Non solo vaccini, ci sono le terapie

Sia sui media sia nelle interviste istituzionali, si parla quasi esclusivamente di vaccini, poco o nulla di terapia. Premetto: i vaccini sono fondamentali, ma non possiamo usarli come unica arma contro la pandemia. Purtuttavia, come è inspiegabilmente accaduto per altri argomenti diventati tabù, quando si mette in evidenza l’importanza di schemi terapeutici, quando si afferma, dati alla mano, che Covid è una malattia curabile in casa quasi nel 90% dei casi, si rischia di essere cacciati nel girone infernale dei negazionisti, no-vax, ecc. Come se non bastasse e come mai accaduto nella Storia della medicina, anche questo argomento è finito per essere un mezzo di identità politica.

Troppo spesso sentiamo dire che una misura di contenimento viene presa non per la sua validità diretta nei confronti del virus, ma per scoraggiare un comportamento, perché la gente potrebbe esagerare, ecc È invece evidente che, a parte inevitabili eccezioni, i sacrifici sono stati fatti da tutti e accettati con senso di responsabilità. Non c’è bisogno di chiudere le scuole per evitare gli assembramenti dei genitori, non c’è bisogno di chiuderci in casa alle 22 per evitare che ci si senta “troppo liberi”. E non bisogna oscurare i buoni risultati terapeutici delle cure domiciliari di Covid per indurre la gente a vaccinarsi. Ci sono ormai dati scientifici in tal senso. A Simple, Home-Therapy Algorithm to Prevent Hospitalization for COVID-19 Patients: A Retrospective Observational Matched-Cohort Study è un lavoro pubblicato dall’Istituto Mario Negri che, numeri alla mano, ha dimostrato che con semplici cure anti-infiammatorie, in paragone a un gruppo controllo, si ha la riduzione dei giorni e dei costi cumulativi di ospedalizzazione del 90% (rispettivamente da 481 a 44 giorni e da 296.000 a 28.000). Solo 2 pazienti su 90 hanno bisogno del ricovero nel gruppo trattato con lo schema antinfiammatorio, mentre 13 su 90, nel gruppo controllo. Nel tempo, la ricerca ci proporrà sicuramente altri schemi terapeutici.

 

Inquinare meno, consumare meno

Bio, green, filiera corta. Non si sente parlar d’altro. La filiera corta, come la Democrazia, esisteva prima di sapere di esser tale. È tipico della società contemporanea scoprire cose che esistevano già fingendo, o illudendosi, che siano nuove.

Per secoli i popoli dell’Africa Nera hanno vissuto di economia di sussistenza, autoproduzione e autoconsumo, si cibavano cioè di ciò che producevano. Più corta di così? Sul piano alimentare utilizzavano lo scambio solo eccezionalmente e nella forma del “baratto puro”. Così uno scrittore del regno africano del Dahomey ricorda, con nostalgia, la natura del “baratto puro” quando il denaro, che in quella parte del Continente nero fece la sua comparsa piuttosto tardi, nel XVIII secolo, non esisteva ancora: “In quei giorni non vi era moneta. Se volevi comprare qualcosa e tu avevi sale e un altro aveva grano, tu gli davi un poco di sale e lui ti dava un poco di grano. Se tu avevi pesce e io avevo pepe, io ti davo pepe e tu mi davi pesce. In quei giorni esisteva soltanto il baratto. Niente moneta. Ciascuno dava all’altro ciò che aveva e ne riceveva ciò di cui aveva bisogno”. Che cosa aveva determinato il cambiamento lamentato dallo scrittore del Dahomey? Quando i primi colonizzatori arrivarono da quelle parti misero una tassa su ogni capanna, così l’agricoltore era costretto a produrre un surplus e a entrare quindi in quel sistema economico occidentale che conosciamo molto bene. Nonostante ciò i popoli africani resistettero a lungo. Ai primi del Novecento l’Africa era alimentarmente autosufficiente. Adesso c’è tutto un pruriginoso e ipocrita movimento per “salvare l’Africa”. L’Africa stava molto meglio quando si aiutava da sola. Ancora nel 1961 era, in buona sostanza, autosufficiente, al 98%. “Ma da quando ha cominciato a essere aggredita dalla integrazione economica – prima era considerata un mercato del tutto marginale e poco interessante – le cose sono precipitate. L’autosufficienza è scesa all’89% nel 1971, al 78% nel 1978” (Il vizio oscuro dell’Occidente, 2002). Per quello che è successo dopo non sono necessarie statistiche, basta osservare l’enorme flusso di emigranti, ridotti alla fame, che pur di arrivare in Europa sono disposti ad attraversare la Libia, a rischiare la morte, e spesso a trovarla, sui gommoni degli scafisti che non sono i protagonisti di questa tragedia, i veri protagonisti siamo noi occidentali. Sono state scritte intere biblioteche sui crimini del comunismo, che ovviamente ci sono stati e ci sono, ma verrà pure un giorno in cui qualcuno dovrà scrivere un libro sui crimini dell’industrial capitalismo, del turbocapitalismo, che riescono a essere ancora peggiori di quelli.

Agli inizi di aprile, gli Stati appartenenti al gruppo del cosiddetto G20, cioè i venti paesi più industrializzati del mondo, resisi conto che stiamo assassinando l’ecosistema, cioè la terra su cui abitiamo, hanno organizzato l’ennesima riunione per ridurre i danni dell’inquinamento ambientale. Chi dice entro il 2030, chi entro il 2050. Di qui la litania, in atto da qualche anno, del bio, del green, della filiera corta, delle macchine all’idrogeno, delle macchine elettriche, della riduzione di CO2. Quand’anche fossero in buona fede, e ci credo pochissimo, son tutte balle, luride balle. Perché qualsiasi energia, foss’anche la più pulita, se usata in modo massivo è inquinante. Perché ha bisogno di un’altra energia che la inneschi. Prendiamo le auto all’idrogeno. In teoria l’idrogeno è il combustibile ideale. In natura esiste in quantità enormi e la sua combustione genera come residuo soltanto acqua. L’estrazione dell’idrogeno, però, richiede energia, quindi la sua convenienza dipende da quanta energia si consuma per estrarlo e – ancora una volta – da come questa energia viene prodotta. Oggi la maggior parte dell’idrogeno in commercio è un prodotto secondario della lavorazione degli idrocarburi. È il metodo più economico ma anche quello più inquinante: si generano svariate tonnellate di CO2 per ciascuna tonnellata di idrogeno prodotta. Altro problema è quello relativo alle fonti rinnovabili, in particolare l’eolico e il fotovoltaico: coprire il mondo di pale eoliche e di pannelli fotovoltaici non lo rende, con buona pace di Beppe Grillo, un posto migliore. Perché la costruzione e poi lo smaltimento di pale e pannelli comporta a sua volta un impatto ambientale.

C’è un solo modo per ridurre l’inquinamento: produrre di meno e consumare di meno. Cioè, in pratica, scaravoltare l’attuale modello di sviluppo che si basa sul consumo. Siamo arrivati al punto paradossale che noi non produciamo più per consumare, ma consumiamo per poter produrre.

In questo il Covid (non subito perché adesso ci sono singole imprese o singoli individui in situazioni economiche disperate) potrebbe tornarci utile. In un anno di lockdown abbiamo imparato a ridurre i consumi a ciò che veramente riteniamo essenziale. Prendiamo, a solo titolo di esempio, il vestiario. Non è necessario avere nell’armadio cento vestiti e duecento paia di scarpe – in questo caso parlo soprattutto alle donne – per sentirsi a proprio agio e sufficientemente eleganti. Non è necessario avere quattro televisori in casa. Non è necessario avere quattro automobili. E così via. Ciascuno può ridurre quei consumi che lo interessano di meno. Se ciascuno di noi fa queste scelte, automaticamente, in via generale, si ridurranno consumi e produzione. E in questo modo si risolverà anche la questione che mi pose lo storico Carlo Maria Cipolla quando gli prospettai questa ipotesi: “Ciò che è essenziale si differenzia da individuo a individuo. Per lei, magari, essenziali sono i libri, per altri beni molto diversi” (Scienza Amara, Pagina, 18 marzo 1982). Va bene. Ma se ciascuno di noi consuma solo ciò che per lui è veramente essenziale, e quindi senza ledere la libertà di scelta dell’individuo, si otterrà ugualmente una generale riduzione dei consumi marginali. Ma dubito molto che ci arriveremo mai. L’uomo è un animale troppo stupido. Prima di tentare Eva con la mela della conoscenza, Satana si rivolse al leone e il leone reagì con un ruggito così potente che mandò Satana a ruzzolare per le terre. Allora Satana capì che aveva sbagliato il bersaglio e si rivolse al soggetto più debole (intendo l’uomo in generale, non Eva – Marco stai sereno). E oggi impera nel mondo.

 

Libia, lo scambio gamberi-migranti imbarazza l’Italia

Complimenti, il Memorandum d’intesa Italia-Libia è servito: a quanto pare i colpi di mitra esplosi contro tre pescherecci di Mazara del Vallo, col ferimento del comandante Giuseppe Giacalone, sono partiti da una barca da pattugliamento veloce Obari donata dall’Italia alla Guardia costiera libica e tuttora assistita dalle unità officina della nostra Marina Militare, nel contesto del programma comune anti-immigrazione. Tanto per ricordarci in quali mani ci siamo messi.

È imbarazzante per il governo italiano – solo il mese scorso a Tripoli il premier Draghi lodava la politica migratoria che deleghiamo e finanziamo ai libici –, ma risulta arduo separare l’annosa controversia sulla pesca dei gamberi rossi dalla scelta di astenersi dal salvataggio dei naufraghi in quelle stesse acque. L’Italia contesta la decisione unilaterale, assunta da Gheddafi, di estendere a 74 miglia dalla costa le acque territoriali libiche, in violazione dei trattati internazionali. Ma la subisce – a costo di penalizzare i pescatori siciliani – pur di consentire alle motovedette di Tripoli di proseguire il loro sporco lavoro: recupero dei barconi e successiva deportazione dei superstiti nei famigerati campi di prigionia. In barba alle Nazioni Unite che non riconoscono lo status di “porto sicuro” agli approdi libici. Il coro di proteste levatosi all’unisono dalle forze politiche italiane dopo la sparatoria, così come già dopo l’arresto di 13 pescatori siciliani nel dicembre scorso, gronda d’ipocrisia. La Lega chiede “un intervento diplomatico”. Per Italia Viva “la misura è colma”. Il Pd proclama che “non ci si potrà accontentare di scuse o vaghe spiegazioni”. Perfino la sovranista Giorgia Meloni si accontenta di chiedere che “si faccia sentire forte e autorevole la voce del governo Draghi”, perché “l’Italia non deve piegare la testa”. Sono finiti (per fortuna) i tempi in cui la destra nazionalista propugnava imprese coloniali d’oltremare sul modello dell’infausta campagna di Libia del 1911. Fare la voce grossa non costa nulla, mentre inviare una nostra forza armata nel ginepraio libico risulterebbe impopolare. Meglio proporre un blocco navale militare finalizzato al respingimento dei migranti. Chissà che sotto l’ala protettiva della Marina possa riprendere anche la pesca dei gamberi rossi, purché si eviti di ripescare anche le persone che affogano in mare.

Insieme a Rosy Bindi, Luigi Manconi, Sandro Veronesi e altri ci siamo rivolti a Enrico Letta, ricordandogli che nel 2013 fu lui il promotore dell’operazione Mare Nostrum che salvò decine di migliaia di vite umane. All’epoca Letta non si trincerò dietro alla foglia di fico del necessario coordinamento europeo per intraprendere l’azione di salvataggio. Lo incontreremo nei prossimi giorni affinché, da segretario del Pd, solleciti il governo a far fronte a una situazione drammatica: quest’anno è più che raddoppiato il numero degli annegati. Può essere l’occasione per rivedere l’insieme delle nostre relazioni con la Libia, dopo il fallimento del Memorandum. Anche nell’interesse dei pescatori siciliani.

Ursula von Tomasi di Lampedusa

Com’e noto,secondo Karl Kraus, che ne fu grande produttore, un aforisma è una mezza verità o una verità e mezzo. Volendo aggiungere un corollario a questa celebre definizione, diremmo che un aforisma usato a sproposito resta una mezza verità, ma a volte può diventare due verità e mezzo. È il caso, quest’ultimo, occorso ieri alla presidente della Commissione Ue. Nata Albrecht da un capataz della Cdu nella Bassa Sassonia, Ursula usa il cognome del nobile marito: Von der Leyen. Particolare gustoso. Ieri infatti l’ottima Ursula col suo nobile cognome, inaugurando nell’usuale profluvio di banalità il Social Summit di Oporto, ha buttato lì quella che il suo ghostwriter avrà sicuramente ritenuto una citazione colta (e non due verità e mezzo, come in effetti è): “Il mondo sta cambiando e anche noi dobbiamo cambiare. Come ha detto il celebre Tomasi di Lampedusa nel Gattopardo: tutto deve cambiare, perché tutto resti come prima” (e via di Recovery Plan, cambiamento climatico, transizione digitale e resilienza in un crescendo che diremmo flaubertiano, nel senso del Dizionario dei luoghi comuni). Nel Gattopardo il nipote Tancredi spiega così al principe di Salina che bisogna adeguarsi alla nuova Italia unitaria per tenersi i propri privilegi: “Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi”. Definendo con queste parole per sempre, parafrasiamo qui la Treccani, l’atteggiamento dei privilegiati di un passato regime che – mutata la situazione – appoggiano quello nuovo, anzi fanno finta d’esserne i promotori (“ante marcia”, avrebbe detto Totò). Mentre ci deliziamo con le schede del Pnrr, ricordate dunque a cosa serve secondo la nobile Ursula von der Leyen: “Tutto deve cambiare perché tutto resti come prima”. Esaurito il senso politico della vicenda, resta la scelta della citazione, infausta e assieme perfetta. E qui si torna a Flaubert e al suo continuo studio della “bêtise”: Ennio Flaiano, scrivendo di una riduzione teatrale di Bouvard et Pécuchet negli anni 60, notava che la stupidità “oggi non è tanto più borghese, razionalista e volterriana, come ai tempi del farmacista Homais, quanto tesa verso il futuro, piena di idee. Oggi il cretino è pieno di idee”. E non si fa mancare i target e i milestone.

Mail box

 

Il primo amore di Letta: le larghe intese con B.

Giorni fa avete scritto: “Letta dice che si trova meglio coi forzisti che cogli alleati e sogna la maggioranza ‘Ursula’. B. punta Quirinale coi voti del Pd”. Il primo amore non si scorda mai: nel 2013 Letta, dopo aver preso i voti per “smacchiare il giaguaro” (Bersani dixit), non seppe resistere al richiamo della foresta e varò il governo delle larghe intese imbarcando lo stesso giaguaro. Dunque Letta è in perfetta sintonia con quelle sciagurate scelte, ma se ‘errare humanum est, perseverare autem diabolicum’.

Maurizio Burattini

 

Per Figliuolo tutto bene, ma c’è chi aspetta la dose

Scrivo da Terracina. Il generale “Penna Bianca” dice che “va tutto bene”, ma io ho 73 anni e sono cardiopatico (2 stent coronarici) e iperteso e il mio medico di famiglia da due mesi mi dice che i vaccini non arrivano e che ancora deve vaccinare gli ultraottantenni, mentre a Roma stanno vaccinando gli ultrasessantenni anche con il Pfizer. Io ho provato a contattare molti numeri di telefono, ma sono ore di attesa o non risponde nessuno. E purtroppo non ho e non so usare il computer.

Santino

 

Il buco nell’acqua di Bellanova e Poste

Perché non fate un articolo sullo schifo di gestione del Fondo ristorazione di Poste italiane e il ministero ex Bellanova? A tutt’oggi non c’è possibilità di parlare con un operatore, si alternano la palla tra un contatto del ministero e la fantomatica email di poste per avere chiarimenti, ma tutto vano in quanto non danno risposte concrete. Ci sono numerosissime domande in standby e trovano scuse che l’Iban è non corretto (inviando Pec con l’attestazione di veridicità an he da parte dei responsabili di banca, ma fanno orecchie da mercante). Uno schifo totale per una categoria distrutta.

Sebastiano Musolino

 

L’arroganza di Cacciari contro la scienza

Martedì ho guardato la trasmissione Cartabianca. Seguendo l’intervista con il prof. Cacciari e il prof. Galli sono rimasto sconcertato dal modo e dall’aggressività con la quale il prof. Cacciari aggrediva la scienza e le teorie che con calma ed educazione, che lo contraddistinguono, esprimeva il prof. Galli. La cosa che mi ha lasciato perplesso è stato anche il comportamento della conduttrice, Bianca Berlinguer, che non è intervenuta a invitare il prof. Cacciari a moderare i toni e l’aggressività. Certo che se l’intelligenza del prof. Cacciari è accompagnata dall’aggressività che spesso esercita è meglio che si dia una regolata.

Nino Apolloni

 

Un commento al dibattito tra De Masi e Smeriglio

A seguito di quanto scritto da De Masi e Smeriglio vorrei portare il mio semplice commento di lettore. Ovviamente definire oggi le “classi sociali” è difficile perché il “proletario” e il “capitalista” hanno assunto forme di difficile individuazione. Però non è cambiato il significato di sfruttato e sfruttatore, di evasore fiscale, di mancanza di diritti civili e il continuo sfruttamento della natura con l’esponenziale crescita dell’inquinamento. Allora se si prendono questi punti come riferimento per la “mappatura” auspicata da Smeriglio si otterrà il consenso di tutti coloro, dipendenti e autonomi, che in questi argomenti individuano il loro “malessere” e si potrà così procedere allo sviluppo di un programma di azioni possibili ad “abbattere questi orrori” e costruire una società più rispettosa per la condizione umana e per la natura a protezione di chi verrà dopo di noi. Ecco, io mi aspetterei che “uomini nuovi” (Conte?) presentassero a noi elettori, magari facendo i comizi di una volta, questo tipo di discorsi e non le solite “cazzate”, pensate in stanza, che tutti i giorni leggiamo sui giornali! Meno male che c’è il Fatto a parlare di queste tematiche: speriamo non resti solo una voce nel deserto!

Raffaele Fabbrocino

 

“Stai sereno…” come nel film di Truffaut

Buongiorno Travaglio, l’altro giorno la Rai trasmetteva un vecchio film, un giallo atipico, di Truffaut: Finalmente domenica. Nel primo minuto si assiste a un omicidio, dopo altri cinque minuti viene assassinata una donna. Il primo a essere sospettato è il marito (J.L. Trintignant) poiché sembra che il primo assassinato fosse l’amante della donna. Trintignant viene portato in questura, chiama il suo avvocato che riesce a riportarlo a casa (siamo al diciannovesimo minuto). Prima di congedarsi, l’avvocato dice a Trintignant: “Stai sereno”! A questo punto non ho continuato a vedere il film perché mi sembrava un gioco troppo scoperto, il colpevole era servito su un piatto d’argento. Sa, il film è del 1983, possibile che Truffaut avesse già previsto tutto? Ho pregiudizi gravi? Lei sicuramente avrà meno pregiudizi di me, è più smagato. Lei lo ha visto il film? Visto che io non sono arrivato alla fine mi può dire se ho indovinato?

Elio Vernucci

 

Corro a vederlo, ma credo che sì, lei abbia indovinato.
M. Trav.

 

Ddl Zan, la destra tutela lo squadrismo digitale

Siccome mi avete costretto a sopportare per due volte Sallusti, prima a Otto e mezzo per seguire Padellaro e poi ad Accordi & Disaccordi, di cui non mi perdo mai una puntata, sono giunto a una conclusione, e tanto vale condividerla con voi: la paura delle destre è che gli venga tolto il diritto allo squadrismo digitale. Qualunque personaggio pubblico con un certo seguito sa che deve moderare le parole che dice pubblicamente poiché chi lo segue, chi è suo fan, può prenderle per quello che non sono: se fossi un cantante famoso e dicessi di odiare questo o quello, qualcuno potrebbe picchiarlo solo per compiacermi. Tuttavia, come sapete, non capita soltanto quando non si sta attenti a ciò che si dice, lo si può fare anche coscientemente, che è quello che sono solite fare le destre. Vivendo sull’odio, devono alimentarlo. Se il ddl Zan non dico punisce, ma almeno contrasta questo osceno uso che si fa della propria posizione di privilegio, allora è un bene. E di conseguenza non mi stupisco che Sallusti non lo ami: lui gli squadristi li difende.

Giovanni Contreras

 

Chi attacca il rapper ha la coda di paglia

Non è che alcuni giornalisti si sono risentiti perché Fedez ha fatto quello che avrebbero dovuto fare loro?

Sebastiano Oriti

Luoghi d’incontro. “Viva le edicole: hanno una funzione sociale ed etica”

Gentile redazione, in passato, specie nei giorni festivi e nei piccoli paesi, l’edicola dei giornali rappresentava il punto d’incontro tra i diversi cittadini, che si vedevano anche per parlare di fatti locali.

Ora, con la pandemia in corso, le edicole dei giornali sono rimaste l’unico punto di riferimento e di incontro, a seconda delle fasce professionali. Non a caso, gli incontri ora avvengono presso le edicole.

Vorrei ricordare qui la “mia” Edicola Pastore di Caserta, disponibile sin dalle prime ore del mattino. I lettori, anche quelli anziani e disabili, ricevono dal cortese edicolante di nome Alessandro il giornale senza scendere dall’auto.

La funzione sociale e morale delle attuali edicole va evidenziata anche perché ormai l’edicola è divenuta il solo punto d’incontro ove professionisti, lavoratori, pensionati e giovani segretarie si incontrano per vedersi e raccontarsi. Grazie e cordiali saluti.

 

Mafia, la lotta iniziata nell’80 perde colpi per le ultime scelte

Da poco aveva disceso le scale del municipio e stringeva tra le braccia la figlia Barbara di 4 anni, quando tre sicari di mafia gli spararono alle spalle. Quattro colpi di pistola, l’ultimo, il colpo di grazia, alla nuca. Moriva così, il 4 maggio 1980, a Monreale, il capitano dei carabinieri, Emanuele Basile, sotto gli occhi della moglie Silvana Musanti. I killer si dileguarono a bordo di un’auto A 112 e i cinque testimoni non fornirono alcuna indicazione per l’individuazione dei responsabili. Scattò una caccia all’uomo che portò nell’arco di poche ore a fermare i tre assassini. Uno di loro fu riconosciuto dall’appuntato dei carabinieri Ponfino Buttazzo e da sua moglie Carla. Il giudice istruttore Paolo Borsellino rinviò a giudizio tre mafiosi di rango: Vincenzo Puccio, Armando Bonanno e Giuseppe Madonia, sospettati di essere gli esecutori materiali, dando l’abbrivio al primo grande processo di mafia degli anni 80, che divenne il simbolo della Giustizia “aggiustata”. Udienza dopo udienza, sentenza dopo sentenza, Cosa Nostra sperimentò tutte le vie per assicurare l’impunità ai sicari: dalle pressioni ai falsi testimoni per fornire alibi ad arte, dalle minacce e intimidazioni nei confronti perfino degli avvocati di parte civile all’avvicinamento e ai consigli ai giudici togati e popolari, dall’attacco verbale personale nei confronti di chi aveva istruito quel processo sino all’omicidio del presidente di uno dei tanti giudizi d’appello celebrati (Antonino Saetta). Il 31 marzo 1983, i sicari furono assolti e, scarcerati, fuggirono dal confino in Sardegna. Furono necessari 12 anni, la celebrazione di ben 8 processi e le stragi di Capaci e di via Mariano d’Amelio perché gli imputati venissero riconosciuti colpevoli in maniera definitiva del delitto di quell’ufficiale dei carabinieri venuto dal continente. Fu la Quinta sezione della Corte di Cassazione che il 14 novembre 1992 condannò all’ergastolo, quali mandanti, Salvatore Riina e Francesco Madonia e il killer Giuseppe Madonia. Vincenzo Puccio fu ucciso in carcere nel 1989. Armando Bonanno venne condannato dal tribunale di Cosa Nostra, che lo fece ritrovare cadavere in un ospedale palermitano nel 2003. Servirono altri dieci anni perché divenisse definitivo il verdetto di condanna nei confronti dell’altro mandante, Michele Greco. Giovanni Brusca si autoaccusò di aver fatto parte del gruppo di fuoco che organizzò l’agguato. Sono trascorsi più di 40 anni dall’assassinio di quell’ufficiale che aveva trovato il filo che portava ai responsabili dell’agguato in cui perì il capo della Squadra mobile di Palermo Boris Giuliano e, d’iniziativa, il 6 febbraio 1980 arrestò un nugolo di mafiosi che rappresentavano lo stato maggiore dell’ala corleonese. Nei 18 mesi in cui lavorò in Sicilia, vide cadere, oltre a Giuliano, il giornalista Mario Francese, il giudice Terranova, il segretario provinciale della Dc di Palermo Michele Reina e il presidente della Regione siciliana, Piersanti Mattarella. Analoga sorte toccò la sera del 13 giugno 1983, a Palermo, al capitano, che aveva preso il posto di Basile alla compagnia dei carabinieri di Monreale, Mario D’Aleo (e ai brigadieri Pietro Morici e Giuseppe Bommarito che si trovavano in sua compagnia). Questa lunga scia di sangue ha contribuito al varo della legislazione più avanzata per il contrasto alla criminalità organizzata, che oggi viene progressivamente erosa: dalle dichiarazioni di incostituzionalità della previsione della collaborazione come unica strada per avere accesso alla libertà condizionale e ai permessi premio all’affievolimento del regime detentivo del 41-bis (con la rimozione del divieto assoluto di scambio di oggetti tra i detenuti appartenenti allo stesso gruppo di socialità e l’introduzione del diritto ai colloqui via video), segno evidente di un cambio di stagione nella cultura del contrasto al crimine mafioso.

 

Il piano inviato da Draghi dimentica la biodiversità

“Il Piano nazionale di ripresa e resilienza inviato dal governo Draghi alla Commissione europea ha ‘dimenticato’ la natura italiana”, con questo inizio tranciante inizia la lettera che la commissione Lipu-BirdLife Italia e BirdLife Europa hanno inviato alle autorità governative italiane ed europee per denunciare la “scarsità di interventi a favore della biodiversità italiana in contrasto con quanto stabilito dal Recovery Plan” accompagnando la denuncia con un dossier. Altre associazioni nei giorni scorsi hanno lamentato le carenze del Recovery Plan italiano rispetto alle esigenze ambientali del Paese, ma si tratta di associazioni che vorrebbero piantare ovunque pale eoliche e coprire di specchi fotovoltaici, come sta avvenendo, ad esempio, nella zona di Tuscania, interi pascoli fondamentali per il bestiame bovino, ovino e caprino. Nei quali, secondo gli Atlanti lasciatici dal grande economista e sociologo rurale, Corrado Barberis, scomparso di recente, abbiamo superato la Francia con oltre 400 fra formaggi freschi e stagionati, mozzarelle, caciotte e caciotte miste, ecc. La cifra stanziata per la transizione ecologica non raggiunge infatti – denunciano Lipu, BirdLife Italia ed Europa – il 37 per cento dei fondi complessivi richiesti quale quota minima dal Regolamento europeo, l’investimento per la biodiversità si ferma a 1,19 miliardi di euro sui 231 totali, corrispondenti allo 0,51 per cento. Orbene, questi fondi sono destinati alla “rinaturalizzazione” del fiume Po (360 milioni di euro), alla digitalizzazione dei parchi (100 milioni), a interventi sui sistemi marini e costieri (400 milioni) e alla tutela e valorizzazione del verde urbano ed extra-urbano (330 milioni). Troppo poco se pensiamo all’estesissimo patrimonio italiano della biodiversità o agli stanziamenti di Paesi paragonabili al nostro: la Spagna, evidenzia il documento, su 69,528 miliardi totali dedica alle opere di conservazione e restauro di ecosistemi e biodiversità ben 1,642 miliardi ai quali si aggiungono 2,091 miliardi investiti nella tutela delle coste e nelle risorse idriche. Per un totale di 3,733 miliardi pari al 5,37 per cento delle risorse complessive. Cioè una quota che risulta di oltre 10 volte superiore a quella italiana e più mirata su obiettivi e azioni strategiche. Senza contare che in questi ultimi anni o decenni l’Italia ha seguito a livello regionale una politica di sbriciolamento della pianificazione tentata o realizzata in passato. Si pensi al bel Piano Salvacoste che la Giunta Soru aveva approvato, realizzato da una grande équipe di urbanisti sotto la guida del rimpianto Eduardo Salzano, e che le Giunte successive si sono ostinate a demolire favorendo. Si pensi al “tradimento” di buone leggi per il paesaggio come la legge Galasso del 1985 rispettata da poche Regioni, della quale, per fortuna, ci teniamo i vincoli paesaggistici che, sommati a quelli della lontana legge Bottai del 1939, coprono quasi il 50 per cento del Paese. Ancor più clamoroso il caso del Codice per il Paesaggio che nella versione più recente (ministro Francesco Rutelli, 2008) prescriveva la co-pianificazione Stato-Regioni e che soltanto un pugno di Regioni hanno attuato, la Toscana per prima, presidente fino al 2020, Enrico Rossi, assessore Anna Marson, fra furiosi attacchi di cavatori delle Apuane ormai dissestate, costruttori di porticcioli turistici, speculatori edilizi urbani, ecc. Altre tre Regioni per ora hanno co-pianificato, la Puglia, quando era presidente Nichi Vendola, il Piemonte con Sergio Chiamparino, Renato Soru per le coste sarde. Alcune Regioni, come il Lazio, hanno proceduto a elaborare il loro Piano facendo a meno del ministero dei Beni culturali e quindi vedendosi bocciare il medesimo. Altre Regioni “ci stanno lavorando” (dal 2008), altre, come la Sicilia, dove l’abusivismo la fa da padrone, rifiutano addirittura l’idea della co-pianificazione trattandosi di Regioni “a statuto speciale”. Quindi, tornando alla biodiversità, il nostro Paese, fino al 900, era uno dei più grandi serbatoi di biodiversità. Che però si sta grandemente impoverendo con un consumo dissennato di suolo. Per il Rapporto 2020 del Wwf Italia, l’Italia ha circa la metà di tutte le specie vegetali esistenti e un terzo delle specie animali presenti in Europa. Il rischio è quello di dar spazio e terreno a piattaforme per prodotti di importazione: un suicidio. Ma di tutto questo e delle carenze del Piano italiano del tutto disallineato alle strategie europee sulla biodiversità per il 2030, della debolezza in materia del governo Draghi parlano forse gli organi di informazione, parla forse la tv pubblica e privata? No, quasi nessuno. Eppure una legge nazionale che regoli il consumo di suolo giace da anni in Parlamento e nel frattempo le Regioni ne stanno sfornando di pessime. Lipu e BirdLife Italia ed Europa propongono di aumentare al 2,5 per cento il budget destinato a progetti mirati per la biodiversità, specie e habitat e ai siti della rete Natura 2000, mettendo mano al ripristino degli ecosistemi danneggiati a cominciare dalle zone umide. Ma ogni tentativo di dare vita a un Parco nazionale unico che unifichi il Delta del Po non si riesce a giungere.

Il ministro dell’Ambiente e della Transizione ecologica, Roberto Cingolani, uomo vicino a Confindustria, al solito se la prende “con la burocrazia” che bloccherebbe le fonti rinnovabili da sole e vento e ci viene a parlare dell’idrogeno come fonte di energia rinnovabile del futuro. Biodiversità ti saluto. Al ministero sono ricomparsi i personaggi che formavano lo staff di un ministro dell’Ambiente fra i peggiori, il bolognese Gian Luca Galletti, casiniano: solo un caso?

 

Pillola del giorno dopo, Fedez, i soldi del Vaticano e lo sketch di Lenny Bruce

Nelle puntate scorse abbiamo visto che l’errore argomentativo di Pio & Amedeo (la generalizzazione indebita) è stato commesso anche da chi li ha difesi; che l’autoironia delle vittime non è una risposta proponibile contro la discriminazione e la violenza poiché solleva i violenti dall’obbligo sociale e morale di non essere violenti; e che una risposta migliore è una legge che obblighi finalmente i violenti ad assumersi la responsabilità di comportamenti, oggi non sanzionati, che continuano a vessare vittime. Ovviamente non basta: serve un impegno educativo. Per esempio, studiare a scuola il manuale contro l’hate speech (tratto da un testo edito dal Consiglio d’Europa) diffuso in collaborazione con il ministero dell’Istruzione, che inquadra il problema ed esamina come valutare i discorsi razzisti e discriminatori per contenuto, tono, bersaglio, contesto e impatto. Vi si legge, fra l’altro: “Gli stereotipi negativi si diffondono nella società, certi gruppi diventano sempre più emarginati e isolati, si acuiscono i conflitti e le divisioni, e si aggravano gli abusi o le minacce, mentre alcuni individui testano fino a dove possono spingersi. Nei casi più gravi, le ‘espressioni di odio’ conducono ad aggressioni fisiche.” (Lo si è visto di recente con le violenze post-Covid contro gli asiatici.) Insegnanti e comunicatori dovrebbero essere istruiti, e istruire, su questo; e pure sugli errori di ragionamento, poiché comportano conseguenze molto dannose, se commessi su temi rilevanti. È facile prendere abbagli in materia. Lo dimostra l’argomento usato negli anni ’60 da Lenny Bruce: sosteneva che è la repressione di parole come “negro” a dar loro violenza, forza, malvagità. Ne ricavò uno sketch divertente dove continuava a ripetere la parola “nigger”, insieme con tutti gli epiteti denigratori relativi alle nazionalità: “Se il presidente Kennedy andasse in tv ogni giorno e dicesse ‘Vi presento i negri della mia Amministrazione’, e questi si chiamassero fra di loro ‘negro’, e ogni giorno tu sentissi negro negro negro negro negro, nel giro di due mesi negro non significherebbe molto più di buonanotte o salute!” (shorturl.at/uzDHN). In tal modo, Lenny confondeva il post hoc (la parola ha uno stigma a causa della sua storia, per questo non viene usata per rivolgersi ad altri) con il propter hoc (non dire la parola le dà uno stigma): l’ennesima fallacia induttiva. (Infatti oggi i rapper dicono “nigger” di continuo, ma “nigger” resta un insulto, se rivolto ad altri.) Come già detto (Ncdc, 1 settembre), gli errori di ragionamento sono perfetti per la comicità, ma fanno deragliare le opinioni dai binari dell’argomentazione corretta, portando a giudizi falsi: anche per questo la propaganda politica e commerciale ne abusa. Chi lavora nella comunicazione ha il dovere sociale e morale di emendare il discorso pubblico dalla violenza psicologica di espressioni che legittimano quella fisica. I media di destra, invece, hanno prontamente lodato lo sketch di Pio & Amedeo contro il politically correct, con la solita apologia strumentale della libertà di espressione. Per poi insorgere compatti il giorno dopo contro l’intervento di Fedez al Concertone del 1° maggio. Altro caso emblematico: l’organizzazione e la Rai hanno cercato di convincere Fedez a desistere dal proposito di fare il suo monologo satirico; Fedez l’ha fatto lo stesso; e quando la Rai ha smentito il tentativo di censura, Fedez ha pubblicato in Rete la registrazione della telefonata. Le reazioni hanno seguito un protocollo collaudato, come vedremo, col risultato di sviare l’attenzione di tutti dalla vera bomba atomica sganciata dal rapper: “Il Vaticano ha investito milioni di euro in un’azienda che produce la pillola del giorno dopo”. (5. Continua)

 

Chi è più omofobo tra Mamma Rai e la Lega di Salvini?

“Se avessi un figlio gay, lo butterei in una caldaia e gli darei fuoco”

(Giovanni De Paoli, consigliere leghista della Regione Liguria)

Se fosse stato l’ex premier Giuseppe Conte a dire “l’amministratore delegato della Rai lo scelgo io”, secondo quanto Il Messaggero ha attribuito al presidente Mario Draghi, apriti cielo! Sarebbe venuta giù probabilmente un’alluvione di critiche e di polemiche, senz’altro da parte dei due Matteo, dei Fratelli e delle sorelle d’Italia. E, per una volta, avrebbero avuto perfino ragione.

È vero che l’infausta riforma varata dal governo Renzi nel 2015 ha trasferito dal Parlamento all’esecutivo il potere di nominare il presidente e l’ad della Rai. Ma verosimilmente nessun premier lo farebbe senza interpellare o almeno consultare informalmente i partiti che lo sostengono. E in tutta franchezza c’è da dubitare che Draghi decida motu proprio, impugnando la scure dell’ex rottamatore e sfidando il consenso della sua maggioranza extralarge.

Un fatto, comunque, è certo. Il nuovo Cda della Rai sarà insediato in forza di quell’ultima “riformicchia”, rinviando a data da destinarsi una riforma organica del servizio pubblico imperniata sul cambio di governance. Laddove con questo termine si deve intendere non questo o quel Consiglio di amministrazione, bensì la fonte di nomina del medesimo che non dovrebbe più essere la politica. E finalmente, proprio da Conte è arrivato un appello ad affidare il controllo della Rai a una Fondazione rappresentativa della società italiana, per sottrarla alle grinfie della partitocrazia e quindi alla lottizzazione, insieme al “mea culpa” per non essere riuscito a promuoverla durante i suoi due governi. Diamo pure il benvenuto nel “club” all’ultimo iscritto Carlo Calenda.

La questione della governance, a ben vedere, è la vera origine da cui scaturisce anche il “caso Fedez-Lega”, innescato dalle odiose e farneticanti dichiarazioni omofobe di numerosi leghisti, menzionate dal rapper nel Concertone del 1° Maggio. Una manifestazione da sempre politica e civile, non uno show o un talk-show. E un monologo, quello di Fedez, fatto di citazioni testuali come quella aberrante riportata nel distico qui sopra, piuttosto che di opinioni in libertà come i precedenti “telecomizi” di Celentano, Beppe Grillo o di Elio delle Storie tese. Di quale contraddittorio o controparte vogliamo parlare in un tale contesto, tanto per riprendere l’infelice espressione usata dalla vicedirettrice di Rai3, Ilaria Capitani, al telefono con il rapper? Basterebbe già questo intervento improprio a documentare una censura preventiva, o diciamo pure un avvertimento, un’intimidazione, posto che il servizio pubblico aveva affidato a una società esterna l’organizzazione del Concertone secondo una consuetudine già di per sé discutibile.

Non per fatto personale, ma per segnalare un malcostume diffuso tra i giornali padronali, nel toto-nomine della Rai mi sono ritrovato inopinatamente beneficiario di “un seggio in Cda”, e per di più “in quota Conte”, secondo un fantasioso articolo di Mario Ajello pubblicato martedì scorso sul Messaggero. Falso e offensivo per chi combatte da anni contro la lottizzazione della radiotelevisione pubblica, per quanto l’accostamento a Conte possa lusingarmi sul piano personale. Sarebbe bastata una telefonata per verificare che non ho neppure presentato il mio curriculum. Se volessi valutare da tale comportamento l’attendibilità e la correttezza del quotidiano romano che non ha neppure pubblicato (finora) la mia smentita, dovrei trarne un giudizio pesante: mi limiterò a dire, più semplicemente, che l’autore dell’articolo e il suo direttore sono “in quota Caltagirone”. Valutate voi che cosa è peggio.