Contraddittorio sui gay nei forni (per del Debbio)

Sere fa, Matteo Renzi a proposito del caso Fedez e della legge Zan commentava l’orrore di certe frasi espettorate dai leghisti, del tipo: se avessi un figlio gay lo brucerei in un forno. Al che Paolo Del Debbio, che lo intervistava, ha obiettato che certo, indubbiamente, figuriamoci, ma pur tuttavia “era mancato il contraddittorio”. E Renzi assentiva. Utilizzeremo dunque lo spazio di questa rubrica per suggerire alcuni format di rapido ed efficace contraddittorio. Da utilizzare nei talk televisivi, ma anche al bar con gli amici, nelle cene di famiglia o per fare colpo sulle ragazze. Format: c’è del buono anche nel forno. Infatti, sarebbe stato più corretto se la Rai avesse accompagnato il comizietto del marito di Chiara Ferragni con il diverso parere da parte, poniamo, di un ex ufficiale delle SS (o anche della Gestapo). Testimonianti i benefici effetti dei forni per proteggere la pura razza ariana dall’inquinamento prodotto dagli omosessuali (ma anche da ebrei, zingari e meticci). In assenza di esponenti del Terzo Reich si poteva pur sempre supplire dando la parola all’esperto.

Per esempio, il titolare di una clinica specializzata nella cura dell’omosessualità: guarigione assicurata in un paio di mesi e senza ricorso al forno. Format: con la legge Zan non si potrà più dire finocchio (nel senso dell’ortaggio). È falso, naturalmente, così come è inventato di sana pianta l’argomento secondo il quale se scrivi contro l’utero in affitto rischi l’arresto immediato. Per non parlare dell’educazione trans che verrebbe inculcata già nella scuola materna. Però, affermarlo funziona alla grande contando sul fatto che in pochissimi hanno letto il testo della legge Zan. E meno che mai il contraddittore. L’importante è dichiararsi fortemente preoccupati per il grave attentato alla libertà d’opinione a opera della sinistra comunista e intollerante. Poiché la regola numero uno del contraddittorio efficace è: baggianate pure, qualcosa resterà. Format a capocchia per disorientare l’avversario. Per esempio, mentre costui cerca di spiegare che nella legge Zan esiste la clausola secondo la quale in forza dell’articolo 21 della Costituzione restano tutelate le opinioni che non istigano alla violenza, interromperlo con un grido di dolore: il tuo giornale mi ha definito una puttana di strada. Non c’entra niente, ma come diversivo ha un suo perché. Pure se il mio giornale difende i diritti delle puttane. E anche dei giornalisti.

Mozione M5S: via Durigon. Lega in trincea, gli altri zitti

Chissà se, prima o poi, Mario Draghi proferirà parola sul tema. Nel frattempo, il caso del sottosegretario all’Economia, Claudio Durigon, arriva in Parlamento: il Movimento 5 Stelle ha presentato una mozione per chiedere la revoca dell’incarico di governo al leghista, pizzicato da una telecamera nascosta di Fanpage mentre tranquillizzava un conoscente in merito alle inchieste giudiziarie sui conti correnti del Carroccio: “Il generale della Guardia di Finanza che indaga lo abbiamo messo lì noi”.

Una mozione, quella dei 5S, ieri già liquidata in coro come “una perdita di tempo” da Matteo Salvini e dal ministro leghista Giancarlo Giorgetti.

Il testo presentato dal Movimento alla Camera parte da giorni di inquietante silenzio politico intorno alla vicenda. Non a caso Luigi Di Maio ricorda di “aver chiesto a Durigon di chiarire”, ma “i chiarimenti non sono mai arrivati” e dunque “legittimamente il gruppo parlamentare ha presentato una mozione di sfiducia”.

Da Palazzo Chigi nessuno ha preso le distanze da Durigon, tantomeno il responsabile del Mef, Daniele Franco. E allora la mozione ricorda la frase incriminata di Durigon che rende “inopportuno” che il leghista conservi l’incarico, visto che oltretutto la Guardia di Finanza afferisce proprio al Mef, dove lavora Durigon: “Le esternazioni del sottosegretario riguardo a un millantato controllo delle indagini e dei processi gettano una oscura e pesante ombra sulla imparzialità e sull’incorruttibilità della Guardia di Finanza”.

Dunque, i 5 Stelle chiedono al governo di “avviare immediatamente le procedure di revoca, su proposta del presidente del Consiglio, sentito il Consiglio dei ministri, della nomina a sottosegretario del deputato Claudio Durigon”.

Si vedrà con che tempi la mozione verrà calendarizzata. Di certo c’è che la Lega, per bocca del suo vicesegretario Giorgetti, fa subito capire che non è aria: “Presentare una mozione per chiedere la revoca della nomina di Durigon, un componente del governo, senza avere il minimo riscontro oggettivo ma solo sulla base di indiscrezioni giornalistiche è un atto non solo inutile, ma una perdita di tempo rispetto alle tante cose da fare”. Parole a cui in serata fanno eco quelle di Salvini all’Huffington Post: “C’è tanto lavoro da fare e, come ha detto anche Giorgetti, la mozione è una inutile perdita di tempo. Forse qualcuno vuole togliere l’attenzione da imputati più importanti con reati ben più gravi”. E poco importa se le accuse a Durigon siano in realtà qualcosa in più di semplici “indiscrezioni giornalistiche”, per dirla con Giorgetti, dato che nel filmato di Fanpage è lo stesso sottosegretario ad ammettere la falla nell’inchiesta sui conti del Carroccio.

Sullo scandalo, però, i partiti glissano – tanto è vero che solo Sinistra Italiana appoggia la mozione 5S, col Pd silente – e allora torna a farsi sentire Alessandro Di Battista, ormai ex 5 Stelle e battitore libero della polemica politica, per l’occasione tornato al fianco degli ex colleghi: “La mozione è solo un primo passo ma molto importante, sono convinto che insistendo Durigon sarà costretto a dimettersi. Il Movimento vada fino in fondo”. Anche se poi si torna sempre lì, alla spaccatura col gruppo riguardo al sostegno al governissimo, su cui Di Battista ha una nuova occasione per pungolare i grillini: “Il M5S minacci l’uscita dal governo dell’assembramento in caso di mancate dimissioni. E soprattutto pretenda dall’apostolo Draghi una parola al riguardo perché dal migliore tra i migliori ci aspettiamo eccezionali interventi anche rispetto all’etica politica”.

Renzi manda in Procura la clip di Report: “Abusiva”

Matteo Renzi ci prova. Dopo il servizio di Report sull’incontro tra il leader di Italia Viva e lo 007 Marco Mancini, avvenuto nel dicembre scorso in un autogrill di Fiano Romano, l’ex premier ieri ha depositato, per via telematica, una denuncia alla Procura di Roma. Renzi chiede ai pm di verificare due potenziali reati: in primis l’intercettazione abusiva di un parlamentare, poi l’abuso d’ufficio. Renzi non attacca direttamente il programma d’inchiesta, ma sembra girarci intorno. Il servizio di Report però nasce per caso. È il 23 dicembre 2020 quando un’insegnante ferma all’autogrill di Fiano Romano per un malore del padre, vede un uomo coi capelli brizzolati in compagnia di due persone. Si tratta di Marco Mancini, agente del Dis (l’agenzia dei servizi segreti), con alle spalle una brillante carriera nel Sismi (ora Aise) di cui diventa capo della Divisione controspionaggio. È lui l’uomo che il 5 marzo 2005 riporta in Italia la giornalista del manifesto Giuliana Sgrena liberata dopo il suo sequestro in Iraq. A febbraio del 2013 Mancini viene condannato in primo grado a 9 anni per sequestro di persona (l’imam Abu Omar, rapito a Milano dalla Cia), condanna poi definitivamente annullata dalla Cassazione dopo una pronuncia della Corte costituzionale che interviene allargando i confini del segreto di Stato.

Oggi Mancini è caporeparto al Dis. Durante il governo Conte, per qualche tempo, ha puntato a una funzione più operativa, dentro l’Aise o l’Aisi (i servizi segreti per l’estero e per l’interno), o alla nomina di vicedirettore del Dis. Per alcune settimane, ha anche buone possibilità, con il sostegno del capo del Dis Gennaro Vecchione e i 5 Stelle non ostili. Per Renzi però il problema in quel momento è un altro: vuole che Conte ceda la delega governativa ai servizi che invece ha tenuto per sé (come consentito dalla legge che nel 2007 riforma le agenzie di sicurezza).

Proprio il 23 dicembre, il leader di Iv lo ripete all’Aria che tira (La7). Quello stesso giorno va poi a trovare Denis Verdini, che allora si trovava a Rebibbia, e poi incontra Mancini. Secondo fonti vicine all’ex premier, Renzi aveva dimenticato l’appuntamento con lo 007, quindi dopo Rebibbia parte per Firenze e sono le scorte dei due a fissare il luogo dell’incontro, che avverrà all’autogrill di Fiano Romano, dove c’è l’insegnante che registra un video di 29 secondi. Al giornalista Giorgio Mottola che le chiede “si sono detti qualcosa prima di salutarsi”, l’insegnante risponde: “L’uomo brizzolato ha ricordato a Renzi che sapeva dove trovarlo…”. “Era a disposizione”, dice il giornalista. E la donna: “Sì”. Frase che, spiegano da ambienti renziani, non è escluso che Mancini possa aver detto realmente (“È il tipico linguaggio dei militari”). E su questo si innesca la richiesta di indagare per intercettazioni abusive di un parlamentare. “Un cittadino non può registrare un parlamentare”, dicono fonti vicine all’ex premier. E ancora: “Oppure a registrare quella frase, se esiste una registrazione, potrebbero essere state altre persone, che non sono la signora”. Perciò in subordine la richiesta ai pm di verificare se vi fosse un abuso d’ufficio.

Alla procura Renzi chiederà anche di acquisire le videoregistrazioni delle telecamere dell’autogrill, per verificare la veridicità del racconto della donna. Con l’esposto, la Procura dovrà aprire un fascicolo e Renzi potrebbe anche essere sentito dai pm, che gli potrebbero chiedere le ragioni dell’incontro con Mancini. Ai giornalisti di Rai3, l’ex premier ha risposto che Mancini gli avrebbe consegnato per Natale i Babbi di cioccolato, specialità romagnole. Intanto Report ha già annunciato per lunedì un’intervista all’insegnante.

Salvini come Silvio: ha paura dei processi e aggredisce i giudici

Raccontano che Matteo Salvini, dal 17 aprile scorso, giorno del rinvio a giudizio per sequestro di persona nel caso Open Arms a Palermo, sia preoccupato. Perché oltre a sentire il fiato sul collo di Giorgia Meloni, che ogni settimana gli rosicchia mezzo punto nei sondaggi, il leader della Lega teme quel processo per un motivo: gli effetti della legge Severino che potrebbero stroncare sul nascere la sua corsa a Palazzo Chigi o, ancora peggio, interrompere un possibile futuro incarico da premier. Quella norma, che nel 2013 portò già alla decadenza dal Senato di Berlusconi, infatti prevede l’incandidabilità o l’ineleggibilità per il parlamentare che abbia avuto una condanna superiore ai due anni o la decadenza (anche da membro del governo) se il mandato è in corso. Ipotesi non peregrina visto che il reato di sequestro di persona per cui Salvini è imputato a Palermo prevede una pena fino a 15 anni. “Se condannato Salvini rischia di essere un leader zoppo” dice un big del Carroccio. E se Salvini sfrutterà il processo in campagna elettorale come “martire” della giustizia, giovedì a Porta a Porta ha lanciato un segnale preciso: il Carroccio raccoglierà le firme per alcuni quesiti referendari sulla giustizia con i Radicali. Ci sarà la responsabilità civile dei magistrati, la separazione delle carriere e proprio l’abolizione della legge Severino che tanto fa paura a Salvini.

Ci sta lavorando la responsabile Giustizia della Lega, Giulia Bongiorno, peraltro avvocata del leader nei processi siciliani, insieme al segretario dei Radicali Maurizio Turco. Entro metà giugno in Cassazione dovranno presentare i quesiti e la raccolta firme si svolgerà nei mesi estivi in coincidenza con la campagna elettorale. Tra l’altro l’occasione potrebbe arrivare dal Recovery Plan: il Piano prevede una revisione della legge Severino. Il leader del Carroccio comunque vuole velocizzare i tempi per andare a Palazzo Chigi e non è un caso che due giorni fa sia stato il primo a lanciare la corsa di Draghi al Quirinale: “Lo sosterremo” ha detto Salvini che, rispetto a Giancarlo Giorgetti, non vuole che il governo duri fino al 2023.

Ieri è stata un’altra giornata di scontro tra Salvini e Meloni sulle Amministrative. Dopo la rinuncia di Albertini e l’accusa del leghista (“io costruisco e qualcun altro disfa”), Meloni gli ha mandato un sms per fargli sapere che FdI “non ha messo veti su nessun candidato” e che “basta parlarsi”. All’ora di pranzo, mentre qualcuno parlava di una non risposta di Salvini, fonti della Lega hanno fatto trapelare “soddisfazione” per i “no” ai veti su Albertini e Bertolaso e hanno lanciato un tavolo per le Amministrative che ci sarà mercoledì. Peccato che Salvini, che chiederà l’abolizione del coprifuoco in Cdm, non ci sarà, ufficialmente perché “impegnato sull’udienza Gregoretti di venerdì” ma il motivo è politico: non vuole aprire dossier spinosi come il Copasir e piegarsi alla richiesta di FdI. Tant’è che al tavolo non ci saranno i leader ma i responsabili enti locali Stefano Locatelli, Maurizio Gasparri e Guido Castelli e si parlerà solo dei capoluoghi di provincia e non delle grandi città. Nel frattempo Salvini potrebbe essere convocato dal Copasir per aver detto, sulla vicenda Renzi-Mancini, che ha incontrato “decine di uomini dei Servizi”.

E Virginia ci ripensa: no a Rousseau

Quel post non era piaciuto, al Movimento. E figurarsi al rifondatore, a Giuseppe Conte, che proprio poche ore prima aveva minacciato guerra legale proprio a lui, a Davide Casaleggio. E allora ieri al Campidoglio hanno recapitato il messaggio: la sindaca di Roma Virginia Raggi non può proprio far votare il suo programma partecipato su Rousseau, la piattaforma web di Casaleggio, dell’avversario. Per questo “a giorni” – cioè tra lunedì e martedì – assicurano “verrà presentata una nuova piattaforma per la redazione del programma partecipato M5S a Roma”. Così promettono in una nota il deputato Francesco Silvestri, la senatrice Giulia Lupo e il capogruppo in Campidoglio Giuliano Pacetti. Poche righe per suturare la ferita di giovedì, quando sul blog delle Stelle, ormai emanazione solo di Casaleggio, era apparso il post di lancio del programma per la Capitale. “Ci lavoriamo da mesi, e la piattaforma del Movimento è sempre stata questa” avevano ricordato dal Campidoglio, con robuste ragioni.

Ma ai piani alti del M5S non l’hanno digerita ugualmente. E ieri Silvestri e Lupo hanno dovuto provvedere, concordando con Pacetti la virata su un altro portale. Notizia accolta con grande rammarico dalle parti di Rousseau. Ma d’altronde il clima è questo, di guerra. Con Conte deciso a trascinare Casaleggio davanti al Garante della privacy per farsi consegnare i dati degli iscritti. E il figlio di Gianroberto che a chiunque lo sente ripete di essere tranquillo e pronto allo scontro a colpi di carte bollate. “Anche lui ha i suoi avvocati, e gli ripetono che non può consegnare i dati, perché il Movimento non ha un rappresentate legale” ribadiscono fonti vicine all’ex casa madre di Milano. Dove continuano a ostentare come una vittoria il decreto della Corte d’appello di Cagliari, che ha respinto il ricorso del reggente Vito Crimi, che voleva essere riconosciuto come capo politico e quindi come rappresentante legale del M5S. Per ora a rappresentare il Movimento nel processo resta il curatore speciale, ed è un rischio per i 5Stelle. “Chi può escludere che il pm gli ingiunga di far votare un nuovo organo collegiale invece che un capo politico?” si chiedevano ieri nel Movimento. E per il non iscritto Conte sarebbe una rogna.

Anche se l’ex avvocato manifesta grande fiducia. “Si punta forte sul ricorso al Garante” confermano. Ma il Movimento è sempre più instabile. Le voci di scissione continuano a dilatarsi, alimentate anche da indiscrezioni su una possibile riunione auto-convocata di decine di deputati, prevista originariamente per martedì. I vertici parlamentari cercano di scongiurare. Ma tutto dipende da quando arriverà Godot: anzi Conte.

Lazio: i 5S restano in giunta. Il Pd spinge Zinga per Roma

Manca qualche dettaglio e lui, il governatore del Lazio, ha ancora qualche dubbio: insomma “non è chiusa al cento per cento” come sussurrano big dem e grillini. Ma a breve, forse entro domani, ma comunque entro il 20 maggio (scadenza per la candidatura alle primarie), dovrebbe arrivare l’annuncio che il candidato sindaco del Pd a Roma sarà proprio Nicola Zingaretti. Il nome che Enrico Letta e il suo sherpa Francesco Boccia inseguono da settimane “perché con lui si vince, contro chiunque” ripetono, citando sondaggi da trionfo prossimo venturo. E arriverà con il silenzio assenso dell’altro vertice dell’alleanza giallorosa, quel Giuseppe Conte che in questi mesi non ha detto una sillaba sulla (ri)candidata sindaca del Movimento, Virginia Raggi, e che ieri a vari big grillini ha assicurato che certo, “io sosterrò Virginia”. Soprattutto, raccontano, lo ha ribadito alla sindaca, con cui ieri Conte si è sentito. Contatti, dopo tanto tempo, per farle capire che non le mancherà certo il suo apporto. Ma a medio termine sarà più complicata di così, come sanno bene Letta e Zingaretti, con cui l’ex premier si sente di continuo, e come sa ovviamente quel Goffredo Bettini che ormai è il primo consigliere dell’avvocato. Perché come conferma al Fatto una fonte di primo piano del Movimento, nelle ultime ore ha davvero preso forma l’accordo tra Pd e M5S, che prevede la corsa separata di Zingaretti e Raggi al primo turno, e poi il reciproco sostegno nel ballottaggio: ammesso che non vi arrivino assieme, e quella sarebbe già un’ulteriore complicazione. Nell’attesa, il M5S deve impegnarsi a tenere in piedi la giunta del governatore Zingaretti, deciso a rimanere alla guida della Regione Lazio anche durante la campagna elettorale da sindaco (o almeno fimo a settembre). Un modo per evitare di votare insieme sia per la Regione che per la Capitale.

Per questo ieri Boccia ha voluto chiarirlo: “La legge va rispettata, e non chiede a un sindaco quando si candida a presidente di Regione di dimettersi, così come non lo chiede ad un governatore. Ci si dimette solo quando si ha un altro incarico”. Vari dirigenti del Pd indicano anche i precedenti: Giorgio Gori, che si dimise da consigliere regionale dopo essere diventato sindaco e Lucia Borgonzoni, che non si dimise da senatrice per candidarsi alla guida della Regione Emilia-Romagna. “Sperando che a chiedere le dimissioni di Zingaretti non sia proprio Virginia..” sussurrava ieri un big del Movimento.

Se ciò non accadesse, solo a gennaio i giallorosa dovrebbero provare a riprendersi la Regione: con un candidato del M5S, dicono i grillini, oppure presentando l’attuale assessore alla Sanità Alessio D’Amato, come sostengono da ambienti dem, dove rilanciano l’ipotesi di un ticket con l’attuale assessore alla Transizione ecologica, la veterana del Movimento Roberta Lombardi (ma lei continua a smentire ogni coinvolgimento). Su questo si tratterà. Per il Pd l’importante è l’unità della coalizione, almeno così ripetono al Nazareno. D’altronde l’operazione a Roma va di pari passo con la candidatura a Napoli del presidente della Camera, il grillino Roberto Fico, che però per decidersi chiede sostegni economici per il disastrato bilancio partenopeo (stanno lavorando a un apposito fondo triennale). Ma nel gioco del dare e avere chi rischia di più, almeno a Roma, è il Movimento, che di guai ne ha già una valanga. E che ora deve stare attentissimo a non mostrarsi come il traditore della Raggi, della sua sindaca. Così in mattinata Luigi Di Maio, anche lui consultato di continuo da Letta e dagli altri maggiorenti dem, soppesa le parole a L’aria che tira: “Su Roma non è questione di trovare la quadra, noi abbiamo la candidatura di Virginia Raggi e noi la sosterremo. Ma non credo che questo farà saltare l’alleanza con i dem. Zingaretti? Chiedete al Pd”. La linea è che si resta sulla Raggi. Il resto è ciò che si fa ma che non si può urlare, cioè è la politica. Quella in base a cui Letta ha provato anche negli ultimi giorni a chiedere al M5S di togliere dal tavolo la sindaca uscente. Trovando l’ennesimo no di Conte, che non poteva voltarle le spalle. Non può farlo nessuno nei 5Stelle, perché Raggi è forte nei sondaggi e intoccabile per la base. E bisogna evitare che le venga la tentazione di passare nel campo dell’avversario, di Davide Casaleggio, magari assieme a quell’Alessandro Di Battista che la sosterrà nella sua campagna.

Dall Pd invece il pressing su Zingaretti è costante. Il governatore continua a cercare di prendere tempo per ottenere sempre più garanzie sulla tenuta dell’accordo. Intorno a lui cresce la convinzione che l’operazione andrà in porto. Ieri sera intanto si è tenuto il tavolo della coalizione per definire le regole delle primarie. Si faranno in ogni modo. Ma Roberto Gualtieri, se dovesse essere lui il candidato, potrebbe trovarsi di fronte candidati robusti, come Monica Cirinnà. Mentre quelle di Zingaretti sarebbero sostanzialmente un’incoronazione. Fortemente voluta.

Le 2500 pagine. Il testo completo in Parlamento

Sono 2.487 in tutto le pagine delle schede progetto che accompagnano il Recovery plan italiano, che il governo ha inviato in Europa e al Parlamento. È il piano davvero definitivo, compreso di allegati che illustrano in modo approfondito le quasi 290 pagine del documento finora circolato.

Il piano punta a spendere quest’anno 13,8 miliardi (dedicandoli a 105 interventi) dei 191 miliardi totali messi a disposizione dai fondi europei. Secondo le tabelle inserite nelle schede progetto, gli stanziamenti maggiori riguardano due misure previste dalla legge di bilancio: Transizione 4.0 (oltre 1,7 miliardi quest’anno) e il rifinanziamento del Fondo Simest per rafforzare la solidità patrimoniale delle imprese favorendone la competitività sui mercati esteri. Poco più di 1,1 miliardi è destinato all’efficientamento energetico e al rafforzamento del territorio dei Comuni.

Dal 2022 i fondi da spendere salgono a 27,6 miliardi (distribuiti in 167 interventi) per poi salire a 37,4 e 42,7 miliardi nei due anni successivi. Dal 2025 (38,3 miliardi) l’ammontare inizia a scendere per chiudere coi 31,6 miliardi dell’ultimo anno. I progetti, stabilisce il documento, devono essere tutti conclusi entro agosto del 2026. Il documento illustra per ogni investimento e riforma le sfide da affrontare, gli obiettivi e come si intende attuarli, i costi, le categorie e gli enti coinvolti e il cronoprogramma da rispettare per l’attuazione finale e gli step intermedi.

Scuola, sanatoria e crollo dei nati: ecco la “riforma”

Una sanatoria strutturale che in un colpo solo riesce a riformare il reclutamento degli insegnanti, sistemando i precari della scuola. In più, la rinuncia a qualsiasi risoluzione in tempi brevi del problema delle aule sovraffollate (in continuità, va detto, con l’impostazione precedente), lasciandone la gestione alla progressiva denatalità che sta interessando l’Italia.

Secondo quanto si legge negli allegati di dettaglio del Pnrr inviati a Bruxelles, la natura farà il suo corso e così anche la scuola. Per rivoluzionare le dinamiche dell’ecosistema scolastico, si parte infatti dal presupposto che il numero degli alunni iscritti alle scuole statali diminuirà “notevolmente” nei prossimi anni. “Ciò – si legge – comporterà una riduzione del numero del personale scolastico e una conseguente riduzione dei costi di gestione delle scuole”. Si stima un calo in 15 anni del 15% della popolazione in età scolare, quindi 1,1 milioni di studenti in meno. Così “la riduzione del fabbisogno di personale sarà di 64mila insegnanti”.

E qual è allora l’innovativa e volenterosa soluzione per riorganizzare e abbassare la media nazionale di studenti per classe e per migliorare il rapporto tra docenti e alunni e la qualità della formazione? Attendere. Attendere che la denatalità faccia il suo corso, lasciando invariato il numero dei docenti dell’anno accademico 2020/2021 (numero che da almeno un anno il ministero dell’Economia provava persino a tagliare) rimodulando man mano classi, personale e studenti, addirittura, si legge, superando il concetto tradizionale di classe fino a che la selezione naturale non genererà nuclei di apprendimento ridotti. Anche l’edilizia scolastica resterà la stessa, fatti salvi gli interventi previsti per la messa in sicurezza. Tanto che, letteralmente, i costi dell’intera operazione vengono indicati così: “Covered by the effects of denatality” ovvero “Coperti dall’effetto della denatalità”.

Urge quindi stabilizzare in fretta quei precari storici che a gran voce – insieme a Lega, sindacati e buona parte del Pd – chiedono di avere il tempo indeterminato, passando di fatto davanti a tutti coloro che avrebbero voluto partecipare al concorso ordinario. Bisogna far quadrare i conti, dato che non si potranno chiedere aggiunte. Per farlo, il ministro dell’Istruzione, Patrizio Bianchi, ha quindi provato a salvare capra e cavoli: da un lato, come hanno riferito fonti sindacali ieri, assicurando nell’ambito dell’imminente Patto per l’Istruzione una legge transitoria che li porterà in classe già a settembre e prevederà poi una qualche forma di valutazione finale (semplificando: una sanatoria) e dall’altro introducendo una riforma generale del reclutamento che pare la stessa sanatoria, ma permanente. Ecco come si presenta: “In particolare – si legge – saranno semplificate le attuali procedure di concorso pubblico. Sulla base della valutazione delle qualifiche culturali e di servizio e dell’esecuzione di un test informatico, viene formata una graduatoria, inizialmente utilizzata per coprire tutti i posti vacanti e disponibili. I candidati idonei ricevono quindi un anno di formazione e test sul posto di lavoro, dopodiché si svolge un test finale. Il completamento con successo di questi ulteriori test determina la nomina permanente dell’insegnante”.

L’equazione è semplice: avrà sempre comunque precedenza chi ha più anni di servizio, dunque i precari. “La prova finale – si legge infatti – è solo una prova di qualificazione e non altera la graduatoria, in modo che il docente sia confermato nel posto in cui è stato collocato, poiché deve rimanervi per almeno tre anni”. Annotazione: qui c’è la vittoria dei sindacati, con la riduzione dell’obbligo di permanenza nella stessa scuola che passa da 5 a 3 anni. Alla scuola viene poi lasciato l’onere di “promuovere” o “bocciare” il docente “nel suo interesse”. I tempi per questa riforma sono previsti dal 2022: come dire, ora si sana quel che si può, per gli altri si vede l’anno prossimo.

Recovery, ritorna la task force dei trecento

Le sorprese della politica sono infinite. Come quella di trovare nel documento esteso del Piano di ripresa e resilienza (Pnrr, il Recovery plan), di circa 2.500 pagine, che il governo ha inviato al Parlamento, una delle pietre dello scandalo utilizzate per far cadere il governo Conte.

Ricordate la vicenda della task force da 300 funzionari indicata in una delle primissime bozze del Pnrr, quando ancora il progetto era meno che ufficiale? Coloro che avevano deciso la fine dell’esecutivo giallorosa presero bene la mira e spararono decisi. Tutta Italia Viva, una parte del Pd, il centrodestra, giornali di varia estrazione, tutti si lanciarono contro quello che veniva presentato come un attacco alla democrazia.

Matteo Salvini: “Una task force da 300 persone, siamo matti?”. L’allora ministra Teresa Bellanova: “Se il premier vuole andare avanti deve ritirare la norma sulla task force. Non siamo una Repubblica fondata sui Dpcm”. L’immancabile professor Sabino Cassese: “Troppi poteri a una sola task force incomprensibile. È una soluzione rococò, denota sfiducia nello Stato”.

Il fuoco incrociato. Il ministro agli Affari europei, Vincenzo Amendola, si sbracciava cercando in buona fede di rassicurare: “L’idea di una governance è nelle linee guida della Ue a pagina 33”, insomma ce lo chiede Bruxelles. Niente, quelli andavano diritti, spalleggiati dai quotidiani amici. Il Sole 24 Ore: “Incredibile ma vero. Sei super manager e 300 tecnici per i fondi Ue”. Sebastiano Messina su Repubblica: “Più o meno gli stessi poteri che avevano i quadrumviri nell’ottobre del 1922: i quadrumviri di Mussolini alla marcia su Roma”.

La task force da 300 funzionari viene eliminata dai documenti preparatori e nel testo del 12 gennaio, l’ultimo redatto dal governo Conte, non c’è più. Così come viene tolta la “cabina di regia” immaginata da quell’esecutivo che prevedeva un trittico formato da Palazzo Chigi, Mef e Sviluppo economico.

La struttura risorta. Ieri al Parlamento sono arrivate le 2.500 pagine del documento complessivo, composto da allegati tecnici, tabelle di marcia, piani finanziari, suddivisione degli investimenti anno per anno – con l’obbligo di chiudere tutto al 31 agosto 2026 – insomma un apparato tecnico imponente. E cosa si trova a pagina 15 dell’allegato tecnico Implementation, monitoring, control and audit of the National Recovery Plan? La task force di 300 funzionari.

“Per quanto riguarda le risorse umane – si legge – è prevista un’azione straordinaria di rafforzamento del personale a beneficio della Pubblica amministrazione attraverso un piano di assunzione di personale esperto, a tempo determinato, specificamente destinato a pubbliche amministrazioni che hanno la responsabilità della implementazione/realizzazione delle iniziative e dei progetti del Pnrr”. Tra queste assunzioni, finalizzate a rendere più rapidi i progetti, ci sono 1.000 nuove assunzioni di “esperti” per il ministero guidato da Renato Brunetta, ci sono poi 2.800 assunzioni – il bando è stato già pubblicato il 6 aprile scorso – per le otto regioni del Mezzogiorno,

“Inoltre, per le strutture centrali di controllo presso il ministero dell’Economia e delle Finanze” è prevista “l’assunzione di un totale di trecento dipendenti a tempo determinato con possibilità di scorrimento in graduatoria, che rimarrà efficace per l’intera durata dell’attuazione del Pnrr”.

Eccoli i 300 che facevano scandalo e costituivano un attacco alla Repubblica, un orpello “rococò”. Semplicemente, come si evince dagli allegati del Pnrr, erano già richiesti dalle regole e dalle linee guida europee cui l’Italia si stava conformando.

L’entità-Cyber. Così come era legata a quelle indicazioni anche la Fondazione per la cybersecurity che Matteo Renzi ha scagliato a mo’ di clava contro Conte, accusandolo di voler mettere le mani sui Servizi segreti. La struttura di sicurezza, invece, è ancora là e il testo non lascia dubbi sulla sua genesi: “Le autorità nazionali competenti, in linea con le strategie dell’Ue, favoriranno l’identificazione di una nuova entità (corsivo nostro, ndr) di cyber sicurezza nazionale, attualmente oggetto di dibattito politico”.

La struttura si chiama ora “entità” – come veniva indicato Israele dai Paesi che non volevano riconoscerlo come Stato – e soprattutto il testo ammette che è in corso un “dibattito politico” sulla sua composizione e controllo.

L’ultima cabina. Il problema si ripropone per l’ultimo tassello della governance complessiva presentata all’Unione europea, cioè la “Cabina di regia” collocata a Palazzo Chigi e che supervisiona l’intero Piano. Nel documento presentato ieri viene specificato che “la struttura, la composizione, le modalità operative e il collegamento con le divisioni della Presidenza del Consiglio dei ministri saranno definiti con un apposito provvedimento adottato dopo la presentazione del presente Piano alla Commissione europea, che sarà adeguatamente rafforzato a tal fine”. Delle strutture e forze che ne dovranno fare parte si fa riferimento solo a “rappresentanti designati dalle Amministrazioni coinvolte, rappresentanti designati dalla Conferenza Unificata e dai rappresentanti delle realtà economiche e sociali di riferimento”. Dalle cronache semi-ufficiali sappiamo che il provvedimento non viene emanato perché le forze politiche non hanno un accordo su chi e come dovrà rappresentarle.

Il Pnrr è una grande occasione per il Paese, ma anche per chi lo gestisce.

Le manovre, le ipocrisie, le falsità che finora lo hanno accompagnato si spiegano facilmente.

Affaire “Camici”: sentiti l’addetto stampa di Fontana e il numero 2 di Dama spa

Giornata di interrogatori ieri negli uffici della Guardia di finanza di Milano. Sul piatto il caso camici che vede indagato anche il governatore Attilio Fontana. Davanti ai pm si è accomodato per primo Paolo Zanetta direttore di produzione di Dama spa, la società di Andrea Dini, cognato di Fontana, anche lui indagato. Zanetta è stato sentito come testimone. Oltre a lui è stata sentita una segretaria della presidenza regionale. Dopodiché è toccato a Paolo Sensale, addetto stampa del presidente. Tutti e tre non sono indagati. Obiettivo dei pm: fare luce sui motivi per cui il 20 maggio Andrea Dini renderà ufficiale a Filippo Bongiovanni, ex dg di Aria (la centrale acquisiti della Regione), la decisione di trasformare i camici già consegnati in donazione: in quel momento sono 49mila, a cui andranno tolti 6.000 che gli indagati, come si legge nelle chat, tenteranno di recuperare. La decisione di trasformare la fornitura in donazione è maturata nei giorni precedenti al 20 maggio, durante alcune riunioni in Regione dove non è mai presente alcun rappresentante di Aria. Fatto, che secondo la Procura, dimostrerebbe come la vicenda dei camici abbia visto “il diffuso coinvolgimento di Fontana”. Tra l’11 maggio e la mattina del 20 maggio si svolgono così diversi incontri durante i quali diventa esplicito il conflitto d’interessi per Dama e dove partecipano sia Bongiovanni, sia Giulia Martinelli, capo segreteria di Fontana, sia Davide Caparini, assessore regionale al Bilancio. Tra il 18 e il 19 maggio, poi, Bongiovanni, su indicazione del vice direttore generale di Regione Lombardia, recupera l’Iban di Andrea Dini da inviare a Fontana con il calcolo finale di 250mila euro, il prezzo del bonifico che il governatore intende fare a Dini per risarcirlo. Stando agli atti dell’inchiesta, anche Paolo Sensale “è a conoscenza di ulteriori particolari di interesse investigativo”. Per questo ieri è stato interrogato. Secondo la Procura, poi, Paolo Zanetta “ha ricoperto un ruolo attivo nella vicenda dei camici (…) in relazione (…) alla trasformazione della fornitura in donazione”. Il 16 maggio, quando la decisione è quasi presa, Dini si lamenta con lui che i marchi più importanti sono nella lista fornitori. Scrive: “Gli unici coglioni siamo noi”. Zanetta risponde: “Lo mandi a cagare e fatturiamo lo stesso”. Dini: “Non posso”. Il 7 luglio, con il caso ormai pubblico, Zanetta scrive a Dini. “Ne usciremo più forti (…), il Berlusca ha subito l’ira di Dio ma ne è uscito, mi spiace di non poter convogliare la colpa su di me”.