Altro che Biden, la Ue si schiera con Big Pharma e isola Francesco

L’Unione europea, a cominciare da Mario Draghi, preferisce la parte del mercante di vaccini – “la farmacia del mondo” dice Ursula von der Leyen – piuttosto che sostenere la proposta di sospendere la proprietà intellettuale contrastata con forza da BigPharma. A conclusione del vertice di Oporto, i 27 si sono ricompattati sulla proposta “più semplice”, come ha detto Draghi in conferenza stampa, “di rimuovere il blocco delle esportazioni che oggi gli Usa per primi e il Regno Unito continuano a mantenere”. La Ue quindi sarà la “farmacia del mondo”, ha rilanciato Von der Leyen ricordando il contratto con Pfizer per un totale di 1,8 miliardi di dosi “da poter donare o rivendere in modo da poterle offrire per esempio anche ai nostri vicini”. Appunto, i mercanti del mondo.

Eppure Draghi ha dovuto riconoscere, spiegandolo anche ai colleghi nel corso working dinner, che da un lato ci sono milioni di persone che stanno morendo e dall’altro le grandi case farmaceutiche che hanno avuto sovvenzioni governative imponenti. Ma alla fine vince Angela Merkel che di danneggiare le aziende farmaceutiche, a cominciare da BionTech, non ne vuol sapere. Resta isolato anche il Papa, che ha chiesto la sospensione dei brevetti definendo la proprietà intellettuale una “variante del virus”. L’Europa è cristiana solo quando vuole comprimere diritti, mai quando si tratta di estenderli.

“Acceleriamo le riaperture solo dove si vaccina di più”

Sottosegretario Pier Paolo Sileri, le Regioni e la Lega vogliono riaprire tutto, ma dal 17 maggio rischiamo nuove zone arancioni perché Rt sale. Si cerca di modificare i parametri e c’è pure chi vorrebbe abolire i colori. Come la vede lei che è più aperturista di altri?

È vero, come dicono le Regioni, che Rt ha troppo peso. È giusto dare maggior peso ai dati degli ospedali. Il sistema dei colori per ora non si può togliere.

I tecnici discutono di usare anche un indice Rt calcolato sui soli ricoverati.

Sì, esattamente.

E il coprifuoco? I ristoranti al chiuso? Le palestre?

Credo che dal 15 maggio potranno riaprire. Attenzione: sono aperturista ma repressivo, più controlli e se sbagli chiudi. Il coprifuoco si può ritardare di due ore se l’incidenza è bassa: oggi siamo a 12 contagi a settimana ogni 10 mila abitanti, a 10 si può fare. Non lo toglierei. Ma inserirei un altro parametro: riaperture solo quando i vaccinati, almeno con la prima dose, superano da tre settimane i tre quarti degli over 60 e dei fragili.

Il generale Figliuolo e il Cts dicono che il richiamo si può fare anche dopo 42 giorni, molti medici dicono di no.

Ero per ritardare la seconda dose, come Remuzzi e Bassetti, ma a gennaio, quando iniziava la terza ondata, non c’erano dosi a sufficienza ed era necessario accelerare sui più fragili. Ora i vaccini arrivano, non ha molto senso. Si può ritardare il richiamo solo per i soggetti in buona salute, magari nelle Regioni dove il virus circola di più, ma non per i pazienti oncologici e gli immudepressi. Comunque deve valutare il medico caso per caso.

Visite nelle Rsa solo con il green pass. Non è assurdo che duri solo sei mesi dal vaccino: un medico vaccinato a gennaio lo perde a luglio…

Si può arrivare a dodici mesi se gli anticorpi ci sono, o almeno a otto perché gli studi dicono che gli anticorpi durano otto mesi.

Il servizio sanitario ha accumulato enormi ritardi dalla chirurgia agli screening oncologici. Cosa pensate di fare?

L’ho proposto a luglio 2020, a settembre e di recente: bisogna trovare più risorse con un decreto ad hoc per la prevenzione e per il recupero di interventi e indagini diagnostiche. Eravamo a 2,7 milioni di interventi e 18 milioni di diagnosi da recuperare, ora sono aumentati. Nel 2020 le diagnosi di tumore al polmone sono diminuite del 10%, gli interventi di colon retto del 30. E un milione di tac chi le fa? Dobbiamo potenziare il pubblico, ma anche creare un connubio con il privato, rimborsandolo al costo del pubblico.

Sospendere i brevetti sui vaccini, sì o no?

È una via da esplorare se condivisa da Europa e Stati Uniti. Ma dietro i brevetti anni ci sono anni di investimenti, anche di enti pubblici come l’Università di Oxford. Rischiamo contraccolpi sulla ricerca. Meglio incrementare la produzione per conto terzi, come fa Sanofi con il vaccino Pfizer, e spingere le multinazionali a generare un vaccino no profit.

I suoi collaboratori non sono stati pagati per il periodo in cui lei era viceministro. Si è sbloccata la situazione?

Purtroppo no, non ancora.

“Coi brevetti sospesi i colossi si terranno sempre il know how”

“Uno scontro frontale con Big Pharma non porterebbe vantaggi a nessuno, perché la sospensione dei brevetti da sola non basta ad aumentare la produzione: è necessario che i titolari trasferiscano anche il know-how su come si producono i vaccini”. Enrico Zanoli, 71 anni, chimico, è uno dei maggiori esperti italiani di brevetti. Fondatore dello studio Zanoli&Giavarini e consigliere dell’Ordine dei consulenti in proprietà industriali, risponde così quando gli si chiede perché la proposta dell’amministrazione Biden di sospendere temporaneamente i brevetti sui vaccini anti Covid da sola non basta: “Se devi fare la pasta per quattro persone, fai bollire l’acqua, butti gli spaghetti e quando sono cotti hai finito. Se invece devi fare la pasta per 500 persone, non basta mettere più acqua e più pasta. Devi metterci anche l’olio, una certa quantità a seconda delle persone che devono mangiare, altrimenti la pasta s’incolla: questo, in sintesi banale, è il know-how. Trasferito sui vaccini, significa che quando passi dalla provetta in laboratorio al reattore industriale devi apportare vari accorgimenti: non sono cose che si scrivono nel brevetto, ma sono aspetti essenziali se vuoi produrre in fretta e bene”.

Per Zanoli, la questione della liberalizzazione dei brevetti (“per ogni vaccino ci sono alcune decine di brevetti, non solo uno”, dice) sta tutta qui. “Se i governi vanno allo scontro frontale con Big Pharma, di fatto espropriando le aziende farmaceutiche dei brevetti, è probabile che queste faranno ostruzionismo al trasferimento di conoscenze e tecnologie necessarie per produrre i vaccini. E questo allungherà i tempi, perché prima di iniziare a produrre le imprese dovranno fare tutta una serie di prove, capire quali macchinari usare, quali componenti usare. Se invece si fanno degli accordi volontari o semivolontari, dove Usa o Ue fanno pressioni sulle aziende titolari dei brevetti affinché concedano la produzioni a terzi in cambio di royalties, il percorso potrebbe essere più rapido, anche perché di aziende capaci in teoria di produrre vaccini nel mondo ce ne sono parecchie”.

Il problema è che finora questi trasferimenti di conoscenze e tecnologia sono andati al rallentatore. Associated Press ha raccontato ad esempio il caso della Incepta, una grande azienda del Bangladesh – dove il totale dei vaccinati si aggira intorno al 6% – che già produce antidoti contro vari virus. Incepta ha chiesto a Moderna di poter realizzare i suoi vaccini anti-Covid. L’impresa americana, la cui ricerca è stata quasi interamente finanziata dal governo Usa e che ha già rinunciato al brevetto sul suo vaccino, avrebbe dovuto trasferire in Bangladesh il know-how su come realizzarlo, ma non ha mai risposto alla richiesta di Incepta. Motivo? “Fare più trasferimenti tecnologici in questo momento potrebbe mettere a rischio la produzione per i mesi a venire”, si è giustificato l’amministratore delegato di Moderna, Stéphane Bancel. Secondo l’economista premio Nobel Joseph Stiglitz, favorevole alla moratoria caldeggiata ora anche da Biden, il caso di Moderna è indice della reale volontà delle case farmaceutiche detentrici dei brevetti: “Mantenere quanto più potere di mercato possibile il più a lungo possibile, così da massimizzare i profitti”.

In queste circostanze, spetta ai governi intervenire in modo più diretto per risolvere il problema della fornitura di vaccini”, ha scritto su Project Syndicate in un articolo pubblicato insieme a Lori Wallach, fondatrice dell’associazione Global Trade Watch. Di certo la scelta dell’Amministrazione Biden di appoggiare la proposta di moratoria avanzata all’Organizzazione mondiale del commercio da India e Sudafrica mette a rischio il monopolio di Big Pharma. Che, per evitare il peggio, potrebbe iniziare a rilasciare licenze di produzione molto più rapidamente di quanto fatto finora.

Calcolo Rt sui ricoverati per evitare altre chiusure. Si riaprirà un po’ prima

C’è una situazione paradossale. La pressione delle Regioni, della Lega e di gran parte del Paese è sempre più forte per riaprire il più possibile dal 17 maggio. Ma invece quel giorno, fra due lunedì, alcune Regioni rischiano di dover richiudere, passando dal giallo all’arancione, anche quello che è stato già riaperto dal 26 aprile, a partire dagli spazi esterni di ristoranti e bar, perché Rt supererà 1 anche nel limite inferiore. A livello nazionale l’indice medio è a 0,89 secondo il monitoraggio di venerdì, che però non teneva ancora conto delle riaperture. Insomma, come previsto dal modello presentato al Comitato tecnico scientifico dall’epidemiologo Stefano Merler, ci avviamo a consumare il “tesoretto” di Rt anche se diminuiscono l’incidenza (i nuovi casi), la pressione sugli ospedali e i decessi. È vero che il virus si diffonde soprattutto tra i giovani perché gran parte dei meno giovani ha fatto il vaccino, ma anche questa circolazione può essere pericolosa, spiegano dal ministero della Salute, specie per i rischi connessi alle varianti.

I tecnici del ministero della Salute e dell’Istituto superiore di sanità, che sono i più prudenti, stanno studiando con i colleghi delle Regioni una possibile modifica dei parametri per le chiusure. Domani si riuniscono di nuovo. Potrebbe essere introdotta, come richiesto dalle Regioni, una misura di Rt relativa ai soli ricoverati. Secondo i calcoli di Merler, questo Rt (hosp) è quasi sovrapponibile a Rt (Sympt), quello che ormai conosciamo, calcolato sulla variazione nel tempo di tutti i sintomatici; da gennaio lo è stato per il 72% dei casi, nel 22% era più ottimista e nel 6% più pessimista. È più aggiornato, ma a volte più sensibile a piccole variazioni. Il ministro Roberto Speranza si sta consultando con gli esperti e soprattutto con Franco Locatelli, il coordinatore del Cts che è anche il più ascoltato da Mario Draghi. Tanto alla fine deciderà Draghi, che ieri ha definito “incoraggianti” i dati, dalle vaccinazioni ai contagi, ai ricoveri e ai decessi: “Se l’andamento dovesse continuare in questa direzione – ha detto il presidente del Consiglio – chiaramente la cabina di regia procederà ad altre riaperture”. Ma bisogna farlo, avverte, “con la testa”.

La Lega e le Regioni guidate dal salviniano Massimiliano Fedriga, non chiedono solo di abolire o almeno ritardare il coprifuoco. Su quello ormai nessuno farà le barricate nel Consiglio dei ministri di metà settimana per tenerlo alle 22: anche il M5S, con Luigi Di Maio, stavolta è d’accordo, non vuole lasciare le riaperture al centrodestra. Matteo Salvini vorrebbe abolire il coprifuoco, Forza Italia allungarlo alle 24. La mediazione con Speranza potrebbe essere sulle 23 dal 17 maggio per poi cancellarlo dal 1° giugno. Ma nel documento inviato da Fedriga e dai governatori ai ministri Speranza e Mariastella Gelmini, si chiede anche di riaprire le palestre e i ristoranti al chiuso dal 17 maggio (al momento è previsto il 1° giugno) e i centri commerciali nel weekend.

Il primo fronte è appunto quello dei parametri per evitare di dover richiudere in alcune Regioni dopo i dati della prossima settimana. La Lega non lo reggerebbe ma anche Raffaele Donini, assessore dell’Emilia-Romagna a guida Pd e neocoordinatore della commissione Sanità delle Regioni, dice che “nuove chiusure sarebbero difficilmente sostenibili sul piano sociale, sono necessarie solo se il rimbalzo nella circolazione del virus determina un sovraccarico sugli ospedali”. Fedriga vorrebbe eliminare Rt, il Carroccio addirittura “abolire i colori”. Il Senato dovrà votare una mozione di Fratelli d’Italia per abolire il coprifuoco e riaprire le attività al chiuso: cosa succederà nella maggioranza?

E intanto Speranza ha sciolto il nodo delle Rsa. Si potrà tornare a far visita ai congiunti nelle residenze per anziani, ma la regola è quella del green pass prossimo venturo: solo i vaccinati e i guariti da non più di sei mesi e chi ha il tampone negativo da non più di 48 ore. Potrebbe non bastare.

Ora sì che c’è la “visione”: 50 miliardi alle imprese

A gennaio – governo Conte-2 – la Confindustria di Carlo Bonomi lanciò il grido di dolore: “Il Recovery Plan italiano manca di una visione di politica industriale”. Oggi non si sa se la visione sia stata trovata, a ogni modo Bonomi non se ne duole più e, a guardare i numeri, non si capisce neanche perché lo facesse prima: quasi 50 miliardi di euro arriverà alle imprese attraverso il Piano di ripresa e resilienza e la sua parte “extra” prevista dal governo Draghi con i fondi complementari. E questo senza considerare i nuovi 10 miliardi previsti per le grandi opere ferroviarie, che certo non dispiacciono a Confindustria.

Il Recovery Plan in tutto vale 191 miliardi fino al 2026 (più 15 del programma React Eu). Il piano aggiornato dal governo Draghi spiega che quasi il 19% dei fondi stanziati attraverso le 6 missioni (e le 16 componenti) sono “trasferimenti alle imprese”, via sussidio. A spanne parliamo di quasi 35 miliardi (in lieve calo rispetto al vecchio piano, dove venivano cifrati in maniera poco chiara). È la voce più rilevante dopo gli investimenti in costruzioni (32,6%), vale quattro volte i trasferimenti alle famiglie (5%) e più del doppio degli investimenti in ricerca e sviluppo (6,2%, in cui non è chiaro se una quota andrà alle imprese). Il grosso è costituito dal Piano “transizione 4.0” all’interno della missione 1 (“digitalizzazione, innovazione competitività e cultura”), cioè crediti di imposta per gli investimenti in beni tecnologici. Nel Pnrr vale 14 miliardi ed è la spesa più elevata per singola voce per buona parte della durata del piano, sicuramente fino al 2023: 1,7 miliardi quest’anno, 4,2 il prossimo e 5 miliardi alla fine del triennio. Il Tesoro prevede che questo tipo di sussidi verrà usato mediamente da 15 mila imprese ogni anno per la parte beni materiale immateriali e 10 mila per ricerca, sviluppo e innovazione. Tra queste ci sono anche le “imprese editoriali”. Considerato il fondo gestito dalla pubblica Simest per “l’internazionalizzazione” delle imprese, solo quest’anno si superano i 3 miliardi, sui 13 totali del piano. Queste cifre sono “trasferimenti”, non comprendono i progetti che comunque verranno realizzati da aziende. Dei 6 miliardi per le politiche attive del lavoro, solo per fare un esempio, una parte andrà alle agenzie private.

In generale la distribuzione dei sussidi passa da molte voci (come la banda ultralarga e il 5G), e attraversa diverse emissioni: vale il 40% delle risorse addizionali della missione 1 (Digitale), il 23% della 2 (Transizione ecologica) e l’11,5% della 4 (Istruzione e ricerca), quest’ultima costruita molto sul partenariato pubblico-privato sia nell’università che nel potenziamento delle istituti professionali. Parliamo di risorse “aggiuntive”, cioè della componente “sovvenzioni” del Pnrr e non di quella dei prestiti sostitutivi di finanziamenti esistenti: soldi tutti nuovi.

Il Pnrr, però, da solo non assorbe tutta la voce. A fine aprile il governo ha approvato il decreto che stanzia 30 miliardi del fondo complementare che affiancherà il Recovery e altri 25 di extra-deficit aggiuntivo. Qui trovano spazio, fino al 2026, altri 13 miliardi per finanziare la quota di “transizione 4.0” esclusa dal Pnrr da Bruxelles perché non rispondeva al criterio di “non arrecare un danno significativo agli obiettivi ambientali”, visto che sono misure inquinanti. Lo stesso decreto stanzia poi 10 miliardi per la nuova (e sprovvista di qualsiasi progetto approvato) alta velocità ferroviaria Salerno-Reggio Calabria. A suo modo, è una visione di politica industriale anch’essa.

Riecco il Ponte di Messina: il denso studio con 2 buchi

Lo studio pubblicato venerdì – avviato dall’ex ministra De Micheli con un vasto gruppo di esperti –per valutare le soluzioni all’attraversamento stabile dello Stretto di Messina, è davvero ricco di analisi e dati. Peccato non fornisca quelli fondamentali necessari a decidere di un’opera pubblica: quanto costa e quanto serve. Si inserisce cioè nella recente logica secondo cui le analisi economiche non servono, dichiarazione esplicita di due ex ministri delle Infrastrutture: Graziano Delrio con le sue “opere strategiche” e De Micheli con la celebre frase “altro che analisi costi-benefici!”. Logica di fatto sposata dall’attuale ministro Enrico Giovannini presentando progetti costosissimi senza analisi economiche, né di traffico o di impatto ambientale. È il regno dell’“arbitrio del principe”.

I contenuti del voluminoso studio sul Ponte sono poi davvero troppo ovvi, nascosti dietro un fiume di tabelle, parole, e piantine: se la Sicilia è collegata stabilmente alla terraferma, è meglio che se non è collegata; diminuiscono i costi di trasporto, si creano posti di lavoro, ci sarà moltissimo traffico sul nuovo collegamento stabile. Chi può negare queste verità?

Peccato emergano due buchi logici micidiali. Il primo è che non ci sono confronti: magari altri tipi di investimento possono dare risultati migliori a parità di spesa, visto il ruolo declinante dei costi di trasporto al crescere del valore aggiunto delle produzioni, oppure che data la crisi economica altre soluzioni possano creare più occupazione – in tempi più brevi, e più stabile – di quella delle grandi opere civili, oggi “ad alta intensità di capitale”. Il secondo buco logico è che non vi sono vere previsioni di traffico. Oggi esiste una modellistica sofisticata di simulazione e previsione del traffico: il ministero non è in grado di applicarla? In realtà i dubbi sul traffico, soprattutto ferroviario, sono più che legittimi.

Il traffico merci ferroviario di lunga distanza vede nel mezzo marittimo un concorrente formidabile sia sul piano dei costi sia su quello ambientale (la ferrovia non è competitiva per le merci sulle brevi distanze per le cosiddette “rotture di carico”, cioè la necessità di cambiar modo di trasporto). Per il traffico passeggeri di lunga distanza la gomma non è competitiva, ma il treno su queste distanze vedrà una fortissima concorrenza con l’aereo, anche se finalmente questo modo di trasporto fosse tassato in relazione ai costi ambientali. Rimane il traffico su gomma di breve distanza, ma i dubbi sul traffico complessivo certo rimangono legittimi.

Si è già detto che lo studio, amplissimo sul piano tecnico e descrittivo, non tenta poi nemmeno di stimare i costi delle alternative. Se ne deduce che i costi (come il traffico, cioè i benefici) non sono considerati rilevanti. Whatever it costs , si potrebbe dire con Draghi. La scelta deve essere tutta e solo politica. Lo studio a rigore accenna timidamente alla necessità di un’analisi costi-benefici, ma subito aggiunge, per tranquillizzare il lettore, “e analisi multicriteria”. Non possiamo qui dilungarci sugli aspetti tecnici, ma in concreto significa che, se l’analisi economica non piace al decisore politico, ce n’è sempre un’altra.

La parte “finanziamento dell’opera”, poi, è davvero scarna (i costruttori condividono questo approccio innovativo). Si dice, in sintesi, che “è meglio” che paghi tutto lo Stato. Ipotesi di finanziamento anche parziale da parte degli utenti con un pedaggio, oppure di far pagare qualcosa ad Anas o Ferrovie (con varie tecniche note come “project financing”) sono complicate e forse farebbero diminuire un po’ il mirabolante traffico che ci si aspetta. Ma se il traffico è così mirabolante, come sostiene lo studio, perché devono davvero pagare tutto i contribuenti e nulla gli utenti? Nemmeno i costi di manutenzione? Infatti l’opera è al di fuori del finanziamento possibile coi soldi del Pnrr, quindi è tutta carico dell’erario.

Ma la realtà è probabilmente un’altra: il progetto del Ponte, che sembrava chiuso otto anni fa con lo stop imposto dal governo Monti, serve a difendere altro. La nuova linea Av tra Salerno e Reggio, parallela a quella esistente, se si farà risulterà molto probabilmente deserta (non a caso neanche qui sono state rese pubbliche stime di traffico). E costa tra i 22 e i 28 miliardi, se va bene. Molto imbarazzante, occorrerà almeno poter dire: “È deserta perché non c’è il Ponte”. Certe associazioni poco simpatiche, notoriamente molto presenti nel settore, forse han già cominciato a festeggiare con l’attuale piano di grandi opere del Pnrr e forse con la prospettiva del Ponte potranno continuare. Ma ormai anche solo pensare queste cose non è politicamente corretto…

Sanità senza Recovery. Dimezzati i fondi per la rete territoriale

Chi nei mesi passati aveva pensato che la pandemia e, eufemizzando, le difficoltà incontrate dal Sistema sanitario nell’affrontarla avrebbero portato a un cambio di paradigma per il futuro, a pensare alla salute non più come una spesa ma un investimento, ha sbagliato indirizzo, Paese e soprattutto governo. L’analisi incrociata della missione “Salute” del Piano di ripresa (Pnrr) e del Documento di economia e finanza (Def) per il triennio 2022-2024 dimostrano che l’attuale esecutivo, ancor più del precedente, non vede l’ora di tornare al business as usual: cioè, all’ingrosso, a com’era il Servizio sanitario nazionale dopo la cura di tagli cui è stato sottoposto per un quindicennio.

Inizieremo dal cosiddetto Recovery Plan che in realtà non recupera quasi nulla: la cifra che il Pnrr Draghi dedica alla salute è un po’ inferiore a quella del Pnrr di Conte (circa 18 miliardi, all’ingrosso 600 milioni in meno). La parte che ci interessa è la missione 6.1 dedicata all’assistenza territoriale: 7 miliardi destinati a tre obiettivi, gli stessi già presenti nel Piano di gennaio, ma con un tale spostamento interno di risorse che ne risulta di fatto stravolta l’impostazione, peraltro essendo il ministro della Salute lo stesso in entrambi gli esecutivi, cioè Roberto Speranza. La sostanza è che gli investimenti nella rete sanitaria sono dimezzati e ora si punta tutto sull’assistenza a casa e la telemedicina (nel senso di “a distanza”).

Partiamo dal progetto originale, quello di gennaio, che era un tentativo di ricostruire la rete fisica del Ssn – falcidiata per anni da chiusure e accorpamenti, spesso a favore di strutture private – i cui effetti nefasti sono stati evidenti a tutti con l’arrivo del Covid. Primo obiettivo: 4 miliardi di euro erano destinati all’apertura di 2.564 Case della comunità (una ogni 24.500 abitanti) “con l’obiettivo di prendere in carico 8 milioni circa di pazienti cronici mono-patologici e 5 milioni circa di pazienti cronici multi-patologici”. Le Case della comunità sono strutture pubbliche in cui si troveranno medici di medicina generale e specialisti, infermieri e altri professionisti della salute, più addetti ai vari servizi sociali (nelle intenzioni questo capitolo del Pnrr doveva interagire con quello dedicato all’housing sociale e alla rigenerazione urbana). Secondo obiettivo: due miliardi per aprire 753 Ospedali di comunità (uno ogni 80mila abitanti) per ricoveri di breve durata (massimo 15-20 giorni). Terzo obiettivo: un miliardo per realizzare 575 Centri di coordinamento per l’assistenza domiciliare con “51.750 medici e altri professionisti attivi, nonché 282.425 pazienti con kit technical package attivo” per la telemedicina (per cui andranno anche definite le linee guida).

Il Pnrr di Draghi stravolge questa impostazione: dimezza i fondi e il numero sia delle Case di comunità (2 miliardi) che degli Ospedali di comunità (1 miliardo) e punta tutto sull’assistenza domiciliare e la telemedicina (4 miliardi) con “l’obiettivo di prendere in carico il 10% della popolazione over 65 entro il 2026”.

Più alto l’investimento una tantum per tecnologia e strutture digitali, meno onerosi i costi di gestione e, però, anche l’impatto sulla vita dei territori, specie nelle cosiddette aree interne (maggiormente bisognose di infrastrutture sociali). Questo a non dire che la telemedicina rischia di essere una bella idea con pochi agganci con le condizioni concrete della popolazione: basta immaginare migliaia di anziani alle prese col “kit technical package”.

Questa scelta del governo, come detto, è in linea con le previsioni del Def del mese scorso: alla fine del triennio 2022-2024, dice l’esecutivo, la spesa sanitaria dovrà calare in rapporto al Pil di un punto percentuale tondo (dal 7,3% del 2021 al 6,3% che era il livello previsto nel 2020 senza il coronavirus).

Detta in altro modo, secondo i calcoli del Forum per il diritto alla salute, una discesa a un tasso medio annuo dello 0,7% in anni in cui il Pil nominale è previsto crescere in media del 4,2%. Cosa significa questa scelta? Che le maggiori spese dell’ultimo biennio saranno riassorbite quasi senza lasciare traccia: non solo quelle per i farmaci o le migliaia di degenze in ospedale, ma anche quella per il personale assunto (in gran parte precario) e le strutture messe in piedi per l’emergenza. L’Italia tornerà dunque a essere tra i Paesi europei che spendono meno in salute: il nostro 6,3% sul Pil di partenza (e di arrivo al 2024) ci poneva largamente dietro i dati pre-Covid di Germania (9,9%), Francia (9,4), Svezia (9,3), Olanda (8,2) e Gran Bretagna (8%), come si vede Stati con modelli molto diversi tra loro. Cosa che il governo ovviamente sa: ce la siamo cavata, “nonostante la spesa sanitaria sul Pil risulti inferiore rispetto alla media Ue”, scrive nel Pnrr.

Se la spesa pubblica è bassa, tende ovviamente a salire quella privata diretta: il 2% del Pil qui da noi, la metà in Francia e Olanda, l’1,4% in Germania.

Impunità di gregge

Se il primo che passa va in tv a parlare di giustizia, non si può pretendere che la gente ci capisca qualcosa. Se poi, come l’altra sera su La7, a giudicare magistrati incensurati come Davigo, Greco, Ardita e Storari – messi l’un contro l’altro dalle furbizie depistanti dell’avvocato Amara – si chiama un ex pm radiato e imputato per corruzione come Palamara col suo libro pieno di balle, ti saluto. A completare il casino mancavano giusto i Radicali, a loro modo coerenti: alleati di Craxi nel referendum anti-giudici del 1987, difensori dei ladri di Tangentopoli e dei poveri mafiosi colpiti dai pentiti e torturati con l’ergastolo, alleati di B., poi di Prodi, poi di Mastella&C. per l’indulto, poi di nuovo di B. per un secondo referendum anti-giudici, ora fanno pappa e ciccia con Salvini per un terzo referendum anti-giudici. Con almeno 8 quesiti: “responsabilità civile dei giudici” (che già esiste, ma si vuole intimidirli lasciandoli denunciare dai loro condannati), separazione delle carriere (un classico della commedia dell’arte), abolizione della legge Severino (che fa decadere gli amministratori locali condannati in primo grado, ma purtroppo non i ministri e i parlamentari), riforma della custodia cautelare (la ventesima in 30 anni), delle intercettazioni e del trojan (male fare, paura non avere) e altre scemenze sfuse.

Se nel 1987 il pretesto fu il caso Tortora, ora si usano i casi Palamara e Amara, che nulla c’entrano coi quesiti annunciati. Perché non riguardano errori giudiziari o giudici appiattiti su pm (anzi, toghe che litigano fra loro). Il caso Palamara riguarda un clan di politici, magistrati e membri del Csm che si spartiva i vertici delle Procure. Nessuna delle riforme annunciate l’avrebbe impedito: l’unica soluzione è il sorteggio dei membri togati del Csm e l’abolizione dei laici, cioè politici. Il caso Amara nasce da un dissidio a Milano fra il pm Storari, l’aggiunta Pedio e il procuratore Greco su chi, quando e come iscrivere nel registro degli indagati a proposito della presunta loggia Ungheria svelata dall’avvocato esterno Eni. Prima della riforma Castelli-Mastella del 2007, ogni pm era responsabile delle sue indagini e lo Storari di turno iscriveva chi e quando riteneva giusto, poi ne rendeva conto al giudice. Dal 2007 i procuratori capi sono i sovrani dell’azione penale, con un potere smisurato che ha moltiplicato gli appetiti dei potentati: chi controlla un pugno di procuratori è il padrone di tutta la giustizia. Se si vogliono evitare nuovi casi Amara, basta cancellare la Castelli-Mastella e restituire il potere diffuso ai singoli pm. Ma nessuno ne parla, perché l’obiettivo non è una magistratura davvero indipendente: è una giustizia à la carte, ancor più di quanto non sia.

Ecco la classe “spazzatura”, il grande rimosso degli Stati Uniti

White trash di Nancy Isenberg ci restituisce nitida l’immagine di un grande rimosso degli Stati Uniti, la classe. Non la classe spiegata in termini socioeconomici, con tabelle, grafici e analisi politiche. Il saggio è un affresco di storia americana, immaginari corpi che emergono dalla memoria sepolta e si stagliano con quel colorito a volte malfermo, o maleodorante, che ha connotato la classe inesistente. Quella dei poveri veri, negatori in sé del grande mito americano della “classe media” e quindi raccontati come “rifiuti umani. Escrementi. Lubbers. Bogtrotters. Spazzatura. Squatter. Crackers. Mangia argilla. Tackies. Mudsill. Scalawages. Briar Hoppers. Hillibilly. Low-downers. Negri bianchi. Degenerati. White trash. Redneck. Trailer trash. Gente di palude”.

Il lungo elenco restituisce il caleidoscopio immaginario di un popolo che non è stato assorbito dal mito fondativo, dai “pellegrini” celebrati nel Giorno del Ringraziamento (“una festa che non esisteva prima della guerra civile”) o da quel tacchino “per promuovere l’industria del pollame che arrancava durante la guerra civile”. E i white trash, i poveri bianchi rurali, quasi tutti relegati al sud da un popolo nordista fatto di scrittori e costruttori di narrazioni, erano stigmatizzati per la “loro incapacità di essere produttivi, di possedere terre o immobili”. Categorizzati poi come “meno dei bianchi”, con la pelle giallognola e i figli malaticci.

Il libro di Isenberg era uscito nel 2016 sull’onda della campagna elettorale che vide trionfare Donald Trump, quando gli opinionisti scoprirono la classe, ma solo per poterla incolpare della vittoria del presidente populista. L’autrice ritiene però che “la storia della classe americana è più complessa di quanto abbiamo creduto finora”. E solo se ritorna a occuparsi degli americani che ha accanto, ma che non vuole riconoscere, la democrazia statunitense può avere ancora qualcosa da dire in futuro.

 

Migranti col fegato spappolato: indagano un cardiologo di Roma e il suo amico poliziotto

Un suicidio sospetto, ché impiccarsi da una gru a quindici metri d’altezza non è così semplice, oltre che stravagante. Poi tre giovani migranti africani che nel giro di poco muoiono con il fegato disintegrato. Il professore Lorenzo Baroldi, primario di Medicina a Roma, assiste impotente alla misteriosa fine del povero Milton, nigeriano che vive con la moglie incinta in un centro di accoglienza. Il ragazzo dal pronto soccorso finisce in terapia intensiva. Il coma, indi la morte. E il fegato praticamente liquefatto, come si scopre durante l’autopsia. Per capirne di più, Baroldi tenta di ricostruire gli ultimi giorni di Milton. Incastrando un tassello dopo l’altro, viene a sapere che anche altri due giovani africani hanno avuto lo stesso destino, in ospedali diversi.

Il professore indaga e s’imbatte in una pista che porta a una società svizzera. Il gioco si fa grosso e chiama in aiuto un suo vecchio amico poliziotto che ora abita e lavora a Genova, l’ispettore Nario, con la n, Domenicucci. A quel punto la ricerca diventa una vera e propria indagine, seppur “privata”, senza alcuna ufficialità, lungo la traiettoria Roma-Lugano.

Esce il prossimo 13 maggio Il taglio dell’angelo di Claudio Coletta, cardiologo scrittore che ha conosciuto il successo due lustri fa con Viale del Policlinico. Nell’assembramento di sottogeneri che contribuiscono al crescente boom giallistico, il romanzo di Coletta è tecnicamente un medical thriller. Di grandissima attualità, aggiungiamo. L’autore mette insieme la drammatica questione dei migranti e altri affari che non sveliamo per non rovinare la sorpresa, ma che hanno stretta attinenza con questo periodo pandemico. Non solo. Coletta ha un tratto delicato e semplice, che sovente emoziona, nel racconto delle vicende familiari della strana coppia di “detective”, il professore di Roma e il poliziotto di Genova.