Fca non ha più bisogno di Tesla: Stellantis rispetta le “quote verdi”

Nell’aprile del 2019, Fca si accordò con Tesla per usufruire di crediti ambientali che le consentissero di rispettare i limiti sulle emissioni di anidride carbonica fissati dall’Unione europea. Costo della “fornitura”? Un paio di miliardi di euro, sufficienti per coprire il biennio 2019- 2021. Cifra imponente, ma comunque inferiore alle potenziali multe per il mancato rispetto della normativa continentale. Al punto che anche altri costruttori si sono rivolti all’azienda californiana per lo stesso affare, visto che lo strumento del cosiddetto pooling è perfettamente legale, e voluto dall’Ue per venire incontro ai costruttori nel primo periodo di applicazione delle nuove norme.

Due anni dopo, però, quell’accordo non serve più. Perché nel frattempo Fca si è fusa con Psa confluendo in Stellantis, ovvero un colosso che può contare su diverse piattaforme elettrificate. Le uniche in grado di produrre auto a basso impatto ambientale, necessarie per rimanere entro i limiti imposti. Al punto da spingere l’amministratore delegato Carlos Tavares a dicharare che il gruppo italo-francese, e dunque pure Fca, è in grado di “soddisfare autonomamente le normative sulle emissioni”, senza bisogno di “collaborare con Tesla o con chiunque altro”. Un risultato francamente inimmaginabile, fino a poco tempo fa. E poi soldi risparmiati, anche se ci sarà da discutere su eventuali penali. Ma in cima a tutto, la soddisfazione di non dover dipendere da nessuno.

Gli italiani amano sempre la propria auto

Aun anno dall’inizio della pandemia, il rapporto tra gli italiani e la mobilità continua a seguire alcune tendenze già ravvisate nel periodo di lockdown. Come per esempio quella di preferire, per gli spostamenti abituali, la propria auto ai mezzi pubblici.

Infatti, secondo quanto rilevato dal sondaggio della società di consulenza Areté, se ad aprile 2020 era il 73 per cento degli intervistati a esprimere la preferenza per la propria auto, il mese scorso la percentuale è salita al 75: tendenza confermata, dunque, quella degli spostamenti individuali, a fronte dell’utilizzo di mezzi pubblici che un anno fa era al 9 per cento e oggi al 5. A distanza di dodici mesi gli italiani, poi, continuano ad amare la bicicletta, che si attesta all’8 per cento di preferenze.

Quanto alle alimentazioni, la maggior parte si orienterebbe su quelle elettrificate (67 per cento, ad aprile 2020 era al 70) se dovesse acquistare una nuova auto, scegliendo principalmente ibrido benzina (25 per cento) ed elettrico (18 per cento), poi anche ibrido plug-in (14 per cento), salito di 3 punti rispetto alle rilevazioni dello scorso anno.

Tra le motivazioni che spingono le persone verso un orientamento del genere ci sono l’attenzione verso l’ambiente (30 per cento), legata alla riduzione di emissioni inquinanti, e i consumi ridotti (26 per cento).

Solo il 12 per cento degli intervistati, però, ammette di voler sfruttare gli incentivi statali, che stanno effettivamente sostenendo il mercato a batteria. Tutti concordi, invece, nell’affermare la necessità di un test drive (83 per cento) prima di “convertirsi” all’elettrificazione.

È poi sulle modalità di acquisto che alcune tendenze si stanno rafforzando: se nell’ultimo sondaggio condotto, a giugno 2020, il 77 per cento delle persone intervistate aveva detto di voler condurre la trattativa direttamente in concessionaria, ad aprile 2020 questa percentuale è salita all’89 per cento. Simile al balzo in avanti della scelta di acquistare con finanziamento: secondo le rilevazioni di maggio 2020, questa preferenza era stata espressa dal 47 per cento del campione, mentre oggi è salita al 60.

Bye bye Ferrari, la Maserati si disfa dei “limiti d’etichetta”

Sono molteplici le ragion d’essere della Maserati MC20 e vanno oltre il significato prestazionale o la caratura tecnica: l’auto, infatti, dimostra le capacità tecnologiche del Tridente, rilanciandolo in un Olimpo di costruttori abitato da Porsche e pochi altri. La MC20 è il preludio di una nuova generazione di modelli, anche 100% elettrici, che nei prossimi mesi comporranno il mosaico di un’offerta fatta di berline, Suv, GT e, appunto, supercar.

Una dichiarazione di intenti per il futuro del brand, quindi, ma pure la riprova che il cordone ombelicale con Ferrari è stato definitivamente tagliato: e se la fornitura di motori del Cavallino sarà interrotta nel medio termine, la MC20 chiarisce sin da subito, inequivocabilmente, che gli equilibri con Maranello sono cambiati e non vi sono più “limiti di etichetta” agli orizzonti della Maserati.

Sintetizzare quanto sopra in meno di 4,7 metri di lunghezza poteva voler dire solo una cosa: “Realizzare un’icona della storia del Tridente”, spiega Federico Landini, l’ingegnere che ha supervisionato il progetto. E la missione, va detto, pare riuscita. A stupire, fra le tante cose, è la doppia personalità dell’auto, comprovata tanto stilisticamente quanto a livello di resa stradale. “Lo stile Maserati è basato sull’equilibrio degli opposti, cioè sportività ed eleganza”, spiega Marco Tencone, a capo del design: “Sicché nella parte superiore del veicolo le forme sono molto plastiche, scultoree. Mentre in quella inferiore la caratterizzazione è più tecnica, votata alle cause aerodinamiche”.

L’auto può contare su una sofisticata monoscocca di carbonio a cui sono imbullonati due subtelai di alluminio, che sostengono le strutture sospensive e il powertrain. Tutto è stato pensato fin dall’inizio per essere compatibile con le future versioni spider e 100% elettrica.

In pista la MC20 fa innamorare per la reattività agli input dello sterzo, forse il migliore in circolazione: il muso dell’auto si fionda in curva in un lampo, seguito da un retrotreno sveltissimo ma saldamente ancorato al terreno. Ed è proprio questa combinazione di agilità e stabilità che sorprende, complice un grip meccanico fuori dal comune.

Il motore “Nettuno”, V6 biturbo di 3 litri, eroga 630 cavalli, che la MC20 trasferisce a terra con una capacità di trazione degna di nota e che infonde sicurezza. Cambio, un automatico doppia frizione a 8 marce, e freni, instancabili e ben modulabili, sono all’altezza delle ambizioni dell’auto: un mezzo dalla dinamica di guida sublime ma che, al contempo, riesce a essere vivibile anche nel traffico di tutti i giorni. Le famose due anime di Maserati.

Rock of Wall Street. Vendonsi cataloghi musicali

I lupi di Wall Street stanno azzannando la storia del rock. A suon di milioni, beninteso. L’offensiva dei venture capitalist per acquisire i cataloghi delle star ha ormai la silhouette di una bolla speculativa che, stando agli analisti, non si sgonfierà prima di cinque anni. O finché incanutiti cantautori e mature band dal consolidato appeal saranno disponibili a cedere i proventi dei diritti sul proprio repertorio.

Gli obiettivi privilegiati sono già caduti davanti a offerte irrinunciabili. Da Bob Dylan a Neil Young, da Paul Simon ai Blondie fino ai Red Hot Chili Peppers (è storia di pochi giorni fa) e persino i più giovani Imagine Dragons: tutti pronti a firmare accordi lucrosi. Meglio tanti, maledetti e subito che l’incertezza delle previsioni di bilancio post-pandemia, con i live bloccati e gli streaming di YouTube o Spotify che ti ritornano un niente ad ogni clic.

Bisogna pensare al futuro, anche se una buona parte di vecchiaia ce l’hai già alle spalle. Rimpinguando il conto corrente dall’oggi al domani, anche per evitare che, dopo morto, nei caos testamentari, gli eredi si scannino attorno a quel che hai guadagnato in una gloriosa carriera, come teme la regina del country-pop Dolly Parton. Prendete David Crosby: lui un “vendesi” virtuale lo aveva appeso su Twitter appena fiutato il vento: “Si prendano il mio catalogo, anche se non vale milioni come quello di Dylan. Non ho scelta: non posso lavorare, e le piattaforme digitali stanno rubando i miei soldi. Ho una famiglia e un mutuo: devo prendermi cura dei miei cari, questa è l’unica opzione. Sono sicuro che anche altri siano nella mia stessa situazione”. Detto fatto: prima che si materializzasse “l’incubo di dar via le chitarre e la casa”, l’eroe di Woodstock ha ceduto le sue canzoni alla Iconic Artists Group, per una cifra mantenuta riservata. Di certo non avrà pareggiato il tesoretto assicurato a Dylan (che tra due settimane compirà 80 anni) dalla divisione publishing della Universal: 400 milioni di dollari per 600 canzoni. Record assoluto, a meno che una cifra simile, anche questa non rivelata, sia stata raggiunta da Paul Simon con il passaggio dei diritti alla Sony. Attenzione: in questi due casi parliamo di mosse delle multinazionali discografiche, che in un momento di crisi del settore corrono ai ripari – più o meno tardivamente, visto che la sola Warner si è già votata all’azionariato, mentre Universal entrerà in Borsa nel 2022 e Sony tuttora nicchia – prima di farsi surclassare dall’attacco delle società quotate create ad hoc.

Il più aggressivo tra i fondi di investimento è Hipgnosis Song, creato nel 2018 da Merck Mercuriadis, ex manager di Elton John, Guns N’ Roses e Beyonce: il suo socio è Nile Rodgers, il genio dietro i riff disco degli Chic. La missione di Hipgnosis è accaparrarsi le proprietà intellettuali dei big musicali e guadagnare con le royalty di brani leggendari, attraverso esecuzioni dal vivo e su ogni media. Un investimento più sicuro del mattone: anche fra decenni quelle canzoni risuoneranno da qualche parte. Il fondo, con sede nel paradiso fiscale di Guernsey, ha fatto ingresso a Wall Street puntando sull’azionariato: oggi la sua capitalizzazione di mercato supera il miliardo di sterline, sei volte più di quanto dichiarato all’atto della costituzione. Dispone di un “archivio diritti” da 45 mila brani: tra questi metà del catalogo solista di Neil Young (comprato per 150 milioni di dollari), della leader dei Pretenders Chrissie Hynde e, con le firme ancora fresche di inchiostro, quelli dei Red Hot Chili Peppers (140 milioni) e dell’autore di punta dell’urban pop contemporaneo Andrew Watt. Per Hipgnosis c’è da superare la concorrenza di altri fondi: come Eldridge (già nel cassetto i diritti sui The Killers), Concord Music Publishing (100 milioni agli Imagine Dragons) o Primary Wave (l’80 per cento delle creazioni di Stevie Nicks, ex cantante dei Fleetwood Mac, mentre il collega di band Lindsey Buckingham ha optato per il solito Hsf).

Perché proprio ora questa corsa al filone d’oro di rock e pop? Questioni di tassi di interesse, mai così bassi, e dell’inflazione che mostra grafici piatti. Ma bisogna affrettarsi: negli Usa, cuore del business, Biden minaccia di alzare le imposte su questi introiti.

Occorre essere lungimiranti: come lo fu Michael Jackson nel 1985, quando comprò i diritti sulle opere dei Beatles firmate Lennon-Cartney. Un esborso di 47,5 milioni di dollari per Jacko, che divenne azionista di maggioranza della società detentrice, la Atv. Paul commentò la mossa dell’amico come “una pugnalata alle spalle”: i due avevano più volte duettato armoniosamente. Michael sostenne di essersi solo voluto impadronire, “in modo sentimentale, di qualcosa che apparteneva alla storia”. Nel 1995 rivendette metà delle quote per 100 milioni, e dopo la sua morte, nel 2016 il Jackson Estate cedette il resto per altri 750 milioni. Alla Sony. Due anni più tardi McCartney e Yoko Ono si ripresero quel che era stato loro. Sui numeri dell’accordo finale è stato mantenuto il segreto.

Dal fascio-rock a Singapore Vattani jr sarà ambasciatore

Valzer di feluche, venerdì scorso 30 aprile, in Consiglio dei ministri. Quello che, in gergo burocratico, viene chiamato “movimento diplomatico”: la nomina dei nuovi ambasciatori, relegata a poche righe in qualche lancio di agenzia. Ma con qualche sorpresa “sgradevole” nell’elenco ufficiale, che innescherà più di una polemica. Dal dimenticatoio, infatti, e dagli imbarazzi che a lungo avevano tormentato la diplomazia italiana e i corridoi della Farnesina, ecco rispuntare Mario Andrea Vattani, già ribattezzato un tempo “il console fascio-rock”. È stato promosso ambasciatore d’Italia, a Singapore. Una postazione diplomatica all’apparenza “piccola”, ma comunque strategica nella complessa geopolitica asiatica e, soprattutto, cinese.

Ma chi è Vattani? Un “figlio di”, visto che suo padre è l’ambasciatore Umberto, a lungo vero e proprio “padrone” della Farnesina della quale è stato, per ben due volte, il segretario generale. Mario, classe 1966, ha seguito le orme paterne entrando al ministero degli Esteri: una rapida e sicura trafila che lo porta prima negli Stati Uniti, in Egitto e in Giappone, infine al suo primo incarico davvero importante, quello di console generale a Osaka, nel 2011.

Un anno dopo, però, il rampantissimo diplomatico diventa protagonista di un clamoroso incidente politico. Appassionato sin da giovane di quella che definisce “musica alternativa”, in realtà legata all’estremismo di destra neofascista, nome d’arte “Katanga”, partecipa con il suo complesso “Sottofasciasemplice” a una manifestazione-concerto organizzata a Roma da Casa Pound. Canta versi contro i pacifisti e i disobbedienti e risponde con il saluto romano a un pubblico di “camerati” che si sta rivolgendo a lui nello stesso modo.

Il ministro degli Esteri dell’epoca, Giulio Terzi, lo fa rientrare in Italia e si apre una procedura davanti alla commissione disciplinare della Farnesina. Tutto si concluderà con una sospensione di quattro mesi, poi annullata dal Tar del Lazio. Nel frattempo, dal suo passato, emergono una militanza nell’organizzazione giovanile del Movimento sociale italiano e anche l’imputazione (conclusasi con un proscioglimento) di essere coinvolto nel pestaggio di due ragazzi della sinistra romana davanti al cinema Capranica, a pochi passi da Montecitorio. Le sue ultime notizie, prima di rientrare nell’anonimato del ministero, risalgono al 2013: quando si candida al Senato in Campania per la lista “La Destra”, senza però essere eletto.

Adesso ha raggiunto il suo antico obiettivo: diventare ambasciatore come il padre Umberto. Una decisione che, filtra sia dagli ambienti della Farnesina che da quelli di Palazzo Chigi, non ha evitato anche questa volta polemiche, pare liquidate in questo modo sbrigativo: “In fondo quello di Singapore è un incarico ‘minore’: insomma, Vattani va in un posto dove non può fare danni”.

Ma non è solo questo uno dei temi caldi della tornata di nomine decise dal governo, tutte in attesa di ricevere il placet definitivo dei Paesi che dovranno accogliere i nuovi ambasciatori italiani.

In tutto 17 incarichi, tra i quali alcuni più importanti: Maurizio Massari (ex ambasciatore al Cairo nella prima fase del “caso Regeni”, poi inviato nell’importante sede di Bruxelles, ndr) sarà il nuovo rappresentante permanente dell’Italia alle Nazioni Unite, mentre Giorgio Starace andrà a Mosca e Fabrizio Lucentini a Buenos Aires. Molto “sensibile” anche la nomina dell’ambasciatore italiano in Israele, con particolare riguardo alla situazione mediorientale: in un primo momento, il nome prescelto era stato quello di Ruggero Corrias, ex rappresentante dell’Italia a Sarajevo, dal 2013 al 2016, e ora distaccato come chief international relations alla Snam. Su di lui, come avviene secondo una prassi consolidata, era stato sondato anche il gradimento della comunità ebraica italiana.

Nel Cdm della scorsa settimana, però, è spuntata una novità: a Tel Aviv andrà Sergio Barbanti, sino a oggi ambasciatore a Vienna (dove verrà sostituito da Stefano Beltrame, ex consigliere diplomatico di Matteo Salvini quando era ministro). Una scelta sulla quale, si dice negli ambienti della Farnesina, avrebbe pesato una forte sponsorizzazione da parte della segretaria generale della Farnesina, Elisabetta Belloni, ma anche del Segretario generale del Quirinale, Ugo Zampetti.

Per un pugno di acciughe: Parigi e Londra ai ferri corti

Al centro dell’escalation di tensione tra Parigi e Londra l’accordo commerciale post-Brexit sulla pesca, già pomo della discordia dei negoziati senza fine sull’uscita del Regno Unito dall’Ue. Lo sfondo, l’isola di Jersey, territorio britannico a soltanto qualche miglia dalle coste francesi, più nota come paradiso fiscale. Nella notte di giovedì, una cinquantina di pescherecci francesi sono partiti da Saint-Malo e Granville per andare a bloccare il porto di St. Helier, il più importante dell’isola, per protestare contro le limitazioni della loro zona di pesca imposte dalla Brexit e per la questione delle licenze. L’accordo che ha sventato il no deal garantisce l’accesso alle acque britanniche fino al 2026 ai pescatori europei, a condizione che possano dimostrare di avervi già lavorato in passato. Ma il 30 aprile le autorità di Jersey hanno concesso la licenza a soli 41 pescherecci francesi, sui 344 che avevano fatto domanda. Parigi è andata su tutte le furie, ha accusato Londra di non rispettare gli accordi e chiesto di rinunciare alle nuove restrizioni. Il governo francese aveva anche minacciato in modo non troppo velato di tagliare la fornitura di elettricità all’isola, che dipende dalla Francia. La tensione è salita ieri in modo inaspettato quando Boris Johnson ha inviato a Jersey due navi della Royal Navy per “monitorare la situazione”. Una dimostrazione di forza che ha fatto la prima pagina dei giornali non a caso in un giorno di elezioni amministrative nel Regno Unito, in particolare per il rinnovo del parlamento scozzese, un test elettorale centrale per il premier britannico. Per tutta risposta, Parigi ha schierato due navi della sua flotta “pronte a intervenire” se necessario, ma che, stando ad alcune fonti, erano disarmate. Per Parigi la posta in gioco è alta, perché la pesca conta molto sull’economia delle sue regioni costiere. E poi a sua volta Macron si gioca la rielezione nel 2022. La tensione è scesa nel pomeriggio, quando i pescherecci francesi hanno lasciato Jersey, delusi di non aver trovato un accordo con le autorità locali.

Morti e desaparecidos: giorni di fuoco a Bogotá

La Colombia brucia ancora. A fuoco stazioni di polizia, autobus e palazzi, barricate bloccano le strade nelle maggiori città mentre si ripetono saccheggi ai negozi. Sono 24 i morti, ottocento persone sono rimaste ferite negli scontri con l’esercito, almeno 87 gli scomparsi. Gli scioperi colombiani iniziati a fine aprile scorso non sono ancora finiti: continuano le proteste scoppiate a causa della riforma fiscale annunciata dal governo del presidente Ivan Duque per far fronte alla crisi che strangola l’economia del Paese, ulteriormente peggiorata per la pandemia. Anche se domenica scorsa il capo dello Stato ha ritirato la proposta di emendamento fiscale – che prevedeva un aumento dell’Iva sui beni primari come gas ed elettricità del 19% –, studenti, indigeni, membri della società civile e cittadini sono rimasti per le strade del Paese dove oltre la metà della popolazione vive sotto la soglia di povertà.

Se a organizzare le prime marce sono stati i sindacati ed esponenti della sinistra, adesso è la gente comune che non abbandona la piazza per chiedere un sistema sanitario, educativo, pensionistico e salariale migliore, insieme a nuove politiche sociali e infrastrutturali. L’ultima richiesta d’aiuto di Claudia Hernandez, prima cittadina della Capitale, è stata rivolta all’esercito: servirebbero le mimetiche per mettere fine a una “violenza inammissibile” che i suoi cittadini stanno continuando ad esercitare contro stazioni di polizia ed edifici pubblici. Sarebbero responsabili però proprio i soldati di 11 dei 24 morti ufficiali, che per le ong sono già 37: gli attivisti denunciano uccisioni di civili, detenzioni arbitrarie, violazioni dei diritti umani ed almeno ottanta sparizioni di persone di cui non si ha più notizia. Dopo giorni di silenzio è arrivato il monito dalle Nazioni Unite: “La polizia ha usato le armi contro i manifestanti”, secondo il portavoce Onu, già nella terza città del Paese, Cali. I militari sono attivi nella zona che detiene un funereo primato di violenza per l’alto tasso di presenza di trafficanti e mercenari. Nella città adesso le strade sono state bloccate e decine di edifici della sicurezza, pubblica e privata, sono stati attaccati. Secondo Katherine Aguirre, attivista per i diritti umani, “ci sono gruppi di cittadini che chiedono una de-escalation di violenza, ma anche altri che sparano dalle loro case”.

Tacciati dal governo di soffiare sulle pericolose polveri che si sono levate in molte città colombiane sono i gruppi di sinistra, membri dell’Eln, Esercito di liberazione nazionale, guerriglieri che non hanno accettato l’accordo di pace siglato dalle Farc nel 2016. Secondo il ministro della Difesa Diego Molano “la violenza sistematica è premeditata e finanziata da organizzazioni criminali” nella Colombia che protesta e nel 2022 tornerà alle urne. Non ci saranno aumenti né cambiamenti nelle reglas de juego, regole del gioco nel Paese, ha dichiarato recentemente Duque, promettendo adesso di prestare ascolto alla sua cittadinanza per trovare insieme “soluzioni costruttive” e riportare la nazione alla normalità. Queste proteste potrebbero essere preludio di una svolta politica: a repentaglio adesso c’è la sua vittoria. Duque potrebbe essere sconfitto alle prossime elezioni dalla sinistra dell’economista Gustavo Petro, ex sindaco di Bogotá.

Le Olimpiadi di Sochi, gli affari degli 007 e un manager in fuga

Questa vicenda inizia con uomo in fuga insieme ai suoi segreti, come ogni spy story degna di questo nome. Oleg Senkevich, 44 anni, arriva in Italia nel novembre 2020, dopo un espatrio rocambolesco e clandestino attraverso Russia, Bielorussia e Ucraina. Ha guidato un ramo della Rosgranitsa, agenzia federale a capo dei valichi di frontiera. Un ente formalmente indipendente, che in realtà è un braccio del Fsb, il potentissimo servizio segreto russo. Mosca lo accusa di truffa, riciclaggio e di aver fatto parte di un’associazione a delinquere che ha dirottato e incassato milioni di euro di tangenti, reati per cui ha già scontato 11 mesi di carcere preventivo. La sua versione, che consegna alla polizia italiana appena sbarcato all’aeroporto di Genova, è simile a quella di molti altri dissidenti: “Mi vogliono morto perché conosco troppi segreti, un giro di corruzione che coinvolge politici e alti funzionari dell’intelligence, legato agli stanziamenti per le Olimpiadi invernali di Sochi. I giudici scelti sono tutti vicini a Putin. Il verdetto è già scritto”.

L’epilogo della vicenda è arrivato nei giorni scorsi. La Corte d’appello ligure ha respinto la richiesta di estradizione avanzata da Mosca. Le prove nei confronti del dissidente sono “lacunose” e in caso di rientro “rischia la tortura”.

Rosgranitsa è una creazione di Putin, nata nel 2007. Una gallina dalle uova d’oro che negli anni ha manovrato miliardi di fondi pubblici, facendo da cerniera fra imprese private e deep state. All’ombra di questo centro di potere si muoveva una sorta di banda del 20%: era questa la percentuale distratta che serviva a ingrassare tutto il sistema. E il piatto più prelibato da spartire arriva in vista dei Giochi invernali di Sochi del 2014. A tirare le fila era l’ex direttore dell’agenzia, Dmitry Bezdelov, ex ministro di Vladimir Putin. Nel 2009 viene messo in cantiere il nuovo passante ferroviario di Adler, con la Georgia. Ma nel giro di quattro anni il sistema perde i pezzi. Senkevich viene silurato dall’agenzia nel 2013, seguito da altri alti dirigenti. Bezdelov entra in conflitto con il viceministro Dmitry Rogozin, viene inquisito e scappa in Italia. Viene arrestato a Roma e, particolare di non poco conto, rimandato in Russia per scontare una condanna a nove anni. Da parecchi anni la lingua di terra fra la riviera ligure di Ponente e la Costa Azzurra ospita una nutrita comunità di oppositori del Cremlino. È la terza volta negli ultimi 5 anni che la Corte d’appello di Genova respinge una richiesta di estradizione a carico di un dissidente illustre. Era già accaduto nel 2017 con l’imprenditore minerario Michail Nekrich, molto vicino al magnate Boris Berezovsky, morto in circostanze misteriose nel 2013, dopo diversi tentativi di assassinio. E ancora, nel 2019, con Rasul Mahmudov, attivista dei diritti umani nel Caucaso. Senkevich, è assistito da un avvocato italiano, Andrea Rovere, e da uno russo, Pavel Ivlev, a sua volta rifugiato negli Usa, e già difensore di un altro big dell’opposizione putiniana finito nelle patrie galere, Mikhail Khodorkovsky. Il legale sostiene che le accuse nei confronti del suo cliente siano montature collegate ai segreti sulle mazzette e al sostegno di Senkevich all’attuale nemico pubblico numero uno di Mosca, Aleksej Navalny. I giudici italiani (Elisabetta Vidali, Mauro Amisano e Marco Panicucci) sembrano avergli creduto: “Le prove presentate sono lacunose, cosa tanto più sorprendente ove si consideri che alcune persone coinvolte nella vicenda hanno riportato condanne definitive e la situazione del Paese non tranquillizza, sia sulla mancanza di indipendenza dell’autorità giudiziaria, soprattutto in presenza di reati ascritti a dissidenti politici, sia sui trattamenti inumani inflitti ai condannati”.

Preoccupazioni che il procuratore generale Enrico Zucca, nella sua requisitoria, esprime in modo anche più esplicito: “Si richiama in maniera indubbiamente pertinente, l’analogia con alcuni processi noti anche in sede internazionale, utilizzati come armi per eliminare persone già ai vertici di enti economici non più controllabili o manipolabili agli interessi statali e quindi sgraditi”. Il pg cita inoltre “storie passate alle cronache internazionali, su cui si è pronunciata la Corte europea dei diritti umani come esempi di processi strumentali al fine dell’annientamento della posizione dei soggetti divenuti bersaglio e purtroppo anche a costo della loro eliminazione fisica”. A processare Senkevich, sottolineano i suoi avvocati, sono magistrati come il giudice Olga Solopova, che “si occupò dei processi a Navalny, Khodorkovsky e Magnitsky”, e il procuratore Victor Grin, inserito in una black list Usa di alti funzionari segnalati per la “violazione dei diritti umani”. Ecco perché, conclude Zucca, in caso di rimpatrio “l’ipotesi di tortura, per Senkevich, non può essere esclusa”.

Il caso arriva in un momento molto delicato per i rapporti fra Italia e Russia. A un mese dall’arresto dell’ufficiale italiano Walter Biot, reclutato dall’intelligence russa, e dopo le espulsioni incrociate di funzionari dai due Paesi. Con questa decisione la magistratura italiana sancisce un cambio di rotta rispetto al 2014, quando diede l’estradizione per Bezdelov. A cambiare (in peggio) in questo lasso di tempo non sono stati solo i rapporti fra Roma e Mosca ma, vista dall’Italia, anche la situazione politica russa.

Rigettata la richiesta d’estradizione

oleg senkevicharriva in Italia nel novembre del 2020, dopo una fuga clandestina attraverso Russia, Bielorussia e Ucraina. È stato il capo di un ramo dell’agenzia frontaliera Rosgranitsa, un braccio del servizio segreto russo Fsb. Senkevich secondo l’inchiesta russa faceva parte di un sistema di tangenti che coinvolge alti funzionari dell’intelligence ed ex ministri. Alle autorità italiane dichiara di essere perseguitato per il suo sostegno a Navalny. La Corte d’appello di Genova ha rigettato la richiesta di estradizione e ora Senkevich è in attesa della pronuncia sulla protezione internazionale.

Esce dai domiciliari e fa l’assessore regionale. Così Spirlì riabbraccia l’indagato Talarico

Dagli arresti domiciliari alla giunta nel giro di 15 giorni. Accade in Regione Calabria, dove l’assessore al Bilancio, Francesco Talarico, quota Udc, ha ripreso il suo posto al fianco del presidente leghista Nino Spirlì dopo tre mesi di arresto. Una vicenda paradossale resa possibile dal fatto che a fine gennaio, quando per Talarico scattò la misura cautelare, nessuno in Regione pensò di escluderlo dalla giunta e dunque adesso, pur restando per l’assessore l’obbligo di dimora, tutto torna come prima.

Un passo indietro. Talarico è indagato nell’ambito dell’inchiesta “Basso Profilo”, coordinata dal procuratore Nicola Gratteri e dai pm della Dda di Catanzaro che, a gennaio, hanno chiesto e ottenuto dal gip gli arresti domiciliari per il politico lametino. L’accusa, per lui, era scambio elettorale politico-mafioso in occasione delle elezioni politiche del 2018, quando era candidato nel collegio di Reggio Calabria. L’ipotesi della Procura è stata poi ridimensionata dal Tribunale del Riesame, che ha escluso l’aggravante della ’ndrangheta sostenendo che si è trattato di una corruzione elettorale semplice. Da qui la decisione del gip che il 20 aprile ha disposto l’obbligo di dimora per Talarico il quale, stando alle indagini, avrebbe avuto rapporti con alcuni imprenditori. Tra questi c’è Antonio Gallo che, in cambio dell’appoggio elettorale a Talarico, avrebbe ottenuto l’interessamento dell’assessore alle sue imprese. Nelle carte dell’inchiesta si parla di “un comitato d’affari” che i magistrati hanno definito un “connubio diabolico tra imprenditori e politici”. Nella rete della Dda era finito pure il segretario nazionale Udc Lorenzo Cesa, che aveva subito una perquisizione il giorno dell’arresto di Talarico. Dopo l’arresto dell’assessore al Bilancio calabrese, la legge Severino ha imposto la sospensione dell’incarico in giunta, ma la sospensione non è mai diventata qualcosa di più e si è interrotta a fine aprile, con Talarico che è tornato operativo con le prime riunioni. Una mossa da non sottovalutare anche in vista delle Regionali di ottobre, cui Talarico, in caso di ricandidatura, avrebbe il privilegio di avvicinarsi dalla poltrona di assessore. E se dal punto di vista legale non ci sono strumenti per far decadere Talarico, resta un tema di opportunità, come lamenta il deputato Francesco Sapia (L’Alternativa c’è): “Non si tratta di cedere al giustizialismo: davanti a inchieste pesanti, è giusto fare un passo indietro”.

Mascherine, altri sequestri della Gdf. S’indaga per truffa

Altre 50 milioni di mascherine “pericolose” destinate a ospedali e presidi sanitari sono state sequestrate ieri dalla Guardia di Finanza, fra quelle acquistate lo scorso anno sul mercato cinese dalla Struttura commissariale di Palazzo Chigi. Indagati per truffa i vertici delle società che hanno venduto i dpi allo Stato attraverso gli uffici guidati all’epoca da Domenico Arcuri. L’indagine della Procura di Gorizia, probabilmente, si esaurirà qui: l’incartamento verrà spedito per competenza alla Procura di Roma, dove è già aperto un fascicolo per peculato e traffico d’influenze. Una parte di queste mascherine, infatti, è arrivata grazie alla mediazione del giornalista Rai, Mario Benotti, e dell’imprenditore Andrea Tommasi, indagati per le provvigioni – 72 milioni di euro – ottenute dai cinesi nell’ambito dell’affare da 1,2 miliardi di euro (e 801 milioni di dpi). Indagati per peculato, invece, Arcuri e il suo vice, Antonio Fabbrocini. Tutti loro, va specificato, sono totalmente estranei alle accuse di truffa formulate dai pm di Gorizia.