Covid sarebbero stati di più.

Per il momento l’attenzione è tutta concentrata sul marketing, la passione dell’ad Novari. Sulla parte sportiva ancora poco. Nulla è stato fatto per migliorare il dossier: la pista di bob di Cortina, cattedrale nel deserto annunciata in partenza, è stata messa in discussione persino dal Cio, che aveva proposto di spostarla all’estero, dove già ce n’è una. La Regione Veneto la voleva a ogni costo, Zaia si è imposto e alla fine si farà (costo: 85 milioni), ma verrà stralciata dal dossier, perché il Comitato internazionale prevedendo il disastro non vuole che sia nemmeno associata ai cinque cerchi. Lo stesso copione rischia di ripetersi per la pista di pattinaggio a Baselga di Piné, che la Federazione internazionale pretende sia coperta (a cifre spropositate). La spartizione di opere, fondi e poltrone delle Olimpiadi prosegue senza sosta. Poi a un certo punto arriverà il 2026. E ci ricorderemo che bisognava fare pure le Olimpiadi.