Tondelli francese: un angelo biondo, caduto per l’Aids

“In questi anni di festa e di velocità c’è anche un varco aperto sul dolore, c’è l’altra faccia dei morti per droga e Aids. Perciò gli anni 80 sono pure anni di tragedia.” Sono parole di Pier Vittorio Tondelli, morto a 36 anni nel dicembre 1991. Proprio come Hervé Guibert, anch’egli classe 1955 e ucciso dall’Aids dieci giorni dopo l’autore emiliano. Una sovrapposizione biografica davvero singolare per due scrittori entrambi omosessuali e vinti dallo stesso male.

Mentre Tondelli si è mimetizzato nei protagonisti dei suoi romanzi e ha scontato la malattia lontano dai riflettori, il francese Guibert ha fatto della propria biografia la sua narrativa, diventando il feticcio fisico della sua opera, sviscerando il suo corpo senza reticenze, soprattutto quando infermo e morente. Romanziere e critico di fotografia per Le Monde, tentò il teatro sulla scorta della sua avvenenza tanto da essere etichettato l’angelo biondo. Per il cinema scrisse, insieme a Patrice Chéreau, la sceneggiatura di L’uomo ferito, premiata con il César. In un passaggio del suo diario, da noi inedito, annotava: “Handke ha detto che l’agonia è l’unica epica possibile”. Una costante messa in scena di se stesso che sembra parafrasare il pasoliniano “gettare il corpo nella lotta” e che nel 1990, sfidando l’omertà di tanti sieropositivi, lo induce a ostentare pubblicamente lo spettro dell’Aids.

Pochi come Guibert hanno spinto l’autofiction fino alle sue estreme conseguenze. Il suo fisico devastato dalla malattia è ritratto nei romanzi, nelle fotografie e persino in un film documentario, Il pudore o l’impudore, nel quale lo si vede parlare dei suoi disturbi al telefono o alle prese con la diarrea seduto sulla tazza del water.

In patria è un classico, da noi resta un autore misconosciuto. La sua parabola editoriale è sempre stata parziale e intermittente. Guanda nel 1991 pubblica il suo titolo più celebre, All’amico che non mi ha salvato la vita. Edito in Francia l’anno precedente, il romanzo racconta la scoperta dell’Hiv, il declino fisico nella morsa di sintomi feroci. Tra le pagine emergono due amici celebri dell’autore, camuffati sotto nomi fittizi. Muzil è Michel Foucault, Marine è Isabelle Adjani. Il romanzo destò scalpore perché Guibert rivelò ciò che Foucault – suo mentore come Verlaine per Rimbaud – aveva inteso occultare e cioè l’Aids come causa della sua morte precoce nel 1984. Destino fatale che Guibert sa toccherà anche a lui. Parte della stampa lo accusò di tradimento, sebbene la verità sulla fine del filosofo fosse un segreto di pulcinella negli ambienti intellettuali.

Nel 1992 Bollati Boringhieri pubblica Citomegalovirus: diario d’ospedale: spettrale raccolta di frammenti delle sue giornate di malato con ritratti del personale medico e perle di amaro umorismo. Poi altri libri postumi lungo gli anni 90: Il mio valletto, Il Paradiso, I miei genitori. Nel 1993 Marsilio pubblica Le regole della pietà, seconda parte della trilogia iniziata con All’amico ma la terza da noi non è stata mai pubblicata. Nel 2004 Playground licenzia Pazzo di Vincent e nel 2011 per la sigla Dante e Descartes esce il suo esordio del 1977 La morte propaganda.

Oggi i titoli sono irreperibili, tutti fuori catalogo. Un protratto silenzio editoriale spezzato tre anni fa da uno studio di Fabio Libasci, Le passioni dell’io: Hervé Guibert lettore di Michel Foucault, edito da Mimesis e oggi da L’immagine fantasma, in libreria per Contrasto, editore specializzato in libri fotografici. Il testo, volutamente privo di immagini e prefato da Emanuele Trevi, è una raccolta di 64 frammenti suscitati da fotografie pubblicitarie, fototessere, foto rubate o dalla radiografia del suo torace che sembra essere una risposta a La camera chiara di Roland Barthes. Prima di finire i suoi giorni, Guibert confessò: “È quando scrivo che sono più vivo. Le parole sono belle, le parole sono giuste, le parole sono vittoriose”. Sarebbe meritorio che un editore in Italia potesse finalmente raccogliere con sistematicità tutte queste parole e aggiungere Guibert, in previsione del trentesimo della scomparsa, alla stirpe letteraria dei francesi di successo come Houellebecq, Carrère, Ernaux.

Diventare donna: prove di sopravvivenza

È “una storia di carne, di corpi che contengono la nostra mente. È una storia che riguarda l’appetito nei suoi tanti risvolti e aspetti, nelle sue perversioni e nella sua fragilità, nei suoi strani rifiuti e capovolgimenti”. È una storia di dura formazione al femminile, una storia di sorellanza con spine annesse – supporto, sì, ma pure invidia e sgambetti – e prove tecniche di realizzazione personale quando le risorse sono all’osso e tocca lottare per erigere “la propria montagna personale”, anche contro un sistema che, ieri come oggi, chiede alle donne di stare sul pezzo senza però esagerare, senza farsi troppo notare.

Lo sa bene Carmel, protagonista di Un esperimento d’amore, romanzo di Hilary Mantel uscito nel ’95, opera che si discosta per temi e stile dalla fortunata trilogia sulla dinastia Tudor, sempre edita da Fazi, che le è valsa due Booker Prize. Figlia di umilissimi cattolici irlandesi trasferiti nel Lancashire, Carmel si trova a riannodare infanzia e adolescenza (di spensierato non c’è granché) dopo aver incrociato il viso di una vecchia compagna di università, Julianne, sulle pagine di un giornale. Eternamente spinta dall’anaffettiva e giudicante madre a puntare al successo, ricalcando il diffuso meccanismo per cui un figlio dovrebbe realizzare i sogni infranti dei genitori, Carmel vincerà prima una borsa di studio per accedere a un rinomato convento (anche Mantel studiò in un educandato) – luogo in cui “eravamo donne vestite da bambine, atee che andavano a messa, vergini in via ufficiale e libertine de facto. Non era un inganno; era dualismo. Carne e spirito, ambizione e umiltà” – ed entrerà poi in uno studentato universitario di Londra dove s’iscriverà a Legge. Dovrà stringere i denti, foderarsi l’anima di acciaio e far la fame, un po’ perché è al verde e un po’ perché ambisce a liberarsi di ogni bisogno non potendosene permettere nessuno.

Compagne di viaggio: Karina, eterna amica-nemica, impenetrabile, ingombrante, crudele che al contrario di Carmel, che scivola verso l’anoressia, lievita; la mite ed empatica Lynette, “pallida, in ordine e delicata, con il fascino della brunetta”, destinata a una tragica fine e Julianne, “alta, atletica e veloce” una i cui “successi scolastici arrivavano senza sforzo apparente, cresciuta con i libri di Beatrix Potter, i laghetti in giardino e i salici piangenti, i balconi in ferro battuto degli hotel sul mare di Scarborough”.

È il rapporto con Julianne a dare il titolo al libro: “Mi venne in mente”, dice Carmel, “che facessi da cavia in un esperimento d’amore, che vivessi la mia vita sotto lo sguardo di Julianne, sottoponendomi alle prove al suo posto, così che non dovesse sottoporcisi lei. Ma come si forgiano le nostre certezze se non studiando il sudore e le lacrime degli altri?… Le persone intelligenti ci osservano per imparare dai nostri errori”.

Sullo sfondo di una Londra letteralmente stordita dalla rivoluzione sessuale e dai movimenti di emancipazione femminile Mantel è bravissima a disegnare, con acume, realismo e zero sentimentalismo, la mappa di dolore, rinunce, frustrazioni che si è talvolta costretti a sopportare per trovare un posto nel mondo, per diventare adulti.

 

Steven Soderbergh ha già finito tre film

Il vulcanico Steven Soderbergh ha ultimato in un anno e mezzo i tre film previsti in un recente accordo globale siglato con Hbo Max. In Let The All Talk, lanciato a dicembre 2020, ha diretto Meryl Streep nel ruolo di un’affermata scrittrice che parte per una crociera di svago e guarigione con le sue amiche di sempre. Nel thriller No Sudden Move, con Benicio Del Toro, Don Cheadle e Brendan Fraser, ha ambientato nella Detroit del 1955 la storia di un gruppo di piccoli criminali ingaggiati per rubare un documento e trascinati in un’odissea in una città piegata dal crimine e lacerata dai tumulti razziali. In Kimi, infine, racconta le vicende di un’esperta tecologica affetta da agorafobia (Zoë Kravitz) che scopre un video che ritrae le prove di un crimine violento e deve scontrarsi con i suoi superiori e le sue paure più profonde.

Il 17 maggio partiranno le riprese de Il mammone, una commedia brillante con Diego Abatantuono, Angela Finocchiaro e Andrea Pisani diretto da Giovanni Bognetti per Picomedia e Colorado. Remake di Tanguy, esilarante film francese del 2001campione d’incassi, vedrà in scena due genitori alto-borghesi che cercano di rendere la vita impossibile a un figlio trentenne che non ha nessuna intenzione di andare a vivere da solo.

Maria Sole Tognazzi gira tra Genova e Roma 4 nuove puntate della seconda edizione della serie Sky Petra, con Paola Cortellesi nel ruolo dell’ispettrice di polizia Petra Delicado. La regista romana ha diretto Margherita Buy in Unspoken, un capitolo di Women stories, film realizzato da sole donne per Iervolino Entertainment che comprende anche gli episodi Lagonegro di Lucia Puenzo con Eva Longoria, Elbows deep di Catherine Hardwicke con Cara Delevingne e Sharing a ride di Leena Yadav con Jacqueline Fernandez.

“Noi, i ragazzi dello zoo di Berlino”, la serie paga un po’ il passare degli anni

Violenza, abuso di droghe e prostituzione giovanile. A 40 anni dal film Noi, i ragazzi dello zoo di Berlino arriva su Amazon Prime Video la serie tv ispirata al memoir di Christiane Vera Felscherinow (per tutti Christiane F.). Un libro che, pubblicato nel 1978 e diventato un best-seller da milioni di copie, scioccò la Germania e il mondo intero raccontando l’adolescenza tormentata di una 14enne cresciuta in un sobborgo di Berlino Ovest e dei suoi amici.

Al centro della storia ci sono Christiane e i suoi amici Benno, Stella, Michi, Axel e Babsi: sei teenager con famiglie difficili alle spalle che per motivi diversi cominciano a fare uso di droghe e vengono risucchiati nel gorgo dell’eroina. Un racconto corale più che autobiografico, in cui i protagonisti sono interpretati da attori più maturi (l’attrice Jana McKinnon, nella parte di Christiane F., ha 22 anni). Mentre il film era caratterizzato da atmosfere cupe, la serie soprattutto nei primi episodi è colorata e psichedelica. La creatrice Annette Hess e il regista Philipp Kadelbach hanno voluto mantenere l’ambientazione originale, Berlino alla fine degli anni Settanta, spogliandola però di qualsiasi connotazione specifica (“Non sembra per niente Berlino” ha ammesso lo stesso Kadelbach). I ragazzi non passano il tempo attaccati agli smartphone ma si vestono, parlano e si comportano più o meno come i ragazzi di oggi. E persino le canzoni di David Bowie inserite nella colonna sonora sono state riarrangiate in chiave contemporanea.

Per uno spettatore del 1981 l’esperienza di Christiane F, raccontata in quel modo così crudo, rappresentava davvero uno choc. Oggi l’effetto è diverso perché la stessa storia ci pare di averla già vista in decine di altri titoli (l’ultimo in ordine di tempo è Euphoria). Al di là della qualità del prodotto, senza dubbio buona, la domanda che rimane dopo aver guardato la serie è: c’era davvero bisogno, nel 2021, di un reboot di Noi, i ragazzi dello zoo di Berlino?

 

Underground Railroad: la verità sugli schiavi

Che le serie, nei casi migliori, siano la prosecuzione del Cinema per altri formati lo conferma The Underground Railroad di Barry Jenkins, il regista premio Oscar di Moonlight e Se la strada potesse parlare. Adattando il romanzo Pulitzer di Colson Whitehead, si dà un obiettivo proibitivo: attribuire un linguaggio audiovisivo alla schiavitù degli afroamericani. Ha un antagonista ideologico, Nascita di una nazione di David Wark Griffith, e una adiuvante poetica, la scrittrice Toni Morrison, che al tema ha dedicato Amatissima e che ricevendo il Nobel ebbe a dire: “La lingua non è in grado di ‘definire’ la schiavitù, il genocidio, la guerra. Né dovrebbe essere così arrogante da volerlo fare. La sua forza, la sua felicità sta nell’aspirare all’ineffabile”. La sfida, vinta, di The Underground Railroad è aspirare all’invisibile, che è un’occorrenza diacronica, ovvero storica: lo schiavismo per quel che è stato nella sua componente umana e disumana non l’abbiamo mai visto, ne abbiamo osservato i carnefici, spesso survoltati a sadici per deflettere dalla violenza del sistema, ne abbiamo osservato le vittime, spesso ridotte a massa torturata e anonima, ma il racconto ha sempre difettato di soggettività, ha sempre ecceduto, sul versante afroamericano, in resistenza al dolore e all’umiliazione quale garanzia morale. Jenkins ribalta il piano cinematografico, annichilisce tanto i Django Unchained che i 12 anni schiavo, rimette al suo posto il “gemello” The Birth of a Nation di Nate Parker, e si dedica anima e occhio a restituire dignità personale agli antenati. Come? Beneficiandoli di consapevolezza drammaturgica e esaustività narrativa: l’iconografia è politica, l’etnografia poetica, The Underground Railroad, questa formidabile serialità, si destina alla rivoluzione del linguaggio. Ed è, “il bisogno di raccontare la verità senza rimanere annientato da quella stessa verità, senza dubbio l’impresa più difficile che abbia affrontato nella mia esperienza creativa”. Jenkins è migliorato sensibilmente dall’acclamata opera seconda Moonlight (2016), s’è fatto più ambizioso, e massimalista, da Se la strada potesse parlare (2018), e s’è votato all’impresa: nel momento più drammaticamente opportuno, quello dell’ex “furfante alla Casa Bianca”, degli accoliti trumpiani pronti a “sventolare la bandiera della Confederazione nelle sale del Congresso e a erigere una forca sui gradini del Campidoglio”. Dunque, la trasformazione di una metafora in realtà, attraverso l’immaginazione di Colson Whitehead: nelle sue pagine, l’Underground Railroad, una rete di attivisti abolizionisti che tra il 1820 e il 1860 aiutò gli schiavi fuggiti dalle piantagioni del Sud a rifugiarsi a Nord, diviene realmente una Ferrovia Sotterranea, con ingegneri e conducenti, tunnel e binari. Nei dieci episodi disponibili su Prime Video (Amazon) dal 14 maggio seguiamo la protagonista Cora (Thuso Mbedu ) che nell’approssimarsi della Guerra Civile scappa dalla piantagione Randall in Georgia e si mette in viaggio per la salvezza, tallonata dal cacciatore di taglie Arnold Ridgeway (Joel Edgerton) e dal fantasma della madre che l’ha abbandonata: un treno chiamato desiderio, sicché Jenkins decide di non farsi brutalizzare dalla materia, concede a Cora, Caesar (Aaron Pierre) licenza di speranza, possibilità di fare l’amore e, sempre, di pensarsi esseri umani, creature senzienti, soggetti aggraziati e verticali. Li rimette, quegli schiavi reificati da troppo cinema rinunciatario, al centro della scena, al centro del villaggio americano e globale: li circumnaviga con la macchina da presa come fossero Colonne d’Ercole, e lo sono, li ricompensa di una visione frontale, di una chiamata individuale, di un interesse sensibile. Identità erette dinanzi al Sistema che scientemente li soggiogava, e di fronte all’indifferenza qui e ora. Lirico, intimo e ardito, l’afflato di Jenkins potrà a tratti echeggiare Manderlay (2005) di Lars von Trier e sempre il Cinema che lo annovera: quello destinato a rimanere.

 

 

Mamme, bambine e suore sull’orlo di una crisi di nervi

Bolzanina, classe 1975, Maura Delpero si era già fatta apprezzare per due documentari, Signori professori (2008) e Nadia e Svetea (2012). Con Maternal, da giovedì in sala con Lucky Red, esordisce al lungometraggio di finzione, termine peraltro non adeguato: la rappresentazione è documentata e documentaria, informata di realtà, nutrita di osservazione partecipata.

La regista e sceneggiatrice ha tenuto per quattro anni laboratori di cinema presso tre hogares (case per giovanissime madri non abbienti) in Argentina, “perpetuando la mia poetica, quella della mosca sulla parete”. Ne è venuto, fuor di retorica, un piccolo grande film, pluripremiato in tutto il mondo, che mette in luce la natura ambigua, meglio, ondivaga della maternità: una ragazza madre e una suora, il potrei ma non voglio e il vorrei ma non posso. Delpero procede in punta di penna, ovvero di caméra-stylo, raffreddando la materia senza gelare l’empatia, inquadrando il buco della serratura senza indulgere nel voyeurismo. Minimalista questione, di cosa parliamo quando parliamo di maternità, che affida a suor Paola (Lidiya Liberman): di fronte alla piccola Nina, abbandonata nell’hogar dalla mamma Lu (la non professionista Agustina Malale), inizia a sentire il desiderio di farsi madre. Però la filmaker non si fa imbrigliare dalla denotazione, vira sul “maternage, il prendersi cura. Mi interessa come passa in maniera subliminale questo sottotesto, intridendo la maternità biologica, elettiva, adottiva, cristiana”.

La complessità si scioglie nell’aderenza ai corpi, nella “voglia di corporalità preminente: le due donne sono pianeti diversi, una tutta smutandata, l’altra coperta, ma mi interessava lavorare sulle similitudini, perché ci sono”. Non contenuti disincarnati né voli pindarici, piuttosto un tallonamento insieme pudico e trasgressivo: Maternal non è programmatico, bensì cinematografico, fa parlare le immagini, non le intenzioni, tantomeno le tesi. Ecco deodoranti spruzzati sui genitali e caste vesti, depilazioni con lo scotch e capelli tenuti sotto il velo, eppure, davvero la tensione non è per la differenza, ma per la comunanza: gli strappi di Lu e gli slittamenti di Paola veicolano lo stesso movimento, giacché entrambe “si permettono di seguire il desiderio contro la responsabilità, sia questa maternità o vocazione”.

Delpero guarda senza giudizio, con curiosa benevolenza, si predispone al riconoscimento delle assonanze, alla conciliazione di opposti solo apparenti: la storia non cerca il miracolo, né il racconto la bella posa, insieme fanno di normalità scoperta, di moderazione guadagno, di assertività perfino rivoluzione. È l’elogio del quotidiano, indizi, segni e dettagli che compongono un affresco rubato all’indifferenza e trasformato dall’arte: quando vediamo suor Paola muovere le dita dei piedi con fremente pazienza, torna in mente Robert Bresson. E non solo lì, forse.

 

I consigli del maestro Rilke: “Il poeta è un’ape sul dolce”

Sin dalla sua prima apparizione nel 1929, quando Rainer Maria Rilke era da poco scomparso, Lettere a un giovane poeta divenne nei Paesi di lingua tedesca una specie di manifesto di poetica, un breviario di arte e vita insieme che incontrò un certo plauso nel pubblico. E non ci volle molto perché, grazie alle traduzioni nelle lingue maggiori d’Europa, il suo successo desse in qualche modo il via a un vero e proprio genere letterario non ancora tramontato: maestri nelle più disparate materie si rivolgono a un ideale discepolo in missive dal toccante miscuglio di estetica ed esistenza. Solo per fare qualche esempio, si inizia dalle Lettere a un giovane poeta di Virginia Woolf (1932) per arrivare più di recente a quelle dell’étoile francese Maurice Béjart a un danzatore (2001) o del sociobiologo americano Edward Wilson a un giovane scienziato (2013).

Le epistole dell’autore di Elegie duinesi e Sonetti a Orfeo sono, dunque, assai note – quasi mandate a memoria nei passaggi più toccanti da chi almeno una volta si è trovato di fronte alla pagina bianca eccitato e smarrito – ma il suo destinatario, invece, che fine ha fatto? Per questo, è pregevole l’uscita per i tipi del Saggiatore del volume che presenta per la prima volta al lettore italiano il carteggio completo delle missive inedite del giovane poeta in questione: Franz Xaver Kappus. Non più un testo fittizio, dunque, ma una vera e propria corrispondenza avvenuta tra il 1903 e il 1908.

Kappus è un allievo dell’Accademia militare di Wiener Naustadt. Un giorno, mentre se ne sta seduto nel parco dell’istituto a leggere proprio una silloge di Rilke – “all’ombra degli ippocastani” racconta – il cappellano gli sfila curioso il volume e, leggendo il nome dell’autore, gli parla del figlio di un ufficiale austroungarico, un ragazzino smilzo, pallido, silenzioso ma molto dotato che una decina di anni addietro è stato allievo dell’accademia: è un giovane Rainer (René). Per Kappus è una rivelazione: si trova in un momento cruciale della propria esistenza, deve scegliere tra la carriera militare e la scrittura. Ha già composto versi e la tentazione di chiedere un parere a Rilke è troppo potente. Si procura il suo indirizzo parigino e cede. I due non hanno nemmeno dieci anni di differenza, ma nelle sue lettere cariche di aspettative (e versi su cui attende un giudizio, che spera positivo) Kappus chiede al quel fratello maggiore cosa fare della propria vita: è un déraciné, non crede più in Dio, ha tentato il suicidio, e perde le giornate a leggere le biografie degli artisti totali come Leopardi e Rodin.

Lette oggi, alla luce dell’incalzare di Kappus, le parole di Rilke guadagnano ancora più smalto e, come scrive ottimamente Magrelli nella sua preziosa prefazione, costituiscono “un’iniziazione che non potrebbe essere più ardua, e sembra progettata appunto allo scopo di scoraggiare l’allievo” sempre però affettuosa, perché la vita del poeta è un risultato che si raggiunge con dolore e tristezza. Gli consiglia di non abbordare l’amore e la morte perché “sono compiti, che noi portiamo nascosti e trasmettiamo ad altri senza aprirli” ma di scrivere qualcosa di “proprio”. Kappus è motivato: proseguirà la carriera militare il giusto per poi “essere più libero” e non demorde: vuole scrivere una pièce e prosegue con le poesie. Nell’ultima lettera, lo ringrazia enormemente e gli assicura: “Le sue parole resteranno sempre con me”. E infatti, dopo aver atteso un poco, diventa scrittore e sceneggiatore. Rilke glielo aveva scritto di pazientare e di prendere, come fanno le api, “in ogni cosa quanto vi è di più dolce”.

 

L’anticipazione

Rilke a Kappus Parigi, 17 febbraio 1903
“Mi chiede se i suoi versi sono buoni. Lo chiede a me. Prima lo ha chiesto ad altri. Li manda alle riviste. Li confronta con altre poesie e si inquieta se certe redazioni respingono i suoi tentativi. Ora – giacché mi ha consentito di darle consigli – la prego di abbandonare tutto questo. Lei guarda all’esterno, cosa che, più di ogni altra, ora non dovrebbe fare. Nessuno può darle consigli e aiuto, nessuno. C’è un unico mezzo. Si immerga dentro di sé. Indaghi la ragione che le impone di scrivere; verifichi se affonda le sue radici nell’intimo del suo cuore, confessi a se stesso se le toccherebbe morire qualora le venisse negato di scrivere. Soprattutto questo: si chieda, nell’ora più quieta della notte: devo scrivere?… Di lì in poi la sua vita troverà comunque le proprie vie, e io le auguro che siano buone, ricche e ampie, più di quanto riesca a dire”.

Kappus a Rilke Wiener Neustadt, 27 febbraio 1903
“Quante volte, inviando all’una o all’altra personalità letteraria i miei tentativi poetici, ho vagheggiato una risposta alla mia richiesta che avesse in sé qualcosa della grandezza silenziosa e dell’onesta benevolenza, la cui manifestazione più bella e benigna ho ottenuto soltanto dalle sue righe sollecite!… Quando mi sarò compiutamente raccolto, guarderò nel profondo della mia anima e mi chiederò: devo scrivere? Poi però arriveranno i pensieri, che si inseguono come rondini e mi fanno paura. Ho spesso di queste ore silenziose, che giungono senza essere state invitate e si struggono per il sole, così lontano da loro. E poi, dopo notti come queste, mi ritrovo stanco e sconsolato di fronte all’estrema conseguenza del mio pensiero: chi sono io? Da dove vengo? Dove vado? E poi nascono parole, quasi involontariamente, come liberazioni. È necessità, questa?”.

“I socialisti devono rinnovarsi. La speranza spagnola è Errejón”

Lo scrittore e saggista spagnolo Antonio Muñoz Molina neanche in uno dei suoi noir madrileni sarebbe mai arrivato a immaginare per la governatrice popolare, Isabel Diaz Ayuso, una “vittoria in tutti i municipi, in tutti i quartieri, anche in quelli tradizionalmente di sinistra. È stata una grande sorpresa” commenta. La speranza? “Monica Garcia (Mas Madrid, il partito di Íñigo Errejón, ndr): è il futuro riformista della Spagna: il Psoe, benché asse della democrazia spagnola, deve rinnovarsi”.

Muñoz Molina, quali sono state le carte vincenti di Ayuso alle Regionali?

Non lo so, davvero. Per me è molto difficile comprendere questa vittoria. In primo luogo perché la sua gestione della pandemia è stata disastrosa, per la parte che spettava al governo regionale. Pensate alla questione delle Rsa, la medicina di base, il pessimo tracciamento dei casi. In secondo luogo, perché la sua campagna elettorale è priva di qualsiasi messaggio concreto. Libertà, comunismo e poi quella strana demagogia nazionalista che scimmiottava il trumpismo e l’indipendentismo catalano.

Il noi contro voi.

Esatto. La sua invenzione del “vivere alla madrilena”. Tutto ridicolo. Ma credo che sotto il risultato ci sia un messaggio subliminale di chi pensa ‘faccio quello che mi pare, non ho bisogno di essere solidale né con coloro che soffrono né con gli altri territori spagnoli’. Una sorta di chiamata all’egoismo sfacciato. Una disgrazia, perché la Spagna non può permettersi una spaccatura così.

In cosa hanno sbagliato invece socialisti e Podemos?

I socialisti hanno una triste storia di sconfitte a Madrid. Non so perché, ma non sono mai riusciti a scegliere dei candidati attraenti, anche se buone persone e con le migliori intenzioni.

Angel Gabilondo (Psoe) è riuscito a fare anche peggio dell’ultima volta.

Certo. Perché in questo caso c’era l’aggravante che dal 2019 all’opposizione non è stato efficace.

E Pablo Iglesias?

Credo che si sia concentrato troppo sul linguaggio fighetto della democrazia contro il fascismo, ma non siamo negli anni 30. Non c’è un pericolo di fascismo nel senso di una volta, seppure c’è il rischio della presenza dell’estrema destra nelle istituzioni politiche spagnole.

Di fatto adesso Vox ora avrà anche più potere nella Regione della Capitale.

Sì, e ciò che fa Vox nelle istituzioni è sdoganare un linguaggio molto aggressivo: un problema molto grave.

Però c’è anche chi non è caduto nella trappola della polarizzazione dello scontro politico.

Sì, Monica Garcia (Mas Madrid, ndr). Infatti è la mia unica ragione di allegria e non soltanto perché ho votato per lei. Ma perché è una speranza, quella di cui abbiamo bisogno.

Ma i temi di Mas Madrid sono gli stessi di Podemos.

Sì, ma Podemos li ha portati avanti con una retorica inutilmente aggressiva. Nonostante le vere aggressioni siano quelle subìte da Pablo Iglesias, e non solo a parole: lo stalking che ha ricevuto fuori casa è una cosa inaccettabile.

A livello nazionale lei crede che i Popolari guadagneranno terreno e daranno la spallata al governo Sanchez?

Non credo… non lo so. I Popolari non sono così uniti, né tutti i governatori del Pp sono d’accordo con questa politica. Tanto più che Ayuso ha usato una retorica che ha reso Madrid ancora più invisa alle altre regioni. Sono invidioso dell’Italia e del Portogallo per la vostra unità nazionale. Qui il Pp ha sempre votato contro lo stato d’emergenza fin dall’anno scorso. I prossimi passi richiedono grandi accordi nazionali e internazionali. Andare al voto sarebbe una perdita di tempo imperdonabile.

Quale sarà il futuro del Partito socialista secondo lei?

Il Psoe è il partito con maggior grado di responsabilità. Ma è troppo diviso, burocratizzato. I baroni hanno questo difetto triste dei vecchi che non vogliono essere vecchi. A Madrid alcuni appoggiano Ayuso, per dire. Gente che ha governato il Paese all’età di 30 anni, ma che non fa un passo indietro. Spero in Monica Garcia per la sua capacità di mediazione.

Gerusalemme, sfratto di ebrei ai palestinesi: sale la tensione

Con una mossa a sorpresa, il presidente israeliano, Reuven , ha deciso di incaricare il capo dell’opposizione, Yair Lapid, di formare il prossimo governo dopo il fallimento di Benjamin Netanyahu. Il leader centrista di “C’è un futuro” avrà lo stesso lasso tempo, 28 giorni, per riuscire in questa complicata “impresa” di coalizione allargata che necessita della cooperazione del partito arabo islamista di Mansour Abbas, avendo ottenuto 4 seggi. Ma non è detto che a guidare l’eventuale coalizione di governo sarà lo stesso Lapid. Non è esclusa infatti la possibilità di una premiership a rotazione con Naftali Bennett, leader di Yamina, il partito dei coloni che da giorni sta mettendo a ferro e fuoco, con la complicità della polizia israeliana, il quartiere di Sheikh Jarrah, a Gerusalemme est. Sheikh Jarrah è quello più vasto e più a ridosso dei luoghi simbolo sia dell’ebraismo sia dell’Islam: rispettivamente il Muro del Pianto e la Spianata delle Moschee. L’associazione Ateret Kohanim, fondata dall’estremista ebreo di origine australiana, Daniel Luria, da anni sta provando a sfrattare i palestinesi residenti nella zona orientale della Città Santa, che secondo l’Organizzazione dell’Onu deve diventare la capitale del futuro Stato di Palestina. Gli scontri più violenti tra i coloni ebrei e gli abitanti palestinesi di Sheik Jarrah sono scoppiati ieri dopo il pasto serale, iftar, che interrompe il digiuno del Ramadan. Un gruppo di coloni ebrei armati, accompagnati dalla polizia, dopo aver fatto irruzione in alcune case di palestinesi gerosolimitani, hanno ingaggiato una battaglia per impossessarsi delle abitazioni. Le tensioni sono andate aumentando in vista di un’imminente udienza in tribunale per dirimere una controversia sulla proprietà di alcuni palazzi del quartiere. Un caso legale di lunga durata in cui numerosi palestinesi sono stati coinvolti perchè accusati di possedere case edificate nel secolo scorso su terreni oggi prepotentemente rivendicati dai coloni. Gli arresti effettuati dalla polizia israeliana, come prevedibile, hanno riguardato solo i palestinesi, molti dei quali sono stati feriti e, di conseguenza, portati all’ospedale in manette. La situazione si complicherà lunedì prossimo nella “Giornata di Gerusalemme” con la quale Israele celebra la riunificazione della città dopo la cattura della parte est nella Guerra dei 6 giorni del 1967. Da Gaza, Mohammed Deif, capo delle “Brigate Izz ad-Din al-Qassam”, l’ala militare di Hamas, ha avvertito che Israele “pagherà un prezzo pesante” se procederà con gli sfratti.

Nuove primavere da fame. Medio Oriente e pandemia

Il Medio Oriente ha tante crisi drammatiche – Covid, guerre senza fine in Siria, Yemen e Libia, estremismo islamico, corruzione, Stati in bancarotta – ed è facile che le emergenze passino inosservate finché non è troppo tardi. Adesso l’intera Regione è all’apice di un’era di aumento dei prezzi dei prodotti alimentari e di carenze che potrebbero facilmente scatenare una nuova tempesta di disordini politici.

Quando la pandemia di coronavirus si è diffusa, c’erano preoccupazioni che le catene di approvvigionamento globali di cibo sarebbero state interrotte, provocando gravi carenze alimentari. Ciò non è accaduto, ma i prezzi sono aumentati e il ritmo è accelerato negli ultimi mesi. L’indice dei prezzi alimentari dell’Onu per l’alimentazione e l’agricoltura è salito a 118,5 a marzo, il livello più alto dal 2014 con un aumento del 24% nell’ultimo anno.

Nei Paesi poveri aumenti del genere non possono essere assorbiti dalla gente che lotta per tirare avanti. Dieci anni dopo non c’è accordo su cosa abbia portato all’esplosione delle proteste nel mondo arabo nel 2011, ma certamente l’aumento dei prezzi dei prodotti alimentari è stato uno di questi. L’anno prima delle Primavere arabe, l’indice Fao era salito del 17%. Finora sembra che i governi del mondo arabo abbiano contenuto l’impatto con scorte di forniture e controllando i prezzi locali, che in molti casi sono sovvenzionati. I leader sanno da tempo che i cittadini affamati sono cittadini arrabbiati. Ma la capacità dei governi di contenere le ricadute è fortemente limitata dal fatto che il Medio Oriente dipende tanto dal cibo importato: in qualunque modo vanno i prezzi globali del cibo, così vanno i prezzi in Medio Oriente.

Gli aumenti non sono finiti. La Banca mondiale prevede incrementi del 14% per il resto di quest’anno e ancora di più nel 2022. Uno dei motivi è che l’agricoltura è ad alta intensità energetica e il prezzo del petrolio è in aumento. Un altro è che il dollaro si sta apprezzando dopo un periodo di debolezza; e poiché la maggior parte delle materie prime agricole ha un prezzo in dollari, a parità di condizioni saranno più costose per gli importatori. Infine, la crescente domanda di biocarburanti sta deviando colture come la soia dallo stomaco della gente ai serbatoi, per chi sta cercando di mettere il cibo in tavola è una tragedia. Goldman Sachs pensa che questo sia solo l’inizio di quello che in un suo recente studio definisce un “superciclo” delle materie prime che porterà prezzi più alti per tutto, dal mais al rame, per molti anni a venire. Nell’area mediorientale e Nord Africa i Paesi a rischio si possono dividere in tre categorie.

Nella prima Siria e lo Yemen guidano il branco di Paesi disperati con governi poco o affatto funzionanti. In Siria, l’Onu stima che l’insicurezza alimentare colpisca già il 60% della popolazione. Un paniere di alimenti base, che non include la carne, è aumentato del 222% nell’ultimo anno. Sfortunatamente per i siriani, l’opzione di protestare in piazza non esiste; soffriranno in silenzio nella speranza che i protettori di Bashar al Assad arrivino in aiuto. Finora non lo hanno fatto e anche le donazioni occidentali stanno diminuendo.

In Paesi come il Sudan, la rivoluzione del 2019 ha portato al potere facce nuove, il generale Abdel Fattah Al Burhan e il primo ministro Abdalla Hamdok, ma la vecchia casta dell’ex dittatore Bashir è ancora nei gangli dell’economia. I prezzi dei generi di prima necessità sono triplicati così come i mendicanti ai semafori di Khartoum. Senza un cambio di passo, presto la folla riempirà le piazze.

La seconda categoria sono gli Stati petroliferi del Golfo. Importano quasi tutto il loro cibo, ma hanno i soldi per una produzione locale ad alto costo e l’acquisto di terreni agricoli all’estero per garantirsi importazioni a prezzo controllato. I Paesi del Golfo contano anche sull’agritech, sicuramente una delle ragioni per cui gli Emirati Arabi Uniti sono stati così entusiasti a fare affari con Israele.

La terza categoria sono i “Paesi di mezzo”, come Egitto e Giordania, che hanno governi funzionanti, ma non la ricchezza necessaria per uscire dal problema. Sono vulnerabili all’aumento dei prezzi alimentari globali – l’Egitto è il più grande importatore mondiale di grano – e non hanno molte soluzioni all’insicurezza alimentare se non chiamare l’esercito quando iniziano le proteste. L’ultima volta, nel 2011, despoti e regnanti sono riusciti per lo più a rimanere al potere, la prossima volta potrebbe finire diversamente.